Vox Arenae - Mario Famularo

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Vox Arenae - Mario Famularo
Martedì
19/05/2015
VOX ARENAE
Giornale ufficiale dei
ladiatori
della penna
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gladiatoridellapenna.forumfree.it
Caporedattrice: Cristiana Lucidi
Redazione: Mario Famularo, Andrea Peverelli, Dylan Ruta, Marco Di Prospero
Grafico: Damiano Pasculli
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VOX ARENAE
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pag.
Andrej Zvyagintsev - Leviathan:
una carcassa con poca carne
3
La donna e il mito, la bellezza e la
caducità delle cose, nei versi di Fortunata
Sulgher Fantastici, o Temira Parraside
7
Gli Smashing Pumpkins:
storia di una rivoluzione musicale
11
“Di memoria in memoria a dirti amore”
Riflessione sulla poetica di Alfonso Gatto
15
Cento rivolte e un’easter rising:
la terribile bellezza.
Quasi cent’anni dopo, la storia di un èpos
ai margini di un impero.
21
For Poets, with love
Lawrence Ferlinghetti e il nucleo della Beat Generation
27
Tito Lucrezio Caro:
animus ed anima nel De rerum natura
31
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Andrej Zvyagintsev - Leviathan:
una carcassa con poca carne
“Stiamo risvegliando l’anima del
popolo russo.”
(Ma la mia ancora dorme)
Quarta fatica per il regista russo
Andrej Zvyagintsev. Un autore controverso, già solo per quattro opere,
in cui ha mostrato un’abilità camaleontica di regia ai limiti dell’incoerenza: se infatti echi di poikilìa callimachea (varietà e maestria nella commistione di generi) sono qualità
quasi sempre apprezzate in un artista, poiché permettono il costante
rinnovarsi della sua arte, quando
questa è annacquata da riprese
troppo evidenti e letterali di modelli,
e condita da indigeribili inversioni di
tendenza, tanto da rendere irriconoscibile l’autore stesso, la qualità si
tramuta in debolezza.
Pochi fili rossi collegano infatti le
due distinte coppie di film (Ritorno /
Esilio e Elena / Leviathan). Le prime
due pellicole sono dominate da un
malcelato epigonismo tarkovskijano
- Zvyagintsev condivide lo stesso
nome del Maestro Andrej Tarkovskij:
era destino, evidentemente -: in
Ritorno la sottotrama cristologica dà
spazio ad una narrazione esile ma
dominata da simboli e da riprese più
o meno testuali del modello (l’interpretazione messianica del protagonista, il ruolo dell’acqua e della pioggia, l’insegnamento spirituale attraverso un concento di prove, il sacrificio, e persino la tecnica registica,
con ritmi lentissimi, quasi biblici,
riprese infinite in piano sequenza di
landscapes della verde Russia o di
superfici acquatiche - in ripresa fin
troppo
paraculistica
del
già
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apprezzatissimo concetto tarkovskijano di “scolpire nel tempo”
un’immagine -); un film, in ultima
analisi, interessante quanto affascinante, per le differenze ideologiche
col Maestro, ma latamente condannato al patibolo della scriteriata infatuazione per il modello. In Esilio le
istanze tarkovskijane si sfilacciano
miseramente verso una completa
autoreferenzialità, che esaurisce
l’inveterato l’allegorismo messianico
all’interno della stessa narrazione esile ai limiti dello scialbo -, senza
avere un reale e necessario senso
interno, e parimenti senza uscire
dalla pellicola per farsi universale; il
modello del Maestro inizia a mostrare il fianco, ad esaurire la propria potenza creativa e rigenerativa nelle
mani di un evidentemente inadatto
successore. Andrej junior se ne
rende conto (alla buon’ora), sa di
non poter permettersi di angolare lo
stesso concetto in maniera sempre
nuova, senza mai annoiare, per 6-7
film, come il Maestro; perciò decide
di mutare completamente, di fare un
falò delle proprie velleità e di cercarsi un’altra via: il risultato è Elena.
Una storia radicalmente diversa
dalle precedenti, che assomma
nuclei tematici come la critca al
denaro, l’attacco alla corrotta società russa, monolitica e non così
lontana dall’antica oligarchia sovietica, e il focus sugli “ultimi e migliori”
scagliati contro il muro dell’alta società (esatto, il solito polpettone socialisteggiante riproposto da 60 anni
a questa parte), a un’ambientazione
che sta al limite opposto delle
tarkovskijane riprese di paesaggi
naturali, uno sfondo urbano, sempre
diviso tra il degradato degli Ultimi e il
raffinato ed artefatto dei Primi. Istanze - per quanto innovative come la
milleunesima riscrittura latina della
guerra di Troia - interessanti, sulla
carta: peccato che il film sia un
totale e desolante blackout cerebrale, con una trama ridicola e costretta
a trascinarsi per quasi due ore in un
imbarazzo registico che sembra
urlare “fermatemi, vi prego” da ogni
poro (i 20 minuti iniziali che riprendono la protagonista mentre si alza
dal letto, fa colazione, prende il
treno, va a far la spesa e arriva a
casa del figlio sono eloquenti: l’inutilità e la noia fatta a cinema). La
quarta fatica - trattasi davvero di
fatica: Zv. stesso ha affermato di
impiegarci mesi a organizzare ogni
singola scena; per girare Esilio ci
sono voluti 4 anni - sembra però
risvegliarsi, pur con occhi impastati
e con sguardo da epica post-sbronza a base di vodka, da questo letargo cinematografico.
Il film infatti assomma molti degli
elementi sperimentati in passato,
rimanendo comunque più vicino alle
sperimentazioni di Elena. La vicenda, come sempre, è molto semplice:
un uomo di umili origini e occupazione, Nikolai, ha la sfortuna di abitare
in una striscia di costa presa di mira
dal sindaco Vadim per oscuri progetti (si suppone una casa riabilitativa,
viste le quantità invereconde di
vodka che entrambi i personaggi assumono quotidianamente); dopo
alcune vicende private di cui potevamo fare benissimo a meno - la
moglie di Nikolai acquista dal suo
avvocato e amico d’infanzia un
intero palco di corna, il regalo non
viene gradito, così la moglie si suicida; l’amico-avvocato scompare
misteriosamente nel nulla con un
occhio nero e due costole rotte -, si
giunge una conclusione, del tutto
inaspettata: il sindaco Vadim sfrutta
il suicidio della moglie e la giustizia
corrotta per imprigionare Nikolai e
rilevare la sua proprietà, cosicché
possa costruirvi ciò che vuole. Lo
stato monolitico e marcio nel midollo
vince sul singolo: ecco il senso del
titolo.
Leviathan può essere visto come un
tirare le somme dei lati positivi e negativi che Zv. ha sperimentato nei
precedenti film. Tornano infatti, oltre
alla base di critica sociale già di
Elena, le istanze e immagini tarkovskjiane: l’acqua, i riferimenti biblici
(su cui ci soffermeremo dopo), le
solite esasperanti movenze da
inverno russo nella narrazione (la
maggior parte degli eventi importanti
ai fini della trama accade nell’ultima
mezz’ora di film, mentre il resto è
mal gestito e organizzato in maniera
poco coerente - ma almeno non
siamo ai livelli di Elena, dove tre
quarti delle scene si distinguono per
singolare inutilità), che danno un
fastidiosissimo quanto costante
senso di suspence, come se dovesse accadere qualcosa di incredibile
da un momento all’altro e che puntualmente non accade; ma soprattutto ritornano le solite, untuosissime riprese di paesaggi unite al martellante ricorso all’acqua, che in
Ritorno costituivano gran parte della
regia. Riprese innegabilmente affascinanti, che rendono parte di quel
sense of wonder che permeava i film
di Tarkovskij, così come elemento
fondamentale dell’interesse che
questo e altri film di Zv. suscitano
nello spettatore; ma proprio per
questo colossali leccate delle natiche comodamente sedute sulle poltrone dei cinema: squadra che vince
non si cambia (e se aveste dubbi
sull’effettiva efficacia di questo tipo
di regia, considerate che l’unico film
che ne è completamente privo,
Elena, è quello che ha avuto meno
successo tra il pubblico).
Anche la meta-semantica religiosa e
l’allegorismo di Leviathan non funzionano a dovere. Il film è definito
come una rilettura moderna della
vicenda biblica di Giobbe, l’uomo di
fede che trova in Dio la propria forza
e allo stesso tempo lo mette sotto
accusa per il proprio dolore inspiegabile: entrambe le narrazioni condividono l’epifania di un potere sovrumano (Dio e lo Stato) che persegue
ragioni sconosciute e schiaccia
sotto il peso della propria onnipotenza l’uomo che vi si oppone. Ma le
somiglianze finiscono qui. Dice lo
stesso Zv: “volevo raccontare la
storia di un uomo che perde tutto ciò
che ha; uno per uno, poco a poco,
fino al punto di perdere la propria
vita”. L’intera, profonda e drammaticissima, vicenda di Giobbe viene
decurtata, viene impoverita a tal
punto da far apparire unicamente lo
scheletro iniziale da cui prende origine la vicenda, nudo e crudo, privato
delle riflessioni universali sui temi
del dolore, del rapporto uomo-Dio,
del senso del creato e della vita.
Allora perché usare Giobbe nel proprio film, se di esso vi rimane soltanto il mero fatto biografico senza il
nucleo magmatico del racconto
biblico, a ben vedere la parte che
conta davvero di esso? Più coerente
sembra a questo punto il riferimento
al Leviatano di Hobbes, e più adatto
a sostenere il soggetto: i pochi riferimenti a Giobbe risultano così del
tutto superflui, oziosi, usati unicamente per aggiungere un pizzico di
mistero e appeal in più per lo spettatore. La furbizia di quella volpe di Zv.
non ha fine.
Ma l’aspetto più negativo di questo
film è un problema non da poco,
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visto che si tratta proprio del soggetto scelto e dell’ambiente in cui si
inserisce. Quante storie di ingiustizia sociale, corruzione statale, burocrazia monolitica che schiaccia
l’individuo per fini di lucro e potere ci
hanno raccontato? Quante vicende
di un singolo uomo cui viene tolto
tutto ciò che ha di caro e che cerca
di ribellarsi a un sistema oppressivo
abbiamo letto in libri e visto in pellicole? Risposta: troppi. Già cliché
abusatissimo del cinemaccio americano d’intrattenimento (uno su tutti:
Law abiding Citizen, thriller del
2009), rivisitato poi nel cinema di
genere (ad esempio i drammi fantascientifici distopici; uno su tutti:
Equilibrium, del 2002), era già un
tema caro al ‘900 letterario (ad
esempio Kafka, Il processo; in tempi
più recenti un romanzo dal nome Leviathan, di Paul Auster). Il che, di per
sé, non sarebbe un problema: i temi
ricorrono spesso, le riscritture hanno
dato prova di grande vitalità. A
segare le gambe di Leviathan sul
nascere interviene però l’ambientazione: un film con pretese tanto universali (il minestrone Giobbe-Hobbes) crolla silenziosamente quando
ogni tanto si sveglia e gli viene in
mente di ricordarci che è ambientato
in Russia. Perché sicuramente ad
un abitante medio del grande stato
eurasiatico vedere una scena di patteggiamento mafioso con la foto di
Putin sullo sfondo deve avere un
bell’effetto, ma non sull’italiota, che
deve affidarsi alla solita trita morale
del “ma questa vicenda può accadere dovunque, è universale”: la verità
è che lo spettatore non russo perde
moltissimo dell’immedesimazione
con questo film, marcatamente
russo nonostante la volontà, da
parte del regista, di non mostrare
troppi dettagli a riguardo. Sarebbe
come fare vedere a un abitante di
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Mosca uno delle decine di sceneggiati Rai sulla storia politica italiana
del ‘900: con la differenza che
almeno, in questo caso, si avrebbe
un ipotetico interesse storico,
mentre a Leviathan, storia sospesa
in un limbo temporale indefinibile,
manca anche quello.
Cosa rimane allora a questo film?
Poco più di una storia ordinaria (se
tagliamo a quell’unica mezz’ora veramente importante), una regia
sbocconcellata qua e là da un
grande del cinema russo e condita
da un generico pastone socialisteggiante, un’opera dai pochi e sproporzionati elementi costitutivi (e la
buona riuscita artistica di un film si
misura nell’equilibrio tra di essi, tra
realtà e finzione), una delle peggiori
riletture di Giobbe e di Hobbes nella
storia dell’arte, e un aberrante senso
di vuoto, dopo la visione: non un
vuoto artisticamente indotto, ma
un’insoddisfazione quasi culinaria,
come dopo aver mangiato un piatto
misero e poco condito. L’enormità
dell’intera Russia grava gelidamente
sulle spalle del povero Andrej junior
e dello spettatore: il risultato è una
gran cervicalgia e una scoliosi cinematografica imbarazzante.
Andrea Peverelli
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La donna e il mito,
la bellezza e la caducità delle cose,
nei versi di Fortunata Sulgher Fantastici, o Temira Parraside
Sono davvero bizzarri i fenomeni per cui, quando
andiamo in una delle tante librerie mainstream – quelle
piccole botteghe del libro ormai sono perdute tra le
memorie d’infanzia –, possiamo constatare che alcuni
autori di poesia sono stati benedetti dalla modernità
commerciale, e dunque vengono messi lì, in bella
mostra, con riedizioni moderne e sempre nuove, mentre
altri vengono relegati, se fortunati, a vivere nelle
antologie di poesia minore, nelle biblioteche delle
università, o su Wikipedia.
È incredibile pensare che alcuni autori non abbiano
mai visto nemmeno una ristampa delle proprie opere, e
che bisogna risalire alle prime stampe dei loro libri,
quando è possibile trovarle. Ma viene in aiuto dei più
curiosi la tecnologia – paradossalmente – e nella
fattispecie la collaborazione tra le Università americane
e Google Books (delle nostre neanche a parlarne); ed
ecco che quei rari manoscritti possono essere
agevolmente stampati e riscoperti da ogni angolo del
globo.
Basta un po’ di pazienza e una stampante.
Uno di questi autori è una poetessa, Fortunata Sulgher
Fantastici, che ho scoperto per caso e letto senza troppo
impegno, per trovarmi a mano a mano sempre più
incredulo ed appassionato, fino ad approfondire la sua
vita e la sua personalità, ingiustamente relegate tra i
meandri e le pieghe della nostra storia della letteratura.
E pensare che ho cercato il suo nome in antologie di
poesia minore, in enciclopedie della letteratura, ma
nulla! Solo il web e qualche intervento sporadico
pubblicato in rete mi hanno aiutato a sapere qualcosa di
più su questa donna, le cui opere ho finito per leggere
tutte con grande interesse.
Vissuta nella seconda metà del settecento, la
Fantastici ha conosciuto personalità illustri come
Vincenzo Monti, che nutriva verso di lei una sincera
stima, o Angelica Kauffmann, grande protagonista
dell’Arcadia, che ci ha regalato anche il suo più celebre
ritratto, insieme a quello di Teresa Bandettini, conosciuta
come Amarilli Etrusca, altra poetessa dimenticata; ma
chi era costei?
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Era un’improvvisatrice: prediligeva la forma orale della
poesia, quella cantata e ballata, la forma più atavica e
autentica della versificazione, di cui solo qualche traccia
molto rarefatta dell’enorme produzione ci resta nelle sue
poche raccolte.
Con la testimonianza dello scrittore veneziano Antonio
Piazza:
“Sopra qualunque soggetto e in tutti i metri della
poesia felicemente improvvisa, sommo onore arrecando
alla patria sua e al suo sesso.
Un maturo sapere in freschezza d’età, una vereconda
umiltà accoppiata alla solidità del merito, una gentilezza
brillante che corona le doti dell’animo suo, la rendono
una delle più stimabili donne de’ nostri tempi.
Suona eccellentemente il gravecembalo, canta bene,
intende diverse lingue, sa imitare la pronunzia di molti
dialetti ed è ripiena di quel vero spirito che la rende la
delizia delle conversazioni.
Bastò che io la pregassi di farmi udire qualche ottava
all’improvviso perch’ella tosto mi favorisse. Le diedi il
soggetto di Priamo e Tisbe.
Cantò con una dolcezza da far arrestare un fiume, da
far piangere un marmo. Che eloquenza! Che rapidità!
Che purezza di stile! Quanti poeti di grido,
stemperandosi il capo nella solitudine del loro scrittoio,
non arrivano a comporre una di quelle ottave!
Successe da lì a pochi giorni che un principe bramoso
di udirla fece in modo ch’ella intervenisse ad
un’accademia,
dove
gareggiar
dovevano
vicendevolmente la musica e la poesia. Li poeti che
improvvisarono avevano del merito, ma al paragone
della inimitabile livornese, parevano tanti corvi che
gracchiando disputassero la palma ad un melodico
cigno.”
Per ovvie ragioni, ho potuto leggere solo la sua
produzione data alle stampe, tutto quello che sono
riuscito a reperire: si tratta di prime edizioni del 1794, del
1802, del 1815.
Lo stile che ho potuto riscontrare è molto eclettico e di
indubbio interesse, soprattutto considerando che la
scrittrice è una donna; e di donne ve ne sono già troppo
poche nella nostra letteratura, e dunque incontrare una
personalità di spessore è un’emozione genuina, che ha
saputo donarmi un autentico piacere.
La Fantastici subisce l’influenza della sua età di
passaggio, e concilia con una certa abilità gli stilemi
arcadici, di quella che Croce chiamerà “pseudo poesia”,
i suoi temi pastorali e vezzosi, metri semplici e ballabili,
in anacreontiche spensierate che ricordano a tratti il
Sannazaro, a tratti il Chiabrera, a volte il Tasso, in
egloghe di ambientazione bucolica e amori innocenti,
con una specie di “classicismo di passaggio”, che
ammicca al neoclassicismo “imperiale” di Monti, a quello
stile solido di endecasillabi sciolti, dove il mito diventa
simbolo dei valori dell’uomo, dei suoi tormenti, delle sue
tensioni, della profonda introspezione di ciò che
nell’uomo è senza tempo, universale, pur basandosi,
d’altro canto, su una tradizione più profonda, distaccata,
che richiama e ricorda i classici greci, o a tratti anche gli
illustri tragediografi attici.
Ma questo attiene esclusivamente all’aspetto formale
delle sue opere: quello che davvero colpisce, della
poesia di Temira Parraside – com’era conosciuta tra gli
arcadi – è che il mito viene rivisitato al femminile, e i suoi
versi prediligono quasi sempre un’attenzione a “l’altro
lato del mito”: ovvero il punto di vista, in prima persona,
della controparte femminile dei noti miti classici.
La poetica della Fantastici si sofferma sulle tematiche
dell’amore, della bellezza – bellezza femminile, bellezza
dell’arte, bellezza dei profondi sodalizi artistici ed
intellettuali che la scrittrice ha intessuto, resa con
genuino trasporto nei suoi versi – , ma anche della morte
e della caducità della vita, e della profonda impotenza
degli esseri umani di fronte al caso, ai sentimenti, alle
passioni.
Comincerò a riportare i passaggi, a mio avviso più
interessanti, del ruolo del mito “al femminile” nei versi
della Fantastici; dal “Lamento di Dejanira”, dove vive
tutto il tormento per l’imperdonabile peccato della sposa
del semidio:
[…]
“Diletto Ercole mio t’uccisi io stessa.
Troppo mi vinse gelosia funesta,
Tardi la nera frode omai comprendo,
La mia semplicitade ora m’affanna.
[…]
Vedovo letto, e solitario albergo,
Figli diletti, a me tacendo ancora
Rimproverate un’odiosa vita.”
…al “Lamento d’Andromaca”, dove la donna, ridotta in
schiavitù, disperatamente si interroga sulla caducità dei
sogni, della felicità, degli affetti.
E ancora, nel “Sacrificio d’Ifigenia”, v’è l’angosciosa
consapevolezza della giovane di dover affrontare una
morte inevitabile, data per mano del padre, e di
rinunciare a tutte le gioie e a tutte le speranze della sua
gioventù negata; nella “Briseide”, v’è tutta la rabbia
gridata contro le prepotenze, contro le decisioni di un
Agamennone verso cui la protagonista urla tutti i propri
aneliti di libertà e tutto il valore dei propri sentimenti.
E i sentimenti di Penelope verso il figlio Telemaco, nel
cercare di dissuaderlo dal partire, per non rischiare di
perdere anch’egli come il suo sposo, o gli amori tragici
delle eroine tratte da Ossian, come Morna, che per
vendicare l’amato Catbar, e per uccidere l’odioso
Documano che gli ha strappato il compagno, finisce
anch’ella uccisa, in una scena di grande drammaticità,
dove la forza della donna fa da protagonista:
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[…]
[…]
“Prendere il ferro, inorridir, furiosa
Scagliarlo a Documano in mezzo al core
Fu un punto solo; ed ei giù rotolando
Piombò sul suolo. In moribondi accenti
Ahi! Disse, io manco, iniqua donna, io spiro,
Trammi il ferro dal sen. La Ninfa accorre
Per mirare sua vendetta in lui compita.
Fuggi misera, almen dirle potessi,
Ti difendi, che fai? Già Documano
Tutte adunate le mancanti forze
L’afferra, e tratto il suo medesmo acciaro
Dalla piaga crudel, l’immerge in lei,
Che confusa, sorpresa e disperata,
Per te moro, Catbar, cadendo dice;
Ma il traditor, che ti ferì, pur muore.
E dal dolor di quelle voci estreme
Trafitto Documan più che dal ferro,
Per rabbia, gelosia, vendetta, amore
Squarcia di propria man la piaga, e vanno
L’ombre sdegnose ad attuffarsi in Lete.”
Molti altri sono i miti trattati dalla Fantastici: una
Didone che dai Campi Elisi si pente dei suoi errori e
ricorda con rimpianto la leggerezza di avere
sottovalutato il potere di Eros; il pianto di Venere sopra il
defunto Adone; i dubbi di Clitennestra poco prima del
terribile delitto; il delicatissimo innamoramento di Ero e
Leandro, dove la purezza e l’innocenza dei sentimenti è
ben tratteggiata, e diretta con abilità verso il tragico
epilogo.
Ma la Fantastici, come ho evidenziato, è
particolarmente affezionata anche ad altre tematiche, e
in particolare a quella della vanità e della piccolezza
delle cose umane, e della invincibilità dell’amore:
[…]
“E tu, Nigella mia, che incauta sprezzi
Un cuor fedele, e dell’amor t’offendi,
Almeno in questi fiori che accarezzi
Di caduca beltà la sorte intendi.
Mancar vedrai del divin volto i vezzi,
Misera! Se il periglio or non comprendi,
Se sprezzi il tempo vorator che fugge,
E il bello al par dei fior consuma e strugge.”
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“Vano fasto d’impero!
Ve’ dal grado primiero
In quai s’avvolge il gran Monarca esangue
Gorghi del proprio sangue,
Abbandonato in tanta sua sventura
Da quei, cui porse nutrimento ei solo,
Orché sul nudo suolo
Nelle fauci di morte avvien, trabocchi,
Né a Lui pietosa man pur chiude gli occhi.”
Infine, il tema della Bellezza: molto chiara la posizione
dell’autrice, riferita da un’insuperbita Venere:
[…]
“Canta del bello, e solo
Sii del bello seguace,
Ch’è di regnar capace
In cielo e negli abissi,
E vale a muover guerra
Ai Dei celesti, ed ai mortali in terra.”
[…]
“E l’uom superbo altero,
Ch’è di ragion dotato,
Credesi riserbato
Su gli enti a dominar.
[…]
Ma dalle Donne vinto
Per man del Dio d’amore,
De’ bruti al domatore
Dà leggi la beltà.”
E ancora innumerevoli estratti di amori pastorali, resi
con abilità, raramente banali, se non nelle prime
produzioni e in qualche ode-canzonetta meno ispirata.
Di particolare interesse anche un sonetto, dove
l’Innocenza viene sedotta da Amore e, ricevendo in dono
delle rose, le stringe al proprio petto, provocandosi ferite
sanguinose; a tale vista, l’Innocenza restituisce i fiori e le
impreviste afflizioni.
Un ultimo componimento mi ha colpito in modo
particolare: un ritratto di Apollo che insegue Dafne, che
diventa simbolo dell’anelito artistico e creativo dell’uomo,
che cerca di congiungersi alla natura, senza poterci mai
riuscire (circostanza che assume ancora maggiore
significato se letta nel contesto arcadico in cui la nostra
autrice operava); il disincanto del dio si manifesta nella
chiusa, con l’amara consapevolezza che la sua mano,
che prima cercava di ghermire le carni della giovane,
rimane con un pugno di foglie, e la bellezza di quella
fanciulla resterà per sempre inaccessibile alla sua
ragione, irrimediabilmente inafferrabile:
[…]
“Trarti sperava ad abbellir natura,
Sperava di mortal farti immortale,
E inspirato da te sulla mia Lira
Offrire inni ad Amor, e ch’ei placato
Dovesse fra di noi scherzar superbo.
[…]
E de’ miei figli ti vedrà la terra;
Anche il trisulco fulmine di Giove
Rispettarti saprà … Ma tu non m’odi!
E mentre di te penso, e a te favello,
Dafne, per sempre ai lumi miei t’ascondi.”
Concludo questo sintetico intervento con poche
considerazioni: Fortunata Fantastici è stata una delle
poche poetesse italiane ad avere talento, personalità, e
ad operare con tanta genuina passione e amore per la
poesia, vissuta non come mero vezzo d’accademia o
velleità da salotto; nei suoi versi stilla autentica la vita
della donna, i suoi pensieri, le sue riflessioni sulle
condizioni delle donne del suo tempo, sui valori
universali che tormentano gli esseri umani, dal mondo
antico a quello della sua epoca.
Non credo che Fortunata – ah, ironia del suo nome! –
abbia avuto la meritata fama e stima, nella storia della
nostra letteratura: offritele pure un’occasione e provate a
conoscerla meglio.
Basta un po’ di pazienza e una stampante.
Mario Famularo
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Gli Smashing Pumpkins:
storia di una rivoluzione musicale
Pochi sono gli esempi, nel
panorama
musicale
contemporaneo,
che
possono
vantare di aver saputo rinvigorire la
stanchezza di un genere come il
Rock: gli Smashing Pumpkins ( in
italiano le zucche spiaccicate, ndr)
sono tra questi.
suonate
tramite
supporto
elettronico, fino all'entrata di Jimmy
Chamberlin, originario dell'Ilinois,
fortemente voluto da Billy. Sarà
questa la formazione che passerà
alla storia come una delle più
importanti band alternative rock
degli anni novanta.
La band vide la luce nel 1988 grazie
all'idea di Billy Corgan, cantante,
autore della maggior parte dei pezzi
e unico elemento stabile del gruppo
fino ad oggi, e James Iha, chitarrista
giapponese
d'origine
ma
statunitense di adozione.
Il gruppo farà gavetta nella scena
underground di Chicago fino al
1991, anno della pubblicazione del
primo album, Gish, con la Caroline
Records, una affiliata della Virgin:
forte è l'influenza del metal anni
settanta (Black Sabbath in primis),
del grunge in voga in quegli anni e,
per alcuni aspetti, del dream pop.
Pur essendo un album nel
complesso ancora acerbo, si
possono già notare quelle che
diverranno nel tempo caratteristiche
tipiche della band: sonorità distorte
ma al tempo stesso orecchiabili e
una
profonda
malinconia
a
caratterizzare la maggior parte dei
testi.
Billy, chitarrista autodidatta e
militante nei Marked, una band di
poco successo, si guadagna da
vivere lavorando in un negozio di
dischi usati; la sua professione gli
permette di conoscere da vicino la
scena underground di Chicago, città
dove vive: sarà in uno di questi
eventi che conoscerà James,
all'epoca reduce da una fallimentare
esperienza con gli Snake Train: il
chitarrista nipponico rimane molto
colpito dalle canzoni di Billy, a tal
punto
da
proporgli
una
collaborazione artistica. Il primo
nucleo
dei
futuri
Smashing
Pumpkins è così costituito.
Ma Billy e James non bastano. I due
ragazzi si guardano attorno e dopo
un periodo di prova, reclutano la
bassista polacca D'arcy Wretzky,
conosciuta da Billy all'Avalon
Nightclub di Chicago; inizialmente le
parti relative alla batteria vengono
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Il 1993 è l'anno della consacrazione
sul suolo Statunitense, con la
pubblicazione di Siamese Dreams
da parte della Virgin. Sarà ricordato
dagli stessi componenti della band
come l'album più difficile mai
registrato, non tanto dal punto di
vista esecutivo (non sono presenti,
infatti, brani complessi in questo
senso), quanto per il contesto: i
problemi di depressione di Billy che
quasi lo inducono al suicidio, la crisi
relazionale tra D'arcy e James e i
sempre più evidenti problemi di
tossicodipendenza di Jimmy.
L'album, caratterizzato dalla fusione
di vari generi tra cui il rock
(progressivo e psichedelico) il
grunge e il dream pop, mette ancora
più in risalto le sorprendenti capacità
tecniche dei quattro, nonché la già
accennata malinconia nei testi (qui
più evidente che mai complici i
problemi personali di Billy) che
accompagnerà il gruppo anche negli
anni a venire. Today e Disarm sono
senza dubbio le tracce più
rappresentative.
Segue la pubblicazione nel 1994 di
Pisces Iscariot, una raccolta di
b-sides e altre tracce scartate in
precedenza.
Nel 1995 arriva il definitivo successo
mondiale, con la pubblicazione del
doppio concept-album Mellon Collie
&
The
Infinity
Sadness,
unanimemente considerato il miglior
lavoro della band nonché uno dei
più importanti album rock di sempre.
L'album viene alla luce nel momento
più difficile del panorama musicale
internazionale: la morte improvvisa
di Kurt Cobain e la graduale
decadenza del Grunge lasciano
milioni di fan sparsi in tutto il mondo
privi di una guida spirituale, così
Billy e soci non tardano a farsi
sentire: superate le imperfezioni dei
primi lavori, la band si lascia
trascinare da uno sperimentalismo
selvaggio,
alternando
brani
orchestrali come la splendida
Tonight Tonight (ancora oggi
ritenuta un mantra dai fan della
band) a brani più duri come Here's
No Why e Bullet With By Butterfly
Wings (celebre il feroce retrain a
metà canzone, simbolo di una
generazione intera); non mancano
inoltre sperimentazioni pop, come
nel caso di 1979, una delle canzoni
più
famose
e
impresse
nell'immaginario collettivo. L'album,
in sintesi, si presenta senza una
apparente coerenza stilistica, dove
la solita aura malinconica e
decadente funge da collante per le
tracce.
Da questo momento in poi Billy
(autore della maggior parte dei testi
e della musica) diventerà sempre
più dispotico e autoritario nei
confronti degli altri membri della
band, e questo renderà i rapporti
sempre più tesi. Nel 1996, a poco
più di un mese dalla conclusione del
tour promozionale dell'album, il
batterista Jimmy viene estromesso
per i suoi noti problemi di droga.
Concluso il tour, i tre membri
rimanenti si prendono un periodo di
riposo per poi tornare in studio e
registrare il nuovo album, che verrà
alla luce nel 1998 con il titolo Adore.
In questo lavoro lo stile del gruppo
cambia radicalmente, anche per
cause
di
forza
maggiore:
l'abbandono di Jimmy lascia una
pesante lacuna a livello ritmico, che
la band pensa di sopperire con basi
elettroniche e suoni più melodici e
meno duri rispetto ai precedenti, che
tuttavia non piacquero alla maggior
parte dei fan. Adore, nonostante
l'evocativa atmosfera crepuscolare,
è infatti uno degli album accolti più
freddamente dal pubblico, sebbene
le recensioni della critica siano state
positive. In questo periodo Billy
attraversò la morte della madre, che
per lui fu molto dura. Furono
soltanto due le tracce estratte
dall'album, Ava Adore (il cui
videoclip valse alla band il premio
video più elegante ai Fashion
Awards) e Perfect.
Qualcosa però, è destinato a
rompersi. I rapporti si fanno più tesi
che mai e il 1999 vede il ritorno di
Jimmy, ora pulito, alla batteria, e la
fuoriuscita di D'arcy per dedicarsi ad
altri progetti, ma non prima di
concludere
la
registrazione
dell'album Machina/The Machine of
God, che sarà pubblicato nel 2000.
In questo album riaffiora il forte
sperimentalismo stilistico che aveva
caratterizzato il già citato Mellon
Collie: inizialmente pensato come
doppio
concept-album,
poi
realizzato come album singolo,
Machina segna il ritorno alle
sonorità distorte dei primi anni, un
maggiore utilizzo dei supporti
elettronici e arrangiamenti più
elaborati: in un'intervista Billy
motiverà tale scelta col proposito di
riversare tutta l'esperienza musicale
accumulata in un'intera carriera.
Anche i testi subiscono un
significativo cambiamento: non si
intravede più rassegnazione nella
malinconia (ormai cronica) della
band, ma ottimismo e speranza che,
seppur con difficoltà, ritagliano il
proprio spazio tra le note ( Try, Try,
Try) . Il pubblico e la critica
considereranno l'album come “il
punto più basso che gli Smashing
potessero toccare”, pieno di banalità
e privo di mordente.
Con la conclusione del relativo tour
promozionale,
l'agonia
degli
Smashing Pumpkins ha termine:
Billy, dopo aver autopubblicato
Machina II/ The Friends and Enemis
of Modern Music (seguito di
Machina, scartato dalla Virgin),
tramite un'emittente radiofonica
annuncia lo scioglimento del
gruppo: è il maggio del 2000.
Passano alcuni anni. Dopo il
fallimento del super-progetto Zwan
e la rivelazione di scottanti
retroscena sulla fine degli Smashing
Pumpkins
che
incrinarono
ulteriormente i rapporti con gli altri
ex-membri, Billy torna a farsi sentire,
dichiarandosi pronto a intraprendere
la carriera solista, salvo poi tornare
sui suoi passi dopo che The Future
Embrace, unico disco solista di Billy
e pubblicato nel 2005, non riscuote il
successo sperato. Decide così di
ricostituire gli Smashing Pumpkins
senza coinvolgere (fatta eccezione
per il batterista Jimmy) i membri
originari. Al posto di James (che ora
milita negli A Perfect Circle) e D'arcy
(ritiratasi definitivamente dal mondo
della musica) vengono reclutati vari
turnisti.
Nel 2007 il ritorno si concretizza con
la pubblicazione di Zeitgeist, che si
presenta come un misto tra rock e
pop sperimentale, confermando
l'ormai febbrile ispirazione di Billy. E'
un altro insuccesso. Notevole è
invece il lavoro a livello di artwork:
attraverso la suggestiva immagine
della
statua
della
libertà
semi-sommersa dal mare, la band
sembra quasi prospettare un futuro
nero (come sarà poi in effetti). Si
ricorda di questo album la traccia
Tarantula, inserita, a più riprese, nel
popolare videogioco Guitar Hero.
Il 2009 è l'anno di Teargarden by
Kaleidyscope, progetto inizialmente
costituito da 44 tracce (ridotte poi a
10) che sarebbe stato gradualmente
pubblicato sul sito ufficiale della
band. Billy dichiarerà di aver
interrotto il tutto per potersi dedicare
a tempo pieno alla lavorazione
dell'album Oceania, che sarebbe
uscito nel 2012, dopo numerosi
12
VOX ARENAE
rinvii. Alla fine dell'anno Jimmy
annuncia la sua seconda fuoriuscita
dal gruppo, rendendo Billy l'unico
membro
attivo
della
storica
formazione.
Proprio Oceania, album né carne né
pesce, segna l'entrata in pianta
stabile di Jeff Schroeder alla chitarra
e di Nicole Fiorentino al basso,
dapprima
considerati
semplici
turnisti; al posto di Jimmy viene
reclutato l'allora diciannovenne Mike
Byrne dopo un provino che
coinvolse, tra gli altri, l'ex batterista
dei System of a Down John
Dolmayan.
Siamo così arrivati al presente, dove
la band, pubblicato Monuments of
Elegy alla fine del 2014, è tuttora
impegnata
nel
relativo
tour
promozionale. L'impressione che
critica e pubblico si stanno facendo
dell'album non è certamente delle
migliori; i bei tempi di Mellon Collie
(il cui spettro grava ancora sulla
testa di un ormai esausto Billy)
sembrano lontani, e difficilmente
Billy e soci, nelle condizioni in cui
versano, potrebbero pescare il
coniglio dal cilindro; resta da
chiedersi che cosa sia rimasto del
loro patrimonio artistico, fonte di
ispirazione per intere generazioni di
adolescenti. Noi lo sappiamo. I
dischi, la musica, la rabbia di chi,
malgrado gli sforzi, è sempre
rimasto un topo in trappola.
Francesco Marsili
VOX ARENAE
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14
VOX ARENAE
“Di memoria in memoria a dirti amore”
Riflessione sulla poetica di Alfonso Gatto
Dal silenzio per il silenzio; non stupisce allora perché
spesso passi inascoltata l'esperienza di missione
veramente umana che compie la poesia di Alfonso Gatto
(Salerno 1909 - Capalbio 1976), titanicamente umile fino
a donarsi come una delle voci più autentiche del
Novecento italiano.
L'irrequietezza del secolo si incarna dentro
l'omnipervasiva voce di un uomo in silenzio con le sue
contraddizioni e le sue certezze, eppure sempre in
movimento - fisico e spirituale - nell'altalenante gioco
della forma, che in Gatto diviene "costrutto" della
volontà, la realtà più profonda perché viva sul piano
mentale quanto su quello della percezione sensoriale.
Proprio la dedizione ad un progetto di missione umana,
per una vita più importante della poesia, una vita "da
salvare fino all'ultimo e che permetta di scendere nel
giorno della nostra morte senza viltà", spinge Gatto a
cercare un appiglio che, nel prevedibile e mai abituale
smarrirsi, lo mantenga fedele a se stesso. Così scopre il
vocabolo, quello basilare, da rimodellare coerentemente
con la propria sensibilità di artigiano perché risuoni come
una voce amica pronta a richiamarlo a se stesso e alla
"grazia stupita d'essere la vita".
La parola per Gatto è dunque un mezzo, il costrutto per
eccellenza, con entità mentale e fonica, in grado di
rendere l'uomo presente alla propria esistenza e quindi
al proprio silenzio, in cui si può affermare l'"ostinazione a
vivere", la "felicità di vivere", la "lealtà di vivere".
Nello spazio lunare
pesa il silenzio dei morti.
Ai carri eternamente remoti
il cigolìo dei lumi
improvvisa perduti e beati
villaggi di sonno.
Come un tepore troveranno l’alba
gli zingari di neve,
come un tepore sotto l’ala i nidi.
Così lontano a trasparire il mondo
ricorda che fu d’erba, una pianura.
Carri d'autunno da Poesie (Isola)
VOX ARENAE
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L'atmosfera che si respira nelle liriche di Isola, raccolta
del 1932 che sembra anticipare l'ufficiale inizio della
stagione ermetica con il Sentimento del Tempo
ungarettiano dell'anno successivo, è quasi rarefatta,
scevra da legami troppo espliciti con la realtà più
immediata, per essere intimamente collegata ad un
profondo e unitario spartito segreto del mondo,
afferrabile nel silenzio. Così la melodia arcaica che
anima i testi di Gatto permette al lettore odierno di
sentire come "indugia raro nel silenzio un alto / silenzio e
lascia scorrere la pace", perché quest'ultima corrisponde
al desiderio naturalmente insito nelle profondità che
vengono evocate da un'eco di lontananze stranamente
presenti.
Spingendo il proprio sguardo verso un oltre indistinto
nello spazio e nel tempo, dopo la morte o prima della vita
cosciente del momento, "Gatto ha dovuto restituirci,
prima di tutto, il senso stesso di un'incalcolabile
lontananza dagli oggetti" (Giuseppe Langella - Alfonso
Gatto, il poeta del canto fioco) per cui l'uomo si trova in
una solitudine apparentemente vuota, ma ricca di ogni
realtà che trova raccolta in sé, un insieme di colori: "Io
sono bianco di memoria". In questo modo il silenzio si
afferma come la vera melodia del mondo e dei singoli,
perché "... nell'imbuto / dell'anima, in quel raggiro muto /
di falde e specchi, tace la parola. [...] Il primo freddo è
l'anima che coglie / il suo silenzio..." e, dopo il brivido di
spaesamento ed euforia, comincia ad avere coscienza
della più intima realtà.
La lirica gattiana allora vuole porsi come il diario di
un'anima che si riconosce viva nell'incontro con altre sue
simili e - in parte - insite in lei come anima del mondo; si
tratta di un dono del proprio percorso interiore formulato
invitando all'ascolto per evitare una degenerativa
incomunicabilità col prossimo ma soprattutto con se
stessi, in una realtà dove "tutti parlano del proprio cuore,
/ tutti tacciono col proprio cuore".
Con questo il poeta non intende però chiamarsi fuori
dallo spasmodico e fragile bisogno di un comune
parlottio, anzi riconosce i propri limiti e le proprie colpe,
mostrandosi innanzitutto un uomo (sua è la definizione
del poeta come "un uomo mortale che vive con tutta la
sua morte e con tutta la sua vita"), fermo nella
convinzione del valore superiore della vita rispetto alla
poesia. Perciò è chiaro quanto propriamente nel
silenzio si affermi, per Gatto, la volontà di vivere
appieno, e non in quello che sembra delineare come
l'andamento inerziale delle parole, dando tuttavia anche
a questo un qualche valore. Nella poesia Colpa infatti
viene riconosciuto alla parola affannata nel coprire i vuoti
il ruolo di espressione del limite, in cui l'uomo d'ascolto
può captare il richiamo del silenzio e disporsi a questo
("Io mi dicevo ch'ero stato buono / tutta la vita / ma a
chiedere perdono / salivo in sogno").
Oltre i mari d'autunno, nell'alone
delle polveri cieche
tutta la notte nella pioggia ho visto
sparire la città, tremava il palco
il fradicio dei legni sul mareggio
della laguna, la lumaca cieca
intrepida sbavava la sua strada.
L'amore era il sudario dei miei volti
affacciati da sempre,
le palpebre pesanti, il naso duro
come il silenzio fermo sulle labbra.
Mi dicevo, di me, ch'ero al tuo riso
lontano l'ombra che scavalca i ponti,
il dannato che insegue la sua fuga.
Sugli occhi le tue ciglia da moscone.
Era la pelle azzurra dell'immoto
un agguato di brividi
Pelle azzurra (seconda versione, interrotta) da
Desinenze
I paesaggi spesso naturali che ci vengono presentati
da Gatto attraverso i sui occhi luminosi - perché
intimamente illuminati da uno sguardo pervaso di ogni
tempo, quello di una morte mai in opposizione alla vita,
anzi ad essa coesistente - tendono ad avvitarsi su se
stessi, spingendosi verso profondità ignote, così il loro
incunearsi è proprio dell'anima. Per tale ragione risulta
perfettamente calzante l'appellativo di "surrealismo
d'idillio" coniato da Giansiro Ferrata in riferimento alle
liriche di Isola e ben adattabile a buona parte della
produzione gattiana.
Nelle ultime sue raccolte (Rime di viaggio per la terra
dipinta e la postuma Desinenze) Gatto elaborò
ulteriormente la propria peculiare forma "surrealista"
regalando al lettore un esempio di pedagogia del
perdersi e del ritrovarsi, fedeli a se stessi perché "tu sai
ch'è inquieta l'anima, se pura". Alla base di questo
sviluppo poetico sta un movimento dell'anima, tra
"alberghi, città, scale sempre in sogno / varcati al dir:
«qui resterò e la pace / mi sarà data alfine»",
rispecchiato dal "dolce e lungo errore" del poeta, che
dagli anni Trenta fino al termine della Seconda Guerra
Mondiale, tra spostamenti lavorativi, collaborazioni
culturali e politiche, finanche all'arresto per antifascismo,
visse un'esistenza irrequieta.
Così si fondono immagini cittadine e litorali, sempre
sorprese dallo sguardo limpido di un uomo affacciato alla
vita, ricco dei propri volti, quelli di personali forme
inquiete e di un passato che il poeta sente proprio e
universale, perché con esso condivide la volontà di
trovare "... prova su prova / la sua ragione d'essere nel
fiore, / nel seme, nella terra, nella morte".
Viene evidenziato come a smuovere l'uomo siano
essenzialmente
due
componenti
sempre
misteriosamente compresenti, la morte e la vita. Se la
prima spinge al movimento nell'anziana paura di un
"agguato di brividi" che altro non è se non "la pelle
azzurra dell'immoto", la seconda è l'istinto primario di
avventura come l'attitudine propria dei bambini che
"tuffano il capo nel mondo". Da questa spinta bivalente è
generato un ossimorico intrepido fuggire; dopotutto,
"passeggia l'uomo che cerca una storia".
Perdersi allora è il fondamentale preambolo della
salvezza, perciò il partire da se stessi può divenire secondo l'insegnamento di Gatto, dopo un lungo
percorso poetico che aveva conosciuto dapprima come
spontaneo questo altalenarsi della coscienza - anche, in
parte, volontario, se questa volontà assume in sé la
determinazione
a
tornare.
Come
esemplifica
chiaramente in una sua intervista: "È come se io stesso
partissi e ritornassi ai miei stessi occhi che mi vedono
partire e mi vedono ritornare [...], un poeta [...] è un po'
padre e figliol prodigo di se stesso".
I gesti lasciati nell'aria
i cenni che chiamano ancora,
sola ogni voce che non s'ode più.
E il sonno che non ha notte,
la pallida ombra che legge
al pallido sole.
Quei ragazzi nudi mai così rosa
nel tonfo della mezzanotte.
La vecchia dietro la cattedrale
spazza la tomba di ferro.
C'è chi muore d'estate
o aspettano calmi l'inverno?
16
VOX ARENAE
Un pattino è fermo in salita,
tutti hanno lasciato qualcosa
per correre incontro alla vita.
La notte di Trondheim da Osteria Flegrea
Ad accompagnare i viaggi di Gatto si trova
un'importante intensità melodica, di cui sono pregne le
sue poesie, testimoniando un desiderio - che si fa
necessità - di cantare, il che è proprio degli "uomini
limpidi", coloro che "vuotano / le case nel canto, / al
cerulo sogno dell'alba".
E limpido come un apparentemente immobile vetro
d'acqua è il porsi del poeta davanti all'ineffabile segreto
del silenzio armonioso tra profondità marine e
sospensioni celesti, tra vita e morte. In questa atmosfera
pare impossibile l'affermarsi anche di un singolo
vocabolo, laddove la poesia giace, ineffabile, sul velo
d'acqua che è il poeta, immobile, senza parole. Sarà
allora nel canto, nella più fluida capacità di sciogliere
melodicamente il mistero, che si riuscirà a manifestare la
poesia. A quel punto le parole innalzate dalla musica
saranno state propriamente quelle "poche, timide, ma
come sospese nel silenzio che c'era intorno, [...] proprio
quelle con cui la sera voleva essere amata dal suo
grande bambino".
La spontaneità dell'espressione è però suggerita da
una melodia, infatti secondo Gatto la poesia vive "il
terrore delicato in cui essa è sospesa ogni volta a trovare
la sua voce al momento in cui tutte le parole tacciono".
Non esiste scavo ermetico nel proprio segreto che
affermi la parola in Gatto, non c'è educazione che strappi
dall'anima il vocabolo, perciò si rende necessario un
addestramento presso la palestra della comunicazione,
specialmente quella letteraria, caricata di nuove
possibilità.
In questo senso assume maggior valore l'azione del
poeta tesa a ridare vitalità ad un vocabolario nobile
ormai morente e la sua difesa della rima in modo non
aprioristico ma valutando le possibilità che questa offre
per la costruzione di cortocircuiti semantici, secondo una
visione per cui "la rima corrisponde all'antico richiamo
che le parole hanno tra loro come due occhi che sono
necessari allo stesso sguardo".
Questo lavoro trova una sua ulteriore giustificazione
nella convinzione della possibilità delle parole di
imprimersi nei petti altrui, portando talora anche
angosce, come afferma il poeta parlando del terribile
racconto del comandante delle SS Kappler sulla strage
VOX ARENAE
17
delle Ardeatine ("E nulla andò perduto / di quelle
parole, io non le riesco / a staccare da me - e non da me,
ma dal fitto / del petto con cui le respiro").
Tuttavia l'intento della poesia gattiana è di fare
"costrutto", così la forza creatrice del poeta viene
esaltata e, di pari passo, anche la parola, che non si
esplica come punto d'arrivo e manifestazione della
connessione intima della realtà - comunque resistente
nella poetica di Gatto - ma come forte mezzo esploratore
e, semmai, manifestazione dell'umile lavoro di un uomo
ostinato e impegnato con la vita.
Una madre che dorme
piove in dolcezza dentro di sé
come una grotta
e in fondo al lume ha il suo bambino.
Una madre che dorme
dorme al panneggio ardente d'una fiera
che la guarda mansueta.
È una dolce sera
in mezzo alle pupille
della sua onda quieta.
Una madre che dorme da La forza degli occhi
Emblema dell'impegno con la vita è la figura materna,
che compare in tutte le sillogi di Gatto come mito
primitivo e tensione presente, in quanto espressione del
rapporto da "poveri di spirito" con il mistero
dell'esistenza.
Tale immagine estende la sua valenza durante la
Seconda Guerra Mondiale, non tanto tramutandosi in
una madre patria, quanto in un forte senso di umanità. In
questo Gatto prende le distanze dalle posizioni ben più
note di Salvatore Quasimodo per difendere una bontà
familiare, più intima e allo stesso tempo universale. In
riferimento agli anni della Resistenza, che - più
evidentemente agli occhi del lettore - risvegliano "in
Gatto l'amore per la vita" (Giuseppe Langella - Alfonso
Gatto, il poeta del canto fioco), il poeta ha specificato che
"non si trattava di lutto o di lutti, non si trattava di
occupazione o di 'piedi stranieri'. Era qualcosa di più: era
la natura umana offesa".
In questo senso Gatto fa tesoro delle propria
esperienza come cantore delle morti, celebrate secondo
la ferma convinzione che nella povertà si trovi la serena
relazione tra vita e morte, e diviene un poeta della
Resistenza, ma estendendone la valenza ben oltre il
momento storico così che potesse essere concepita
come una condizione duratura dell'esistenza umana,
infatti resistendo con coscienza si incomincia "finalmente
a durare in noi stessi, a essere".
La voce dei morti è un canto di madri e figli - soprattutto
per un poeta che conobbe la perdita di entrambe le
figure -, "il fermo legame" e la speranza per la vita perché
questa venga educata alla responsabilità; perciò Alfonso
Gatto, in quanto uomo d'ascolto, sembra chiaramente
dirci, come rileva con acume Massimo Bontempelli, che
"noi siamo ognuno responsabile della vita degli altri".
"Ebbi il mio cuore ed anche il vostro cuore, / il cuore di
mia madre e dei miei figli / di tutti i vivi uccisi in un
istante", così, parlando Per i martiri di piazzale Loreto, il
poeta fa emergere un profondo senso e bisogno di
fratellanza, senza mai sottovalutare la propria
responsabilità anche retorica per "... una memoria / che
mai giunge a sbiadirsi, che mai perde / la traccia
immaginosa", ma che in questa - manifesta nell'azione
del poeta - trova il modo di eternarsi e di eternare una
componente
impercettibile
perché
intimamente
conservata negli animi. Così si rafforza ulteriormente
l'immagine arcaica di cantore della morte per Alfonso
Gatto, il quale rimane comunque un poeta inneggiante
alla vita e all'amore umile; tuttavia l'usuale espressione
lirica - nella raccolta La storia delle vittime, secondo le
esigenze del momento - si conforma ad un'epicità e
coralità capace di innalzare il canto fino a caricarlo di
un'aura mitica, perché si potesse "resistere all'empiria",
lavorando "permanentemente per una rivoluzione che
avesse nell'uomo il suo centro" - secondo una modalità
antica e nuova in un Novecento ricco di singole
trivellazioni d'anima.
Così il topos della morte si rinnova, caricandosi
ulteriormente della propria ambivalenza. La morte è
chiaramente costante e sorprendente; anzi, proprio nella
sua rilevata costanza si manifesta la sorpresa, che
spesso muove il meccanismo poetico come espressione
di attaccamento alla vita nell'emersa coscienza che
"tutto di noi gran tempo ebbe la morte".
Delle due vie meravigliose gode tutta la produzione
gattiana, espressione uniforme di realtà che, per quanto
apparentemente contrastanti possano sembrare (come
la meraviglia del cielo e del cuore, la vita e la morte...), si
scoprono a convivere, intrecciate perfettamente nel
tessuto di un'esistenza sospesa e indicibile, "dopo la
vita, prima della morte", per cui è proprio il tremore della
sospensione a restituire il senso della fragilità insieme
all'orgoglio della resistenza - resistenza in una realtà
altra ma soprattutto in noi stessi, che dobbiamo ciascuno
dirci "... sono / la vita, il soffio che ti chiama in dono".
Sul tema del dono Gatto torna a più riprese perché in
esso si può riassumere il completamento dell'agire
poetico; così, ribaltando gli stereotipi, si dipinge come un
uomo cui i morti parlano e dedicano attenzioni (non è lui
a portare i fiori sulle tombe, ma li raccoglie: "... prendo un
fiore / dalla sua tomba..."), e nel privilegio di queste
attenzioni ricevute e richieste, ancora e ancora, sempre
in spasmodico movimento, può permettersi di dar via ciò
che non ha, come la pace, poiché "solo chi non ha pace
può darla".
Se la pace è - come detto inizialmente - intimamente
conforme alla natura dell'uomo, la tensione ad essa è
rappresentata dall'approccio più umano, secondo Gatto,
all'esistere, ossia la resistenza; una autentica, che sia
povera, perché la povertà ha la capacità di "stringere nel
nulla la... gioia".
Pertanto il compito della poesia gattiana, poiché arte
veramente umana, è di manifestare la conformità al
desiderio di pace e caldeggiare la resistenza: "vi
provoca, vi mette di fronte al bisogno della lotta". Ma la
poesia è innanzitutto dono, e quella di Gatto vuole fare
dono di speranza agli umili "per qualcosa che verrà / e
che sempre sta per accadere", se non addirittura di
pace, nelle atmosfere idilliche e rarefatte, vuole far dono
del mondo, vuole far dono di ciò che il poeta non ha ma
è pronto a regalare, fedele alla propria umanità e al più
profondo spartito segreto.
"Non t'accorgi che è l'amore / il tuo ridere futile, la
mano, / la mano aperta per dar via il mondo?"
La meraviglia - gridala - è del cielo
aperto a dirsi cielo dentro il cielo.
La meraviglia - tacila - è del cuore
richiuso a dirsi cuore dentro il cuore.
Allegoria delle meraviglie da Rime di viaggio per la terra
dipinta
18
VOX ARENAE
"Gli innamorati non sanno
sparire, affermano un bacio
che solo perduto
avrebbe a suggello
lo stacco delle sue labbra.
Così bacia l'aria e l'oblio
così vive Dio
del nulla che secca la bocca
e versa la sete dell'aria nell'aria"
Dietro i muri eterni (tentativo di finale alternativo) da
Desinenze
Gatto propone dunque che la sfida alla scoperta delle
segrete connessioni esistenziali sia il motivo del nostro
resistere e si esplichi con profonda passione e umiltà,
perché nell'ascolto del silenzio si riconosca
immediatamente l'uomo e si possa dire: "l'anima è sul
volto"; un volto che muta e rimane sostanzialmente lo
stesso (è proprio il poeta a dichiarare di giungere sempre
"al punto di risolversi in un volto sereno e di temerlo").
L'ideale equipaggiamento proposto per la ricerca
ostinata è la costruzione di una "natura di idioti", l'essere
"imbecille quel tanto che [...] dà gioia", identificandosi
con "la bontà quale forma suprema della ragione". Così,
armati di modestia, sincerità e determinazione, si andrà
in contro a continui dubbi. Ma proprio il "dubbio intero",
così lo chiama Gatto, costituisce il più forte agente
modificante un amore serrato in se stesso, in modo che
possa essere sviscerata una rete di rimandi ricca di
ipotesi positive ("forse l'amore è sempre un altro amore /
e l'odore al ricordo un altro odore").
L'unico imperativo riguarda il modus operandi, che
deve essere caratterizzato da passione, o meglio, da
amore, laddove amare è "invocare fisicamente tutto
l'essere per una goccia di vita". Allora, specialmente alla
luce delle parole di Eugenio Montale, incise sulla lapide
dell'amico poeta ("Ad Alfonso Gatto / per cui vita e
poesie / furono un'unica testimonianza / d'amore"), non
può che levarsi un nuovo dubbio nel sospetto che
proprio la sfida autentica alla connessione abbia in sé il
senso del traguardo.
VOX ARENAE
19
In ogni gioia breve e netta scorgo il mio pericolo.
Circolo chiuso ad ogni essere è l'amore che lo regge.
Tendo a questo dubbio intero, a un divieto in cui
cogliere il sospetto e la lusinga del mio movimento.
Universo che mi spazia e m'isola, poesia.
Poesia da Poesie (Isola)
Dylan Ruta
20
VOX ARENAE
Cento rivolte e un’easter rising:
la terribile bellezza.
Quasi cent’anni dopo, la storia di un èpos ai margini di un impero.
'twas down the glen one Easter morn
to a city fair rode I
there armed lines of marching men
in squadrons passed me by
no pipes did hum, no battle drum
did sound out its loud tattoo
but the Angelus bell o'er the Liffey swell
rang out in the foggy dew...
Il 24 aprile 1916, il lunedì immediatamente successivo
alla domenica di Pasqua, circa milleduecento uomini si
affollavano in una Dublino che stava ancora
svegliandosi, vera e propria metropoli del Regno Unito di
Gran Bretagna ed Irlanda. Per l'ormai consolidata
superpotenza britannica era appena passata la Pasqua
del secondo anno di guerra, la Grande Guerra che era
già da diversi mesi entrata in un anno critico (la
famigerata battaglia di Verdun, incominciata tra il 20 ed il
24 di febbraio, sarebbe finita solo il 19 di dicembre dopo
qualcosa come cinquecentomila tra morti e feriti da
ambo gli schieramenti). Dal punto di vista di quegli
uomini armati, però, stava per essere scritta la pagina
decisiva nell'albo della travagliata storia irlandese. Nel
sangue e nello spirito degli eventi che ebbero inizio quel
giorno cadde il primo germe di una libertà al margine di
un grande impero, quello britannico, preso all'apogeo
della propria gloria e del proprio sforzo bellico. All'ombra
della Union Jack si sarebbe innalzato, di lì a poco, il
vessillo verde a brandelli che gridava Irish Republic.
Un travaglio lungo ottocento anni.
La bandiera britannica che fino ad allora aveva garrito al
vento dal castello di Dublino, sede del governo inglese
nell'isola, portava con sé l'eredità di quasi otto secoli di
storia irlandese costellata dalla presenza e dalle
ingerenze inglesi. L'Irlanda, la cattolicissima Irlanda i cui
Celti erano stati convertiti, secondo la leggenda, da San
Patrizio (che avrebbe impiegato il trifoglio, simbolo
dell'isola, per spiegare la Trinità) si era
VOX ARENAE
21
trovata, dall'XI secolo, ad essere una Signoria sotto
l'influenza papale e l'egida del Regno d'Inghilterra. Con
quest'ultimo nel 1541 l'Irlanda aveva siglato un patto di
cosiddetta unione personale: entrambe le monarchie,
quella irlandese e quella inglese, riconoscevano un
unico capo di stato, nella persona del sovrano
d'Inghilterra. Nel 1603, un processo analogo sancì
l'unione anche col Regno di Scozia. Questo, però, nel
1701 confluì con l'Inghilterra nel Regno di Gran
Bretagna: ecco allora che l'unione personale del 1541
mutò uno dei due soggetti: si aveva, ora, tra Regno
d'Irlanda e Regno di Gran Bretagna. All'inizio del XIX
secolo, gli Atti dell'Unione (entrati in vigore a partire dal
primo gennaio del 1801) sancirono l'incorporazione del
Regno irlandese in quello britannico: questo comportò
l'abolizione del Parlamento in Irlanda, poiché ai
rappresentanti dell'isola furono concessi dei seggi
direttamente a Westminister, come già accadeva per la
Scozia.
Un germe di ribellione tra la Guerra d'Indipendenza
e la Rivoluzione francese.
Nel corso del XVIII secolo, con la nascita del Regno
d'Inghilterra e la sua unione con quello d'Irlanda, questa
aveva acquisito una relativa indipendenza dal governo
inglese. Sul versante politico, la supremazia era nelle
mani di una ristretta élite di anglicani, la cosiddetta
Ascendenza protestante, al governo sin dal XVII secolo
per conto della Corona. La realtà irlandese era , tuttavia,
fortemente cattolica: in questo, gli aristoi protestanti
attuarono una recisa discriminazione religiosa, messa in
atto soprattutto nell'applicazione delle leggi, che non
colpì solamente i cattolici, ma anche le minoranze
protestanti che professavano una religione non
anglicana (come i Presbiteriani). La maggior parte della
popolazione inoltre non godeva del diritto di voto, perché
questo era subordinato al reddito; i cattolici erano invece
esclusi a priori. A rincarare la dose si potevano poi
individuare diverse situazioni di limitazione del potere
politico dell'Irlanda: la questioni
più rilevanti erano di certo la possibilità di veto che la
Corona si riservava di imporre sulle proposte di legge
irlandesi ed anche la capacità di legiferare per l'isola. I
freni posti da Londra all'autonomia dell'Irlanda erano ben
più severi rispetto a quelli che si potevano individuare
rispetto alle pur lontane colonie americane. La rivolta di
queste e la conseguente Guerra d'Indipendenza
(1775-1783) fu un l'occasione propizia per cambiare le
carte in tavola. I ribelli americani, infatti, ricevettero
cospicui aiuti dalla Francia, soprattutto in termini di
truppe volontarie. La storica ostilità francese nei
confronti del Regno di Gran Bretagna si inseriva ora in
un quadro critico, perché lo sforzo bellico britannico era
quasi totalmente concentrato oltreoceano contro la
ribellione. La lontananza della maggior parte dei
reggimenti del British Army e delle navi della Royal Navy
rendeva la Gran Bretagna (e dunque l'Irlanda) un
bersaglio di relativa facilità ed appetibilità per la grande
nemica oltremanica. Per scongiurare l'invasione che si
paventava, ai pochi nuclei delle forze armate regolari si
aggiunsero milizie, formate dietro richiesta del governo,
poste a difesa soprattutto della Scozia e dell'Irlanda. In
quest'ultima, nacque la forza degli Irish Volunteers, militi
leali alla Corona e pronti a fronteggiare i possibili
invasori. La loro presenza accrebbe notevolmente la
forza militare irlandese,e il regno poté ben presto
avanzare, a fronte di una riconfermata realtà, richieste
volte a migliorare la situazione politica. A coronamento di
questo, nel 1782 fu promulgata una nuova Costituzione,
la quale pose fine tanto alla Poyning's Law quanto al
Declaratory Act; dopo alcune insistenze, fu reso
possibile ai cattolici con un reddito sufficiente di votare.
Fu sulla scia delle nuove libertà raggiunte che i
movimenti patriottici e nazionalisti si infuocarono,
avanzando richieste mirate ad una sempre maggiore
autonomia ed all'abolizione dei provvedimenti
discriminatori che ancora permanevano. La Rivoluzione
francese del 1789, avvenuta in una nazione cattolica e
certamente più vicina rispetto alle colonie che oramai
s'erano costituite libero stato, non fece che alimentare la
fiamma rivoluzionaria. Questa ardeva a partire dalla
Society of United Irishmen (Società degli Irlandesi Uniti,
in sigla SUI), fondata a Belfast nel 1791. Di carattere
liberale e composta indifferentemente da membri
cattolici e protestanti, il suo scopo ultimo era di rompere
ogni legame con la Gran Bretagna. Due anni dopo la sua
fondazione, cominciò ad operare in clandestinità.
La Rivolta delle picche.
Gli United Irishmen (UI) godevano di fama sempre
maggiore, ma al capo della Società, Thebald Wolfe Tone
(solitamente chiamato Wolfe Tone) appariva evidente
che qualsiasi azione su vasta scala poteva realizzarsi
soltanto con l'appoggio di una forza straniera. Grazie ai
suoi contatti ed alla sua astuzia,a Wolfe Tone non riuscì
difficile assicurarsi il supporto del governo rivoluzionario
francese. Nel dicembre del 1796 salpò una forza di
spedizione francese, guidata dal leader della SUI in
persona. I paladini di una libertà che pareva vicina si
dimostrarono però, loro malgrado, membri di una
seconda Invincibile Armada: le navi francesi, infatti,
riuscirono ad eludere la blanda sorveglianza della Royal
Navy, ma il ricombinarsi di condizioni meteo sfavorevoli
e la scarsa esperienza dei marinai fece sì che la flotta, a
poche miglia dalla costa irlandese, fosse costretta ad
invertire la rotta e fare ritorno in Francia. Ma il vento di
rivolta soffiava ormai forte: il biennio '96-'98 vide
disordini diffusi che si accentuarono col '98. Il governo,
fedele alla Corona, risposte imponendo la legge
marziale (marzo 1798) e scatenando le milizie; si operò
il più possibile per accentuare il divario tra protestanti e
cattolici, i primi, in genere, più inclini alla fedeltà verso la
Gran Bretagna. Il controspionaggio britannico bloccò sin
da subito vari elementi di spicco tra gli UI, ma quelli più
estremisti riuscirono a sfuggire alle spie e, senza alcun
supporto garantito, decisero di dare il via ad una rivolta
per il 23 maggio. La sua organizzazione era molto
debole, e lo spionaggio inglese conobbe gran parte delle
mosse dei ribelli in anticipo. Ciononostante, il 25 maggio
si registrarono i primi scontri intorno a Dublino, la cui
conquista era l'obiettivo principale della ribellione. Gran
parte dei rivoltosi brandiva armi improvvisate, soprattutto
perché quelle da fuoco erano state sequestrate in virtù
della legge marziale. Particolarmente diffuse, poiché
facili da assemblare per i fabbri ed utili anche contro la
cavalleria, erano le picche (da cui il nome di Rivolta delle
picche). Nonostante un gran numero di sconfitte, i ribelli
riuscirono ad opporre una tenace resistenza, sfruttando
la compiacenza della popolazione e le tattiche di
guerriglia. Dopo diverse vittorie dei rivoltosi nel sud
dell'Irlanda, la risposta delle truppe governative fu
decisiva. Alla fine di agosto, le poche sacche di
resistenza capitolavano l'una dopo l'altra. A poco
servirono due spedizioni di volontarî francesi in aiuto
degli United Irishmen: nel primo caso, la forza sbarcata
si unì ai rivoltosi e dapprima sconfisse le milizie
22
VOX ARENAE
governative ma fu sopraffatta dai rinforzi; nel secondo
caso, le navi coi volontarî, alla cui guida c'era sempre
Wolfe Tone, vennero intercettate dalla Royal Navy e
costrette alla resa. Tristi simboli della fallita rivolta furono
la atrocità perpetrate da ambo gli schieramenti ai danni
sia dei prigionieri, sia della popolazione civile. Fonte di
nuovi martiri furono le numerosissime esecuzioni di
ribelli, molte sommarie, diverse a seguito della corte
marziale (soprattutto nei confronti dei capi della rivolta).
Lo stesso Wolfe Tone, arrestato e processato, riuscì a
suicidarsi e ad evitare per poco l'impiccagione. Se la
guerra per la libertà era perduta, la speranza rimaneva e
la
fiamma
patriottico-nazionalista
continuava,
tacitamente, ad ardere. Giunsero ben presto ad
attizzarla i già citati Acts of the Union (Atti dell'Unione,
1801), dirette conseguenze della rivolta che sancirono
l'inglobamento dell'Irlanda nel Regno di Gran Bretagna,
la quale cambiò quindi la denominazione in Regno di
Gran Bretagna ed Irlanda. L'isola aveva perso il proprio
parlamento e, di fatto, ogni brandello di indipendenza.
Il triste Ottocento e le soglie del Novecento.
When boyhood's fire was in my blood,
I read of ancient freemen
for Greece and Rome, who bravely stood
Three hundred men and three men
And then I prayed I yet might see
our fetters rend in twain,
and Ireland, long a province, be
a Nation Once Again!
(Thomas Osborne Davis, A Nation Once Again, vero e
proprio inno del movimento nazionalista, scritto intorno
al 1840)
L'Ottocento irlandese si aprì sull'inglobamento con la
Gran Bretagna. Fu avviata una sorta di Restaurazione e
ritornò la supremazia protestante e, di conseguenza, la
discriminazione contro i cattolici, che fu ancora più
accentuata. Gli anni Quaranta del XIX secolo sono, nella
storia irlandese, indissolubilmente legati ad un nome,
quello della Grande Fame. Così viene definito il periodo
di carestie che colpì l'Irlanda tra il 1845 ed il 1853, dovuto
a fattori climatici ma soprattutto legati alle mancate
riforme agrarie, che condussero ad un tracollo nella
produzione delle patate, fonte di sostentamento di gran
parte della popolazione, perché economiche ed adatte al
poco fertile suolo irlandese. La Grande Fame
VOX ARENAE
23
spinse moltissimi irlandesi ad emigrare e cercare fortuna
in America, e tanti altri emigrarono per questioni religiose
oppure vennero deportati nei possedimenti britannici
oltremare (Australia in primis), una pena che il governo
inglese impose a chiunque venisse giudicato colpevole
di furto, anche modestissimo, di generi alimentari.
Mentre il resto dell'Europa era infuocato dai moti
rivoluzionari del 1848, l'Irlanda era tutta nelle morse della
Grande Fame; il Quarantotto irlandese si realizzò, in
pratica, quasi solo simbolicamente, con una tentata
ribellione di un piccolo gruppo di nazionalisti che sfociò
in una rivolta grossolana, dispersa senza spargimenti di
sangue. Il nazionalismo e il malcontento irlandese
rispetto al malgoverno britannico si esprimevano tanto
per vie clandestine quanto per vie legali. Negli anni
Ottanta del XIX secolo, emerse la figura di Charles
Stewart Parnell, capo del Partito Parlamentare
Irlandese. Propose molte riforme di carattere liberale,
ma vennero tutte respinte, spesso al termine dell'iter per
farle approvare. Decadde dopo diverso tempo, tanto per
ragioni politiche (il suo partito si scisse) quanto per
motivazioni personali (quali ad esempio un divorzio).
Nacque, nel frattempo, un folto numero di organizzazioni
di carattere nazionalista (ma spesso estraneo
all'estremismo), volte soprattutto alla riscoperta della
cultura celtica (e quindi di quell'identità che nei secoli
s'era adombrata). Coinvolto in queste associazioni era
anche il poeta William Butler Yeats (premio Nobel per la
Letteratura nel 1923 per la sua “poesia ispirata che dava
forma ad una intera nazione”). Risaltavano soprattutto la
Lega Atletica Gaelica e la Lega Gaelica; i sentimenti
patriottici erano poi riuniti nel periodico Sinn Féin (che in
gaelico irlandese significa antica tradizione), tanto che il
titolo del giornale fu ben presto usato per definire, nel
loro complesso, i nazionalisti irlandesi.
Alle soglie dell'Easter Rising.
Nel 1912, il Primo Ministro britannico promulgò il Third
Home Rule Bill, terzo ed ultimo atto di un processo
giostrato dai rappresentanti irlandesi che, dopo venti
anni dal First Home Rule Bill, ottennero un proprio
autogoverno (un Home Rule, appunto). Le critiche,
stavolta, giunsero dalla frangia estremista degli
Unionisti, di coloro, cioè, che si dicevano fedeli alla
Corona (spesso perché protestanti, o per ragioni
economiche e politiche) e che supportavano in toto
l'unione del 1801. Questi nel 1913 si organizzarono in
un gruppo armato, l'Ulster Volunteer Force (UVF, l'Ulster
è il nome tradizionale dell'Irlanda del Nord, regione in cui
si concentra la maggioranza protestante ed unionista).
L'improvvisa presa di posizione unionista motivò la
controparte: dall'Irish Republican Brotherhood, società
clandestina e più estremista tra i feniani, nacquero gli
Irish Volunteers (nessuna correlazione con la milizia
omonima nata in Irlanda nel Settecento). In seguito agli
eventi di uno sciopero operaio a Dublino che sfociò nella
violenza, nacque anche l'Irish Citizen Army. La
militarizzazione della politica irlandese passò quasi del
tutto inosservata grazie allo scoppio della Grande
Guerra. Questa creò un'ulteriore disputa: Londra, infatti,
pretese che la coscrizione obbligatoria venisse imposta
anche all'Irlanda se questa, in cambio, avesse voluto
l'autogoverno. La stessa Irish Republican Brotherhood si
divise riguardo al collaborare o meno con lo sforzo
bellico inglese: lo scisma risultante lasciò gli Irish
Volunteers a perseguire la causa nazionalista. Un mese
dopo la dichiarazione di guerra della Gran Bretagna
contro la Germania, si formò il comitato segretissimo che
decise di organizzare una rivolta prima che la guerra
finisse, cercando di richiedere il maggior aiuto possibile
alla Germania, ora nemica del Regno e di certo
interessata ad una possibile invasione di questo, che
avrebbe significato la vittoria. Tra gli elementi di
maggiore spicco nella causa nazionalista, Tom Clarke e
Seán MacDermott furono sin da subito incaricati di
pianificare la rivolta; l'organizzazione militare fu affidata
a Patrick Pearse, coadiuvato da Joseph Plunkett (capo
delle operazioni militari) e Thomas MacDonagh
(incaricato di addestrare gli uomini che avrebbero preso
parte alla rivolta). In aiuto di Plunkett circa la possibilità di
aiuti tedeschi venne Roger Casement, appassionato
sostenitore dei feniani e grande diplomatico (aveva il
titolo di baronetto). Questi si trovava in America durante
le prime fasi della pianificazione, ma riceveva costanti
informazioni dalle associazioni nazionaliste irlandesi che
non mancavano negli States. Inizialmente, riuscì ad
accordarsi con la Germania circa un piano di sbarco in
Irlanda: si sarebbe attuata una ribellione a Dublino,
facendovi convergere il grosso delle forze britanniche
disponibili, mentre le truppe tedesche sarebbero
sbarcate altrove, riuscendo quindi con facilità a
consolidare le posizioni. Mentre si discutevano questi e
vari aspetti, James Connolly, capo di quanto era rimasto
dell'Irish Citizen Army, fu persuaso, poiché più volte
aveva minacciato di dare il via ad una ribellione con la
sua sola associazione, ad aggregarsi agli altri sei
membri capitanati da Pearse.
Questi ordinò, con una terminologia studiata ad hoc per
tentare di eludere il controspionaggio inglese, di porre in
essere la rivolta per domenica 23 aprile, il giorno di
Pasqua. L'ordine venne però annullato quando una nave
tedesca carica di armi destinate ai ribelli venne
intercettata
dalla
Royal
Navy
e
costretta
all'autoaffondamento. Casement sbarcò in Irlanda da un
sottomarino tedesco ma fu avvistato e catturato e gli
specialisti della marina britannica intercettarono le
comunicazioni del baronetto con l'ambasciata tedesca
negli Stati Uniti (che nel 1916 erano ancora neutrali), da
cui appresero anche la data del 23 aprile come giorno
per una non meglio specificata rivolta nazionalista.
L'informazione arrivò al governo inglese dell'Irlanda, ma
la sua accuratezza fu messa in dubbio.
L'Easter Rising.
Right proudly high in Dublin town,
they flung out the flag of war;
'twas better to die 'neath an Irish sky
than a Suvla or at Sud El Bar;
and from the plains of Royal Meath
strong men came hurring through,
while Britannia's Huns with their long range guns
sailed in through the foggy dew...
Lunedì 24 aprile, un giorno dopo la data prevista, i circa
milleduecento Irish Volunteers si riunirono a 400 membri
dell'Irish Citizen Army di Connolly, che divenne capo
delle operazioni militari per l'intera durata della rivolta. I
Volontarî conquistarono diversi centri nevralgici di
Dublino, soprattutto le industrie e il municipio. Il Castello
di Dublino, sede del governo, riuscì a chiudere le proprie
porte prima che i ribelli arrivassero. La sede delle
operazioni dei Volontarî divenne il GPO, l'Ufficio
Centrale delle Poste di Dublino. Davanti a questo
edificio, sul cui tetto furono innalzate due bandiere verdi
con la scritta Irish Republic, Pearse lesse la
Proclamazione della Repubblica irlandese:
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VOX ARENAE
IL GOVERNO PROVVISORIO DELLA REPUBBLICA
IRLANDESE
ALLE GENTI D'IRLANDA.
Uomini e donne irlandesi, in nome di Dio e delle
generazioni morte da cui riceve l'antica tradizione di
stato, l'Irlanda, attraverso di noi, chiama i propri figli alla
sua bandiera e lotta per la propria libertà. […] Poniamo
la causa della Repubblica irlandese sotto la protezione
del Signore Altissimo. Invochiamo la sua benedizione
perchè scenda su di noi, e preghiamo affinché nessuno
che combatta per questa causa possa disonorarla nella
codardia, nell'inumanità o nel crimine. In quest'ora
suprema, la Nazione irlandese deve, attraverso il suo
valore e la sua disciplina e la prontezza dei suoi figli a
sacrificarsi per il bene comune, dimostrarsi degna del
destino prestigioso a cui è chiamata.
Firmato a nome del Governo Provvisorio
THOMAS J. CLARKE.
SEAN MacDIARMADA.
P.H. PEARSE.
JAMES CONNOLLY.
EAMONN CEANNT.
JOSEPH PLUNKETT.
Le cinque giornate di Dublino.
Il primo giorno della rivolta non vide svolgersi grandi
combattimenti, se non nella zona industriale di Dublino,
dove caddero i primi soldati inglesi. I Volontarî riuscirono
a tenere gran parte delle posizioni conquistate.
Oh! The night fell black and the rifles' crack
made perfidious Albion reel,
through the leaden rain seven tongues of flames
did shine o'er the lines of steel
by each shining blade, a prayer was said
that to Ireland her sons be true,
and when morning broke, still the war flag shook
out its folds in the foggy dew.
Martedì 25, a sera inoltrata, fu promulgata la legge
marziale e il governo passò nelle mani dell'esercito. I
combattimenti si ebbero in numero assai limitato: se nei
primi giorni la ristretta forza britannica si preoccupò di
proteggere il solo Castello di Dublino quale sede del
governo, nel giro di due giornate giunsero 16.000 soldati
inglesi a rinforzare la capitale irlandese, ma questi
evitarono lo scontro aperto e preferirono
VOX ARENAE
25
cannoneggiare le roccaforti dei ribelli. I Volontarî, infatti,
non si erano preoccupati di conquistare il porto di
Dublino e le sue due stazioni ferroviarie, sicché i rinforzi
inglesi, e soprattutto le artigliere ed altri equipaggiamenti
pesanti, giunsero facilmente a destinazione. D'altro
canto, le vie attraverso cui gli Inglesi potevano muoversi
erano saldamente difese (in un caso, sette Volontarî
tennero testa a più di trecento soldati britannici);
ciononostante, il comando inglese ordinò continui assalti
frontali. A questa fase della rivolta, erano morti intorno ai
dieci Volontarî e almeno una quartina di soldati
britannici. L'esercito inglese subì ulteriori perdite
tentando di conquistare la roccaforte dei ribelli nella
Dublino sud. Si registrarono, sia da parte dei Volontarî
che da parte inglese, violenze e saccheggi ai danni della
popolazione civile. Particolarmente efferata fu l'uccisione
a sangue freddo di sei civili arrestati dall'esercito presso
le Portobello Barracks.
La resa.
Il GPO fu fatto oggetto di continuo fuoco inglese,
soprattutto nella forma di granate sparate da cannoni ed
obici campali e, con l'arrivo dei rinforzi, anche da un
vascello giunto da Belfast. I capi della rivolta furono
costretti ad abbandonare l'edificio, posizionandosi in un
complesso dall'altra parte della strada. Vedendo i
Volontarî oramai circondati e inferiori per numero e per
mezzi, Pearse, sabato 29 aprile, negoziò la resa
incondizionata:
Per prevenire un ulteriore massacro dei cittadini di
Dublino, e nella speranza di salvare le vite dei nostri
seguaci ora circondati e inferiori per numero e senza
speranza, i membri del Governo Provvisorio presenti al
quartier generale si sono accordati per una resa senza
condizioni, ed i comandanti dei vari distretti nella città e
nella contea [di Dublino] ordineranno ai propri comandi
di deporre le armi.
Il GPO fu l'unica roccaforte ribelle ad arrendersi in
seguito ad azioni militari inglesi; le altre si arresero dietro
ordine di Pearse e scaramucce tra Volontarî e inglesi si
ebbero anche nelle prime ore di domenica 30, perchè la
notizia della resa impiegò del tempo a circolare. La
rivolta, in realtà, si verificò anche al di fuori di Dublino, in
diverse contee (come per esempio a Galway), ma le
azioni militari ebbero vita breve.
All'indomani della rivolta.
A tutti i Volontarî arresi (ed a tutti i repubblicani, anche
solo sospetti, arrestati in seguito) fu accordato lo status
di prigionieri di guerra. Furono internati nel Galles e
rilasciati, in gran parte, nella settimana precedente il
Natale 1916. Ai sette capi della Easter Rising toccò una
sorte ben diversa. Affrontata la corte marziale, vennero
riconosciuti colpevoli di alto tradimento e condannati a
morte. Furono tutti fucilati tra il 3 ed il 12 maggio, i
firmatarî dalla Proclamazione ed altre personalità di
spicco nella rivolta (tra cui il fratello di Pearse, che fece
soltanto la staffetta). Particolare fu l'esecuzione di
Connolly, giustiziato il 12 maggio, che, poiché rimasto
gravemente ferito durante la rivolta, fu condotto davanti
al muro in barella e legato ad una sedia per poter essere
fucilato. Roger Casement, il diplomatico che tanto si era
profuso perché l'Easter Rising potesse vedere la luce,
venne processato a Londra e riconosciuto colpevole
davanti alla medesima accusa di alto tradimento. Venne
impiccato alla prigione di Pentonville, presso Londra, il 3
di agosto.
I write it out in a verse MacDonagh and MacBride
And Connolly and Pearse
Now and in time to be,
Wherever green is worn,
Are changed, changed utterly:
A terrible beauty is born.
Marco Di Prospero
Oh! The bravest fell and the requiem bell
rang mornfully and clear
for those who died that Eastertide
in the springtime of the year.
But thru and fro' in my dreams I go
and I'd kneel and pray for you,
for slavery fled, O' glorious dead
when you fell in the foggy dew.
Se il trionfo militare inglese era oramai evidente, la vittoria morale dei Volontarî fu evidente. L'opinione pubblica
irlandese, e persino quella britannica ed americana, si
scandalizzarono dinnanzi alle esecuzioni sommarie. A
centinaia i giovani rinfoltirono le fila dei movimenti repubblicani che avevano promosso la rivolta. The Foggy
Dew, la ballata da cui sono tratte le strofe riportate in più
punti di questo articolo, è un esempio del nuovo sentimento nazionale irlandese, forgiato nel sangue di quei
martiri di Pasqua. Yeats, nazionalista convinto ma poco
incline alla violenza, volle celebrare quei ribelli, che combattevano per una “terribile bellezza”:
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VOX ARENAE
For Poets, with love
Lawrence Ferlinghetti e
il nucleo della Beat Generation
Be’, non abbiamo usato la parola
Beat sul retro di nessuna pubblicazione della City Lights Books. Non
sono stato membro della Beat Generation. […] Sono stato associato
ai Beat pubblicandoli.
Preferisco il termine “aperto”. Fu ciò
che mi disse Neruda a Cuba nel
1950 all’inizio della rivoluzione di
Fidel: “amo la tua poesia aperta”. Si
riferiva sia alla vasta gamma di contenuti della mia poesia, e sia, in
modo differente, alla poesia dei
Beat.
Da un lato il rifiuto dell’etichetta
Beat, dall’altro il lucido riconoscimento del suo nucleo incandescente. “Aperto” (in originale wide-open)
è una semplificazione estrema del
concetto espresso acutamente da
Neruda: wide-open indica un’apertura vastissima, e conseguentemente
uno stato di uscita dalle strette
maglie della legge e della morale
vigente, tanto da essere anche assimilato al concetto di fuorilegge, illegittimo. La poesia Beat realizza il
miracolo insito nel proprio nome
(“estasi della beatitudine”: sembra
questa la miglior definizione possibile di Beat) facendo delle profetiche
parole di Montale una realtà fattiva,
artistica e biografica: Cerca una
maglia rotta nella rete / che ci stringe, tu balza fuori, fuggi!. I poeti Beat
sono la prova dell’efficacia sovversiva del mistico in arte, che strappa la
rete della teologia umana e ne fa
trampolino per afferrare ciò che c’è
al di là, la più pura essenza celeste,
VOX ARENAE
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non in un atto di candido scetticismo, di chi vede solo ciò che ha davanti agli occhi e ne cava deciso
rifiuto, ma di profondo amore per la
dimensione terrena e spirituale del
mondo, entrambe toccate e profondamente vissute: un’anticipazione
fulminante del catamoderno. Nel
Beat non c’è rinuncia, non c’è evasione, solo un’acuta percezione
delle cose, e la beatitudine estatica
del riconoscere che l’Uno viene
colto soltanto nelle contraddizioni
del Molteplice; il Beat diventa il contraddittorio, il punto di contatto tra
cielo e terra, il sudicio e il puro, e
nella travolgente fiamma del dolore
e della beatitudine si scopre che la
sua vita è divina. Nessuna impresa
titanica dunque, nessun volo d’Icaro
e rovinosa caduta verso il basso,
nessuna illusione e favola bella; ma
nondimeno nessun balzo a piè pari,
nessuna rotta tangente alla realtà,
nessuno scetticismo modernista,
nessuna Noia cantata, dubbio o
ignoto celebrato dallo scettico in paramenti neri. Solo una travolgente
stoccata dritta al cuore del mondo
per scoprirne l’anima ultraterrena.
Questo il senso delle pregnanti considerazioni di Ferlinghetti a proposito del dialogo con Neruda. E il fatto
che lo stesso Ferlinghetti, ormai acclamato come uno dei perni fondamentali (se non IL perno) attorno a
cui la Beat Generation si sviluppò,
neghi questa determinazione artistica, non fa altro che accrescere il
valore del contraddittorio in questa
risma di poeti sgangherati, maledetti
e beati, beat. Nel caso specifico di
Ferlinghetti varranno esigue indicazioni biografiche per fare intendere
anche solo marginalmente da quale
retroscena derivi la sua poesia: nato
a New York nel 1919, vive per i primi
trent’anni della sua vita facendo la
spola tra la Francia e gli Stati Uniti.
Nella sua città natale si distingue, al
liceo, per le sue straordinarie imprese nell’arte della flatulenza e passa
del tempo in riformatorio, mentre in
Francia ha rapporti clandestini coi
partigiani, durante la Guerra. Si
laurea alla Sorbonne con un’improbabile tesi dal titolo Storia dei
pisciatoi nella poesia moderna. Nel
1951 si trasferisce definitivamente a
San Francisco, dove conosce la
frangia della East Coast dei poeti
Beat, e fonda la City Lights Books,
casa editrice che pubblicherà gran
parte delle opere della Beat Generation. Annota Fernanda Pivano: di
lingua caustica e d’animo gentilissimo e generoso.
Tutti gli elementi che compongono il
calderone ribollente della sua vita
fino all’età adulta si ritrovano con
straordinaria chiarezza nelle poesie:
partecipazione sociale e politica,
attivismo poetico quasi da volontariato cattolico, una forte componente
colta, l’ironia e l’influenza del surrealismo. Ma si colgono anche le contraddizioni di una vita intensa e vissuta allo sbaraglio, risultati altalenanti e non sempre sinceri che lo
relegano alla condizione di beat
minore, se confrontato coi grandi
modelli del movimento (Ginsberg,
Burroughs, Kerouac), un complesso
di contraddizioni che non mancheremo di sottolineare.
Come un antico e itinerante rapsodo
dei primi millenni avanti Cristo, Ferlinghetti si muove in una dimensione
infranta del reale, e a lui soltanto sta
il dovere di ricomporla e consegnarla al mondo. Gli eventi di Troia rivivono in lui brucianti, ma è una Troia
in giacca e cravatta, in cadillac e
chewing-gum biascicati nei lunghi
viaggi sulle highway americane (In
un anno surrealista / di uomini sandwich e bagnanti / girasoli morti e
telefoni vivi / politicanti addestrati
con le fruste del partito / si esibivano
come al solito). Poeta che raccoglie
i cocci infranti del contemporaneo,
poeta politico e sociale, sì, ma non
poeta impegnato come potremmo
immaginarlo: in un clima di crescente attivismo politico, di impegno sociale, di consapevolezza e dovere,
quello del secondo dopoguerra, Ferlinghetti sceglie di non farsi cantore
di programmi partitici e proclami popolari, ponendosi sempre al di là
della mera contingenza momentanea. Non è un cronista, un cantore
dell’evento (entusiasta o critico che
sia: Ferlinghetti ha ben chiara la
neutralità politica del verso), è un
modellatore geometrico di materia,
in una parabola che parte sempre
dal momento terreno e arriva all’universale. È così che si inseriscono gli
elementi filtrati dalla vita attraverso
la propria pelle: la sublimazione poetica dall’hic et nunc all’infinitamente
grande - suggestivo a questo punto
il parallelo con una figura che
sembra creare grande suggestione
nel nostro poeta: san Francesco,
l’infinitamente piccolo -. E dunque
non stupiscano i frequentissimi
inserti biografici, che spesso si confondono, dal lirismo dell’io contingente, con una generale dimensione
del “noi” (quell’estate a Brooklyn /
quando bloccarono la strada / un
giorno afoso, e i / pompieri / aprirono
le sistole / e i ragazzi corsero nel
getto / in mezzo alla strada / ed eravamo / un paio di dozzine / là sotto
[…] mentre rivedo Molly / guardarmi
e / scappare in casa / perché credo
che in realtà noi due fossimo i soli
quel giorno), una gioiosa pagina del
proprio vissuto che si fa libro da
regalare per strada.
A contribuire alla parabola faticosamente cantata in una dimensione
caotica, rapsodica, dell’esistenza
come della poesia stessa, si inseriscono riferimenti colti, letterari, artistici e figurativi, frutto del passato
universitario di Ferlinghetti (che tra i
beat è cosa più unica che rara). Il
poeta newyorkese vede il mondo
attraverso infiniti veli colorati, lenti
ottiche continuamente cambiate per
correggere un’inesausta oscillazione della vista poetica: e dunque la
realtà è fatta di grandi scene di
Goya, il poeta versa un altro paio di
poesie / su un mondo alla Bosch e si
stende sulla spiaggia dell’amore / tra
mandolini di Picasso ricolmi di
sabbia (Goya, Bosch, Picasso, non
a caso; rispettivamente: il pittore
dell’angoscia turbinosa, del caos
infernale, della realtà scomposta e
riordinata nel disordine); e ancora il
confronto con grandi autori, del calibro di Dante e di John Keats,
sempre in visione ribaltata, non
come, non come, a modo suo (non
come Dante / che scopre una commedia / sul declivio dei cieli / io dipingerei un tipo diverso / di Paradiso /
dove gli uomini sarebbero nudi /
come sono sempre; e Non ho giaciuto con la bellezza tutta la mia vita
ripetendo continuamente a me
stesso / i suoi incanti più facili […] e
così sanno esattamente come / una
cosa bella è una gioia / per sempre e
per sempre / e come mai e poi mai /
si dissolve / in un nulla scialacquatore […] ho dormito con la bellezza /
nella mia strana maniera).
Proprio il ribaltamento dell’ordine
costituito, oltre a costituire un’ulteriore riaffermazione ossimorica del
ruolo del poeta come rapsodo, cucitore di caotici quadri in un disordine
cosmico, è uno dei perni fondamentali della poetica ferlinghettiana. Le
suggestioni giovanili di movimenti
come Dadaismo, Surrealismo e Cubismo lasciano nel poeta profondi
solchi, soprattutto l’esperienza surrealista (In un anno surrealista…).
Facile rivedere a questo punto echi
di immagini sociali alla Luis Buñuel
nelle poesie di Ferlinghetti, figure
parodiche, ribaltate, che si muovono
in un substrato riordinato in maniera
apparentemente
confusa
nella
mente del poeta, ma che godono di
una loro limpida coerenza interna,
un mondo sub-creato in cui sfilano
masse di oggetti e individui senza
connotati nel pieno di una danza
infernale e beata. In Ferlinghetti il
surrealismo si risolve in un super-realismo nel senso etimologico, al di
sopra della realtà: egli si pone su un
gradino più alto per osservare
meglio l’evento attirandolo contemporaneamente a sé attraverso le
proprie lenti colorate, a metà
dunque tra immedesimazione partecipata e distacco. Solo il paesaggio
è cambiato / sono ancora sparsi
lungo le strade / tormentate di legionari / falsi mulini a vento e folli galli
[…] la scena mostra meno carrette
di tortura / ma più cittadini menomati
/ in macchine colorate / con strane
targhe / e motori / che divorano
l’America, o ancora Il castello di
Kafka si erge sopra il mondo / come
un'ultima bastiglia […] Lassù / c'è un
tempo paradisiaco / Anime danzano
28
VOX ARENAE
svestite / insieme / e come fannulloni / ai margini di una fiera / occhieggiamo l'inottenibile / immaginato
mistero: il poeta sale per un lungo
momento estatico su un gradino più
alto dell’esistenza, per osservare,
tagliare, ricucire - un eterno sarto del
verso e della vita. Naturalissima,
tanto da far spallucce con aria innocente, balza a questo punto davanti
agli occhi la ricorrente metafora del
circo: il mondo infernale alla Bosch,
svuotato però di qualsiasi considerazione morale, si risolve in un ovvio
circense saltellio di anime tra una
poesia e l’altra (si esibivano come al
solito / negli anelli dei loro circhi segatura / dove acrobati e proiettili
umani / saturavano l'aria come fossero grida, o ancora: Mentre ancora
attorno al cerchio / galoppano gli
sbilenchi cammelli della lussuria / e
tutti noi clown alla Ememtt Kelly /
sempre a costruirci palcoscenici
immaginari).
Infine, l’ironia. Strumento di lettura
della realtà abituale della poesia novecentesca, ma poco frequentato
dai beat, quasi ne nutrissero una sospettosa diffidenza, Ferlinghetti ne
fa spesso uso, in diverse maniere:
da un lato si risolve in un ancestrale
sarcasmo amaro, un acetum italicum oraziano o ariostesco (Il mondo
è un bel posto / per esserci nati […]
Già / ma poi sul più bello / arriva sorridente / l’impresario di pompe funebri); altrove si traduce in una bonaria
ironia immaginativa, uno strumento
purissimo e sublimante del reale,
servo di quel surrealismo tanto caro
al poeta newyorkese (Eppure lontano attorno al lato opposto / come la
porta di servizio di un tendone da
circo / c'è uno spiraglio tra le merlature / dove anche gli elefanti / passano ballando il valzer); da ultima, non
per importanza, ma solo per frequenza, l’ironia è anche satira,
VOX ARENAE
29
un’arma sociale - non politica: per
quella c’è il ribaltamento e la sovversione -, e anche poetica (nel sonno
domenicale io vedo me stesso / sterminare peccatori e tacchini / cani
rumorosi con morti capezzoli
taglienti / e cavalieri neri in armature
di ferro / con etichette Brooks / e cerniere lampo Yale ai pantaloni / Sì / e
col mio pene eretto per lancia / stermino vecchie signore / facendole
giovani di nuovo).
Dietro alla perenne volontà di ribaltare il visibile, di tagliare e ricomporre, frutto delle istanze destrutturalizzanti dei movimenti artistici tanto
cari a Ferlinghetti, si cela una intensa volontà di rinnovamento, di superamento dei limiti e delle muraglie
imposte (l’immagine, proposta poco
fa, delle vecchie signore dell’alta
borghesia ringiovanite dall’irriverenza del poeta è eloquente). Tuttavia
questa nobilissima intenzione, per
altro condivisa dai propri colleghi fin
nel cuore pulsante della Beat Generation, non pare sempre sincera:
spesso anzi si nutre di contraddizioni troppo evidenti, come se in una
tensione titanica dell’atleta qualche
nervo fosse schizzato a fior di pelle
e rimasto lì, dolorante e rigido; e il
poeta ne esce tumefatto, dal confronto con altri colleghi come Ginsberg. Se infatti in Ferlinghetti si assiste ad un porsi al di sopra del reale
(super-realismo), che, comunque si
vedano le splendide angolazioni ferlinghettiane,
viene
comunque
sempre distorto a proprio piacimento senza significati profondi a supporto, e meramente ribaltato, non
penetrato a fondo, questa gratuità
d’immagine e di innalzamento - mai
altezzoso e borioso, si deve riconoscerlo - in poeti come Ginsberg non
è presente: anche i numerosi riferimenti religiosi e mistici sparsi lungo
le poesie di Ferlinghetti paiono
inserti posticci, un po’ colti e un po’
hippie, di facciata, poco motivati da
una profonda spiritualità di matrice
mistica - sincera ed autentica, come
testimoniato dalla biografia - come
quella di Ginsberg. Versi come La
illaha el ill Allah / il sitar soffia il soffio
dell’Atman in noi, apparentemente
così carichi di significati religiosi, si
risolvono in realtà in pure suggestioni: Ferlinghetti cade qui preda di
quella contingenza suggestiva che
aveva sempre rifuggito in vista di
una sublimazione universale. La generale leggerezza dei versi ferlinghettiani rivelano un’arte depauperata di grandi visioni e pugnalate
inferte al reale: i versi di Ginsberg,
più vicini alla metafisica, sono austeramente privi di ironia e leggerezza
circense - e questo da sé non avrebbe alcun peso nella considerazione
del poeta, in quanto mero dato stilistico -; a caricare i versi di Ginsberg
di una sensibilità ben più profonda e
densa è la pesantezza visionaria
con cui egli riesce a tagliare attraverso il reale per giungere al cuore
pulsante dello spirito. Ginsberg è la
realizzazione perfetta del programma Beat esposto all’inizio; Ferlinghetti è necessariamente relegato a
una posizione marginale, in quanto
grande uomo, ma dalla personalità
artistica più limitata, che tenta di crearsi una retta appuntita per trapassare il Mistero della realtà, ma gli
riesce soltanto un debole segmento
che ne penetra la superficie. Da un
lato dunque il mettersi al di sopra del
reale, quasi una dichiarazione di
impotenza nei confronti di esso;
dall’altro un porsi a specchio del
mondo. In Ferlinghetti si avverte un
perenne senso di distanza, anche
quando l’immedesimazione sembra
conclamata. Egli si pone davanti al
mondo e vi si specchia, di fronte, di
spalle, di profilo, in tutti i modi; poi vi
tira pugni, ne osserva i frammenti di
vetro cadere scompostamente per
terra, e infine li raccoglie e li ricompone convulso in grandi quadri, che,
volente o nolente, non saranno mai
un tentativo riuscito di sfondare il
vetro per vedere cosa si cela oltre
ad esso, ma un goffo, per quanto
artisticamente meraviglioso, sforzo
di ricomposizione di un mondo
infranto verso cui si nutre una sorta
di senso di colpa atavico. Come se
Ferlinghetti tirasse pugni e improperi
al primo individuo sotto tiro e poi se
ne scusasse: di lingua caustica e
d’animo gentilissimo.
Tutto questo costituisce la perfetta
epifania dell’artista indeciso, artisticamente interessante ma irrisolto:
una disputa con l’esistenza, come
ebbe a dire ragionevolmente Roberto Sanesi a proposito del poeta. E
nonostante tutto, Ferlinghetti rimane
una figura singolarmente curiosa nel
panorama poetico americano del
secondo dopoguerra: per la sua
sconfinata immaginazione; per la
sua funambolica abilità nel cambiare
occhiali di fronte al reale; per la sua
lucida e al tempo stesso caotica
visione del mondo; per la sua attività
fondamentale di organizzatore della
Beat Generation (la libreria-editrice
City Lights Books, il processo vittorioso in difesa di Urlo, il capolavoro
di Ginsberg); ma soprattutto, per la
sua inesausta voglia, quasi adolescenziale (che eterno bambino, Ferlinghetti), di svegliarsi e di risvegliare il pubblico da un torpore che con
l’uomo ha ben poco a che fare,
verso una dinamica evoluzione spirituale e artistica del poeta, riproposto
in extremis come guida dell’umanità:
Poeti, scendete per le strade del
mondo, ancora una volta.
[…]
Loro non hanno ancora innalzato
barricate,
le strade animate ancora con visi,
uomini e donne attraenti camminano
ancora qui,
dovunque ancora attraenti creature,
negli occhi di tutto il segreto di tutti
qui ancora sepolto,
i selvaggi figli di Whitman qui ancora
dormono,
si svegliano e camminano nell’aria
aperta.
Dall’intervista di Amy Goodman a Lawrence
Ferlinghetti per Democracy Now del 2007.
Dall’intervista di Heidi Benson a Lawrence
Ferlinghetti per il San Francisco Chronicles.
Tutte le citazioni di Ferlinghetti in questo paragrafo sono prese da una nota autobiografica dello
stesso F. L’annotazione della Pivano e le citazioni
dalle poesie di F. sono invece prese da LAWRENCE FERLINGHETTI, Poesie, Milano, Guanda,
1978.
Andrea Peverelli
30
VOX ARENAE
Tito Lucrezio Caro:
animus ed anima nel De rerum natura
I prodromi del poema lucreziano: l’atomismo di
Leucippo-Democrito e l’Epicureismo del “Giardino”
Sarebbe errato intraprendere una trattazione
pienamente scientifica delle dottrine trasposte da
Lucrezio negli esametri del De rerum natura, il primo
poema epico-didascalico latino, avente come oggetto la
materia fisica, trascurando l’antica sapienza cui egli
attinse. Questa “antica sapienza”, si faccia attenzione,
non proviene esclusivamente e solo da Epicuro, ma
anche da coloro a cui questi si ispirò: Democrito ed il suo
maestro Leucippo.
Di Leucippo ben poco sappiamo, tanto che spesso
si finisce col trascurarlo e con l’attribuire le sue proprie
conquiste al ben più noto discepolo, Democrito. Infatti,
non è da escludere che le opere di Leucippo siano state
assorbite da quelle del discepolo.
Per quel che riguarda quest’ultimo, possediamo
notizie biografiche assai dettagliate (e talora
fantastiche) di numerosi autori antichi, tra i quali
spiccano Aristotele, Cicerone, Apollodoro, Diodoro,
Eusebio, Strabone, Plinio. Non è questa la sede per
discutere sulla credibilità delle loro asserzioni riguardo
alla lunga vita del filosofo di Abdera, ma si può affermare
con sicurezza che nacque qualche lustro dopo il suo
maestro, attorno al 460 a.C.
È proprio lo stesso
Stagirita che ci ha consegnato un’esauriente analisi della
teoria atomistica nella sua opera La generazione e la
corruzione1, e quel che più sorprende è il fatto che egli
abbia individuato l’inscindibile legame tra la scuola
eleatica e l’atomismo (e, aggiungerei, come il sistema di
Leucippo-Democrito abbia tentato di dare una risposta
razionale “alle aporie suscitate dall’eleatismo, cercando
di salvare il principio di fondo dell’eleatismo medesimo,
senza rinnegare i fenomeni”2).
Sarà ora lecito chiedersi quali fossero le teorie dei
Presocratici che prima Leucippo, poi Democrito ed
infine, a più di un secolo di distanza, Epicuro, ebbero
premura di mettere in dubbio. E non un “dubbio
socratico” ante litteram, bensì una messa in discussione
volta a gettare le basi di una filosofia della natura
migliore e più vicina alla verità ultima delle cose (anche
VOX ARENAE
31
se tale fu solo per i pochi sostenitori, dal momento che
non solo non risolse le aporie eleatiche, ma addirittura
ne originò di più paradossali).
In particolare, Leucippo fondò il proprio pensiero
filosofico rovesciando in senso positivo le ipotesi
negative di Melisso. Si possono addurre due esempi a
dimostrazione di ciò.
In primo luogo, se il primo prosatore tra i
presocratici ammetteva la “piena” esistenza dell’Essere,
che è inalterabile, immobile, incorporeo e negava del
tutto l’esistenza del vuoto, che è non-essere, il maestro
di Democrito eliminò la contrapposizione dialettica
pieno-vuoto ed affermò la possibilità del movimento dei
suoi atomi proprio grazie al vuoto.
In secondo luogo, mentre Melisso tentava la
riduzione all’assurdo del pluralismo negando ai molti
l’eternità, che è prerogativa esclusiva dell’Essere (il
quale, si sa, è uno), Leucippo argutamente sostenne
l’esistenza dei molti, che, alla stregua dell’Uno
melissiano, possono essere eterni ed immutabili. E’
proprio in tal modo che nacque “l’ipotesi di una
molteplicità che, mantenendo identica la propria natura
qualitativamente indifferenziata, fosse ragion d’essere
della
molteplicità
fenomenica
qualitativamente
differenziata”3.
Si può così intuire come il sistema filosofico di
Leucippo-Democrito non sia del tutto originale, ma
muova sempre dall’inevitabile polemica con pensatori
anteriori o contemporanei e talora (come inevitabile)
faccia tesoro delle precedenti conquiste. Ad avvalorare
questa teoria v’è il fatto che proprio la definizione di
atomo implichi una modifica di quelli che per Empedocle
erano i quattro elementi eterni (fuoco, acqua, terra, aria)
e per Anassagora i semi infiniti ed infinitamente divisibili
(senza però arrivare al nulla), detti omeomerìe. Infatti, se
i due pluralisti asserivano che le qualità visibili di ciò che
percepiamo coi sensi derivano da differenze qualitative
degli elementi originari, i due fondatori dell’atomismo fan
scaturire “tutte le determinazioni qualitative fenomeniche
da determinazioni quantitative geometriche”4. Questa è
la basilare distinzione tra “qualità primarie” e “qualità
secondarie”, ossia tra le caratteristiche geometriche
degli atomi e le affezioni delle cose visibili.
La teoria di fondo degli Atomisti, come si è già
potuto capire, consiste nella convinzione che tutto sia
esclusivamente generato dagli atomi e dal movimento, il
quale risulterebbe impossibile in assenza del vuoto.
Ancora una volta, se Empedocle aveva parlato di Amore
ed Odio ed Anassagora di Intelligenza quali cause del
movimento, gli Atomisti non sentono di dover attribuire
l’origine del movimento a nient’altro se non al movimento
stesso: gli atomi sono per natura in perpetuo moto.
È pertanto da escludere che Democrito “il mondo a
caso pone”: il fatto che tutto avvenga per rigorosa
necessità esclude categoricamente la casualità e sprona
alla ricerca di una spiegazione causale della realtà
fenomenica. Che poi questa causa non fosse quella
finale sarebbe superfluo spiegarlo, dal momento che non
si può negare ciò che ancora non esiste. Si potrà però a
buon motivo affermare che l’impossibilità di un kòsmos
derivante dal chàos atomico sia stata il punto di partenza
per l’intuizione dell’esistenza dell’intellegibile, ossia per
le conquiste di Platone.
Infatti il determinismo meccanicistico di Leucippo e
Democrito, più che ricercare le cause del movimento
atomico (le quali sono invisibili ai sensi, quindi non
direttamente percepibili, ma solo postulabili), è volto ad
indagarne gli effetti. Si avrà così che il nascere è
provocato dall’incontro tra gli atomi che vorticosamente
si muovono nel vuoto, mentre il perire dalla loro
disgregazione. Inoltre le particelle, una volta separate,
ne incontreranno altre per formare nuovi composti: è
un’intuizione sorprendente, poiché la si ritrova simile
nella legge della conservazione della massa di Lavoisier,
secondo cui in natura “nulla si crea, nulla si distrugge,
tutto si trasforma”.
Gli Atomisti tutto spiegano con il movimento (degli
atomi) ed il vuoto. Per “tutto” si deve intendere non solo i
fenomeni naturali che cadono sotto i nostri sensi, ma
anche ciò che in certo modo trascende la percezione
sensoriale: l’anima e la conoscenza. Dato che tale
spinoso argomento sarà trattato in altra sede, basterà
qui accennare che “come ogni forma di meccanicismo,
così anche il pensiero atomistico rivela le sue
insufficienze soprattutto nella spiegazione degli
organismi”5, tra i quali primaria importanza ha l’uomo,
l’unico possessore di un’anima ed il solo capace di
conoscenza “metasensibile”.
Le conquiste di Leucippo e Democrito, se da un
lato furono riprese da Platone ed Aristotele a scopo
polemico, dall’altro furono riportate in auge da Epicuro, il
quale però si trovava a trasmettere la propria dottrina in
una società profondamente diversa rispetto a quella di
oltre un secolo prima. E’ questo un dato non trascurabile,
dal momento che i mutamenti introdotti dal fondatore del
Kèpos sono dovuti proprio ai cambiamenti avvenuti dopo
il tramonto della civiltà delle pòleis ed il denso diffondersi
della tenebra dell’ellenismo (ovviamente così era per i
Greci del IV secolo; oggi si attribuisce all’età di Filippo ed
Alessandro il giusto valore).
Dell’atomismo Epicuro ereditò non solo le originali
intuizioni, ma anche la base polemica del sistema
filosofico. Infatti, il metodo del rovesciamento in positivo
di tesi negative avversarie venne trasmessa da Leucippo
e Democrito al filosofo di Samo alla stregua di una
malattia ereditaria. Tuttavia, Epicuro non poteva portare
avanti l’anacronistica messa in discussione delle
32
VOX ARENAE
affermazioni dei Presocratici, come avevano fatto i suoi
“maestri”: la sua veemente critica è rivolta ad un suo
immediato antecessore, Platone, di cui ripudia la
cosiddetta “seconda navigazione”. Da qui nasce la totale
fiducia che il fondatore del Kèpos attribuisce alla
sensazione, ritenuta il più solido criterio di verità,
contrariamente ai ragionamenti (ossia le opinioni), che
possono cadere in errore.
Se questa è un’innovazione epicurea rispetto
all’atomismo, si può affermare che a distanziare
maggiormente i due sistemi filosofici sia la
predominanza dell’etica rispetto alla fisica (quindi la
subordinazione di quest’ultima alla prima) sostenuta da
Epicuro.
Per quel che riguarda la fisica, i principi di fondo
restano analoghi a quelli degli Atomisti. In primo luogo,
“nulla nasce dal non-essere”6 e nulla “si dissolve nel
nulla”7, ossia non esistono né creazione né distruzione.
In secondo luogo, esistono solamente i corpi ed il vuoto
e null’altro costituisce la realtà che cade sotto i nostri
sensi. In terzo luogo, tra i corpi ve ne sono di semplici ed
indivisibili: gli atomi, ancora una volta quantitativamente
(e non qualitativamente) differenti. Per di più, Epicuro
tenta di risolvere una delle maggiori aporìe
dell’Atomismo antico: come gli atomi, cadendo secondo
un moto che dovrebbe essere perpendicolare, possano
incontrarsi. Così il nostro filosofo introduce il concetto
della parènklisis, che Lucrezio traduce in latino con il
neologismo (nonché calco semantico) clinamen.
“Declinare… atomum perpaulum”8, dice Cicerone: ossia
l’atomo devia un poco dalla propria traiettoria, urtando
altri atomi e permettendo in tal modo la formazione dei
corpi composti. Tuttavia, “la più notevole delle
innovazioni che Epicuro introdusse nella fisica
atomistica”9 non fece altro che trasformare un’apparente
soluzione del problema introducendo una nuova e più
paradossale aporìa: se Democrito aveva attribuito agli
atomi un’intrinseca forza motrice, il Samio afferma che il
moto dipenda dalla gravità e dal peso. Ciò porta ad una
negazione di quella Necessità che era stata il
fondamento per la fisica non solo atomistica, ma anche
eleatica. E’ pertanto Epicuro, non Democrito, “che 'l
mondo a caso pone”.
Ancora l’Arpinate brillantemente intuì
brillantemente che l’innovazione epicurea era volta non
tanto ad introdurre una spiegazione logica e razionale
del “creato”, ma a gettare le basi su cui avrebbe poi
VOX ARENAE
33
innalzato il fragile monumento della sua etica10. Gli
appariva infatti impossibile (direi a buona ragione)
inserire la libertà della vita morale dell’uomo all’interno di
un universo rigidamente governato da un’immutabile
necessità.
In questa sede verrebbe naturale trattare della
concezione epicurea dell’anima, ma come sopra
accennato, ciò sarà fatto a tempo debito. E’ piuttosto
d’uopo analizzare il modo in cui Lucrezio, a ben due
secoli di distanza, abbia preso l’audace iniziativa di
tentare di diffondere il sistema filosofico di Epicuro in una
società che difficilmente lo avrebbe potuto recepire.
L’Epicureismo a Roma: Lucrezio,
un discepolo sui generis.
quoniam haec ratio plerumque videtur
tristior esse quibus non est tractata, retroque
vulgus abhorret ab hac, volui tibi suaviloquenti
carmine Pierio rationem exponere nostram
et quasi musaeo dulci contingere melle, …11
Mi sembra d’obbligo, a questo punto, gettare uno
sguardo sull’epoca in cui Lucrezio visse e, soprattutto,
sulla sua scelta (a dir poco eccezionale) di mettere in
versi una filosofia come l’epicureismo.
Il quadro politico della Roma del I secolo a.C.,
anche se diverso da quello della Grecia del IV secolo
a.C. (aggiungerei che le due civiltà, la greca e la romana,
sia politicamente che culturalmente ben poco ebbero in
comune), si presenta tuttavia come una serie ininterrotta
di turbolenze, che troverà termine unicamente con
l’ascesa al potere di Ottaviano Augusto.
Anche se incerte sono le notizie biografiche su
Lucrezio, possiamo tuttavia affermare che egli visse nel
pieno del secolo di crisi che vide profondi mutamenti
sotto ogni punto di vista (sociale, politico, culturale). Ed è
proprio questa situazione di instabilità che, come minò
l’identità di polites nei cittadini ateniesi del IV secolo, così
ora insidia il sentirsi cives del cittadino romano.
A questo punto sorge spontaneo un interrogativo:
sebbene filosofi greci, tra cui Fedro, maestro di
Cicerone, abbiano annunciato la “buona novella” in una
Roma sconvolta almeno quanto lo era stata Atene tre
secoli prima, come mai l’epicureismo non ha lasciato
traccia alcuna nella società romana? Vi sono diversi
motivi, che facilmente si possono evincere da una breve
e semplice analisi antropo-sociologica della Roma del I
secolo a.C. Innanzitutto, sebbene avesse alla sue spalle
circa 600 anni di storia, la civiltà latina all’epoca di
Lucrezio non aveva ancora terminato la sua fase di
“crescita”. Così, se nel mondo greco l’epicureismo fece
risuonare i primi vagiti in una fase di inesorabile declino,
a Roma ebbe un tentativo di approccio durante una crisi
transitoria, che non aveva minato alla base le tradizioni
di una civiltà che di lì a poco sarebbe divenuta un
impero. Inoltre, se nell’Atene dilaniata dalla guerra del
Peloponneso ed inglobata nel regno macedone
l’interesse politico era ormai estinto (la morte della polis
necessariamente portò a quella del polites), nella Roma
del I secolo a.C. era ancora vivissimo, dato che le guerre
scatenatesi tra Mario e Silla prima, Cesare e Pompeo
poi, Ottaviano Augusto e Marco Antonio infine furono
proprio guerre civili. Orbene in questo contesto, in una
società nella quale le tradizioni ed il senso di
appartenenza al corpo civile erano più forti che mai,
come avrebbe potuto attecchire una filosofia che ha
come principio di base un “otium” possibile solo grazie
ad una vita appartata, lontana dalle vicende mondane,
priva dei turbamenti derivanti dagli impegni politici,
dedita unicamente alla ricerca del piacere tramite il
soddisfacimento dei bisogni primari? E’ proprio
l’Arpinate, contemporaneo di Lucrezio, ad avvalorare
questa tesi: l’homo politicus ha come dovere morale
l’impegno civile, l’unico che possa renderlo davvero
dignus. Se poi si aggiunge il fatto che la concezione
epicurea di ciò che il nostro poeta chiama religio è
antitetica rispetto a quella della tradizione dell’inviolabile
mos maiorum, risulta chiarissimo il totale rigetto del
“vangelo” di Epicuro da parte della civiltà latina.
Non sorprenderà dunque notare che in tutta la
letteratura latina Epicuro sarà sempre citato unicamente
a scopo polemico e che solo Lucrezio ed Amafino, per di
più scrittore di infimo valore (sempre secondo Cicerone),
osarono esaltare la dottrina del filosofo di Samo.
Sorprenderà invece notare come il suo più noto
discepolo nel mondo latino, Tito Lucrezio Caro, abbia
audacemente scelto di esporre la dottrina del suo
maestro, il Prometeo moderno, l’eroe e salvatore
dell’umanità, Epicuro (oserei dire un Messia ante
litteram) utilizzando la forma poetica e non quella
prosaica.
In questa sede non posso che rifarmi ad un felice
passaggio di Pierre Boyancé: “[…] non ci troviamo solo
in un’epoca in cui era normalmente la prosa la lingua
della filosofia; non ci troviamo solo di fronte a un sistema
che può sembrare particolarmente prosaico, che […]
bandisce dall’universo la vita e la tragedia delle divinità
[…]. Ma esiste una difficoltà in più, dovuta alle idee
personali di Epicuro a proposito della poesia […].
Epicuro non amava la poesia.”12
L’avversione di Epicuro nei riguardi della poesia
risulta tanto più forte quanto più si pensa che la poesia
da lui intesa è soprattutto quella di stampo omerico, così
inscindibilmente connessa al mito, che a sua volta è
fondamentale per la religione tradizionale (un vero
monstrum agli occhi del nostro filosofo). Detto questo, il
De rerum natura potrebbe apparire come un affronto
all’ortodossia dell’epicureismo originale. Tuttavia ci sono
diversi elementi che negano l’ipotesi di un’eretica
temerarietà da parte di Lucrezio e lo fanno assurgere, a
tutti gli effetti, tra i più arditi sostenitori dell’epicureismo e
tra i più ferventi amanti del Maestro.
Infatti l’ “evangelista” di Epicuro non solo ama la
poesia sia greca (torneremo più in là sulla sua
ammirazione per Empedocle, il primo filosofo-poeta) che
latina (esalta Ennio come l’ “Omero latino”), ma è
orgoglioso di aggiungere alla poesia un nuovo attributo:
la chiarezza, il più alto risultato del Musaeus lepos di cui
si adorna la poesia. Questo smisurato orgoglio trova
ampia esposizione nel primo capitolo del poema
didascalico in analisi, lo stesso capitolo in cui ha sede la
famosissima invocazione a Venere, che per Lucrezio
non incarna la Natura, ma il piacere, ossia il principio che
34
VOX ARENAE
fa muovere l’immenso meccanismo della natura grazie
alla riproduzione. Pertanto, Venere deve assistere il
poeta nella sua missione conferendo ai suoi versi quello
stesso lepos che porta alla perpetuazione della specie,
alla vita. Citando ancora una volta il Boyancé, la cui
trattazione al riguardo mi è sembrata la più pertinente :
“[…] la poetica di Lucrezio si fonda sul principio
fondamentale della teoria epicurea della vita. Quel
mondo in miniatura che è il poema obbedirà alla legge
del mondo”13.
Non solo voluptas, ma anche claritas. Infatti è
proprio grazie a questo secondo attributo della poesia
“lucrezianamente” intesa che si può definire il De rerum
natura un poema didascalico a tutti gli effetti. E’ questo
un fatto per nulla sorprendente, se si pensa che, da
fedele discepolo quale voleva essere, Lucrezio ebbe
necessariamente la stessa concezione della filosofia
teorizzata dal maestro: veicolare un salvifico e,
soprattutto, veritiero messaggio morale.
L’originalità e, oserei dire, la genialità di Lucrezio,
risultano evidenti proprio nell’aver saputo avvolgere il
concreto materialismo epicureo con una veste poetica la
cui leggera grazia e le cui icastiche, quasi tangibili
immagini ben si confanno al messaggio veicolato. La
poesia del nostro autore è ben lungi dalla poesia
(mitologica) contro cui Epicuro muoveva le proprie
accuse di essere foriera di turbamenti e falsità14: è
poesia (come già accennato) didattica, ove per
“didattica” si deve intendere la volontà di condurre il
lettore all’unica verità (quella della dottrina epicurea) con
uno stile chiaro ed immediato, privo di qualsiasi
ambiguità
ed
eccesso
di
retorica,
ma
sorprendentemente lontano dal rischio di cadere nel
prosaico.
Sono convinta che anche l’attacco di Lucrezio
contro Eraclito (contenuto nel libro I del De rerum natura
ai versi 635-711) possa essere letto come una sorta di
dichiarazione poetica: ciò che il poeta latino vuole evitare
è proprio l’obscuritas del filosofo presocratico, poiché “in
questo genere di scrittura vaga e pomposa, il contenuto
è sacrificato in favore del puro effetto verbale”15.
VOX ARENAE
35
Ritroviamo qui una concezione affine a quella
aristotelica: è proprio lo Stagirita a citare Empedocle
come l’emblema del poeta che, non avendo alcunché da
dire, cerca di sopperire all’inconsistenza del pensiero
con un linguaggio ambiguo ed oscuro16. Tuttavia, non
bisogna cedere alla tentazione di instaurare un confronto
alla pari tra Eraclito e Lucrezio. Infatti, l’Efesino era
ancora tutto pervaso dallo “spirito dionisiaco” del popolo
greco (per dirlo con termini nietzschiani) proprio
dell’epoca anteriore all’intellettualismo socratico: ciò lo
rendeva una sorta di mantis, le cui sentenze erano
dettate dal divino invasamento e per questo
incomprensibili, ma, al contempo, dotate del fascino che
solo il sublime ha. Il nostro poeta invece è costretto da
un duplice vincolo: quello nei confronti della filosofia
epicurea, i cui principi non può e non vuole tradire, e
quello nei confronti dello strato sociale cui il poema deve
giungere: quello che, pur avendo accettato la cultura
ellenica, ha ancora la forma mentis concreta e
pragmatica tipica della discendenza di Romolo. Inoltre
(se mi è lecito utilizzare termini cristiani), Eraclito è egli
stesso il Messia, la voce del divino, cui il tono oracolare
è quasi d’obbligo; Lucrezio invece è un evangelista che,
a due secoli dalla morte del maestro, sente il dovere
morale di diffonderne le salvifiche dottrine. Eppure,
nonostante la distanza cronologica e culturale che
separa il poeta latino dall’Efesino, nonostante
l’avversione nei confronti di Eraclito che Lucrezio ha
ereditato dagli atomisti, è inevitabile notare come lo stile
oscuro del presocratico eserciti il suo fascino sul
discepolo di Epicuro, dal momento che “i suoi versi
salvifici nascono anche dal furor e dall’invasamento,
riflettono la divina voluptas e l’horror dell’animo che
trasale alla vista degli infiniti orizzonti disvelati dalla
scienza epicurea”17. Non solo: pur facendosi il portavoce
della serenità raggiungibile tramite il tetrapharmakon,
Lucrezio ha screziato di tenebra e moti ondosi quella
luminosa e placida distesa che dovrebbe essere il
saggio una volta raggiunta l’atarassia. Tutto il poema è
percorso da una sottile malinconia che obnubila di intimo
lirismo la “filosofia dell’oggettivo”.
Nonostante ciò, l’autore del De rerum natura è a
tutti gli effetti un poeta appartenente alla tradizione
antica, ovvero il suo ruolo è quello di docere (da qui la
nozione di “poesia didattica”) e non quello di suscitare
sconvolgimento emotivo tramite il prepotente rigurgito
della propria marcata sensibilità. Ed è appunto per
questo che è alquanto difficile “comprendere cosa
appartenga alla filosofia e cosa alla mente del poeta”18.
Personalmente, non ritengo sia del tutto scorretto
affermare che, sebbene le dottrine professate da
Lucrezio nel suo poema non siano originali, tuttavia il
modo in cui vengono espresse sia addirittura più efficace
di quello del maestro. A questo proposito non potrei
addurre miglior spiegazione di quella elegantemente
cantata dal nostro poeta: il pharmakon somministrato
dalla filosofia di Epicuro ha un sapore troppo amaro per
chi deve assumerlo per la prima volta; così il lepos della
veste poetica funge da miele con cui “medentes […] oras
pocula circum contingunt”19 affinché la medicina sia
edulcorata. Questa immagine “presuppone un’alquanto
primitiva dottrina di forma e contenuto: infatti implica che
lo stile sia qualcosa che viene steso sul messaggio del
poema per renderlo accettabile ad orecchie riluttanti o
recalcitranti”20.
Si pone ora il problema del linguaggio lucreziano,
ossia in che modo il poeta in analisi riuscì ad ovviare alle
difficoltà poste dalla povertà della sua lingua. Egli
stesso, in I.136-139, dimostra di essere ben
consapevole dell’inadeguatezza della terminologia
tecnica (per quanto concerne la filosofia) del latino, ma,
quasi paradossalmente, in tutto il poema non lo si trova
mai in difficoltà nell’esprimere concetti alquanto
complessi rendendoli facilmente intellegibili.
Il sopra citato Arpinate, in un passaggio del De
oratore, fornisce un’esauriente trattazione riguardo agli
“espedienti” utili a superare elegantemente la povertà
del linguaggio: utilizzare arcaismi, neologismi,
metafore21. Si faccia però attenzione: nella maggior parte
dei casi, il neologismo (novatum) non è una parola
creata appositamente per adempiere ad una specifica
funzione semantica, ma un vocabolo greco “introdotto
nella lingua latina per la prima volta”22.
Così, dal poema dedicato al pensiero dell’eroico
Graius homo che risollevò l’umanità dalla vischiosa
melma della superstitio, è naturale aspettarsi
un’adeguata ricchezza di grecismi. Tuttavia si tratta di
ricchezza, non di sovrabbondanza, e (come suggerisce
lo stesso Cicerone) Lucrezio non è avaro di icastiche
metafore. Sono proprio queste ultime che il nostro poeta
utilizza nei passaggi più filosoficamente densi (in
particolare per chiarire un nuovo concetto o termine), e
non prestiti dal greco, calchi semantici, neologismi.
Come afferma il Dalzell: “sembra, in sostanza, che
Lucrezio né abbia preso in prestito parole greche per
creare un vocabolario filosofico, né abbia fatto un
consistente uso di formazioni latine basate sul greco”23.
Da ciò (ma soprattutto dalla lettura del De rerum natura)
si evince (e si nota) che i termini greci sono utilizzati per
colmare alcune lacune del latino in specifici ambiti, come
la medicina o il teatro, per motivi eufonici, o addirittura
per creare un effetto esotico o ironico. A sostegno di
questa tesi concorre anche il fatto che le nozioni
maggiormente tecniche del linguaggio epicureo non
trovano un corrispondente calco semantico o prestito in
Lucrezio, bensì vengono trasposte in perifrasi poetiche
(aggiungerei, se mi è lecito, di maggior effetto rispetto al
puro tecnicismo filosofico).
Nelle sezioni strettamente filosofiche del suo
lavoro, il nostro poeta assai di rado creò nuovi termini
latini o prese in prestito lessemi dal greco. I neologismi
che troviamo nel poema sono stati introdotti soprattutto
per assecondare la struttura poetica, non per tradurre
concetti della filosofia epicurea: di ciò avremo
36
VOX ARENAE
testimonianza nell’analisi del terzo capitolo del De rerum
natura, l’apice ideale dell’intero poema, che, in ultima
istanza, risulta essere “uno dei più sperimentali ed
innovativi poemi in lingua latina”24.
Il III libro del De rerum natura: animus ed anima
nella concezione epicureo-lucreziana
Nell’economia del poema lucreziano, il terzo libro
rappresenta assieme l’apice ideologico ed il punto più
drammaticamente umano della trattazione. Ponendolo a
confronto con i primi due, di carattere prettamente fisico,
dal momento che trattano, rispettivamente, della natura
degli atomi e della teoria del clinamen (la “deviazione” di
traiettoria degli atomi, grazie alla quale è possibile la loro
aggregazione ed in virtù della quale all’uomo è concesso
il libero arbitrio), si potrà immediatamente notare come
diverso sia l’andamento stilistico dell’argomentazione.
Infatti, se il procedimento di esposizione delle dottrine
epicuree e di confutazione di quelle avversarie, nei libri
dedicati alla phisiologia, è chiaro, lineare, sereno, oserei
composti, è dal poeta rivolta non solo al lettore, ma in
primo luogo a sé stesso. Così, dai 1094 densissimi versi
che costituiscono il III libro del poema trapela la costante
tensione tra ciò che l’uomo più desidera, l’immortalità, e
ciò che deve essere, l’eterno oblio del sé dopo la morte.
Come nota il Barra25, “di fronte al mistero dell’anima
umana, il poeta rileva quanto c’è in essa di fragile, di
contingente, di caduco […] Il suo cuore di poeta e la sua
sofferenza di individuo lo portano a discendere
ulteriormente da questi templi [scil. i templa serena del II
libro del De rerum natura] per […] farsi partecipe della
tragedia che involge i suoi simili”. Inoltre, la trattazione
del libro in questione lascia trasparire tutta l’impazienza
di raggiungere la meta finale che coglie il poeta sin dai
primi versi e si fa fortissima nella seconda parte del libro,
ossia quella concernente la dimostrazione della mortalità
dell’animus e dell’anima.
All’anima umana Lucrezio già aveva fatto accenno
nel proemio primo libro del suo poema. I versi di
riferimento sono i seguenti:
dire scientifico, nel III libro esso si fa serrato, soffocante,
tormentato, al punto che potrebbe sembrare quasi
impoetico rispetto all’ampio ed arioso distendersi dei
precedenti versi
Sebbene il brusco cambiamento di toni appaia
sorprendente, al punto che alcuni filologi in passato
ignoratur enim quae sit natura animai 26,
nata sit, an contra nascentibus insinuetur,
et simul intereat nobiscum morte dirempta,
an tenebris Orci visat vastasque lacunas,
an pecudes alias divinitus insinuet se…27
hanno ipotizzato una diversa collocazione del libro in
questione, tuttavia esso ben si confà all’argomento
trattato: la composizione atomica dell’animo umano, la
sua necessaria mortalità e la conseguente confutazione
dell’infondato timor mortis che da sempre attanaglia
l’uomo e sempre lo stringerà nella sua morsa. Ora, al
Lucrezio fedele discepolo di Epicuro e dei suoi ideali di
aponìa, apatìa, atarassìa, si sostituisce un Lucrezio del
tutto umano: la dimostrazione che l’animo, la substantia
che rende l’uomo tale, è destinato a perire in quanto
elemento di natura costituito di atomi che
necessariamente si separeranno per formare altri
VOX ARENAE
37
Nella parte centrale della trattazione della religio
intesa come superstitio, che l’Epicuro-eroe riuscì ad
abbattere come Eracle fece con le porte dell’Orco,
Lucrezio pone il controverso problema sulla natura e
provenienza di quella ineffabile sostanza che tutto il
nostro essere pervade. A dissipare la fitta cortina
d’ignoranza che impedisce all’uomo uno sguardo che
penetri la profondità delle cose sarà ovviamente Epicuro:
l’anima non è innata né tanto meno imperitura, bensì è
formata dall’unione di atomi piccolissimi, lisci e sottili, i
quali casualmente si sono aggregati e casualmente si
dissolveranno, senza lasciare traccia alcuna del
composto che furono né premonizione di quello che
saranno.
Più il là, sempre nel proemio del primo libro,
troviamo il primo accenno della distinzione tra animus ed
anima, che sarà poi ampiamente e con impeccabile
rigore argomentativo delineata nel III libro:
…tunc cum primis ratione sagaci
unde anima atque animi constet natura uidendum28
Così, già al principio del De rerum Natura, è
chiaramente e con urgenza dichiarato quale sarà l’ideale
punto di arrivo dell’intera trattazione: la puntuale
definizione della natura delle due sostanze al
fondamentale scopo, sebbene non sia ancora
palesemente accennato, di dimostrare che infondata è la
paura degli orrori che attendono l’uomo dopo la morte
del solo corpo. È davvero mirabile inoltre, come si evince
dai due estratti sopra riportati, che la specificazione
terminologica si adatti alla sede in cui i lemmi vengono
impiegati: con ciò intendo dire che, prima del III libro, il
significato di animus ed anima resta ancora
(apparentemente) quello ambiguo che caratterizzò tutta
la precedente poesia latina arcaica, con la sola
eccezione di Accio (sebbene anche questa resti in un
alone di incertezza). Ritengo che non sia una scelta
casuale, bensì dettata da precise motivazioni che vanno
fatte risalire alla natura didascalica del poema: Lucrezio,
da buon precettore, vuole porsi sullo stesso piano dei
suoi discepoli, percorrendo assieme ad essi l’impervio
cammino della conoscenza ed assieme ad essi
conquistando poco alla volta le verità dis-velate da
Epicuro. In altre parole, Lucrezio è una sorta di
Virgilio dantesco ante litteram, ma con una missione
opposta: mostrare non i tormenti infernali e le
paradisiache gioie, bensì la totale inesistenza dell’aldilà.
Questo è dunque l’argomento che, come un fiume
sotterraneo, scorre latente per tutto il libro dedicato ad
animus ed anima, divenendo poi risorgiva nei versi finali
volti all’annichilimento del timor mortis. Tuttavia, ciò che
preme specificare nell’attuale sede è cosa Lucrezio
voglia significare col lemma animus e cosa, invece, con
anima. A questo scopo, tutto il necessario è fornito dal
testo stesso del De rerum natura che, come sopra
accennato, si contraddistingue per la claritas
argomentativa. In particolare, dopo il proemio, i versi
94-135 sono volti a dimostrare che l’animus e l’anima
non sono incorporei, ma una parte del corpo, come una
mano, un piede, un occhio. Inoltre, come un arto
dolorante non influenza un arto sano, così spesso
l’animo può essere colto da afflizione sebbene il corpo
sia in salute e viceversa. Oltre a ciò, il poeta accenna ad
una prima distinzione tra animus ed anima, ben visibile
nei loci di seguito riportati:.
a)
Primum animum dico, mentem quam saepe vocamus,
in quo consilium vitae regimenque locatum est,
esse hominis partem nilo minus ac manus et pes29
b)
nunc animam quoque ut in membris cognoscere possis
esse neque harmonia corpus sentire solere,
principio fit uti detracto corpore multo
saepe tamen nobis in membris vita moretur;
atque eadem rursum, cum corpora pauca caloris
diffugere forasque per os est editus aer,
deserit extemplo venas atque ossa relinquit30
Appare evidente come l’animus sia associato alla
mens, in cui risiede il consilium, ossia la facoltà del
discernimento, del raziocinio, mentre l’anima sia
paragonata alla vita che pervade il corpo tutto e che
viene esalata qual refolo d’aria nel momento in cui si
spira. Sebbene i due termini sembrino serbare
l’originario significato che ad essi fu conferito dai poeti
38
VOX ARENAE
sopra analizzati, si riscontra tuttavia la prima grande
differenza con la tradizione a cui Lucrezio poteva
attingere: animus ed anima non sono incorporei, bensì
materiali. La seconda, ancor più rilevante, è collocata
pochi versi dopo:
Nunc animum atque animam dico coniuncta teneri
inter se atque unam naturam conficere ex se,
sed caput esse quasi et dominari in corpore toto
[…]
Idque situm media regione in pectoris haeret.
[…]
Cetera pars animae per totum dissita corpus
paret et ad numen mentis momenque movetur.
Idque sibi solum per se sapit, <id> sibi gaudet,
cum neque res animam neque corpus commovet
una31”.
Animus ed anima non sono dunque due sostanze
distinte, ma “strettamente legate tra loro e costituenti una
sola natura32”. Esse si distinguono principalmente per
l’ubicazione: l’animus ha sede nel petto33, l’anima è
presente in tutto il corpo. Date le funzioni attribuite alle
due componenti della medesima natura, ossia il
pensiero e la forza vivificatrice, si potrebbe cadere
nell’errore di intendere animus come traduzione latina
del termine greco νοῦς ed anima di ψυχή. Bisogna infatti
tener conto di quanto il filosofo e dossografo Aezio dice
riguardo ad un passo della Lettera ad Erodoto di
Epicuro34,
a
dimostrazione
che
l’opposizione
animus-anima corrisponde in greco a quella τὸ λογικὸν-τ
ὸ ἄλογον, due aggettivi sostantivati. Pertanto, la
distinzione non sarebbe tra facoltà di pensiero e facoltà
di sensazione, ma tra il razionale e l’irrazionale.
Così l’animus, che sino a questo momento era stato ora
sede del sentimento e delle emozioni, ora organo
predisposto al pensiero ed alla volontà, ora sinonimo di
VOX ARENAE
39
indole
caratteriale,
assume,
grazie
alla
sistematizzazione lucreziana, un significato tanto vasto
da abbracciare tutte queste proprietà e, addirittura, da
renderlo superiore rispetto all’anima (proprio come τὸ
λογικὸν è superiore a τὸ ἄλογον). Inoltre, da quanto si
evince leggendo l’ultima coppia di versi sopra riportati,
l’animus opera in modo del tutto indipendente dall’anima
e dal corpus35.
Come fa notare il Pizzani36, ad una prima lettura
comparata degli scritti di Epicuro e del De rerum natura,
maestro e discepolo sembrerebbero operare scelte
lessicali diverse: il primo farebbe riferimento, coi due
neutri sostantivati, a due facoltà di un solo organo, il
secondo invece, coi due sostantivi distinti per genere, a
due diverse sostanze. Tuttavia, così non è: Epicuro
impiegava un solo termine per indicare il concetto di
anima, ovvero ψυχή. Questa si compone poi di due parti,
l’una razionale-emotiva e l’altra irrazionale-istintiva. In
Lucrezio accade la medesima cosa: l’animus-mens è un
aspetto dell’anima in senso lato, la quale è, per così dire,
completata dalla “cetera pars animai37”, ossia l’anima
irrazionale impiegata in senso distintivo rispetto
all’animus.
Dopo aver ribadito la corporeità dell’animus,
Lucrezio descrive la materia di cui tale sostanza è
formata: corpuscoli piccolissimi, oltremodo sottili, che si
muovono velocissimi alla stregua della rapidità con cui
l’intelletto pensa. Tali corpora o semina (termini con cui il
poeta trasla il greco ἄτομα) sono per di più leggerissimi:
lo si comprende dal fatto che il corpo di un uomo morto
non subisce alcun mutamento né nell’aspetto, né nel
peso38. La materia che forma l’animo, inoltre, è costituita
di tre elementi, vento, calore ed aria (dal momento che
“vapor porro trahit aera secum39”), ai quali si aggiunge
una quarta natura che non ha nome, ma è costituita da
particelle più mobili, sottili, levigate e piccole delle altre
ed è predisposta alla diffusione dei moti sensitivi nelle
membra40.
A questo punto, il poeta sente l’urgenza di definire
con esattezza quale sia il rapporto tra anima e corpus.
L’ampia sezione, che consta di quasi un centinaio di
versi (versi 323-416), pone la nozione fondamentale sin
dal principio:
Haec igitur natura tenetur corporea b omni
ipsaque corporis est custos et causa salutis;
nam communibus inter se radicibus haerent
nec sine pernicie divelli posse videntur41.
L’anima-organo sensoriale è contenuta nel corpo
ed è causa e custode della sua salute; inoltre, è ad esso
strettamente legata, dal momento che le particelle
corporee e quelle “spirituali” sono tra di loro intrecciate
sin dal principio della vita. La trattazione prosegue con la
dimostrazione che né il corpo né tanto meno l’anima
possono sussistere di per sé, indipendentemente l’uno
dall’altra, e con la confutazione della teoria, attribuita a
Democrito, per cui nell’essere vivente si alternerebbero
atomi corporei e spirituali in modo alquanto
semplicistico. In tutto ciò, qual è il ruolo dell’animus? Nei
versi 396 e seguenti, Lucrezio afferma che l’anima non
sussiste senza l’animus, dal momento che c’è vita finché
questo è intatto. Così l’anima “si riduce alla diffusione in
tutto il corpo degli atomi psichici, diffusione grazie alla
quale può irradiarsi ovunque l’azione centrale
dell’animus.
E
scorgiamo
qui
la
conferma
dell’importanza decisiva che ha la localizzazione nella
distinzione delle componenti42”.
Rispetto alla differenziazione tra animus ed anima,
che si verifica unicamente sul piano delle funzioni, a
Lucrezio sembra premere di più addurre prove della loro
corporeità e, di conseguenza, mortalità. Queste ultime
sono ben ventuno e si dilatano dal verso 417 al verso
829, occupando la sezione di gran lunga più consistente
del III libro. Tutte le prove, dato lo scopo principale del
De rerum natura, ossia quello di veicolare in ambiente
romano la fisica epicurea, si rifanno a fenomeni
naturali43. Nell’economia della presente trattazione,
fondamentali risultano i versi d’esordio della sezione:
Tu fac utrumque uno sub iungas nomine eorum,
atque animam verbi causa cum dicere pergam,
mortalem esse docens, animum quoque dicere credas,
quatenus est unus inter se coniuntaque res est44.
Da questo momento, poiché entrambi corporei e
mortali, animus ed anima saranno indifferentemente
riuniti sotto il generico anima: il poeta semplifica il lessico
per meglio fissare quello che è per lui, così come lo fu
per il maestro, il fine supremo della filosofia: eliminare
nell’uomo ogni timore foriero di turbamento, in primis
quello della Acherusia vita45 che, dopo la morte, attende
l’uomo coi suoi tormenti.
Nel riunire le due parti spirituali presenti nell’uomo,
l’una, razionale, predisposta al pensiero ed all’emotività,
l’altra, irrazionale, predisposta alla sensazione, sotto il
nome comune di anima, Lucrezio ha conferito al termine
il significato molteplice e vastissimo che ancor oggi è
presente nel nostro lessico. Senza trascurare il fatto che,
tanto nella lingua parlata quanto in quella letteraria,
l’impiego di “animo” ed “anima” appare essere
semanticamente identico. Tuttavia, l’idea ossimorica
della corporeità della parte spirituale dell’uomo non fu
ben accetta già ai tempi di Lucrezio e sempre meno lo
divenne con l’avvento del cristianesimo, dal momento
che esso, se privato della sua componente ultraterrena,
non avrebbe più potuto sussistere.
In sintesi dunque, se per quanto riguarda le
funzioni dell’anima si è mantenuta la concezione
lucreziana, per quanto invece concerne la sua natura
40
VOX ARENAE
l’idea della materialità è stata occultata da quella
dell’incorporeità, forse anche per assecondare
l’inestinguibile sete d’eterno insita nell’uomo.
(Footnotes)
1
A8, 324b 35sgg. (=Diels-Kranz, 67 A7).
2
Cfr. Reale 1987, p. 172.
3
Cfr. Reale 1987, p. 175.
4
Cfr. Reale 1987, p. 177.
5
Cfr. Reale 1987, p. 181.
6
Epic. ad Herod., 38.
7
Epic. ad Herod , 39.
8
Cic. fin., 1, 19.
9
Cfr. Reale 1989, p. 208.
10
Cic. fat. 22 sg.
11
Lucr. I, vv. 943-947.
12
Boyancé 1985, pag. 69.
13
Boyancé 1985, pag. 79.
14
Sebbene tale idea sia affine a quella espressa dal Giancotti, non oserei
arguire che l’ostilità di Epicuro fosse rivolta unicamente alla poesia
mitologica, dal momento che la scarsità delle fonti al riguardo non permette di
propendere in toto per le controverse asserzioni dello studioso.
15
Dalzell 1986, pag. 38. Tutte le citazioni del Dalzell qui riportate sono
state da me tradotte.
16
Arist. rhet. 3.5.4 (= 1407 a).
17
Piazzi 2005, pag. 38.
18
Dalzell 1986, pag. 43.
19
Lucr. I, vv. 936-937.
20
Dalzell 1986, pag. 72.
21
Cic. or., 3.152.
22
Dalzell 1986, pag. 81.
23
Dalzell 1986, pag. 87.
24
Dalzell 1986, pag. 88.
25
Barra 1953, pagg. 109-110.
VOX ARENAE
41
26
Da animai, genitivo singolare del sostantivo femminile di prima
declinazione anima. L’utilizzo dell’originaria terminazione in –i, che nel I
secolo a.C. era già divenuta un arcaismo, è funzionale a conferire maggior
rilevanza al termine nell’economia del discorso, adornandolo di un’aura di
sacra solennità.
27
Lucr. I, vv. 112-116.
28
Lucr. I, vv. 130-131.
29
Lucr. III, vv. 94-96.
30
Lucr III, vv. 117-123.
31
Lucr. III, vv. 136-146
32
Traduzione da me effettuata.
33
A questo proposito, cfr. Cic. Tusc. 1,9,19 alii in corde, alii in cerebro
dixerunt animi esse sedem et locum.
34
Cfr. Aet. IV,4,6, 390 D e Epicur. Epist. ad Herod. 66.
35
Più oltre, ai versi 152-160, è affermata l’influenza delle affezioni
dell’animus su anima e corpus, con una descrizione sintomatologica del terror
animi che trovo analoga a quella operata dalla poetessa di Lesbo, Saffo, nella
sua celeberrima sintomatologia dell’amore (fr. 31 Voigt) poi traslitterata in
latino dal poeta novus Catullo.
36
Pizzani 1979, p. 245.
37
Cfr. Lucr. III, v. 150. Ritengo, a questo punto, che l’impiego della
desinenza arcaica per il genitivo singolare del lemma anima sia funzionale a
distinguere l’anima in senso lato dall’anima in senso stretto.
38
Cfr. Lucr. III, vv. 208-215.
39
Cfr. Lucr. III, v. 233.
40
Cfr. Lucr. III, vv. 241-245.
41
Lucr. III, vv. 323-326.
42
Boyancé 1985, pag. 173.
43
Per questa sezione, cfr. Bailey 1921, pp. 1061-1131.
44
Lucr. III, vv. 421.424.
45
Cfr. Lucr. III, v. 1023.
.
Cristiana Lucidi
42
VOX ARENAE
VOX ARENAE
Ermeneutica Testuale
commenti ad alcune poesie dei gladiatori
Un beat che per poco non scrive in aramaico
Inquadramento generale della poetica
e breve analisi di “Bismillah” di Andrea Peverelli
44
pag.
VOX ARENAE
45
Un beat che per poco non scrive in aramaico
Inquadramento generale della poetica
e breve analisi di “Bismillah” di Andrea Peverelli
Nonostante la densa espressività ipersperimentale,
l'influenza della modernità novecentesca (soprattutto
quella beat americana e surrealista) più eclettica e una
vocazione mistica sia congenita che orgogliosamente
esercitata -tratti evidenti tanto al lettore celere e
approssimativo quanto a quello più riflessivo e rigorosole poesie di Andrea Peverelli non si pongono mai
l'obiettivo di scalfire ogni fondamento di senso, né, a ben
vedere, quello di una destrutturazione/ristrutturazione
eversiva o perturbante di ordine teologico, filosofico od
artistico del reale.
Il motore alla base del meccanismo della sua scrittura in
versi è una religiosità nomade, trans-etnica, sincretista e
metastorica, parallela ma non speculare al dato brado
lampante della sua fede cattolica.
Questo è già materiale sufficiente per constatare
l'impossibilità, nel discorso dell'autore, di abolire o
svalutare ogni accezione, ogni sfaccettatura di un logos
che non solo deve continuare a esserci e a essere
principio, ma in quanto tale deve proseguire, perseguire
e comunicare tutti gli attributi di grandezza e bellezza
dogmatica della divinità. Ci spingiamo ancora più in là
per allegare subito un ulteriore corollario: quanto, cioè, a
nostro avviso, sarebbe scorretto sconnettere il tessuto
poetico dell'opera di Peverelli dal caposaldo platonico,
ma soprattutto giudaico e cristiano, della suddivisione
binaria e distintiva di cielo e terra, oltre che,
naturalmente, da quella tra creatura e creazione, con
annessa opposizione a ogni eventuale ipotesi di
identificazione panteistica spinoziana.
Quello che stupisce di questi presupposti di partenza è
la loro genuina e assoluta arcaicità, il loro rifarsi
romantico e orgoglioso solo a testi spirituali e sacri
immensi della storia umana, ma soprattutto l'apparente
contraddizione col modo enormemente innovativo in cui,
nella pratica, queste nozioni ormai senza tempo sono
sviluppate ed elaborate, prendendo vita in una materia
creativa dell'aspetto accattivante, non soltanto
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"moderno" ma ipermoderno o "catamoderno", spesso
incomprensibile, sempre ultraimmaginifico (per quanto
riguarda quest'ultimo carattere è da sottolineare un'altra
influenza importante, l'imperitura fascinazione del poeta
per i giochi concettisti del barocco).
La risposta a questa (fittizia) contraddizione va ricercata,
oltre che, ovviamente, nella trasversalità delle sue
letture, anche nelle pieghe più recondite del misticismo
di Peverelli, che, con lo stesso vigore con cui rifiuta di
disperdere la virtù dogmatica "classica" del
cristianesimo, preserva gelosamente la sua allergia,
come dichiara egli stesso, contro "l'accidia di chi si
rinchiude nella torre d'avorio", si parli dell'asceta
eccessivamente sdegnoso nel suo anfratto in pietra o, in
ambito sociale e culturale, del risibile snobismo
dell'establishment intellettuale della sua Milano.
Il fatto di credere a un Dio creatore nell'alto dei cieli non
fa che acuire la necessità di un attivismo, attivismo
cristiano, sì, ma totalmente terreno, agente col corpo e
nel corpo: la mancata immanenza della sostanza divina
nel creato non è un deterrente per l'azione e un incentivo
a proteggersi dietro ai canonici bastioni dello spavento
lirico e alla mortificazione del religioso che disprezza la
vita terrena, quanto, al contrario, una sollecitazione
antiplatonica al parallelismo fra la sensualità mondana e
la sensualità divina dei mistici: la dianoia del cristiano
non è figlia della ratio, è sensuale, è nei sensi, e agendo
e dipingendo coi sensi Peverelli vuole delineare,
contemporaneamente,
come
in
un'immaginaria
trasposizione e copia pittorica con carta carbone, la tela
del cielo e la tela della terra, strutturalmente separate ma
misticamente collegabili dal ponte della poesia.
Da qui la natura intrinsecamente sinestetica, fino alla
saturazione, di quasi tutti i componimenti. Il cardine della
sinestesia spesso ha il ruolo più o meno inconscio di
porsi come elemento di riequilibrio rispetto alla furiosa
pesantezza concettista ugualmente propria all'autore,
impedendo ai versi di sprofondare nel grigiore completo
cui ogni anelito mistico che si rispetti conduce
spontaneamente (giova ripeterlo: quello di Peverelli non
è un anelito rivolto al cielo e non alla terra, quanto
piuttosto un anelito rivolto al cielo attraverso la terra).
Come
abbiamo
già
accennato,
tornando
a
un'angolazione più strettamente filosofica, c'è
un'implicita volontà di rifiuto dei due estremi teorici
tipicamente occidentali: l'idealismo trascendentalista
platonico e l'immanentismo spinoziano.
E' per questo che la scrittura in versi libera il cavallo del
senso e del logos cosmico-divino-evangelico dalle
briglie della logica classico-occidentale e della ratio
greca e latina, restituendo il dualismo cielo/terra a un
universo non più univocamente e chiaramente
esprimibile, ma dalle radici salde ed esclusivamente
cristiane.
La prima conseguenza importante è che questa
deoccidentalizzazione della sostanza cristiana deve
comportare un rivolgersi alle sconfinate praterie del
novecento nordamericano più folle - per attingere
strumenti letterari adatti a questa catarsi -, e, per quanto
riguarda l'aspetto etnico-etico-spirituale, all'integrità
semitica e aramaica, agli studiosi e ai padri della Chiesa
delle origini, oltre che ai misticismi di altre etnie e altre
religioni (con particolare predilezione per il derviscismo
islamico, come la poesia che fra poco analizzeremo,
"Bismillah", non manca di testimoniare fin dal titolo).
L'operazione forse più rilevante e da prendere in esame
nell'agire poetico di Peverelli è dunque una distillazione
essenziale di un principio religioso , se così possiamo
esprimerci, un atto poetico di depurazione dalle scorie
temporali insanguinate con cui la storia e gli uomini di
ogni secolo non hanno mai cessato di sporcare e violare
la pura gratuità sacrificale (ma attiva) incarnata dal duro
e liscio legno della croce.
--In "Bismillah" il tema, in senso anche lato e più ampio,
della purificazione redentrice, leitmotiv immancabile in
numerosissimi altri frammenti del corpus completo
dell'opera di Peverelli, si esplicita con decisa
programmaticità fin dall'incipit ("Misi ciabatte di cotone /
alla mia vecchia supponenza, / la confinai in un gineceo
di coperte e monocolture senza mercato"): il mettersi in
discussione, la catarsi e la rinascita spirituale vengono
affrontati come eventi già trascorsi prima ancora di
iniziare qualsiasi tragitto; essi non sono un arrivo, ma un
mero punto di partenza, un processo ciclico
creativo-distruttivo che il mistico deve essere in grado di
inglobare in sé come un automatismo organico
autosufficiente.
Già dal quarto verso questa purificazione viene
configurata secondo una procedura tipicamente
peverelliana; cioè attraverso la geografia dei luoghi
dello spirito
: luoghi mai abbastanza esotici
personificano un affetto o uno stato del mistico, e i suoi
slanci pindarici impensabili si dipanano così attraverso
l'ecumene ("e me ne andai nella notte boreale /
masticando cicche ed Orse Minori / [...] così nella notte
guardai i suoi occhi d’Islanda, / sprecammo anche molti
sguardi / finché il cemento artico si appese alla linea tra
noi /e penetrò tutto il sospeso"). Come si può ben
vedere, è al silenzio ghiacciato dell'ecosistema artico
che è affidato il ruolo di comporre la scenografia della
rinascita interiore del poeta, di un suo nuovo fecondo
rinchiudersi dentro il silenzio, con tanto di effetti speciali
come la "tramontana jazzista d'autunno" soffiata da Dio
fra le "veglie amarena" (per quanto sia un dettaglio, le
note cromatiche insolite sono così diffuse nelle poesie di
Peverelli che meritano una sottolineatura dedicata).
Si possono prendere queste escursioni geografiche in
senso più o meno letterale, credere con volontaria
ingenuità alla verità della loro spregiudicatezza favolosa,
nonostante il relativo attributo fantastico sia non solo
presente
ma
esibito,
oppure
intenderle
più
realisticamente come derivazioni di viaggi nel corpo, fra
i nervi, il cervello e la mente del poeta, e cambia poco,
visto che tanto il corpo del mistico è comunque corpo
della terra; quello su cui conviene concentrarsi è infatti,
in tutti i casi, l'elemento concreto, materiale, terreno di
questi viaggi, che viene mantenuto senza ambiguità: si
conferma l'idea di un misticismo che non esclude un
valore e un ruolo rilevante alla materia mondana (come
confermano i coraggiosi versi: "piovi i tuoi 99 significanti
terreni / nella forma umana che contiene tutte le forme"),
ma che per l'appunto, più sottilmente e raffinatamente di
quanto qualsiasi sdegnoso e mortifero puritano di
parrocchia ecclesiastica e non sarebbe capace,
proclama necessario un "passare attraverso" il mondo,
un ponte con cui attraversare, o, per meglio, dire,
“trapassare” la materia, bucandone i limiti.
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Questa "traiettoria parabolica" dell'orientamento mistico
è espressa con sublime originalità da questi altri versi:
"non permettere l’inizio e la fine per il nome con il nome
nel nome / ma prendi il nostro sguardo a strattoni / coi
morsi della fame / e sputaci al di là come semi di senape
al vento -".
La contingenza nominale, formale ed esistenziale della
vita non si supera sognando ad occhi aperti un "di fuori"
da questi recinti (di per sé ineffabile e inconcepibile), ma
brucando così a lungo e con tanta convinzione i prati di
questi pascoli limitati che, quasi come un miracolo, con
un inconsueto gesto inaspettato, sarà il pastore ad
ammazzarci a morsi e, così facendo, a "sputarci oltre".
Pietro Bariola
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