Vox Arenae - Mario Famularo
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Vox Arenae - Mario Famularo
Martedì 19/05/2015 VOX ARENAE Giornale ufficiale dei ladiatori della penna Indice Indice Articoli Commenti Pag. 2 Pag. 44 gladiatoridellapenna.forumfree.it Caporedattrice: Cristiana Lucidi Redazione: Mario Famularo, Andrea Peverelli, Dylan Ruta, Marco Di Prospero Grafico: Damiano Pasculli Seguici su VOX ARENAE Articoli pag. Andrej Zvyagintsev - Leviathan: una carcassa con poca carne 3 La donna e il mito, la bellezza e la caducità delle cose, nei versi di Fortunata Sulgher Fantastici, o Temira Parraside 7 Gli Smashing Pumpkins: storia di una rivoluzione musicale 11 “Di memoria in memoria a dirti amore” Riflessione sulla poetica di Alfonso Gatto 15 Cento rivolte e un’easter rising: la terribile bellezza. Quasi cent’anni dopo, la storia di un èpos ai margini di un impero. 21 For Poets, with love Lawrence Ferlinghetti e il nucleo della Beat Generation 27 Tito Lucrezio Caro: animus ed anima nel De rerum natura 31 2 VOX ARENAE Andrej Zvyagintsev - Leviathan: una carcassa con poca carne “Stiamo risvegliando l’anima del popolo russo.” (Ma la mia ancora dorme) Quarta fatica per il regista russo Andrej Zvyagintsev. Un autore controverso, già solo per quattro opere, in cui ha mostrato un’abilità camaleontica di regia ai limiti dell’incoerenza: se infatti echi di poikilìa callimachea (varietà e maestria nella commistione di generi) sono qualità quasi sempre apprezzate in un artista, poiché permettono il costante rinnovarsi della sua arte, quando questa è annacquata da riprese troppo evidenti e letterali di modelli, e condita da indigeribili inversioni di tendenza, tanto da rendere irriconoscibile l’autore stesso, la qualità si tramuta in debolezza. Pochi fili rossi collegano infatti le due distinte coppie di film (Ritorno / Esilio e Elena / Leviathan). Le prime due pellicole sono dominate da un malcelato epigonismo tarkovskijano - Zvyagintsev condivide lo stesso nome del Maestro Andrej Tarkovskij: era destino, evidentemente -: in Ritorno la sottotrama cristologica dà spazio ad una narrazione esile ma dominata da simboli e da riprese più o meno testuali del modello (l’interpretazione messianica del protagonista, il ruolo dell’acqua e della pioggia, l’insegnamento spirituale attraverso un concento di prove, il sacrificio, e persino la tecnica registica, con ritmi lentissimi, quasi biblici, riprese infinite in piano sequenza di landscapes della verde Russia o di superfici acquatiche - in ripresa fin troppo paraculistica del già VOX ARENAE 3 apprezzatissimo concetto tarkovskijano di “scolpire nel tempo” un’immagine -); un film, in ultima analisi, interessante quanto affascinante, per le differenze ideologiche col Maestro, ma latamente condannato al patibolo della scriteriata infatuazione per il modello. In Esilio le istanze tarkovskijane si sfilacciano miseramente verso una completa autoreferenzialità, che esaurisce l’inveterato l’allegorismo messianico all’interno della stessa narrazione esile ai limiti dello scialbo -, senza avere un reale e necessario senso interno, e parimenti senza uscire dalla pellicola per farsi universale; il modello del Maestro inizia a mostrare il fianco, ad esaurire la propria potenza creativa e rigenerativa nelle mani di un evidentemente inadatto successore. Andrej junior se ne rende conto (alla buon’ora), sa di non poter permettersi di angolare lo stesso concetto in maniera sempre nuova, senza mai annoiare, per 6-7 film, come il Maestro; perciò decide di mutare completamente, di fare un falò delle proprie velleità e di cercarsi un’altra via: il risultato è Elena. Una storia radicalmente diversa dalle precedenti, che assomma nuclei tematici come la critca al denaro, l’attacco alla corrotta società russa, monolitica e non così lontana dall’antica oligarchia sovietica, e il focus sugli “ultimi e migliori” scagliati contro il muro dell’alta società (esatto, il solito polpettone socialisteggiante riproposto da 60 anni a questa parte), a un’ambientazione che sta al limite opposto delle tarkovskijane riprese di paesaggi naturali, uno sfondo urbano, sempre diviso tra il degradato degli Ultimi e il raffinato ed artefatto dei Primi. Istanze - per quanto innovative come la milleunesima riscrittura latina della guerra di Troia - interessanti, sulla carta: peccato che il film sia un totale e desolante blackout cerebrale, con una trama ridicola e costretta a trascinarsi per quasi due ore in un imbarazzo registico che sembra urlare “fermatemi, vi prego” da ogni poro (i 20 minuti iniziali che riprendono la protagonista mentre si alza dal letto, fa colazione, prende il treno, va a far la spesa e arriva a casa del figlio sono eloquenti: l’inutilità e la noia fatta a cinema). La quarta fatica - trattasi davvero di fatica: Zv. stesso ha affermato di impiegarci mesi a organizzare ogni singola scena; per girare Esilio ci sono voluti 4 anni - sembra però risvegliarsi, pur con occhi impastati e con sguardo da epica post-sbronza a base di vodka, da questo letargo cinematografico. Il film infatti assomma molti degli elementi sperimentati in passato, rimanendo comunque più vicino alle sperimentazioni di Elena. La vicenda, come sempre, è molto semplice: un uomo di umili origini e occupazione, Nikolai, ha la sfortuna di abitare in una striscia di costa presa di mira dal sindaco Vadim per oscuri progetti (si suppone una casa riabilitativa, viste le quantità invereconde di vodka che entrambi i personaggi assumono quotidianamente); dopo alcune vicende private di cui potevamo fare benissimo a meno - la moglie di Nikolai acquista dal suo avvocato e amico d’infanzia un intero palco di corna, il regalo non viene gradito, così la moglie si suicida; l’amico-avvocato scompare misteriosamente nel nulla con un occhio nero e due costole rotte -, si giunge una conclusione, del tutto inaspettata: il sindaco Vadim sfrutta il suicidio della moglie e la giustizia corrotta per imprigionare Nikolai e rilevare la sua proprietà, cosicché possa costruirvi ciò che vuole. Lo stato monolitico e marcio nel midollo vince sul singolo: ecco il senso del titolo. Leviathan può essere visto come un tirare le somme dei lati positivi e negativi che Zv. ha sperimentato nei precedenti film. Tornano infatti, oltre alla base di critica sociale già di Elena, le istanze e immagini tarkovskjiane: l’acqua, i riferimenti biblici (su cui ci soffermeremo dopo), le solite esasperanti movenze da inverno russo nella narrazione (la maggior parte degli eventi importanti ai fini della trama accade nell’ultima mezz’ora di film, mentre il resto è mal gestito e organizzato in maniera poco coerente - ma almeno non siamo ai livelli di Elena, dove tre quarti delle scene si distinguono per singolare inutilità), che danno un fastidiosissimo quanto costante senso di suspence, come se dovesse accadere qualcosa di incredibile da un momento all’altro e che puntualmente non accade; ma soprattutto ritornano le solite, untuosissime riprese di paesaggi unite al martellante ricorso all’acqua, che in Ritorno costituivano gran parte della regia. Riprese innegabilmente affascinanti, che rendono parte di quel sense of wonder che permeava i film di Tarkovskij, così come elemento fondamentale dell’interesse che questo e altri film di Zv. suscitano nello spettatore; ma proprio per questo colossali leccate delle natiche comodamente sedute sulle poltrone dei cinema: squadra che vince non si cambia (e se aveste dubbi sull’effettiva efficacia di questo tipo di regia, considerate che l’unico film che ne è completamente privo, Elena, è quello che ha avuto meno successo tra il pubblico). Anche la meta-semantica religiosa e l’allegorismo di Leviathan non funzionano a dovere. Il film è definito come una rilettura moderna della vicenda biblica di Giobbe, l’uomo di fede che trova in Dio la propria forza e allo stesso tempo lo mette sotto accusa per il proprio dolore inspiegabile: entrambe le narrazioni condividono l’epifania di un potere sovrumano (Dio e lo Stato) che persegue ragioni sconosciute e schiaccia sotto il peso della propria onnipotenza l’uomo che vi si oppone. Ma le somiglianze finiscono qui. Dice lo stesso Zv: “volevo raccontare la storia di un uomo che perde tutto ciò che ha; uno per uno, poco a poco, fino al punto di perdere la propria vita”. L’intera, profonda e drammaticissima, vicenda di Giobbe viene decurtata, viene impoverita a tal punto da far apparire unicamente lo scheletro iniziale da cui prende origine la vicenda, nudo e crudo, privato delle riflessioni universali sui temi del dolore, del rapporto uomo-Dio, del senso del creato e della vita. Allora perché usare Giobbe nel proprio film, se di esso vi rimane soltanto il mero fatto biografico senza il nucleo magmatico del racconto biblico, a ben vedere la parte che conta davvero di esso? Più coerente sembra a questo punto il riferimento al Leviatano di Hobbes, e più adatto a sostenere il soggetto: i pochi riferimenti a Giobbe risultano così del tutto superflui, oziosi, usati unicamente per aggiungere un pizzico di mistero e appeal in più per lo spettatore. La furbizia di quella volpe di Zv. non ha fine. Ma l’aspetto più negativo di questo film è un problema non da poco, 4 VOX ARENAE visto che si tratta proprio del soggetto scelto e dell’ambiente in cui si inserisce. Quante storie di ingiustizia sociale, corruzione statale, burocrazia monolitica che schiaccia l’individuo per fini di lucro e potere ci hanno raccontato? Quante vicende di un singolo uomo cui viene tolto tutto ciò che ha di caro e che cerca di ribellarsi a un sistema oppressivo abbiamo letto in libri e visto in pellicole? Risposta: troppi. Già cliché abusatissimo del cinemaccio americano d’intrattenimento (uno su tutti: Law abiding Citizen, thriller del 2009), rivisitato poi nel cinema di genere (ad esempio i drammi fantascientifici distopici; uno su tutti: Equilibrium, del 2002), era già un tema caro al ‘900 letterario (ad esempio Kafka, Il processo; in tempi più recenti un romanzo dal nome Leviathan, di Paul Auster). Il che, di per sé, non sarebbe un problema: i temi ricorrono spesso, le riscritture hanno dato prova di grande vitalità. A segare le gambe di Leviathan sul nascere interviene però l’ambientazione: un film con pretese tanto universali (il minestrone Giobbe-Hobbes) crolla silenziosamente quando ogni tanto si sveglia e gli viene in mente di ricordarci che è ambientato in Russia. Perché sicuramente ad un abitante medio del grande stato eurasiatico vedere una scena di patteggiamento mafioso con la foto di Putin sullo sfondo deve avere un bell’effetto, ma non sull’italiota, che deve affidarsi alla solita trita morale del “ma questa vicenda può accadere dovunque, è universale”: la verità è che lo spettatore non russo perde moltissimo dell’immedesimazione con questo film, marcatamente russo nonostante la volontà, da parte del regista, di non mostrare troppi dettagli a riguardo. Sarebbe come fare vedere a un abitante di VOX ARENAE 5 Mosca uno delle decine di sceneggiati Rai sulla storia politica italiana del ‘900: con la differenza che almeno, in questo caso, si avrebbe un ipotetico interesse storico, mentre a Leviathan, storia sospesa in un limbo temporale indefinibile, manca anche quello. Cosa rimane allora a questo film? Poco più di una storia ordinaria (se tagliamo a quell’unica mezz’ora veramente importante), una regia sbocconcellata qua e là da un grande del cinema russo e condita da un generico pastone socialisteggiante, un’opera dai pochi e sproporzionati elementi costitutivi (e la buona riuscita artistica di un film si misura nell’equilibrio tra di essi, tra realtà e finzione), una delle peggiori riletture di Giobbe e di Hobbes nella storia dell’arte, e un aberrante senso di vuoto, dopo la visione: non un vuoto artisticamente indotto, ma un’insoddisfazione quasi culinaria, come dopo aver mangiato un piatto misero e poco condito. L’enormità dell’intera Russia grava gelidamente sulle spalle del povero Andrej junior e dello spettatore: il risultato è una gran cervicalgia e una scoliosi cinematografica imbarazzante. Andrea Peverelli 6 VOX ARENAE La donna e il mito, la bellezza e la caducità delle cose, nei versi di Fortunata Sulgher Fantastici, o Temira Parraside Sono davvero bizzarri i fenomeni per cui, quando andiamo in una delle tante librerie mainstream – quelle piccole botteghe del libro ormai sono perdute tra le memorie d’infanzia –, possiamo constatare che alcuni autori di poesia sono stati benedetti dalla modernità commerciale, e dunque vengono messi lì, in bella mostra, con riedizioni moderne e sempre nuove, mentre altri vengono relegati, se fortunati, a vivere nelle antologie di poesia minore, nelle biblioteche delle università, o su Wikipedia. È incredibile pensare che alcuni autori non abbiano mai visto nemmeno una ristampa delle proprie opere, e che bisogna risalire alle prime stampe dei loro libri, quando è possibile trovarle. Ma viene in aiuto dei più curiosi la tecnologia – paradossalmente – e nella fattispecie la collaborazione tra le Università americane e Google Books (delle nostre neanche a parlarne); ed ecco che quei rari manoscritti possono essere agevolmente stampati e riscoperti da ogni angolo del globo. Basta un po’ di pazienza e una stampante. Uno di questi autori è una poetessa, Fortunata Sulgher Fantastici, che ho scoperto per caso e letto senza troppo impegno, per trovarmi a mano a mano sempre più incredulo ed appassionato, fino ad approfondire la sua vita e la sua personalità, ingiustamente relegate tra i meandri e le pieghe della nostra storia della letteratura. E pensare che ho cercato il suo nome in antologie di poesia minore, in enciclopedie della letteratura, ma nulla! Solo il web e qualche intervento sporadico pubblicato in rete mi hanno aiutato a sapere qualcosa di più su questa donna, le cui opere ho finito per leggere tutte con grande interesse. Vissuta nella seconda metà del settecento, la Fantastici ha conosciuto personalità illustri come Vincenzo Monti, che nutriva verso di lei una sincera stima, o Angelica Kauffmann, grande protagonista dell’Arcadia, che ci ha regalato anche il suo più celebre ritratto, insieme a quello di Teresa Bandettini, conosciuta come Amarilli Etrusca, altra poetessa dimenticata; ma chi era costei? VOX ARENAE 7 Era un’improvvisatrice: prediligeva la forma orale della poesia, quella cantata e ballata, la forma più atavica e autentica della versificazione, di cui solo qualche traccia molto rarefatta dell’enorme produzione ci resta nelle sue poche raccolte. Con la testimonianza dello scrittore veneziano Antonio Piazza: “Sopra qualunque soggetto e in tutti i metri della poesia felicemente improvvisa, sommo onore arrecando alla patria sua e al suo sesso. Un maturo sapere in freschezza d’età, una vereconda umiltà accoppiata alla solidità del merito, una gentilezza brillante che corona le doti dell’animo suo, la rendono una delle più stimabili donne de’ nostri tempi. Suona eccellentemente il gravecembalo, canta bene, intende diverse lingue, sa imitare la pronunzia di molti dialetti ed è ripiena di quel vero spirito che la rende la delizia delle conversazioni. Bastò che io la pregassi di farmi udire qualche ottava all’improvviso perch’ella tosto mi favorisse. Le diedi il soggetto di Priamo e Tisbe. Cantò con una dolcezza da far arrestare un fiume, da far piangere un marmo. Che eloquenza! Che rapidità! Che purezza di stile! Quanti poeti di grido, stemperandosi il capo nella solitudine del loro scrittoio, non arrivano a comporre una di quelle ottave! Successe da lì a pochi giorni che un principe bramoso di udirla fece in modo ch’ella intervenisse ad un’accademia, dove gareggiar dovevano vicendevolmente la musica e la poesia. Li poeti che improvvisarono avevano del merito, ma al paragone della inimitabile livornese, parevano tanti corvi che gracchiando disputassero la palma ad un melodico cigno.” Per ovvie ragioni, ho potuto leggere solo la sua produzione data alle stampe, tutto quello che sono riuscito a reperire: si tratta di prime edizioni del 1794, del 1802, del 1815. Lo stile che ho potuto riscontrare è molto eclettico e di indubbio interesse, soprattutto considerando che la scrittrice è una donna; e di donne ve ne sono già troppo poche nella nostra letteratura, e dunque incontrare una personalità di spessore è un’emozione genuina, che ha saputo donarmi un autentico piacere. La Fantastici subisce l’influenza della sua età di passaggio, e concilia con una certa abilità gli stilemi arcadici, di quella che Croce chiamerà “pseudo poesia”, i suoi temi pastorali e vezzosi, metri semplici e ballabili, in anacreontiche spensierate che ricordano a tratti il Sannazaro, a tratti il Chiabrera, a volte il Tasso, in egloghe di ambientazione bucolica e amori innocenti, con una specie di “classicismo di passaggio”, che ammicca al neoclassicismo “imperiale” di Monti, a quello stile solido di endecasillabi sciolti, dove il mito diventa simbolo dei valori dell’uomo, dei suoi tormenti, delle sue tensioni, della profonda introspezione di ciò che nell’uomo è senza tempo, universale, pur basandosi, d’altro canto, su una tradizione più profonda, distaccata, che richiama e ricorda i classici greci, o a tratti anche gli illustri tragediografi attici. Ma questo attiene esclusivamente all’aspetto formale delle sue opere: quello che davvero colpisce, della poesia di Temira Parraside – com’era conosciuta tra gli arcadi – è che il mito viene rivisitato al femminile, e i suoi versi prediligono quasi sempre un’attenzione a “l’altro lato del mito”: ovvero il punto di vista, in prima persona, della controparte femminile dei noti miti classici. La poetica della Fantastici si sofferma sulle tematiche dell’amore, della bellezza – bellezza femminile, bellezza dell’arte, bellezza dei profondi sodalizi artistici ed intellettuali che la scrittrice ha intessuto, resa con genuino trasporto nei suoi versi – , ma anche della morte e della caducità della vita, e della profonda impotenza degli esseri umani di fronte al caso, ai sentimenti, alle passioni. Comincerò a riportare i passaggi, a mio avviso più interessanti, del ruolo del mito “al femminile” nei versi della Fantastici; dal “Lamento di Dejanira”, dove vive tutto il tormento per l’imperdonabile peccato della sposa del semidio: […] “Diletto Ercole mio t’uccisi io stessa. Troppo mi vinse gelosia funesta, Tardi la nera frode omai comprendo, La mia semplicitade ora m’affanna. […] Vedovo letto, e solitario albergo, Figli diletti, a me tacendo ancora Rimproverate un’odiosa vita.” …al “Lamento d’Andromaca”, dove la donna, ridotta in schiavitù, disperatamente si interroga sulla caducità dei sogni, della felicità, degli affetti. E ancora, nel “Sacrificio d’Ifigenia”, v’è l’angosciosa consapevolezza della giovane di dover affrontare una morte inevitabile, data per mano del padre, e di rinunciare a tutte le gioie e a tutte le speranze della sua gioventù negata; nella “Briseide”, v’è tutta la rabbia gridata contro le prepotenze, contro le decisioni di un Agamennone verso cui la protagonista urla tutti i propri aneliti di libertà e tutto il valore dei propri sentimenti. E i sentimenti di Penelope verso il figlio Telemaco, nel cercare di dissuaderlo dal partire, per non rischiare di perdere anch’egli come il suo sposo, o gli amori tragici delle eroine tratte da Ossian, come Morna, che per vendicare l’amato Catbar, e per uccidere l’odioso Documano che gli ha strappato il compagno, finisce anch’ella uccisa, in una scena di grande drammaticità, dove la forza della donna fa da protagonista: 8 VOX ARENAE […] […] “Prendere il ferro, inorridir, furiosa Scagliarlo a Documano in mezzo al core Fu un punto solo; ed ei giù rotolando Piombò sul suolo. In moribondi accenti Ahi! Disse, io manco, iniqua donna, io spiro, Trammi il ferro dal sen. La Ninfa accorre Per mirare sua vendetta in lui compita. Fuggi misera, almen dirle potessi, Ti difendi, che fai? Già Documano Tutte adunate le mancanti forze L’afferra, e tratto il suo medesmo acciaro Dalla piaga crudel, l’immerge in lei, Che confusa, sorpresa e disperata, Per te moro, Catbar, cadendo dice; Ma il traditor, che ti ferì, pur muore. E dal dolor di quelle voci estreme Trafitto Documan più che dal ferro, Per rabbia, gelosia, vendetta, amore Squarcia di propria man la piaga, e vanno L’ombre sdegnose ad attuffarsi in Lete.” Molti altri sono i miti trattati dalla Fantastici: una Didone che dai Campi Elisi si pente dei suoi errori e ricorda con rimpianto la leggerezza di avere sottovalutato il potere di Eros; il pianto di Venere sopra il defunto Adone; i dubbi di Clitennestra poco prima del terribile delitto; il delicatissimo innamoramento di Ero e Leandro, dove la purezza e l’innocenza dei sentimenti è ben tratteggiata, e diretta con abilità verso il tragico epilogo. Ma la Fantastici, come ho evidenziato, è particolarmente affezionata anche ad altre tematiche, e in particolare a quella della vanità e della piccolezza delle cose umane, e della invincibilità dell’amore: […] “E tu, Nigella mia, che incauta sprezzi Un cuor fedele, e dell’amor t’offendi, Almeno in questi fiori che accarezzi Di caduca beltà la sorte intendi. Mancar vedrai del divin volto i vezzi, Misera! Se il periglio or non comprendi, Se sprezzi il tempo vorator che fugge, E il bello al par dei fior consuma e strugge.” VOX ARENAE 9 “Vano fasto d’impero! Ve’ dal grado primiero In quai s’avvolge il gran Monarca esangue Gorghi del proprio sangue, Abbandonato in tanta sua sventura Da quei, cui porse nutrimento ei solo, Orché sul nudo suolo Nelle fauci di morte avvien, trabocchi, Né a Lui pietosa man pur chiude gli occhi.” Infine, il tema della Bellezza: molto chiara la posizione dell’autrice, riferita da un’insuperbita Venere: […] “Canta del bello, e solo Sii del bello seguace, Ch’è di regnar capace In cielo e negli abissi, E vale a muover guerra Ai Dei celesti, ed ai mortali in terra.” […] “E l’uom superbo altero, Ch’è di ragion dotato, Credesi riserbato Su gli enti a dominar. […] Ma dalle Donne vinto Per man del Dio d’amore, De’ bruti al domatore Dà leggi la beltà.” E ancora innumerevoli estratti di amori pastorali, resi con abilità, raramente banali, se non nelle prime produzioni e in qualche ode-canzonetta meno ispirata. Di particolare interesse anche un sonetto, dove l’Innocenza viene sedotta da Amore e, ricevendo in dono delle rose, le stringe al proprio petto, provocandosi ferite sanguinose; a tale vista, l’Innocenza restituisce i fiori e le impreviste afflizioni. Un ultimo componimento mi ha colpito in modo particolare: un ritratto di Apollo che insegue Dafne, che diventa simbolo dell’anelito artistico e creativo dell’uomo, che cerca di congiungersi alla natura, senza poterci mai riuscire (circostanza che assume ancora maggiore significato se letta nel contesto arcadico in cui la nostra autrice operava); il disincanto del dio si manifesta nella chiusa, con l’amara consapevolezza che la sua mano, che prima cercava di ghermire le carni della giovane, rimane con un pugno di foglie, e la bellezza di quella fanciulla resterà per sempre inaccessibile alla sua ragione, irrimediabilmente inafferrabile: […] “Trarti sperava ad abbellir natura, Sperava di mortal farti immortale, E inspirato da te sulla mia Lira Offrire inni ad Amor, e ch’ei placato Dovesse fra di noi scherzar superbo. […] E de’ miei figli ti vedrà la terra; Anche il trisulco fulmine di Giove Rispettarti saprà … Ma tu non m’odi! E mentre di te penso, e a te favello, Dafne, per sempre ai lumi miei t’ascondi.” Concludo questo sintetico intervento con poche considerazioni: Fortunata Fantastici è stata una delle poche poetesse italiane ad avere talento, personalità, e ad operare con tanta genuina passione e amore per la poesia, vissuta non come mero vezzo d’accademia o velleità da salotto; nei suoi versi stilla autentica la vita della donna, i suoi pensieri, le sue riflessioni sulle condizioni delle donne del suo tempo, sui valori universali che tormentano gli esseri umani, dal mondo antico a quello della sua epoca. Non credo che Fortunata – ah, ironia del suo nome! – abbia avuto la meritata fama e stima, nella storia della nostra letteratura: offritele pure un’occasione e provate a conoscerla meglio. Basta un po’ di pazienza e una stampante. Mario Famularo 10 VOX ARENAE Gli Smashing Pumpkins: storia di una rivoluzione musicale Pochi sono gli esempi, nel panorama musicale contemporaneo, che possono vantare di aver saputo rinvigorire la stanchezza di un genere come il Rock: gli Smashing Pumpkins ( in italiano le zucche spiaccicate, ndr) sono tra questi. suonate tramite supporto elettronico, fino all'entrata di Jimmy Chamberlin, originario dell'Ilinois, fortemente voluto da Billy. Sarà questa la formazione che passerà alla storia come una delle più importanti band alternative rock degli anni novanta. La band vide la luce nel 1988 grazie all'idea di Billy Corgan, cantante, autore della maggior parte dei pezzi e unico elemento stabile del gruppo fino ad oggi, e James Iha, chitarrista giapponese d'origine ma statunitense di adozione. Il gruppo farà gavetta nella scena underground di Chicago fino al 1991, anno della pubblicazione del primo album, Gish, con la Caroline Records, una affiliata della Virgin: forte è l'influenza del metal anni settanta (Black Sabbath in primis), del grunge in voga in quegli anni e, per alcuni aspetti, del dream pop. Pur essendo un album nel complesso ancora acerbo, si possono già notare quelle che diverranno nel tempo caratteristiche tipiche della band: sonorità distorte ma al tempo stesso orecchiabili e una profonda malinconia a caratterizzare la maggior parte dei testi. Billy, chitarrista autodidatta e militante nei Marked, una band di poco successo, si guadagna da vivere lavorando in un negozio di dischi usati; la sua professione gli permette di conoscere da vicino la scena underground di Chicago, città dove vive: sarà in uno di questi eventi che conoscerà James, all'epoca reduce da una fallimentare esperienza con gli Snake Train: il chitarrista nipponico rimane molto colpito dalle canzoni di Billy, a tal punto da proporgli una collaborazione artistica. Il primo nucleo dei futuri Smashing Pumpkins è così costituito. Ma Billy e James non bastano. I due ragazzi si guardano attorno e dopo un periodo di prova, reclutano la bassista polacca D'arcy Wretzky, conosciuta da Billy all'Avalon Nightclub di Chicago; inizialmente le parti relative alla batteria vengono VOX ARENAE 11 Il 1993 è l'anno della consacrazione sul suolo Statunitense, con la pubblicazione di Siamese Dreams da parte della Virgin. Sarà ricordato dagli stessi componenti della band come l'album più difficile mai registrato, non tanto dal punto di vista esecutivo (non sono presenti, infatti, brani complessi in questo senso), quanto per il contesto: i problemi di depressione di Billy che quasi lo inducono al suicidio, la crisi relazionale tra D'arcy e James e i sempre più evidenti problemi di tossicodipendenza di Jimmy. L'album, caratterizzato dalla fusione di vari generi tra cui il rock (progressivo e psichedelico) il grunge e il dream pop, mette ancora più in risalto le sorprendenti capacità tecniche dei quattro, nonché la già accennata malinconia nei testi (qui più evidente che mai complici i problemi personali di Billy) che accompagnerà il gruppo anche negli anni a venire. Today e Disarm sono senza dubbio le tracce più rappresentative. Segue la pubblicazione nel 1994 di Pisces Iscariot, una raccolta di b-sides e altre tracce scartate in precedenza. Nel 1995 arriva il definitivo successo mondiale, con la pubblicazione del doppio concept-album Mellon Collie & The Infinity Sadness, unanimemente considerato il miglior lavoro della band nonché uno dei più importanti album rock di sempre. L'album viene alla luce nel momento più difficile del panorama musicale internazionale: la morte improvvisa di Kurt Cobain e la graduale decadenza del Grunge lasciano milioni di fan sparsi in tutto il mondo privi di una guida spirituale, così Billy e soci non tardano a farsi sentire: superate le imperfezioni dei primi lavori, la band si lascia trascinare da uno sperimentalismo selvaggio, alternando brani orchestrali come la splendida Tonight Tonight (ancora oggi ritenuta un mantra dai fan della band) a brani più duri come Here's No Why e Bullet With By Butterfly Wings (celebre il feroce retrain a metà canzone, simbolo di una generazione intera); non mancano inoltre sperimentazioni pop, come nel caso di 1979, una delle canzoni più famose e impresse nell'immaginario collettivo. L'album, in sintesi, si presenta senza una apparente coerenza stilistica, dove la solita aura malinconica e decadente funge da collante per le tracce. Da questo momento in poi Billy (autore della maggior parte dei testi e della musica) diventerà sempre più dispotico e autoritario nei confronti degli altri membri della band, e questo renderà i rapporti sempre più tesi. Nel 1996, a poco più di un mese dalla conclusione del tour promozionale dell'album, il batterista Jimmy viene estromesso per i suoi noti problemi di droga. Concluso il tour, i tre membri rimanenti si prendono un periodo di riposo per poi tornare in studio e registrare il nuovo album, che verrà alla luce nel 1998 con il titolo Adore. In questo lavoro lo stile del gruppo cambia radicalmente, anche per cause di forza maggiore: l'abbandono di Jimmy lascia una pesante lacuna a livello ritmico, che la band pensa di sopperire con basi elettroniche e suoni più melodici e meno duri rispetto ai precedenti, che tuttavia non piacquero alla maggior parte dei fan. Adore, nonostante l'evocativa atmosfera crepuscolare, è infatti uno degli album accolti più freddamente dal pubblico, sebbene le recensioni della critica siano state positive. In questo periodo Billy attraversò la morte della madre, che per lui fu molto dura. Furono soltanto due le tracce estratte dall'album, Ava Adore (il cui videoclip valse alla band il premio video più elegante ai Fashion Awards) e Perfect. Qualcosa però, è destinato a rompersi. I rapporti si fanno più tesi che mai e il 1999 vede il ritorno di Jimmy, ora pulito, alla batteria, e la fuoriuscita di D'arcy per dedicarsi ad altri progetti, ma non prima di concludere la registrazione dell'album Machina/The Machine of God, che sarà pubblicato nel 2000. In questo album riaffiora il forte sperimentalismo stilistico che aveva caratterizzato il già citato Mellon Collie: inizialmente pensato come doppio concept-album, poi realizzato come album singolo, Machina segna il ritorno alle sonorità distorte dei primi anni, un maggiore utilizzo dei supporti elettronici e arrangiamenti più elaborati: in un'intervista Billy motiverà tale scelta col proposito di riversare tutta l'esperienza musicale accumulata in un'intera carriera. Anche i testi subiscono un significativo cambiamento: non si intravede più rassegnazione nella malinconia (ormai cronica) della band, ma ottimismo e speranza che, seppur con difficoltà, ritagliano il proprio spazio tra le note ( Try, Try, Try) . Il pubblico e la critica considereranno l'album come “il punto più basso che gli Smashing potessero toccare”, pieno di banalità e privo di mordente. Con la conclusione del relativo tour promozionale, l'agonia degli Smashing Pumpkins ha termine: Billy, dopo aver autopubblicato Machina II/ The Friends and Enemis of Modern Music (seguito di Machina, scartato dalla Virgin), tramite un'emittente radiofonica annuncia lo scioglimento del gruppo: è il maggio del 2000. Passano alcuni anni. Dopo il fallimento del super-progetto Zwan e la rivelazione di scottanti retroscena sulla fine degli Smashing Pumpkins che incrinarono ulteriormente i rapporti con gli altri ex-membri, Billy torna a farsi sentire, dichiarandosi pronto a intraprendere la carriera solista, salvo poi tornare sui suoi passi dopo che The Future Embrace, unico disco solista di Billy e pubblicato nel 2005, non riscuote il successo sperato. Decide così di ricostituire gli Smashing Pumpkins senza coinvolgere (fatta eccezione per il batterista Jimmy) i membri originari. Al posto di James (che ora milita negli A Perfect Circle) e D'arcy (ritiratasi definitivamente dal mondo della musica) vengono reclutati vari turnisti. Nel 2007 il ritorno si concretizza con la pubblicazione di Zeitgeist, che si presenta come un misto tra rock e pop sperimentale, confermando l'ormai febbrile ispirazione di Billy. E' un altro insuccesso. Notevole è invece il lavoro a livello di artwork: attraverso la suggestiva immagine della statua della libertà semi-sommersa dal mare, la band sembra quasi prospettare un futuro nero (come sarà poi in effetti). Si ricorda di questo album la traccia Tarantula, inserita, a più riprese, nel popolare videogioco Guitar Hero. Il 2009 è l'anno di Teargarden by Kaleidyscope, progetto inizialmente costituito da 44 tracce (ridotte poi a 10) che sarebbe stato gradualmente pubblicato sul sito ufficiale della band. Billy dichiarerà di aver interrotto il tutto per potersi dedicare a tempo pieno alla lavorazione dell'album Oceania, che sarebbe uscito nel 2012, dopo numerosi 12 VOX ARENAE rinvii. Alla fine dell'anno Jimmy annuncia la sua seconda fuoriuscita dal gruppo, rendendo Billy l'unico membro attivo della storica formazione. Proprio Oceania, album né carne né pesce, segna l'entrata in pianta stabile di Jeff Schroeder alla chitarra e di Nicole Fiorentino al basso, dapprima considerati semplici turnisti; al posto di Jimmy viene reclutato l'allora diciannovenne Mike Byrne dopo un provino che coinvolse, tra gli altri, l'ex batterista dei System of a Down John Dolmayan. Siamo così arrivati al presente, dove la band, pubblicato Monuments of Elegy alla fine del 2014, è tuttora impegnata nel relativo tour promozionale. L'impressione che critica e pubblico si stanno facendo dell'album non è certamente delle migliori; i bei tempi di Mellon Collie (il cui spettro grava ancora sulla testa di un ormai esausto Billy) sembrano lontani, e difficilmente Billy e soci, nelle condizioni in cui versano, potrebbero pescare il coniglio dal cilindro; resta da chiedersi che cosa sia rimasto del loro patrimonio artistico, fonte di ispirazione per intere generazioni di adolescenti. Noi lo sappiamo. I dischi, la musica, la rabbia di chi, malgrado gli sforzi, è sempre rimasto un topo in trappola. Francesco Marsili VOX ARENAE 13 14 VOX ARENAE “Di memoria in memoria a dirti amore” Riflessione sulla poetica di Alfonso Gatto Dal silenzio per il silenzio; non stupisce allora perché spesso passi inascoltata l'esperienza di missione veramente umana che compie la poesia di Alfonso Gatto (Salerno 1909 - Capalbio 1976), titanicamente umile fino a donarsi come una delle voci più autentiche del Novecento italiano. L'irrequietezza del secolo si incarna dentro l'omnipervasiva voce di un uomo in silenzio con le sue contraddizioni e le sue certezze, eppure sempre in movimento - fisico e spirituale - nell'altalenante gioco della forma, che in Gatto diviene "costrutto" della volontà, la realtà più profonda perché viva sul piano mentale quanto su quello della percezione sensoriale. Proprio la dedizione ad un progetto di missione umana, per una vita più importante della poesia, una vita "da salvare fino all'ultimo e che permetta di scendere nel giorno della nostra morte senza viltà", spinge Gatto a cercare un appiglio che, nel prevedibile e mai abituale smarrirsi, lo mantenga fedele a se stesso. Così scopre il vocabolo, quello basilare, da rimodellare coerentemente con la propria sensibilità di artigiano perché risuoni come una voce amica pronta a richiamarlo a se stesso e alla "grazia stupita d'essere la vita". La parola per Gatto è dunque un mezzo, il costrutto per eccellenza, con entità mentale e fonica, in grado di rendere l'uomo presente alla propria esistenza e quindi al proprio silenzio, in cui si può affermare l'"ostinazione a vivere", la "felicità di vivere", la "lealtà di vivere". Nello spazio lunare pesa il silenzio dei morti. Ai carri eternamente remoti il cigolìo dei lumi improvvisa perduti e beati villaggi di sonno. Come un tepore troveranno l’alba gli zingari di neve, come un tepore sotto l’ala i nidi. Così lontano a trasparire il mondo ricorda che fu d’erba, una pianura. Carri d'autunno da Poesie (Isola) VOX ARENAE 15 L'atmosfera che si respira nelle liriche di Isola, raccolta del 1932 che sembra anticipare l'ufficiale inizio della stagione ermetica con il Sentimento del Tempo ungarettiano dell'anno successivo, è quasi rarefatta, scevra da legami troppo espliciti con la realtà più immediata, per essere intimamente collegata ad un profondo e unitario spartito segreto del mondo, afferrabile nel silenzio. Così la melodia arcaica che anima i testi di Gatto permette al lettore odierno di sentire come "indugia raro nel silenzio un alto / silenzio e lascia scorrere la pace", perché quest'ultima corrisponde al desiderio naturalmente insito nelle profondità che vengono evocate da un'eco di lontananze stranamente presenti. Spingendo il proprio sguardo verso un oltre indistinto nello spazio e nel tempo, dopo la morte o prima della vita cosciente del momento, "Gatto ha dovuto restituirci, prima di tutto, il senso stesso di un'incalcolabile lontananza dagli oggetti" (Giuseppe Langella - Alfonso Gatto, il poeta del canto fioco) per cui l'uomo si trova in una solitudine apparentemente vuota, ma ricca di ogni realtà che trova raccolta in sé, un insieme di colori: "Io sono bianco di memoria". In questo modo il silenzio si afferma come la vera melodia del mondo e dei singoli, perché "... nell'imbuto / dell'anima, in quel raggiro muto / di falde e specchi, tace la parola. [...] Il primo freddo è l'anima che coglie / il suo silenzio..." e, dopo il brivido di spaesamento ed euforia, comincia ad avere coscienza della più intima realtà. La lirica gattiana allora vuole porsi come il diario di un'anima che si riconosce viva nell'incontro con altre sue simili e - in parte - insite in lei come anima del mondo; si tratta di un dono del proprio percorso interiore formulato invitando all'ascolto per evitare una degenerativa incomunicabilità col prossimo ma soprattutto con se stessi, in una realtà dove "tutti parlano del proprio cuore, / tutti tacciono col proprio cuore". Con questo il poeta non intende però chiamarsi fuori dallo spasmodico e fragile bisogno di un comune parlottio, anzi riconosce i propri limiti e le proprie colpe, mostrandosi innanzitutto un uomo (sua è la definizione del poeta come "un uomo mortale che vive con tutta la sua morte e con tutta la sua vita"), fermo nella convinzione del valore superiore della vita rispetto alla poesia. Perciò è chiaro quanto propriamente nel silenzio si affermi, per Gatto, la volontà di vivere appieno, e non in quello che sembra delineare come l'andamento inerziale delle parole, dando tuttavia anche a questo un qualche valore. Nella poesia Colpa infatti viene riconosciuto alla parola affannata nel coprire i vuoti il ruolo di espressione del limite, in cui l'uomo d'ascolto può captare il richiamo del silenzio e disporsi a questo ("Io mi dicevo ch'ero stato buono / tutta la vita / ma a chiedere perdono / salivo in sogno"). Oltre i mari d'autunno, nell'alone delle polveri cieche tutta la notte nella pioggia ho visto sparire la città, tremava il palco il fradicio dei legni sul mareggio della laguna, la lumaca cieca intrepida sbavava la sua strada. L'amore era il sudario dei miei volti affacciati da sempre, le palpebre pesanti, il naso duro come il silenzio fermo sulle labbra. Mi dicevo, di me, ch'ero al tuo riso lontano l'ombra che scavalca i ponti, il dannato che insegue la sua fuga. Sugli occhi le tue ciglia da moscone. Era la pelle azzurra dell'immoto un agguato di brividi Pelle azzurra (seconda versione, interrotta) da Desinenze I paesaggi spesso naturali che ci vengono presentati da Gatto attraverso i sui occhi luminosi - perché intimamente illuminati da uno sguardo pervaso di ogni tempo, quello di una morte mai in opposizione alla vita, anzi ad essa coesistente - tendono ad avvitarsi su se stessi, spingendosi verso profondità ignote, così il loro incunearsi è proprio dell'anima. Per tale ragione risulta perfettamente calzante l'appellativo di "surrealismo d'idillio" coniato da Giansiro Ferrata in riferimento alle liriche di Isola e ben adattabile a buona parte della produzione gattiana. Nelle ultime sue raccolte (Rime di viaggio per la terra dipinta e la postuma Desinenze) Gatto elaborò ulteriormente la propria peculiare forma "surrealista" regalando al lettore un esempio di pedagogia del perdersi e del ritrovarsi, fedeli a se stessi perché "tu sai ch'è inquieta l'anima, se pura". Alla base di questo sviluppo poetico sta un movimento dell'anima, tra "alberghi, città, scale sempre in sogno / varcati al dir: «qui resterò e la pace / mi sarà data alfine»", rispecchiato dal "dolce e lungo errore" del poeta, che dagli anni Trenta fino al termine della Seconda Guerra Mondiale, tra spostamenti lavorativi, collaborazioni culturali e politiche, finanche all'arresto per antifascismo, visse un'esistenza irrequieta. Così si fondono immagini cittadine e litorali, sempre sorprese dallo sguardo limpido di un uomo affacciato alla vita, ricco dei propri volti, quelli di personali forme inquiete e di un passato che il poeta sente proprio e universale, perché con esso condivide la volontà di trovare "... prova su prova / la sua ragione d'essere nel fiore, / nel seme, nella terra, nella morte". Viene evidenziato come a smuovere l'uomo siano essenzialmente due componenti sempre misteriosamente compresenti, la morte e la vita. Se la prima spinge al movimento nell'anziana paura di un "agguato di brividi" che altro non è se non "la pelle azzurra dell'immoto", la seconda è l'istinto primario di avventura come l'attitudine propria dei bambini che "tuffano il capo nel mondo". Da questa spinta bivalente è generato un ossimorico intrepido fuggire; dopotutto, "passeggia l'uomo che cerca una storia". Perdersi allora è il fondamentale preambolo della salvezza, perciò il partire da se stessi può divenire secondo l'insegnamento di Gatto, dopo un lungo percorso poetico che aveva conosciuto dapprima come spontaneo questo altalenarsi della coscienza - anche, in parte, volontario, se questa volontà assume in sé la determinazione a tornare. Come esemplifica chiaramente in una sua intervista: "È come se io stesso partissi e ritornassi ai miei stessi occhi che mi vedono partire e mi vedono ritornare [...], un poeta [...] è un po' padre e figliol prodigo di se stesso". I gesti lasciati nell'aria i cenni che chiamano ancora, sola ogni voce che non s'ode più. E il sonno che non ha notte, la pallida ombra che legge al pallido sole. Quei ragazzi nudi mai così rosa nel tonfo della mezzanotte. La vecchia dietro la cattedrale spazza la tomba di ferro. C'è chi muore d'estate o aspettano calmi l'inverno? 16 VOX ARENAE Un pattino è fermo in salita, tutti hanno lasciato qualcosa per correre incontro alla vita. La notte di Trondheim da Osteria Flegrea Ad accompagnare i viaggi di Gatto si trova un'importante intensità melodica, di cui sono pregne le sue poesie, testimoniando un desiderio - che si fa necessità - di cantare, il che è proprio degli "uomini limpidi", coloro che "vuotano / le case nel canto, / al cerulo sogno dell'alba". E limpido come un apparentemente immobile vetro d'acqua è il porsi del poeta davanti all'ineffabile segreto del silenzio armonioso tra profondità marine e sospensioni celesti, tra vita e morte. In questa atmosfera pare impossibile l'affermarsi anche di un singolo vocabolo, laddove la poesia giace, ineffabile, sul velo d'acqua che è il poeta, immobile, senza parole. Sarà allora nel canto, nella più fluida capacità di sciogliere melodicamente il mistero, che si riuscirà a manifestare la poesia. A quel punto le parole innalzate dalla musica saranno state propriamente quelle "poche, timide, ma come sospese nel silenzio che c'era intorno, [...] proprio quelle con cui la sera voleva essere amata dal suo grande bambino". La spontaneità dell'espressione è però suggerita da una melodia, infatti secondo Gatto la poesia vive "il terrore delicato in cui essa è sospesa ogni volta a trovare la sua voce al momento in cui tutte le parole tacciono". Non esiste scavo ermetico nel proprio segreto che affermi la parola in Gatto, non c'è educazione che strappi dall'anima il vocabolo, perciò si rende necessario un addestramento presso la palestra della comunicazione, specialmente quella letteraria, caricata di nuove possibilità. In questo senso assume maggior valore l'azione del poeta tesa a ridare vitalità ad un vocabolario nobile ormai morente e la sua difesa della rima in modo non aprioristico ma valutando le possibilità che questa offre per la costruzione di cortocircuiti semantici, secondo una visione per cui "la rima corrisponde all'antico richiamo che le parole hanno tra loro come due occhi che sono necessari allo stesso sguardo". Questo lavoro trova una sua ulteriore giustificazione nella convinzione della possibilità delle parole di imprimersi nei petti altrui, portando talora anche angosce, come afferma il poeta parlando del terribile racconto del comandante delle SS Kappler sulla strage VOX ARENAE 17 delle Ardeatine ("E nulla andò perduto / di quelle parole, io non le riesco / a staccare da me - e non da me, ma dal fitto / del petto con cui le respiro"). Tuttavia l'intento della poesia gattiana è di fare "costrutto", così la forza creatrice del poeta viene esaltata e, di pari passo, anche la parola, che non si esplica come punto d'arrivo e manifestazione della connessione intima della realtà - comunque resistente nella poetica di Gatto - ma come forte mezzo esploratore e, semmai, manifestazione dell'umile lavoro di un uomo ostinato e impegnato con la vita. Una madre che dorme piove in dolcezza dentro di sé come una grotta e in fondo al lume ha il suo bambino. Una madre che dorme dorme al panneggio ardente d'una fiera che la guarda mansueta. È una dolce sera in mezzo alle pupille della sua onda quieta. Una madre che dorme da La forza degli occhi Emblema dell'impegno con la vita è la figura materna, che compare in tutte le sillogi di Gatto come mito primitivo e tensione presente, in quanto espressione del rapporto da "poveri di spirito" con il mistero dell'esistenza. Tale immagine estende la sua valenza durante la Seconda Guerra Mondiale, non tanto tramutandosi in una madre patria, quanto in un forte senso di umanità. In questo Gatto prende le distanze dalle posizioni ben più note di Salvatore Quasimodo per difendere una bontà familiare, più intima e allo stesso tempo universale. In riferimento agli anni della Resistenza, che - più evidentemente agli occhi del lettore - risvegliano "in Gatto l'amore per la vita" (Giuseppe Langella - Alfonso Gatto, il poeta del canto fioco), il poeta ha specificato che "non si trattava di lutto o di lutti, non si trattava di occupazione o di 'piedi stranieri'. Era qualcosa di più: era la natura umana offesa". In questo senso Gatto fa tesoro delle propria esperienza come cantore delle morti, celebrate secondo la ferma convinzione che nella povertà si trovi la serena relazione tra vita e morte, e diviene un poeta della Resistenza, ma estendendone la valenza ben oltre il momento storico così che potesse essere concepita come una condizione duratura dell'esistenza umana, infatti resistendo con coscienza si incomincia "finalmente a durare in noi stessi, a essere". La voce dei morti è un canto di madri e figli - soprattutto per un poeta che conobbe la perdita di entrambe le figure -, "il fermo legame" e la speranza per la vita perché questa venga educata alla responsabilità; perciò Alfonso Gatto, in quanto uomo d'ascolto, sembra chiaramente dirci, come rileva con acume Massimo Bontempelli, che "noi siamo ognuno responsabile della vita degli altri". "Ebbi il mio cuore ed anche il vostro cuore, / il cuore di mia madre e dei miei figli / di tutti i vivi uccisi in un istante", così, parlando Per i martiri di piazzale Loreto, il poeta fa emergere un profondo senso e bisogno di fratellanza, senza mai sottovalutare la propria responsabilità anche retorica per "... una memoria / che mai giunge a sbiadirsi, che mai perde / la traccia immaginosa", ma che in questa - manifesta nell'azione del poeta - trova il modo di eternarsi e di eternare una componente impercettibile perché intimamente conservata negli animi. Così si rafforza ulteriormente l'immagine arcaica di cantore della morte per Alfonso Gatto, il quale rimane comunque un poeta inneggiante alla vita e all'amore umile; tuttavia l'usuale espressione lirica - nella raccolta La storia delle vittime, secondo le esigenze del momento - si conforma ad un'epicità e coralità capace di innalzare il canto fino a caricarlo di un'aura mitica, perché si potesse "resistere all'empiria", lavorando "permanentemente per una rivoluzione che avesse nell'uomo il suo centro" - secondo una modalità antica e nuova in un Novecento ricco di singole trivellazioni d'anima. Così il topos della morte si rinnova, caricandosi ulteriormente della propria ambivalenza. La morte è chiaramente costante e sorprendente; anzi, proprio nella sua rilevata costanza si manifesta la sorpresa, che spesso muove il meccanismo poetico come espressione di attaccamento alla vita nell'emersa coscienza che "tutto di noi gran tempo ebbe la morte". Delle due vie meravigliose gode tutta la produzione gattiana, espressione uniforme di realtà che, per quanto apparentemente contrastanti possano sembrare (come la meraviglia del cielo e del cuore, la vita e la morte...), si scoprono a convivere, intrecciate perfettamente nel tessuto di un'esistenza sospesa e indicibile, "dopo la vita, prima della morte", per cui è proprio il tremore della sospensione a restituire il senso della fragilità insieme all'orgoglio della resistenza - resistenza in una realtà altra ma soprattutto in noi stessi, che dobbiamo ciascuno dirci "... sono / la vita, il soffio che ti chiama in dono". Sul tema del dono Gatto torna a più riprese perché in esso si può riassumere il completamento dell'agire poetico; così, ribaltando gli stereotipi, si dipinge come un uomo cui i morti parlano e dedicano attenzioni (non è lui a portare i fiori sulle tombe, ma li raccoglie: "... prendo un fiore / dalla sua tomba..."), e nel privilegio di queste attenzioni ricevute e richieste, ancora e ancora, sempre in spasmodico movimento, può permettersi di dar via ciò che non ha, come la pace, poiché "solo chi non ha pace può darla". Se la pace è - come detto inizialmente - intimamente conforme alla natura dell'uomo, la tensione ad essa è rappresentata dall'approccio più umano, secondo Gatto, all'esistere, ossia la resistenza; una autentica, che sia povera, perché la povertà ha la capacità di "stringere nel nulla la... gioia". Pertanto il compito della poesia gattiana, poiché arte veramente umana, è di manifestare la conformità al desiderio di pace e caldeggiare la resistenza: "vi provoca, vi mette di fronte al bisogno della lotta". Ma la poesia è innanzitutto dono, e quella di Gatto vuole fare dono di speranza agli umili "per qualcosa che verrà / e che sempre sta per accadere", se non addirittura di pace, nelle atmosfere idilliche e rarefatte, vuole far dono del mondo, vuole far dono di ciò che il poeta non ha ma è pronto a regalare, fedele alla propria umanità e al più profondo spartito segreto. "Non t'accorgi che è l'amore / il tuo ridere futile, la mano, / la mano aperta per dar via il mondo?" La meraviglia - gridala - è del cielo aperto a dirsi cielo dentro il cielo. La meraviglia - tacila - è del cuore richiuso a dirsi cuore dentro il cuore. Allegoria delle meraviglie da Rime di viaggio per la terra dipinta 18 VOX ARENAE "Gli innamorati non sanno sparire, affermano un bacio che solo perduto avrebbe a suggello lo stacco delle sue labbra. Così bacia l'aria e l'oblio così vive Dio del nulla che secca la bocca e versa la sete dell'aria nell'aria" Dietro i muri eterni (tentativo di finale alternativo) da Desinenze Gatto propone dunque che la sfida alla scoperta delle segrete connessioni esistenziali sia il motivo del nostro resistere e si esplichi con profonda passione e umiltà, perché nell'ascolto del silenzio si riconosca immediatamente l'uomo e si possa dire: "l'anima è sul volto"; un volto che muta e rimane sostanzialmente lo stesso (è proprio il poeta a dichiarare di giungere sempre "al punto di risolversi in un volto sereno e di temerlo"). L'ideale equipaggiamento proposto per la ricerca ostinata è la costruzione di una "natura di idioti", l'essere "imbecille quel tanto che [...] dà gioia", identificandosi con "la bontà quale forma suprema della ragione". Così, armati di modestia, sincerità e determinazione, si andrà in contro a continui dubbi. Ma proprio il "dubbio intero", così lo chiama Gatto, costituisce il più forte agente modificante un amore serrato in se stesso, in modo che possa essere sviscerata una rete di rimandi ricca di ipotesi positive ("forse l'amore è sempre un altro amore / e l'odore al ricordo un altro odore"). L'unico imperativo riguarda il modus operandi, che deve essere caratterizzato da passione, o meglio, da amore, laddove amare è "invocare fisicamente tutto l'essere per una goccia di vita". Allora, specialmente alla luce delle parole di Eugenio Montale, incise sulla lapide dell'amico poeta ("Ad Alfonso Gatto / per cui vita e poesie / furono un'unica testimonianza / d'amore"), non può che levarsi un nuovo dubbio nel sospetto che proprio la sfida autentica alla connessione abbia in sé il senso del traguardo. VOX ARENAE 19 In ogni gioia breve e netta scorgo il mio pericolo. Circolo chiuso ad ogni essere è l'amore che lo regge. Tendo a questo dubbio intero, a un divieto in cui cogliere il sospetto e la lusinga del mio movimento. Universo che mi spazia e m'isola, poesia. Poesia da Poesie (Isola) Dylan Ruta 20 VOX ARENAE Cento rivolte e un’easter rising: la terribile bellezza. Quasi cent’anni dopo, la storia di un èpos ai margini di un impero. 'twas down the glen one Easter morn to a city fair rode I there armed lines of marching men in squadrons passed me by no pipes did hum, no battle drum did sound out its loud tattoo but the Angelus bell o'er the Liffey swell rang out in the foggy dew... Il 24 aprile 1916, il lunedì immediatamente successivo alla domenica di Pasqua, circa milleduecento uomini si affollavano in una Dublino che stava ancora svegliandosi, vera e propria metropoli del Regno Unito di Gran Bretagna ed Irlanda. Per l'ormai consolidata superpotenza britannica era appena passata la Pasqua del secondo anno di guerra, la Grande Guerra che era già da diversi mesi entrata in un anno critico (la famigerata battaglia di Verdun, incominciata tra il 20 ed il 24 di febbraio, sarebbe finita solo il 19 di dicembre dopo qualcosa come cinquecentomila tra morti e feriti da ambo gli schieramenti). Dal punto di vista di quegli uomini armati, però, stava per essere scritta la pagina decisiva nell'albo della travagliata storia irlandese. Nel sangue e nello spirito degli eventi che ebbero inizio quel giorno cadde il primo germe di una libertà al margine di un grande impero, quello britannico, preso all'apogeo della propria gloria e del proprio sforzo bellico. All'ombra della Union Jack si sarebbe innalzato, di lì a poco, il vessillo verde a brandelli che gridava Irish Republic. Un travaglio lungo ottocento anni. La bandiera britannica che fino ad allora aveva garrito al vento dal castello di Dublino, sede del governo inglese nell'isola, portava con sé l'eredità di quasi otto secoli di storia irlandese costellata dalla presenza e dalle ingerenze inglesi. L'Irlanda, la cattolicissima Irlanda i cui Celti erano stati convertiti, secondo la leggenda, da San Patrizio (che avrebbe impiegato il trifoglio, simbolo dell'isola, per spiegare la Trinità) si era VOX ARENAE 21 trovata, dall'XI secolo, ad essere una Signoria sotto l'influenza papale e l'egida del Regno d'Inghilterra. Con quest'ultimo nel 1541 l'Irlanda aveva siglato un patto di cosiddetta unione personale: entrambe le monarchie, quella irlandese e quella inglese, riconoscevano un unico capo di stato, nella persona del sovrano d'Inghilterra. Nel 1603, un processo analogo sancì l'unione anche col Regno di Scozia. Questo, però, nel 1701 confluì con l'Inghilterra nel Regno di Gran Bretagna: ecco allora che l'unione personale del 1541 mutò uno dei due soggetti: si aveva, ora, tra Regno d'Irlanda e Regno di Gran Bretagna. All'inizio del XIX secolo, gli Atti dell'Unione (entrati in vigore a partire dal primo gennaio del 1801) sancirono l'incorporazione del Regno irlandese in quello britannico: questo comportò l'abolizione del Parlamento in Irlanda, poiché ai rappresentanti dell'isola furono concessi dei seggi direttamente a Westminister, come già accadeva per la Scozia. Un germe di ribellione tra la Guerra d'Indipendenza e la Rivoluzione francese. Nel corso del XVIII secolo, con la nascita del Regno d'Inghilterra e la sua unione con quello d'Irlanda, questa aveva acquisito una relativa indipendenza dal governo inglese. Sul versante politico, la supremazia era nelle mani di una ristretta élite di anglicani, la cosiddetta Ascendenza protestante, al governo sin dal XVII secolo per conto della Corona. La realtà irlandese era , tuttavia, fortemente cattolica: in questo, gli aristoi protestanti attuarono una recisa discriminazione religiosa, messa in atto soprattutto nell'applicazione delle leggi, che non colpì solamente i cattolici, ma anche le minoranze protestanti che professavano una religione non anglicana (come i Presbiteriani). La maggior parte della popolazione inoltre non godeva del diritto di voto, perché questo era subordinato al reddito; i cattolici erano invece esclusi a priori. A rincarare la dose si potevano poi individuare diverse situazioni di limitazione del potere politico dell'Irlanda: la questioni più rilevanti erano di certo la possibilità di veto che la Corona si riservava di imporre sulle proposte di legge irlandesi ed anche la capacità di legiferare per l'isola. I freni posti da Londra all'autonomia dell'Irlanda erano ben più severi rispetto a quelli che si potevano individuare rispetto alle pur lontane colonie americane. La rivolta di queste e la conseguente Guerra d'Indipendenza (1775-1783) fu un l'occasione propizia per cambiare le carte in tavola. I ribelli americani, infatti, ricevettero cospicui aiuti dalla Francia, soprattutto in termini di truppe volontarie. La storica ostilità francese nei confronti del Regno di Gran Bretagna si inseriva ora in un quadro critico, perché lo sforzo bellico britannico era quasi totalmente concentrato oltreoceano contro la ribellione. La lontananza della maggior parte dei reggimenti del British Army e delle navi della Royal Navy rendeva la Gran Bretagna (e dunque l'Irlanda) un bersaglio di relativa facilità ed appetibilità per la grande nemica oltremanica. Per scongiurare l'invasione che si paventava, ai pochi nuclei delle forze armate regolari si aggiunsero milizie, formate dietro richiesta del governo, poste a difesa soprattutto della Scozia e dell'Irlanda. In quest'ultima, nacque la forza degli Irish Volunteers, militi leali alla Corona e pronti a fronteggiare i possibili invasori. La loro presenza accrebbe notevolmente la forza militare irlandese,e il regno poté ben presto avanzare, a fronte di una riconfermata realtà, richieste volte a migliorare la situazione politica. A coronamento di questo, nel 1782 fu promulgata una nuova Costituzione, la quale pose fine tanto alla Poyning's Law quanto al Declaratory Act; dopo alcune insistenze, fu reso possibile ai cattolici con un reddito sufficiente di votare. Fu sulla scia delle nuove libertà raggiunte che i movimenti patriottici e nazionalisti si infuocarono, avanzando richieste mirate ad una sempre maggiore autonomia ed all'abolizione dei provvedimenti discriminatori che ancora permanevano. La Rivoluzione francese del 1789, avvenuta in una nazione cattolica e certamente più vicina rispetto alle colonie che oramai s'erano costituite libero stato, non fece che alimentare la fiamma rivoluzionaria. Questa ardeva a partire dalla Society of United Irishmen (Società degli Irlandesi Uniti, in sigla SUI), fondata a Belfast nel 1791. Di carattere liberale e composta indifferentemente da membri cattolici e protestanti, il suo scopo ultimo era di rompere ogni legame con la Gran Bretagna. Due anni dopo la sua fondazione, cominciò ad operare in clandestinità. La Rivolta delle picche. Gli United Irishmen (UI) godevano di fama sempre maggiore, ma al capo della Società, Thebald Wolfe Tone (solitamente chiamato Wolfe Tone) appariva evidente che qualsiasi azione su vasta scala poteva realizzarsi soltanto con l'appoggio di una forza straniera. Grazie ai suoi contatti ed alla sua astuzia,a Wolfe Tone non riuscì difficile assicurarsi il supporto del governo rivoluzionario francese. Nel dicembre del 1796 salpò una forza di spedizione francese, guidata dal leader della SUI in persona. I paladini di una libertà che pareva vicina si dimostrarono però, loro malgrado, membri di una seconda Invincibile Armada: le navi francesi, infatti, riuscirono ad eludere la blanda sorveglianza della Royal Navy, ma il ricombinarsi di condizioni meteo sfavorevoli e la scarsa esperienza dei marinai fece sì che la flotta, a poche miglia dalla costa irlandese, fosse costretta ad invertire la rotta e fare ritorno in Francia. Ma il vento di rivolta soffiava ormai forte: il biennio '96-'98 vide disordini diffusi che si accentuarono col '98. Il governo, fedele alla Corona, risposte imponendo la legge marziale (marzo 1798) e scatenando le milizie; si operò il più possibile per accentuare il divario tra protestanti e cattolici, i primi, in genere, più inclini alla fedeltà verso la Gran Bretagna. Il controspionaggio britannico bloccò sin da subito vari elementi di spicco tra gli UI, ma quelli più estremisti riuscirono a sfuggire alle spie e, senza alcun supporto garantito, decisero di dare il via ad una rivolta per il 23 maggio. La sua organizzazione era molto debole, e lo spionaggio inglese conobbe gran parte delle mosse dei ribelli in anticipo. Ciononostante, il 25 maggio si registrarono i primi scontri intorno a Dublino, la cui conquista era l'obiettivo principale della ribellione. Gran parte dei rivoltosi brandiva armi improvvisate, soprattutto perché quelle da fuoco erano state sequestrate in virtù della legge marziale. Particolarmente diffuse, poiché facili da assemblare per i fabbri ed utili anche contro la cavalleria, erano le picche (da cui il nome di Rivolta delle picche). Nonostante un gran numero di sconfitte, i ribelli riuscirono ad opporre una tenace resistenza, sfruttando la compiacenza della popolazione e le tattiche di guerriglia. Dopo diverse vittorie dei rivoltosi nel sud dell'Irlanda, la risposta delle truppe governative fu decisiva. Alla fine di agosto, le poche sacche di resistenza capitolavano l'una dopo l'altra. A poco servirono due spedizioni di volontarî francesi in aiuto degli United Irishmen: nel primo caso, la forza sbarcata si unì ai rivoltosi e dapprima sconfisse le milizie 22 VOX ARENAE governative ma fu sopraffatta dai rinforzi; nel secondo caso, le navi coi volontarî, alla cui guida c'era sempre Wolfe Tone, vennero intercettate dalla Royal Navy e costrette alla resa. Tristi simboli della fallita rivolta furono la atrocità perpetrate da ambo gli schieramenti ai danni sia dei prigionieri, sia della popolazione civile. Fonte di nuovi martiri furono le numerosissime esecuzioni di ribelli, molte sommarie, diverse a seguito della corte marziale (soprattutto nei confronti dei capi della rivolta). Lo stesso Wolfe Tone, arrestato e processato, riuscì a suicidarsi e ad evitare per poco l'impiccagione. Se la guerra per la libertà era perduta, la speranza rimaneva e la fiamma patriottico-nazionalista continuava, tacitamente, ad ardere. Giunsero ben presto ad attizzarla i già citati Acts of the Union (Atti dell'Unione, 1801), dirette conseguenze della rivolta che sancirono l'inglobamento dell'Irlanda nel Regno di Gran Bretagna, la quale cambiò quindi la denominazione in Regno di Gran Bretagna ed Irlanda. L'isola aveva perso il proprio parlamento e, di fatto, ogni brandello di indipendenza. Il triste Ottocento e le soglie del Novecento. When boyhood's fire was in my blood, I read of ancient freemen for Greece and Rome, who bravely stood Three hundred men and three men And then I prayed I yet might see our fetters rend in twain, and Ireland, long a province, be a Nation Once Again! (Thomas Osborne Davis, A Nation Once Again, vero e proprio inno del movimento nazionalista, scritto intorno al 1840) L'Ottocento irlandese si aprì sull'inglobamento con la Gran Bretagna. Fu avviata una sorta di Restaurazione e ritornò la supremazia protestante e, di conseguenza, la discriminazione contro i cattolici, che fu ancora più accentuata. Gli anni Quaranta del XIX secolo sono, nella storia irlandese, indissolubilmente legati ad un nome, quello della Grande Fame. Così viene definito il periodo di carestie che colpì l'Irlanda tra il 1845 ed il 1853, dovuto a fattori climatici ma soprattutto legati alle mancate riforme agrarie, che condussero ad un tracollo nella produzione delle patate, fonte di sostentamento di gran parte della popolazione, perché economiche ed adatte al poco fertile suolo irlandese. La Grande Fame VOX ARENAE 23 spinse moltissimi irlandesi ad emigrare e cercare fortuna in America, e tanti altri emigrarono per questioni religiose oppure vennero deportati nei possedimenti britannici oltremare (Australia in primis), una pena che il governo inglese impose a chiunque venisse giudicato colpevole di furto, anche modestissimo, di generi alimentari. Mentre il resto dell'Europa era infuocato dai moti rivoluzionari del 1848, l'Irlanda era tutta nelle morse della Grande Fame; il Quarantotto irlandese si realizzò, in pratica, quasi solo simbolicamente, con una tentata ribellione di un piccolo gruppo di nazionalisti che sfociò in una rivolta grossolana, dispersa senza spargimenti di sangue. Il nazionalismo e il malcontento irlandese rispetto al malgoverno britannico si esprimevano tanto per vie clandestine quanto per vie legali. Negli anni Ottanta del XIX secolo, emerse la figura di Charles Stewart Parnell, capo del Partito Parlamentare Irlandese. Propose molte riforme di carattere liberale, ma vennero tutte respinte, spesso al termine dell'iter per farle approvare. Decadde dopo diverso tempo, tanto per ragioni politiche (il suo partito si scisse) quanto per motivazioni personali (quali ad esempio un divorzio). Nacque, nel frattempo, un folto numero di organizzazioni di carattere nazionalista (ma spesso estraneo all'estremismo), volte soprattutto alla riscoperta della cultura celtica (e quindi di quell'identità che nei secoli s'era adombrata). Coinvolto in queste associazioni era anche il poeta William Butler Yeats (premio Nobel per la Letteratura nel 1923 per la sua “poesia ispirata che dava forma ad una intera nazione”). Risaltavano soprattutto la Lega Atletica Gaelica e la Lega Gaelica; i sentimenti patriottici erano poi riuniti nel periodico Sinn Féin (che in gaelico irlandese significa antica tradizione), tanto che il titolo del giornale fu ben presto usato per definire, nel loro complesso, i nazionalisti irlandesi. Alle soglie dell'Easter Rising. Nel 1912, il Primo Ministro britannico promulgò il Third Home Rule Bill, terzo ed ultimo atto di un processo giostrato dai rappresentanti irlandesi che, dopo venti anni dal First Home Rule Bill, ottennero un proprio autogoverno (un Home Rule, appunto). Le critiche, stavolta, giunsero dalla frangia estremista degli Unionisti, di coloro, cioè, che si dicevano fedeli alla Corona (spesso perché protestanti, o per ragioni economiche e politiche) e che supportavano in toto l'unione del 1801. Questi nel 1913 si organizzarono in un gruppo armato, l'Ulster Volunteer Force (UVF, l'Ulster è il nome tradizionale dell'Irlanda del Nord, regione in cui si concentra la maggioranza protestante ed unionista). L'improvvisa presa di posizione unionista motivò la controparte: dall'Irish Republican Brotherhood, società clandestina e più estremista tra i feniani, nacquero gli Irish Volunteers (nessuna correlazione con la milizia omonima nata in Irlanda nel Settecento). In seguito agli eventi di uno sciopero operaio a Dublino che sfociò nella violenza, nacque anche l'Irish Citizen Army. La militarizzazione della politica irlandese passò quasi del tutto inosservata grazie allo scoppio della Grande Guerra. Questa creò un'ulteriore disputa: Londra, infatti, pretese che la coscrizione obbligatoria venisse imposta anche all'Irlanda se questa, in cambio, avesse voluto l'autogoverno. La stessa Irish Republican Brotherhood si divise riguardo al collaborare o meno con lo sforzo bellico inglese: lo scisma risultante lasciò gli Irish Volunteers a perseguire la causa nazionalista. Un mese dopo la dichiarazione di guerra della Gran Bretagna contro la Germania, si formò il comitato segretissimo che decise di organizzare una rivolta prima che la guerra finisse, cercando di richiedere il maggior aiuto possibile alla Germania, ora nemica del Regno e di certo interessata ad una possibile invasione di questo, che avrebbe significato la vittoria. Tra gli elementi di maggiore spicco nella causa nazionalista, Tom Clarke e Seán MacDermott furono sin da subito incaricati di pianificare la rivolta; l'organizzazione militare fu affidata a Patrick Pearse, coadiuvato da Joseph Plunkett (capo delle operazioni militari) e Thomas MacDonagh (incaricato di addestrare gli uomini che avrebbero preso parte alla rivolta). In aiuto di Plunkett circa la possibilità di aiuti tedeschi venne Roger Casement, appassionato sostenitore dei feniani e grande diplomatico (aveva il titolo di baronetto). Questi si trovava in America durante le prime fasi della pianificazione, ma riceveva costanti informazioni dalle associazioni nazionaliste irlandesi che non mancavano negli States. Inizialmente, riuscì ad accordarsi con la Germania circa un piano di sbarco in Irlanda: si sarebbe attuata una ribellione a Dublino, facendovi convergere il grosso delle forze britanniche disponibili, mentre le truppe tedesche sarebbero sbarcate altrove, riuscendo quindi con facilità a consolidare le posizioni. Mentre si discutevano questi e vari aspetti, James Connolly, capo di quanto era rimasto dell'Irish Citizen Army, fu persuaso, poiché più volte aveva minacciato di dare il via ad una ribellione con la sua sola associazione, ad aggregarsi agli altri sei membri capitanati da Pearse. Questi ordinò, con una terminologia studiata ad hoc per tentare di eludere il controspionaggio inglese, di porre in essere la rivolta per domenica 23 aprile, il giorno di Pasqua. L'ordine venne però annullato quando una nave tedesca carica di armi destinate ai ribelli venne intercettata dalla Royal Navy e costretta all'autoaffondamento. Casement sbarcò in Irlanda da un sottomarino tedesco ma fu avvistato e catturato e gli specialisti della marina britannica intercettarono le comunicazioni del baronetto con l'ambasciata tedesca negli Stati Uniti (che nel 1916 erano ancora neutrali), da cui appresero anche la data del 23 aprile come giorno per una non meglio specificata rivolta nazionalista. L'informazione arrivò al governo inglese dell'Irlanda, ma la sua accuratezza fu messa in dubbio. L'Easter Rising. Right proudly high in Dublin town, they flung out the flag of war; 'twas better to die 'neath an Irish sky than a Suvla or at Sud El Bar; and from the plains of Royal Meath strong men came hurring through, while Britannia's Huns with their long range guns sailed in through the foggy dew... Lunedì 24 aprile, un giorno dopo la data prevista, i circa milleduecento Irish Volunteers si riunirono a 400 membri dell'Irish Citizen Army di Connolly, che divenne capo delle operazioni militari per l'intera durata della rivolta. I Volontarî conquistarono diversi centri nevralgici di Dublino, soprattutto le industrie e il municipio. Il Castello di Dublino, sede del governo, riuscì a chiudere le proprie porte prima che i ribelli arrivassero. La sede delle operazioni dei Volontarî divenne il GPO, l'Ufficio Centrale delle Poste di Dublino. Davanti a questo edificio, sul cui tetto furono innalzate due bandiere verdi con la scritta Irish Republic, Pearse lesse la Proclamazione della Repubblica irlandese: 24 VOX ARENAE IL GOVERNO PROVVISORIO DELLA REPUBBLICA IRLANDESE ALLE GENTI D'IRLANDA. Uomini e donne irlandesi, in nome di Dio e delle generazioni morte da cui riceve l'antica tradizione di stato, l'Irlanda, attraverso di noi, chiama i propri figli alla sua bandiera e lotta per la propria libertà. […] Poniamo la causa della Repubblica irlandese sotto la protezione del Signore Altissimo. Invochiamo la sua benedizione perchè scenda su di noi, e preghiamo affinché nessuno che combatta per questa causa possa disonorarla nella codardia, nell'inumanità o nel crimine. In quest'ora suprema, la Nazione irlandese deve, attraverso il suo valore e la sua disciplina e la prontezza dei suoi figli a sacrificarsi per il bene comune, dimostrarsi degna del destino prestigioso a cui è chiamata. Firmato a nome del Governo Provvisorio THOMAS J. CLARKE. SEAN MacDIARMADA. P.H. PEARSE. JAMES CONNOLLY. EAMONN CEANNT. JOSEPH PLUNKETT. Le cinque giornate di Dublino. Il primo giorno della rivolta non vide svolgersi grandi combattimenti, se non nella zona industriale di Dublino, dove caddero i primi soldati inglesi. I Volontarî riuscirono a tenere gran parte delle posizioni conquistate. Oh! The night fell black and the rifles' crack made perfidious Albion reel, through the leaden rain seven tongues of flames did shine o'er the lines of steel by each shining blade, a prayer was said that to Ireland her sons be true, and when morning broke, still the war flag shook out its folds in the foggy dew. Martedì 25, a sera inoltrata, fu promulgata la legge marziale e il governo passò nelle mani dell'esercito. I combattimenti si ebbero in numero assai limitato: se nei primi giorni la ristretta forza britannica si preoccupò di proteggere il solo Castello di Dublino quale sede del governo, nel giro di due giornate giunsero 16.000 soldati inglesi a rinforzare la capitale irlandese, ma questi evitarono lo scontro aperto e preferirono VOX ARENAE 25 cannoneggiare le roccaforti dei ribelli. I Volontarî, infatti, non si erano preoccupati di conquistare il porto di Dublino e le sue due stazioni ferroviarie, sicché i rinforzi inglesi, e soprattutto le artigliere ed altri equipaggiamenti pesanti, giunsero facilmente a destinazione. D'altro canto, le vie attraverso cui gli Inglesi potevano muoversi erano saldamente difese (in un caso, sette Volontarî tennero testa a più di trecento soldati britannici); ciononostante, il comando inglese ordinò continui assalti frontali. A questa fase della rivolta, erano morti intorno ai dieci Volontarî e almeno una quartina di soldati britannici. L'esercito inglese subì ulteriori perdite tentando di conquistare la roccaforte dei ribelli nella Dublino sud. Si registrarono, sia da parte dei Volontarî che da parte inglese, violenze e saccheggi ai danni della popolazione civile. Particolarmente efferata fu l'uccisione a sangue freddo di sei civili arrestati dall'esercito presso le Portobello Barracks. La resa. Il GPO fu fatto oggetto di continuo fuoco inglese, soprattutto nella forma di granate sparate da cannoni ed obici campali e, con l'arrivo dei rinforzi, anche da un vascello giunto da Belfast. I capi della rivolta furono costretti ad abbandonare l'edificio, posizionandosi in un complesso dall'altra parte della strada. Vedendo i Volontarî oramai circondati e inferiori per numero e per mezzi, Pearse, sabato 29 aprile, negoziò la resa incondizionata: Per prevenire un ulteriore massacro dei cittadini di Dublino, e nella speranza di salvare le vite dei nostri seguaci ora circondati e inferiori per numero e senza speranza, i membri del Governo Provvisorio presenti al quartier generale si sono accordati per una resa senza condizioni, ed i comandanti dei vari distretti nella città e nella contea [di Dublino] ordineranno ai propri comandi di deporre le armi. Il GPO fu l'unica roccaforte ribelle ad arrendersi in seguito ad azioni militari inglesi; le altre si arresero dietro ordine di Pearse e scaramucce tra Volontarî e inglesi si ebbero anche nelle prime ore di domenica 30, perchè la notizia della resa impiegò del tempo a circolare. La rivolta, in realtà, si verificò anche al di fuori di Dublino, in diverse contee (come per esempio a Galway), ma le azioni militari ebbero vita breve. All'indomani della rivolta. A tutti i Volontarî arresi (ed a tutti i repubblicani, anche solo sospetti, arrestati in seguito) fu accordato lo status di prigionieri di guerra. Furono internati nel Galles e rilasciati, in gran parte, nella settimana precedente il Natale 1916. Ai sette capi della Easter Rising toccò una sorte ben diversa. Affrontata la corte marziale, vennero riconosciuti colpevoli di alto tradimento e condannati a morte. Furono tutti fucilati tra il 3 ed il 12 maggio, i firmatarî dalla Proclamazione ed altre personalità di spicco nella rivolta (tra cui il fratello di Pearse, che fece soltanto la staffetta). Particolare fu l'esecuzione di Connolly, giustiziato il 12 maggio, che, poiché rimasto gravemente ferito durante la rivolta, fu condotto davanti al muro in barella e legato ad una sedia per poter essere fucilato. Roger Casement, il diplomatico che tanto si era profuso perché l'Easter Rising potesse vedere la luce, venne processato a Londra e riconosciuto colpevole davanti alla medesima accusa di alto tradimento. Venne impiccato alla prigione di Pentonville, presso Londra, il 3 di agosto. I write it out in a verse MacDonagh and MacBride And Connolly and Pearse Now and in time to be, Wherever green is worn, Are changed, changed utterly: A terrible beauty is born. Marco Di Prospero Oh! The bravest fell and the requiem bell rang mornfully and clear for those who died that Eastertide in the springtime of the year. But thru and fro' in my dreams I go and I'd kneel and pray for you, for slavery fled, O' glorious dead when you fell in the foggy dew. Se il trionfo militare inglese era oramai evidente, la vittoria morale dei Volontarî fu evidente. L'opinione pubblica irlandese, e persino quella britannica ed americana, si scandalizzarono dinnanzi alle esecuzioni sommarie. A centinaia i giovani rinfoltirono le fila dei movimenti repubblicani che avevano promosso la rivolta. The Foggy Dew, la ballata da cui sono tratte le strofe riportate in più punti di questo articolo, è un esempio del nuovo sentimento nazionale irlandese, forgiato nel sangue di quei martiri di Pasqua. Yeats, nazionalista convinto ma poco incline alla violenza, volle celebrare quei ribelli, che combattevano per una “terribile bellezza”: 26 VOX ARENAE For Poets, with love Lawrence Ferlinghetti e il nucleo della Beat Generation Be’, non abbiamo usato la parola Beat sul retro di nessuna pubblicazione della City Lights Books. Non sono stato membro della Beat Generation. […] Sono stato associato ai Beat pubblicandoli. Preferisco il termine “aperto”. Fu ciò che mi disse Neruda a Cuba nel 1950 all’inizio della rivoluzione di Fidel: “amo la tua poesia aperta”. Si riferiva sia alla vasta gamma di contenuti della mia poesia, e sia, in modo differente, alla poesia dei Beat. Da un lato il rifiuto dell’etichetta Beat, dall’altro il lucido riconoscimento del suo nucleo incandescente. “Aperto” (in originale wide-open) è una semplificazione estrema del concetto espresso acutamente da Neruda: wide-open indica un’apertura vastissima, e conseguentemente uno stato di uscita dalle strette maglie della legge e della morale vigente, tanto da essere anche assimilato al concetto di fuorilegge, illegittimo. La poesia Beat realizza il miracolo insito nel proprio nome (“estasi della beatitudine”: sembra questa la miglior definizione possibile di Beat) facendo delle profetiche parole di Montale una realtà fattiva, artistica e biografica: Cerca una maglia rotta nella rete / che ci stringe, tu balza fuori, fuggi!. I poeti Beat sono la prova dell’efficacia sovversiva del mistico in arte, che strappa la rete della teologia umana e ne fa trampolino per afferrare ciò che c’è al di là, la più pura essenza celeste, VOX ARENAE 27 non in un atto di candido scetticismo, di chi vede solo ciò che ha davanti agli occhi e ne cava deciso rifiuto, ma di profondo amore per la dimensione terrena e spirituale del mondo, entrambe toccate e profondamente vissute: un’anticipazione fulminante del catamoderno. Nel Beat non c’è rinuncia, non c’è evasione, solo un’acuta percezione delle cose, e la beatitudine estatica del riconoscere che l’Uno viene colto soltanto nelle contraddizioni del Molteplice; il Beat diventa il contraddittorio, il punto di contatto tra cielo e terra, il sudicio e il puro, e nella travolgente fiamma del dolore e della beatitudine si scopre che la sua vita è divina. Nessuna impresa titanica dunque, nessun volo d’Icaro e rovinosa caduta verso il basso, nessuna illusione e favola bella; ma nondimeno nessun balzo a piè pari, nessuna rotta tangente alla realtà, nessuno scetticismo modernista, nessuna Noia cantata, dubbio o ignoto celebrato dallo scettico in paramenti neri. Solo una travolgente stoccata dritta al cuore del mondo per scoprirne l’anima ultraterrena. Questo il senso delle pregnanti considerazioni di Ferlinghetti a proposito del dialogo con Neruda. E il fatto che lo stesso Ferlinghetti, ormai acclamato come uno dei perni fondamentali (se non IL perno) attorno a cui la Beat Generation si sviluppò, neghi questa determinazione artistica, non fa altro che accrescere il valore del contraddittorio in questa risma di poeti sgangherati, maledetti e beati, beat. Nel caso specifico di Ferlinghetti varranno esigue indicazioni biografiche per fare intendere anche solo marginalmente da quale retroscena derivi la sua poesia: nato a New York nel 1919, vive per i primi trent’anni della sua vita facendo la spola tra la Francia e gli Stati Uniti. Nella sua città natale si distingue, al liceo, per le sue straordinarie imprese nell’arte della flatulenza e passa del tempo in riformatorio, mentre in Francia ha rapporti clandestini coi partigiani, durante la Guerra. Si laurea alla Sorbonne con un’improbabile tesi dal titolo Storia dei pisciatoi nella poesia moderna. Nel 1951 si trasferisce definitivamente a San Francisco, dove conosce la frangia della East Coast dei poeti Beat, e fonda la City Lights Books, casa editrice che pubblicherà gran parte delle opere della Beat Generation. Annota Fernanda Pivano: di lingua caustica e d’animo gentilissimo e generoso. Tutti gli elementi che compongono il calderone ribollente della sua vita fino all’età adulta si ritrovano con straordinaria chiarezza nelle poesie: partecipazione sociale e politica, attivismo poetico quasi da volontariato cattolico, una forte componente colta, l’ironia e l’influenza del surrealismo. Ma si colgono anche le contraddizioni di una vita intensa e vissuta allo sbaraglio, risultati altalenanti e non sempre sinceri che lo relegano alla condizione di beat minore, se confrontato coi grandi modelli del movimento (Ginsberg, Burroughs, Kerouac), un complesso di contraddizioni che non mancheremo di sottolineare. Come un antico e itinerante rapsodo dei primi millenni avanti Cristo, Ferlinghetti si muove in una dimensione infranta del reale, e a lui soltanto sta il dovere di ricomporla e consegnarla al mondo. Gli eventi di Troia rivivono in lui brucianti, ma è una Troia in giacca e cravatta, in cadillac e chewing-gum biascicati nei lunghi viaggi sulle highway americane (In un anno surrealista / di uomini sandwich e bagnanti / girasoli morti e telefoni vivi / politicanti addestrati con le fruste del partito / si esibivano come al solito). Poeta che raccoglie i cocci infranti del contemporaneo, poeta politico e sociale, sì, ma non poeta impegnato come potremmo immaginarlo: in un clima di crescente attivismo politico, di impegno sociale, di consapevolezza e dovere, quello del secondo dopoguerra, Ferlinghetti sceglie di non farsi cantore di programmi partitici e proclami popolari, ponendosi sempre al di là della mera contingenza momentanea. Non è un cronista, un cantore dell’evento (entusiasta o critico che sia: Ferlinghetti ha ben chiara la neutralità politica del verso), è un modellatore geometrico di materia, in una parabola che parte sempre dal momento terreno e arriva all’universale. È così che si inseriscono gli elementi filtrati dalla vita attraverso la propria pelle: la sublimazione poetica dall’hic et nunc all’infinitamente grande - suggestivo a questo punto il parallelo con una figura che sembra creare grande suggestione nel nostro poeta: san Francesco, l’infinitamente piccolo -. E dunque non stupiscano i frequentissimi inserti biografici, che spesso si confondono, dal lirismo dell’io contingente, con una generale dimensione del “noi” (quell’estate a Brooklyn / quando bloccarono la strada / un giorno afoso, e i / pompieri / aprirono le sistole / e i ragazzi corsero nel getto / in mezzo alla strada / ed eravamo / un paio di dozzine / là sotto […] mentre rivedo Molly / guardarmi e / scappare in casa / perché credo che in realtà noi due fossimo i soli quel giorno), una gioiosa pagina del proprio vissuto che si fa libro da regalare per strada. A contribuire alla parabola faticosamente cantata in una dimensione caotica, rapsodica, dell’esistenza come della poesia stessa, si inseriscono riferimenti colti, letterari, artistici e figurativi, frutto del passato universitario di Ferlinghetti (che tra i beat è cosa più unica che rara). Il poeta newyorkese vede il mondo attraverso infiniti veli colorati, lenti ottiche continuamente cambiate per correggere un’inesausta oscillazione della vista poetica: e dunque la realtà è fatta di grandi scene di Goya, il poeta versa un altro paio di poesie / su un mondo alla Bosch e si stende sulla spiaggia dell’amore / tra mandolini di Picasso ricolmi di sabbia (Goya, Bosch, Picasso, non a caso; rispettivamente: il pittore dell’angoscia turbinosa, del caos infernale, della realtà scomposta e riordinata nel disordine); e ancora il confronto con grandi autori, del calibro di Dante e di John Keats, sempre in visione ribaltata, non come, non come, a modo suo (non come Dante / che scopre una commedia / sul declivio dei cieli / io dipingerei un tipo diverso / di Paradiso / dove gli uomini sarebbero nudi / come sono sempre; e Non ho giaciuto con la bellezza tutta la mia vita ripetendo continuamente a me stesso / i suoi incanti più facili […] e così sanno esattamente come / una cosa bella è una gioia / per sempre e per sempre / e come mai e poi mai / si dissolve / in un nulla scialacquatore […] ho dormito con la bellezza / nella mia strana maniera). Proprio il ribaltamento dell’ordine costituito, oltre a costituire un’ulteriore riaffermazione ossimorica del ruolo del poeta come rapsodo, cucitore di caotici quadri in un disordine cosmico, è uno dei perni fondamentali della poetica ferlinghettiana. Le suggestioni giovanili di movimenti come Dadaismo, Surrealismo e Cubismo lasciano nel poeta profondi solchi, soprattutto l’esperienza surrealista (In un anno surrealista…). Facile rivedere a questo punto echi di immagini sociali alla Luis Buñuel nelle poesie di Ferlinghetti, figure parodiche, ribaltate, che si muovono in un substrato riordinato in maniera apparentemente confusa nella mente del poeta, ma che godono di una loro limpida coerenza interna, un mondo sub-creato in cui sfilano masse di oggetti e individui senza connotati nel pieno di una danza infernale e beata. In Ferlinghetti il surrealismo si risolve in un super-realismo nel senso etimologico, al di sopra della realtà: egli si pone su un gradino più alto per osservare meglio l’evento attirandolo contemporaneamente a sé attraverso le proprie lenti colorate, a metà dunque tra immedesimazione partecipata e distacco. Solo il paesaggio è cambiato / sono ancora sparsi lungo le strade / tormentate di legionari / falsi mulini a vento e folli galli […] la scena mostra meno carrette di tortura / ma più cittadini menomati / in macchine colorate / con strane targhe / e motori / che divorano l’America, o ancora Il castello di Kafka si erge sopra il mondo / come un'ultima bastiglia […] Lassù / c'è un tempo paradisiaco / Anime danzano 28 VOX ARENAE svestite / insieme / e come fannulloni / ai margini di una fiera / occhieggiamo l'inottenibile / immaginato mistero: il poeta sale per un lungo momento estatico su un gradino più alto dell’esistenza, per osservare, tagliare, ricucire - un eterno sarto del verso e della vita. Naturalissima, tanto da far spallucce con aria innocente, balza a questo punto davanti agli occhi la ricorrente metafora del circo: il mondo infernale alla Bosch, svuotato però di qualsiasi considerazione morale, si risolve in un ovvio circense saltellio di anime tra una poesia e l’altra (si esibivano come al solito / negli anelli dei loro circhi segatura / dove acrobati e proiettili umani / saturavano l'aria come fossero grida, o ancora: Mentre ancora attorno al cerchio / galoppano gli sbilenchi cammelli della lussuria / e tutti noi clown alla Ememtt Kelly / sempre a costruirci palcoscenici immaginari). Infine, l’ironia. Strumento di lettura della realtà abituale della poesia novecentesca, ma poco frequentato dai beat, quasi ne nutrissero una sospettosa diffidenza, Ferlinghetti ne fa spesso uso, in diverse maniere: da un lato si risolve in un ancestrale sarcasmo amaro, un acetum italicum oraziano o ariostesco (Il mondo è un bel posto / per esserci nati […] Già / ma poi sul più bello / arriva sorridente / l’impresario di pompe funebri); altrove si traduce in una bonaria ironia immaginativa, uno strumento purissimo e sublimante del reale, servo di quel surrealismo tanto caro al poeta newyorkese (Eppure lontano attorno al lato opposto / come la porta di servizio di un tendone da circo / c'è uno spiraglio tra le merlature / dove anche gli elefanti / passano ballando il valzer); da ultima, non per importanza, ma solo per frequenza, l’ironia è anche satira, VOX ARENAE 29 un’arma sociale - non politica: per quella c’è il ribaltamento e la sovversione -, e anche poetica (nel sonno domenicale io vedo me stesso / sterminare peccatori e tacchini / cani rumorosi con morti capezzoli taglienti / e cavalieri neri in armature di ferro / con etichette Brooks / e cerniere lampo Yale ai pantaloni / Sì / e col mio pene eretto per lancia / stermino vecchie signore / facendole giovani di nuovo). Dietro alla perenne volontà di ribaltare il visibile, di tagliare e ricomporre, frutto delle istanze destrutturalizzanti dei movimenti artistici tanto cari a Ferlinghetti, si cela una intensa volontà di rinnovamento, di superamento dei limiti e delle muraglie imposte (l’immagine, proposta poco fa, delle vecchie signore dell’alta borghesia ringiovanite dall’irriverenza del poeta è eloquente). Tuttavia questa nobilissima intenzione, per altro condivisa dai propri colleghi fin nel cuore pulsante della Beat Generation, non pare sempre sincera: spesso anzi si nutre di contraddizioni troppo evidenti, come se in una tensione titanica dell’atleta qualche nervo fosse schizzato a fior di pelle e rimasto lì, dolorante e rigido; e il poeta ne esce tumefatto, dal confronto con altri colleghi come Ginsberg. Se infatti in Ferlinghetti si assiste ad un porsi al di sopra del reale (super-realismo), che, comunque si vedano le splendide angolazioni ferlinghettiane, viene comunque sempre distorto a proprio piacimento senza significati profondi a supporto, e meramente ribaltato, non penetrato a fondo, questa gratuità d’immagine e di innalzamento - mai altezzoso e borioso, si deve riconoscerlo - in poeti come Ginsberg non è presente: anche i numerosi riferimenti religiosi e mistici sparsi lungo le poesie di Ferlinghetti paiono inserti posticci, un po’ colti e un po’ hippie, di facciata, poco motivati da una profonda spiritualità di matrice mistica - sincera ed autentica, come testimoniato dalla biografia - come quella di Ginsberg. Versi come La illaha el ill Allah / il sitar soffia il soffio dell’Atman in noi, apparentemente così carichi di significati religiosi, si risolvono in realtà in pure suggestioni: Ferlinghetti cade qui preda di quella contingenza suggestiva che aveva sempre rifuggito in vista di una sublimazione universale. La generale leggerezza dei versi ferlinghettiani rivelano un’arte depauperata di grandi visioni e pugnalate inferte al reale: i versi di Ginsberg, più vicini alla metafisica, sono austeramente privi di ironia e leggerezza circense - e questo da sé non avrebbe alcun peso nella considerazione del poeta, in quanto mero dato stilistico -; a caricare i versi di Ginsberg di una sensibilità ben più profonda e densa è la pesantezza visionaria con cui egli riesce a tagliare attraverso il reale per giungere al cuore pulsante dello spirito. Ginsberg è la realizzazione perfetta del programma Beat esposto all’inizio; Ferlinghetti è necessariamente relegato a una posizione marginale, in quanto grande uomo, ma dalla personalità artistica più limitata, che tenta di crearsi una retta appuntita per trapassare il Mistero della realtà, ma gli riesce soltanto un debole segmento che ne penetra la superficie. Da un lato dunque il mettersi al di sopra del reale, quasi una dichiarazione di impotenza nei confronti di esso; dall’altro un porsi a specchio del mondo. In Ferlinghetti si avverte un perenne senso di distanza, anche quando l’immedesimazione sembra conclamata. Egli si pone davanti al mondo e vi si specchia, di fronte, di spalle, di profilo, in tutti i modi; poi vi tira pugni, ne osserva i frammenti di vetro cadere scompostamente per terra, e infine li raccoglie e li ricompone convulso in grandi quadri, che, volente o nolente, non saranno mai un tentativo riuscito di sfondare il vetro per vedere cosa si cela oltre ad esso, ma un goffo, per quanto artisticamente meraviglioso, sforzo di ricomposizione di un mondo infranto verso cui si nutre una sorta di senso di colpa atavico. Come se Ferlinghetti tirasse pugni e improperi al primo individuo sotto tiro e poi se ne scusasse: di lingua caustica e d’animo gentilissimo. Tutto questo costituisce la perfetta epifania dell’artista indeciso, artisticamente interessante ma irrisolto: una disputa con l’esistenza, come ebbe a dire ragionevolmente Roberto Sanesi a proposito del poeta. E nonostante tutto, Ferlinghetti rimane una figura singolarmente curiosa nel panorama poetico americano del secondo dopoguerra: per la sua sconfinata immaginazione; per la sua funambolica abilità nel cambiare occhiali di fronte al reale; per la sua lucida e al tempo stesso caotica visione del mondo; per la sua attività fondamentale di organizzatore della Beat Generation (la libreria-editrice City Lights Books, il processo vittorioso in difesa di Urlo, il capolavoro di Ginsberg); ma soprattutto, per la sua inesausta voglia, quasi adolescenziale (che eterno bambino, Ferlinghetti), di svegliarsi e di risvegliare il pubblico da un torpore che con l’uomo ha ben poco a che fare, verso una dinamica evoluzione spirituale e artistica del poeta, riproposto in extremis come guida dell’umanità: Poeti, scendete per le strade del mondo, ancora una volta. […] Loro non hanno ancora innalzato barricate, le strade animate ancora con visi, uomini e donne attraenti camminano ancora qui, dovunque ancora attraenti creature, negli occhi di tutto il segreto di tutti qui ancora sepolto, i selvaggi figli di Whitman qui ancora dormono, si svegliano e camminano nell’aria aperta. Dall’intervista di Amy Goodman a Lawrence Ferlinghetti per Democracy Now del 2007. Dall’intervista di Heidi Benson a Lawrence Ferlinghetti per il San Francisco Chronicles. Tutte le citazioni di Ferlinghetti in questo paragrafo sono prese da una nota autobiografica dello stesso F. L’annotazione della Pivano e le citazioni dalle poesie di F. sono invece prese da LAWRENCE FERLINGHETTI, Poesie, Milano, Guanda, 1978. Andrea Peverelli 30 VOX ARENAE Tito Lucrezio Caro: animus ed anima nel De rerum natura I prodromi del poema lucreziano: l’atomismo di Leucippo-Democrito e l’Epicureismo del “Giardino” Sarebbe errato intraprendere una trattazione pienamente scientifica delle dottrine trasposte da Lucrezio negli esametri del De rerum natura, il primo poema epico-didascalico latino, avente come oggetto la materia fisica, trascurando l’antica sapienza cui egli attinse. Questa “antica sapienza”, si faccia attenzione, non proviene esclusivamente e solo da Epicuro, ma anche da coloro a cui questi si ispirò: Democrito ed il suo maestro Leucippo. Di Leucippo ben poco sappiamo, tanto che spesso si finisce col trascurarlo e con l’attribuire le sue proprie conquiste al ben più noto discepolo, Democrito. Infatti, non è da escludere che le opere di Leucippo siano state assorbite da quelle del discepolo. Per quel che riguarda quest’ultimo, possediamo notizie biografiche assai dettagliate (e talora fantastiche) di numerosi autori antichi, tra i quali spiccano Aristotele, Cicerone, Apollodoro, Diodoro, Eusebio, Strabone, Plinio. Non è questa la sede per discutere sulla credibilità delle loro asserzioni riguardo alla lunga vita del filosofo di Abdera, ma si può affermare con sicurezza che nacque qualche lustro dopo il suo maestro, attorno al 460 a.C. È proprio lo stesso Stagirita che ci ha consegnato un’esauriente analisi della teoria atomistica nella sua opera La generazione e la corruzione1, e quel che più sorprende è il fatto che egli abbia individuato l’inscindibile legame tra la scuola eleatica e l’atomismo (e, aggiungerei, come il sistema di Leucippo-Democrito abbia tentato di dare una risposta razionale “alle aporie suscitate dall’eleatismo, cercando di salvare il principio di fondo dell’eleatismo medesimo, senza rinnegare i fenomeni”2). Sarà ora lecito chiedersi quali fossero le teorie dei Presocratici che prima Leucippo, poi Democrito ed infine, a più di un secolo di distanza, Epicuro, ebbero premura di mettere in dubbio. E non un “dubbio socratico” ante litteram, bensì una messa in discussione volta a gettare le basi di una filosofia della natura migliore e più vicina alla verità ultima delle cose (anche VOX ARENAE 31 se tale fu solo per i pochi sostenitori, dal momento che non solo non risolse le aporie eleatiche, ma addirittura ne originò di più paradossali). In particolare, Leucippo fondò il proprio pensiero filosofico rovesciando in senso positivo le ipotesi negative di Melisso. Si possono addurre due esempi a dimostrazione di ciò. In primo luogo, se il primo prosatore tra i presocratici ammetteva la “piena” esistenza dell’Essere, che è inalterabile, immobile, incorporeo e negava del tutto l’esistenza del vuoto, che è non-essere, il maestro di Democrito eliminò la contrapposizione dialettica pieno-vuoto ed affermò la possibilità del movimento dei suoi atomi proprio grazie al vuoto. In secondo luogo, mentre Melisso tentava la riduzione all’assurdo del pluralismo negando ai molti l’eternità, che è prerogativa esclusiva dell’Essere (il quale, si sa, è uno), Leucippo argutamente sostenne l’esistenza dei molti, che, alla stregua dell’Uno melissiano, possono essere eterni ed immutabili. E’ proprio in tal modo che nacque “l’ipotesi di una molteplicità che, mantenendo identica la propria natura qualitativamente indifferenziata, fosse ragion d’essere della molteplicità fenomenica qualitativamente differenziata”3. Si può così intuire come il sistema filosofico di Leucippo-Democrito non sia del tutto originale, ma muova sempre dall’inevitabile polemica con pensatori anteriori o contemporanei e talora (come inevitabile) faccia tesoro delle precedenti conquiste. Ad avvalorare questa teoria v’è il fatto che proprio la definizione di atomo implichi una modifica di quelli che per Empedocle erano i quattro elementi eterni (fuoco, acqua, terra, aria) e per Anassagora i semi infiniti ed infinitamente divisibili (senza però arrivare al nulla), detti omeomerìe. Infatti, se i due pluralisti asserivano che le qualità visibili di ciò che percepiamo coi sensi derivano da differenze qualitative degli elementi originari, i due fondatori dell’atomismo fan scaturire “tutte le determinazioni qualitative fenomeniche da determinazioni quantitative geometriche”4. Questa è la basilare distinzione tra “qualità primarie” e “qualità secondarie”, ossia tra le caratteristiche geometriche degli atomi e le affezioni delle cose visibili. La teoria di fondo degli Atomisti, come si è già potuto capire, consiste nella convinzione che tutto sia esclusivamente generato dagli atomi e dal movimento, il quale risulterebbe impossibile in assenza del vuoto. Ancora una volta, se Empedocle aveva parlato di Amore ed Odio ed Anassagora di Intelligenza quali cause del movimento, gli Atomisti non sentono di dover attribuire l’origine del movimento a nient’altro se non al movimento stesso: gli atomi sono per natura in perpetuo moto. È pertanto da escludere che Democrito “il mondo a caso pone”: il fatto che tutto avvenga per rigorosa necessità esclude categoricamente la casualità e sprona alla ricerca di una spiegazione causale della realtà fenomenica. Che poi questa causa non fosse quella finale sarebbe superfluo spiegarlo, dal momento che non si può negare ciò che ancora non esiste. Si potrà però a buon motivo affermare che l’impossibilità di un kòsmos derivante dal chàos atomico sia stata il punto di partenza per l’intuizione dell’esistenza dell’intellegibile, ossia per le conquiste di Platone. Infatti il determinismo meccanicistico di Leucippo e Democrito, più che ricercare le cause del movimento atomico (le quali sono invisibili ai sensi, quindi non direttamente percepibili, ma solo postulabili), è volto ad indagarne gli effetti. Si avrà così che il nascere è provocato dall’incontro tra gli atomi che vorticosamente si muovono nel vuoto, mentre il perire dalla loro disgregazione. Inoltre le particelle, una volta separate, ne incontreranno altre per formare nuovi composti: è un’intuizione sorprendente, poiché la si ritrova simile nella legge della conservazione della massa di Lavoisier, secondo cui in natura “nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”. Gli Atomisti tutto spiegano con il movimento (degli atomi) ed il vuoto. Per “tutto” si deve intendere non solo i fenomeni naturali che cadono sotto i nostri sensi, ma anche ciò che in certo modo trascende la percezione sensoriale: l’anima e la conoscenza. Dato che tale spinoso argomento sarà trattato in altra sede, basterà qui accennare che “come ogni forma di meccanicismo, così anche il pensiero atomistico rivela le sue insufficienze soprattutto nella spiegazione degli organismi”5, tra i quali primaria importanza ha l’uomo, l’unico possessore di un’anima ed il solo capace di conoscenza “metasensibile”. Le conquiste di Leucippo e Democrito, se da un lato furono riprese da Platone ed Aristotele a scopo polemico, dall’altro furono riportate in auge da Epicuro, il quale però si trovava a trasmettere la propria dottrina in una società profondamente diversa rispetto a quella di oltre un secolo prima. E’ questo un dato non trascurabile, dal momento che i mutamenti introdotti dal fondatore del Kèpos sono dovuti proprio ai cambiamenti avvenuti dopo il tramonto della civiltà delle pòleis ed il denso diffondersi della tenebra dell’ellenismo (ovviamente così era per i Greci del IV secolo; oggi si attribuisce all’età di Filippo ed Alessandro il giusto valore). Dell’atomismo Epicuro ereditò non solo le originali intuizioni, ma anche la base polemica del sistema filosofico. Infatti, il metodo del rovesciamento in positivo di tesi negative avversarie venne trasmessa da Leucippo e Democrito al filosofo di Samo alla stregua di una malattia ereditaria. Tuttavia, Epicuro non poteva portare avanti l’anacronistica messa in discussione delle 32 VOX ARENAE affermazioni dei Presocratici, come avevano fatto i suoi “maestri”: la sua veemente critica è rivolta ad un suo immediato antecessore, Platone, di cui ripudia la cosiddetta “seconda navigazione”. Da qui nasce la totale fiducia che il fondatore del Kèpos attribuisce alla sensazione, ritenuta il più solido criterio di verità, contrariamente ai ragionamenti (ossia le opinioni), che possono cadere in errore. Se questa è un’innovazione epicurea rispetto all’atomismo, si può affermare che a distanziare maggiormente i due sistemi filosofici sia la predominanza dell’etica rispetto alla fisica (quindi la subordinazione di quest’ultima alla prima) sostenuta da Epicuro. Per quel che riguarda la fisica, i principi di fondo restano analoghi a quelli degli Atomisti. In primo luogo, “nulla nasce dal non-essere”6 e nulla “si dissolve nel nulla”7, ossia non esistono né creazione né distruzione. In secondo luogo, esistono solamente i corpi ed il vuoto e null’altro costituisce la realtà che cade sotto i nostri sensi. In terzo luogo, tra i corpi ve ne sono di semplici ed indivisibili: gli atomi, ancora una volta quantitativamente (e non qualitativamente) differenti. Per di più, Epicuro tenta di risolvere una delle maggiori aporìe dell’Atomismo antico: come gli atomi, cadendo secondo un moto che dovrebbe essere perpendicolare, possano incontrarsi. Così il nostro filosofo introduce il concetto della parènklisis, che Lucrezio traduce in latino con il neologismo (nonché calco semantico) clinamen. “Declinare… atomum perpaulum”8, dice Cicerone: ossia l’atomo devia un poco dalla propria traiettoria, urtando altri atomi e permettendo in tal modo la formazione dei corpi composti. Tuttavia, “la più notevole delle innovazioni che Epicuro introdusse nella fisica atomistica”9 non fece altro che trasformare un’apparente soluzione del problema introducendo una nuova e più paradossale aporìa: se Democrito aveva attribuito agli atomi un’intrinseca forza motrice, il Samio afferma che il moto dipenda dalla gravità e dal peso. Ciò porta ad una negazione di quella Necessità che era stata il fondamento per la fisica non solo atomistica, ma anche eleatica. E’ pertanto Epicuro, non Democrito, “che 'l mondo a caso pone”. Ancora l’Arpinate brillantemente intuì brillantemente che l’innovazione epicurea era volta non tanto ad introdurre una spiegazione logica e razionale del “creato”, ma a gettare le basi su cui avrebbe poi VOX ARENAE 33 innalzato il fragile monumento della sua etica10. Gli appariva infatti impossibile (direi a buona ragione) inserire la libertà della vita morale dell’uomo all’interno di un universo rigidamente governato da un’immutabile necessità. In questa sede verrebbe naturale trattare della concezione epicurea dell’anima, ma come sopra accennato, ciò sarà fatto a tempo debito. E’ piuttosto d’uopo analizzare il modo in cui Lucrezio, a ben due secoli di distanza, abbia preso l’audace iniziativa di tentare di diffondere il sistema filosofico di Epicuro in una società che difficilmente lo avrebbe potuto recepire. L’Epicureismo a Roma: Lucrezio, un discepolo sui generis. quoniam haec ratio plerumque videtur tristior esse quibus non est tractata, retroque vulgus abhorret ab hac, volui tibi suaviloquenti carmine Pierio rationem exponere nostram et quasi musaeo dulci contingere melle, …11 Mi sembra d’obbligo, a questo punto, gettare uno sguardo sull’epoca in cui Lucrezio visse e, soprattutto, sulla sua scelta (a dir poco eccezionale) di mettere in versi una filosofia come l’epicureismo. Il quadro politico della Roma del I secolo a.C., anche se diverso da quello della Grecia del IV secolo a.C. (aggiungerei che le due civiltà, la greca e la romana, sia politicamente che culturalmente ben poco ebbero in comune), si presenta tuttavia come una serie ininterrotta di turbolenze, che troverà termine unicamente con l’ascesa al potere di Ottaviano Augusto. Anche se incerte sono le notizie biografiche su Lucrezio, possiamo tuttavia affermare che egli visse nel pieno del secolo di crisi che vide profondi mutamenti sotto ogni punto di vista (sociale, politico, culturale). Ed è proprio questa situazione di instabilità che, come minò l’identità di polites nei cittadini ateniesi del IV secolo, così ora insidia il sentirsi cives del cittadino romano. A questo punto sorge spontaneo un interrogativo: sebbene filosofi greci, tra cui Fedro, maestro di Cicerone, abbiano annunciato la “buona novella” in una Roma sconvolta almeno quanto lo era stata Atene tre secoli prima, come mai l’epicureismo non ha lasciato traccia alcuna nella società romana? Vi sono diversi motivi, che facilmente si possono evincere da una breve e semplice analisi antropo-sociologica della Roma del I secolo a.C. Innanzitutto, sebbene avesse alla sue spalle circa 600 anni di storia, la civiltà latina all’epoca di Lucrezio non aveva ancora terminato la sua fase di “crescita”. Così, se nel mondo greco l’epicureismo fece risuonare i primi vagiti in una fase di inesorabile declino, a Roma ebbe un tentativo di approccio durante una crisi transitoria, che non aveva minato alla base le tradizioni di una civiltà che di lì a poco sarebbe divenuta un impero. Inoltre, se nell’Atene dilaniata dalla guerra del Peloponneso ed inglobata nel regno macedone l’interesse politico era ormai estinto (la morte della polis necessariamente portò a quella del polites), nella Roma del I secolo a.C. era ancora vivissimo, dato che le guerre scatenatesi tra Mario e Silla prima, Cesare e Pompeo poi, Ottaviano Augusto e Marco Antonio infine furono proprio guerre civili. Orbene in questo contesto, in una società nella quale le tradizioni ed il senso di appartenenza al corpo civile erano più forti che mai, come avrebbe potuto attecchire una filosofia che ha come principio di base un “otium” possibile solo grazie ad una vita appartata, lontana dalle vicende mondane, priva dei turbamenti derivanti dagli impegni politici, dedita unicamente alla ricerca del piacere tramite il soddisfacimento dei bisogni primari? E’ proprio l’Arpinate, contemporaneo di Lucrezio, ad avvalorare questa tesi: l’homo politicus ha come dovere morale l’impegno civile, l’unico che possa renderlo davvero dignus. Se poi si aggiunge il fatto che la concezione epicurea di ciò che il nostro poeta chiama religio è antitetica rispetto a quella della tradizione dell’inviolabile mos maiorum, risulta chiarissimo il totale rigetto del “vangelo” di Epicuro da parte della civiltà latina. Non sorprenderà dunque notare che in tutta la letteratura latina Epicuro sarà sempre citato unicamente a scopo polemico e che solo Lucrezio ed Amafino, per di più scrittore di infimo valore (sempre secondo Cicerone), osarono esaltare la dottrina del filosofo di Samo. Sorprenderà invece notare come il suo più noto discepolo nel mondo latino, Tito Lucrezio Caro, abbia audacemente scelto di esporre la dottrina del suo maestro, il Prometeo moderno, l’eroe e salvatore dell’umanità, Epicuro (oserei dire un Messia ante litteram) utilizzando la forma poetica e non quella prosaica. In questa sede non posso che rifarmi ad un felice passaggio di Pierre Boyancé: “[…] non ci troviamo solo in un’epoca in cui era normalmente la prosa la lingua della filosofia; non ci troviamo solo di fronte a un sistema che può sembrare particolarmente prosaico, che […] bandisce dall’universo la vita e la tragedia delle divinità […]. Ma esiste una difficoltà in più, dovuta alle idee personali di Epicuro a proposito della poesia […]. Epicuro non amava la poesia.”12 L’avversione di Epicuro nei riguardi della poesia risulta tanto più forte quanto più si pensa che la poesia da lui intesa è soprattutto quella di stampo omerico, così inscindibilmente connessa al mito, che a sua volta è fondamentale per la religione tradizionale (un vero monstrum agli occhi del nostro filosofo). Detto questo, il De rerum natura potrebbe apparire come un affronto all’ortodossia dell’epicureismo originale. Tuttavia ci sono diversi elementi che negano l’ipotesi di un’eretica temerarietà da parte di Lucrezio e lo fanno assurgere, a tutti gli effetti, tra i più arditi sostenitori dell’epicureismo e tra i più ferventi amanti del Maestro. Infatti l’ “evangelista” di Epicuro non solo ama la poesia sia greca (torneremo più in là sulla sua ammirazione per Empedocle, il primo filosofo-poeta) che latina (esalta Ennio come l’ “Omero latino”), ma è orgoglioso di aggiungere alla poesia un nuovo attributo: la chiarezza, il più alto risultato del Musaeus lepos di cui si adorna la poesia. Questo smisurato orgoglio trova ampia esposizione nel primo capitolo del poema didascalico in analisi, lo stesso capitolo in cui ha sede la famosissima invocazione a Venere, che per Lucrezio non incarna la Natura, ma il piacere, ossia il principio che 34 VOX ARENAE fa muovere l’immenso meccanismo della natura grazie alla riproduzione. Pertanto, Venere deve assistere il poeta nella sua missione conferendo ai suoi versi quello stesso lepos che porta alla perpetuazione della specie, alla vita. Citando ancora una volta il Boyancé, la cui trattazione al riguardo mi è sembrata la più pertinente : “[…] la poetica di Lucrezio si fonda sul principio fondamentale della teoria epicurea della vita. Quel mondo in miniatura che è il poema obbedirà alla legge del mondo”13. Non solo voluptas, ma anche claritas. Infatti è proprio grazie a questo secondo attributo della poesia “lucrezianamente” intesa che si può definire il De rerum natura un poema didascalico a tutti gli effetti. E’ questo un fatto per nulla sorprendente, se si pensa che, da fedele discepolo quale voleva essere, Lucrezio ebbe necessariamente la stessa concezione della filosofia teorizzata dal maestro: veicolare un salvifico e, soprattutto, veritiero messaggio morale. L’originalità e, oserei dire, la genialità di Lucrezio, risultano evidenti proprio nell’aver saputo avvolgere il concreto materialismo epicureo con una veste poetica la cui leggera grazia e le cui icastiche, quasi tangibili immagini ben si confanno al messaggio veicolato. La poesia del nostro autore è ben lungi dalla poesia (mitologica) contro cui Epicuro muoveva le proprie accuse di essere foriera di turbamenti e falsità14: è poesia (come già accennato) didattica, ove per “didattica” si deve intendere la volontà di condurre il lettore all’unica verità (quella della dottrina epicurea) con uno stile chiaro ed immediato, privo di qualsiasi ambiguità ed eccesso di retorica, ma sorprendentemente lontano dal rischio di cadere nel prosaico. Sono convinta che anche l’attacco di Lucrezio contro Eraclito (contenuto nel libro I del De rerum natura ai versi 635-711) possa essere letto come una sorta di dichiarazione poetica: ciò che il poeta latino vuole evitare è proprio l’obscuritas del filosofo presocratico, poiché “in questo genere di scrittura vaga e pomposa, il contenuto è sacrificato in favore del puro effetto verbale”15. VOX ARENAE 35 Ritroviamo qui una concezione affine a quella aristotelica: è proprio lo Stagirita a citare Empedocle come l’emblema del poeta che, non avendo alcunché da dire, cerca di sopperire all’inconsistenza del pensiero con un linguaggio ambiguo ed oscuro16. Tuttavia, non bisogna cedere alla tentazione di instaurare un confronto alla pari tra Eraclito e Lucrezio. Infatti, l’Efesino era ancora tutto pervaso dallo “spirito dionisiaco” del popolo greco (per dirlo con termini nietzschiani) proprio dell’epoca anteriore all’intellettualismo socratico: ciò lo rendeva una sorta di mantis, le cui sentenze erano dettate dal divino invasamento e per questo incomprensibili, ma, al contempo, dotate del fascino che solo il sublime ha. Il nostro poeta invece è costretto da un duplice vincolo: quello nei confronti della filosofia epicurea, i cui principi non può e non vuole tradire, e quello nei confronti dello strato sociale cui il poema deve giungere: quello che, pur avendo accettato la cultura ellenica, ha ancora la forma mentis concreta e pragmatica tipica della discendenza di Romolo. Inoltre (se mi è lecito utilizzare termini cristiani), Eraclito è egli stesso il Messia, la voce del divino, cui il tono oracolare è quasi d’obbligo; Lucrezio invece è un evangelista che, a due secoli dalla morte del maestro, sente il dovere morale di diffonderne le salvifiche dottrine. Eppure, nonostante la distanza cronologica e culturale che separa il poeta latino dall’Efesino, nonostante l’avversione nei confronti di Eraclito che Lucrezio ha ereditato dagli atomisti, è inevitabile notare come lo stile oscuro del presocratico eserciti il suo fascino sul discepolo di Epicuro, dal momento che “i suoi versi salvifici nascono anche dal furor e dall’invasamento, riflettono la divina voluptas e l’horror dell’animo che trasale alla vista degli infiniti orizzonti disvelati dalla scienza epicurea”17. Non solo: pur facendosi il portavoce della serenità raggiungibile tramite il tetrapharmakon, Lucrezio ha screziato di tenebra e moti ondosi quella luminosa e placida distesa che dovrebbe essere il saggio una volta raggiunta l’atarassia. Tutto il poema è percorso da una sottile malinconia che obnubila di intimo lirismo la “filosofia dell’oggettivo”. Nonostante ciò, l’autore del De rerum natura è a tutti gli effetti un poeta appartenente alla tradizione antica, ovvero il suo ruolo è quello di docere (da qui la nozione di “poesia didattica”) e non quello di suscitare sconvolgimento emotivo tramite il prepotente rigurgito della propria marcata sensibilità. Ed è appunto per questo che è alquanto difficile “comprendere cosa appartenga alla filosofia e cosa alla mente del poeta”18. Personalmente, non ritengo sia del tutto scorretto affermare che, sebbene le dottrine professate da Lucrezio nel suo poema non siano originali, tuttavia il modo in cui vengono espresse sia addirittura più efficace di quello del maestro. A questo proposito non potrei addurre miglior spiegazione di quella elegantemente cantata dal nostro poeta: il pharmakon somministrato dalla filosofia di Epicuro ha un sapore troppo amaro per chi deve assumerlo per la prima volta; così il lepos della veste poetica funge da miele con cui “medentes […] oras pocula circum contingunt”19 affinché la medicina sia edulcorata. Questa immagine “presuppone un’alquanto primitiva dottrina di forma e contenuto: infatti implica che lo stile sia qualcosa che viene steso sul messaggio del poema per renderlo accettabile ad orecchie riluttanti o recalcitranti”20. Si pone ora il problema del linguaggio lucreziano, ossia in che modo il poeta in analisi riuscì ad ovviare alle difficoltà poste dalla povertà della sua lingua. Egli stesso, in I.136-139, dimostra di essere ben consapevole dell’inadeguatezza della terminologia tecnica (per quanto concerne la filosofia) del latino, ma, quasi paradossalmente, in tutto il poema non lo si trova mai in difficoltà nell’esprimere concetti alquanto complessi rendendoli facilmente intellegibili. Il sopra citato Arpinate, in un passaggio del De oratore, fornisce un’esauriente trattazione riguardo agli “espedienti” utili a superare elegantemente la povertà del linguaggio: utilizzare arcaismi, neologismi, metafore21. Si faccia però attenzione: nella maggior parte dei casi, il neologismo (novatum) non è una parola creata appositamente per adempiere ad una specifica funzione semantica, ma un vocabolo greco “introdotto nella lingua latina per la prima volta”22. Così, dal poema dedicato al pensiero dell’eroico Graius homo che risollevò l’umanità dalla vischiosa melma della superstitio, è naturale aspettarsi un’adeguata ricchezza di grecismi. Tuttavia si tratta di ricchezza, non di sovrabbondanza, e (come suggerisce lo stesso Cicerone) Lucrezio non è avaro di icastiche metafore. Sono proprio queste ultime che il nostro poeta utilizza nei passaggi più filosoficamente densi (in particolare per chiarire un nuovo concetto o termine), e non prestiti dal greco, calchi semantici, neologismi. Come afferma il Dalzell: “sembra, in sostanza, che Lucrezio né abbia preso in prestito parole greche per creare un vocabolario filosofico, né abbia fatto un consistente uso di formazioni latine basate sul greco”23. Da ciò (ma soprattutto dalla lettura del De rerum natura) si evince (e si nota) che i termini greci sono utilizzati per colmare alcune lacune del latino in specifici ambiti, come la medicina o il teatro, per motivi eufonici, o addirittura per creare un effetto esotico o ironico. A sostegno di questa tesi concorre anche il fatto che le nozioni maggiormente tecniche del linguaggio epicureo non trovano un corrispondente calco semantico o prestito in Lucrezio, bensì vengono trasposte in perifrasi poetiche (aggiungerei, se mi è lecito, di maggior effetto rispetto al puro tecnicismo filosofico). Nelle sezioni strettamente filosofiche del suo lavoro, il nostro poeta assai di rado creò nuovi termini latini o prese in prestito lessemi dal greco. I neologismi che troviamo nel poema sono stati introdotti soprattutto per assecondare la struttura poetica, non per tradurre concetti della filosofia epicurea: di ciò avremo 36 VOX ARENAE testimonianza nell’analisi del terzo capitolo del De rerum natura, l’apice ideale dell’intero poema, che, in ultima istanza, risulta essere “uno dei più sperimentali ed innovativi poemi in lingua latina”24. Il III libro del De rerum natura: animus ed anima nella concezione epicureo-lucreziana Nell’economia del poema lucreziano, il terzo libro rappresenta assieme l’apice ideologico ed il punto più drammaticamente umano della trattazione. Ponendolo a confronto con i primi due, di carattere prettamente fisico, dal momento che trattano, rispettivamente, della natura degli atomi e della teoria del clinamen (la “deviazione” di traiettoria degli atomi, grazie alla quale è possibile la loro aggregazione ed in virtù della quale all’uomo è concesso il libero arbitrio), si potrà immediatamente notare come diverso sia l’andamento stilistico dell’argomentazione. Infatti, se il procedimento di esposizione delle dottrine epicuree e di confutazione di quelle avversarie, nei libri dedicati alla phisiologia, è chiaro, lineare, sereno, oserei composti, è dal poeta rivolta non solo al lettore, ma in primo luogo a sé stesso. Così, dai 1094 densissimi versi che costituiscono il III libro del poema trapela la costante tensione tra ciò che l’uomo più desidera, l’immortalità, e ciò che deve essere, l’eterno oblio del sé dopo la morte. Come nota il Barra25, “di fronte al mistero dell’anima umana, il poeta rileva quanto c’è in essa di fragile, di contingente, di caduco […] Il suo cuore di poeta e la sua sofferenza di individuo lo portano a discendere ulteriormente da questi templi [scil. i templa serena del II libro del De rerum natura] per […] farsi partecipe della tragedia che involge i suoi simili”. Inoltre, la trattazione del libro in questione lascia trasparire tutta l’impazienza di raggiungere la meta finale che coglie il poeta sin dai primi versi e si fa fortissima nella seconda parte del libro, ossia quella concernente la dimostrazione della mortalità dell’animus e dell’anima. All’anima umana Lucrezio già aveva fatto accenno nel proemio primo libro del suo poema. I versi di riferimento sono i seguenti: dire scientifico, nel III libro esso si fa serrato, soffocante, tormentato, al punto che potrebbe sembrare quasi impoetico rispetto all’ampio ed arioso distendersi dei precedenti versi Sebbene il brusco cambiamento di toni appaia sorprendente, al punto che alcuni filologi in passato ignoratur enim quae sit natura animai 26, nata sit, an contra nascentibus insinuetur, et simul intereat nobiscum morte dirempta, an tenebris Orci visat vastasque lacunas, an pecudes alias divinitus insinuet se…27 hanno ipotizzato una diversa collocazione del libro in questione, tuttavia esso ben si confà all’argomento trattato: la composizione atomica dell’animo umano, la sua necessaria mortalità e la conseguente confutazione dell’infondato timor mortis che da sempre attanaglia l’uomo e sempre lo stringerà nella sua morsa. Ora, al Lucrezio fedele discepolo di Epicuro e dei suoi ideali di aponìa, apatìa, atarassìa, si sostituisce un Lucrezio del tutto umano: la dimostrazione che l’animo, la substantia che rende l’uomo tale, è destinato a perire in quanto elemento di natura costituito di atomi che necessariamente si separeranno per formare altri VOX ARENAE 37 Nella parte centrale della trattazione della religio intesa come superstitio, che l’Epicuro-eroe riuscì ad abbattere come Eracle fece con le porte dell’Orco, Lucrezio pone il controverso problema sulla natura e provenienza di quella ineffabile sostanza che tutto il nostro essere pervade. A dissipare la fitta cortina d’ignoranza che impedisce all’uomo uno sguardo che penetri la profondità delle cose sarà ovviamente Epicuro: l’anima non è innata né tanto meno imperitura, bensì è formata dall’unione di atomi piccolissimi, lisci e sottili, i quali casualmente si sono aggregati e casualmente si dissolveranno, senza lasciare traccia alcuna del composto che furono né premonizione di quello che saranno. Più il là, sempre nel proemio del primo libro, troviamo il primo accenno della distinzione tra animus ed anima, che sarà poi ampiamente e con impeccabile rigore argomentativo delineata nel III libro: …tunc cum primis ratione sagaci unde anima atque animi constet natura uidendum28 Così, già al principio del De rerum Natura, è chiaramente e con urgenza dichiarato quale sarà l’ideale punto di arrivo dell’intera trattazione: la puntuale definizione della natura delle due sostanze al fondamentale scopo, sebbene non sia ancora palesemente accennato, di dimostrare che infondata è la paura degli orrori che attendono l’uomo dopo la morte del solo corpo. È davvero mirabile inoltre, come si evince dai due estratti sopra riportati, che la specificazione terminologica si adatti alla sede in cui i lemmi vengono impiegati: con ciò intendo dire che, prima del III libro, il significato di animus ed anima resta ancora (apparentemente) quello ambiguo che caratterizzò tutta la precedente poesia latina arcaica, con la sola eccezione di Accio (sebbene anche questa resti in un alone di incertezza). Ritengo che non sia una scelta casuale, bensì dettata da precise motivazioni che vanno fatte risalire alla natura didascalica del poema: Lucrezio, da buon precettore, vuole porsi sullo stesso piano dei suoi discepoli, percorrendo assieme ad essi l’impervio cammino della conoscenza ed assieme ad essi conquistando poco alla volta le verità dis-velate da Epicuro. In altre parole, Lucrezio è una sorta di Virgilio dantesco ante litteram, ma con una missione opposta: mostrare non i tormenti infernali e le paradisiache gioie, bensì la totale inesistenza dell’aldilà. Questo è dunque l’argomento che, come un fiume sotterraneo, scorre latente per tutto il libro dedicato ad animus ed anima, divenendo poi risorgiva nei versi finali volti all’annichilimento del timor mortis. Tuttavia, ciò che preme specificare nell’attuale sede è cosa Lucrezio voglia significare col lemma animus e cosa, invece, con anima. A questo scopo, tutto il necessario è fornito dal testo stesso del De rerum natura che, come sopra accennato, si contraddistingue per la claritas argomentativa. In particolare, dopo il proemio, i versi 94-135 sono volti a dimostrare che l’animus e l’anima non sono incorporei, ma una parte del corpo, come una mano, un piede, un occhio. Inoltre, come un arto dolorante non influenza un arto sano, così spesso l’animo può essere colto da afflizione sebbene il corpo sia in salute e viceversa. Oltre a ciò, il poeta accenna ad una prima distinzione tra animus ed anima, ben visibile nei loci di seguito riportati:. a) Primum animum dico, mentem quam saepe vocamus, in quo consilium vitae regimenque locatum est, esse hominis partem nilo minus ac manus et pes29 b) nunc animam quoque ut in membris cognoscere possis esse neque harmonia corpus sentire solere, principio fit uti detracto corpore multo saepe tamen nobis in membris vita moretur; atque eadem rursum, cum corpora pauca caloris diffugere forasque per os est editus aer, deserit extemplo venas atque ossa relinquit30 Appare evidente come l’animus sia associato alla mens, in cui risiede il consilium, ossia la facoltà del discernimento, del raziocinio, mentre l’anima sia paragonata alla vita che pervade il corpo tutto e che viene esalata qual refolo d’aria nel momento in cui si spira. Sebbene i due termini sembrino serbare l’originario significato che ad essi fu conferito dai poeti 38 VOX ARENAE sopra analizzati, si riscontra tuttavia la prima grande differenza con la tradizione a cui Lucrezio poteva attingere: animus ed anima non sono incorporei, bensì materiali. La seconda, ancor più rilevante, è collocata pochi versi dopo: Nunc animum atque animam dico coniuncta teneri inter se atque unam naturam conficere ex se, sed caput esse quasi et dominari in corpore toto […] Idque situm media regione in pectoris haeret. […] Cetera pars animae per totum dissita corpus paret et ad numen mentis momenque movetur. Idque sibi solum per se sapit, <id> sibi gaudet, cum neque res animam neque corpus commovet una31”. Animus ed anima non sono dunque due sostanze distinte, ma “strettamente legate tra loro e costituenti una sola natura32”. Esse si distinguono principalmente per l’ubicazione: l’animus ha sede nel petto33, l’anima è presente in tutto il corpo. Date le funzioni attribuite alle due componenti della medesima natura, ossia il pensiero e la forza vivificatrice, si potrebbe cadere nell’errore di intendere animus come traduzione latina del termine greco νοῦς ed anima di ψυχή. Bisogna infatti tener conto di quanto il filosofo e dossografo Aezio dice riguardo ad un passo della Lettera ad Erodoto di Epicuro34, a dimostrazione che l’opposizione animus-anima corrisponde in greco a quella τὸ λογικὸν-τ ὸ ἄλογον, due aggettivi sostantivati. Pertanto, la distinzione non sarebbe tra facoltà di pensiero e facoltà di sensazione, ma tra il razionale e l’irrazionale. Così l’animus, che sino a questo momento era stato ora sede del sentimento e delle emozioni, ora organo predisposto al pensiero ed alla volontà, ora sinonimo di VOX ARENAE 39 indole caratteriale, assume, grazie alla sistematizzazione lucreziana, un significato tanto vasto da abbracciare tutte queste proprietà e, addirittura, da renderlo superiore rispetto all’anima (proprio come τὸ λογικὸν è superiore a τὸ ἄλογον). Inoltre, da quanto si evince leggendo l’ultima coppia di versi sopra riportati, l’animus opera in modo del tutto indipendente dall’anima e dal corpus35. Come fa notare il Pizzani36, ad una prima lettura comparata degli scritti di Epicuro e del De rerum natura, maestro e discepolo sembrerebbero operare scelte lessicali diverse: il primo farebbe riferimento, coi due neutri sostantivati, a due facoltà di un solo organo, il secondo invece, coi due sostantivi distinti per genere, a due diverse sostanze. Tuttavia, così non è: Epicuro impiegava un solo termine per indicare il concetto di anima, ovvero ψυχή. Questa si compone poi di due parti, l’una razionale-emotiva e l’altra irrazionale-istintiva. In Lucrezio accade la medesima cosa: l’animus-mens è un aspetto dell’anima in senso lato, la quale è, per così dire, completata dalla “cetera pars animai37”, ossia l’anima irrazionale impiegata in senso distintivo rispetto all’animus. Dopo aver ribadito la corporeità dell’animus, Lucrezio descrive la materia di cui tale sostanza è formata: corpuscoli piccolissimi, oltremodo sottili, che si muovono velocissimi alla stregua della rapidità con cui l’intelletto pensa. Tali corpora o semina (termini con cui il poeta trasla il greco ἄτομα) sono per di più leggerissimi: lo si comprende dal fatto che il corpo di un uomo morto non subisce alcun mutamento né nell’aspetto, né nel peso38. La materia che forma l’animo, inoltre, è costituita di tre elementi, vento, calore ed aria (dal momento che “vapor porro trahit aera secum39”), ai quali si aggiunge una quarta natura che non ha nome, ma è costituita da particelle più mobili, sottili, levigate e piccole delle altre ed è predisposta alla diffusione dei moti sensitivi nelle membra40. A questo punto, il poeta sente l’urgenza di definire con esattezza quale sia il rapporto tra anima e corpus. L’ampia sezione, che consta di quasi un centinaio di versi (versi 323-416), pone la nozione fondamentale sin dal principio: Haec igitur natura tenetur corporea b omni ipsaque corporis est custos et causa salutis; nam communibus inter se radicibus haerent nec sine pernicie divelli posse videntur41. L’anima-organo sensoriale è contenuta nel corpo ed è causa e custode della sua salute; inoltre, è ad esso strettamente legata, dal momento che le particelle corporee e quelle “spirituali” sono tra di loro intrecciate sin dal principio della vita. La trattazione prosegue con la dimostrazione che né il corpo né tanto meno l’anima possono sussistere di per sé, indipendentemente l’uno dall’altra, e con la confutazione della teoria, attribuita a Democrito, per cui nell’essere vivente si alternerebbero atomi corporei e spirituali in modo alquanto semplicistico. In tutto ciò, qual è il ruolo dell’animus? Nei versi 396 e seguenti, Lucrezio afferma che l’anima non sussiste senza l’animus, dal momento che c’è vita finché questo è intatto. Così l’anima “si riduce alla diffusione in tutto il corpo degli atomi psichici, diffusione grazie alla quale può irradiarsi ovunque l’azione centrale dell’animus. E scorgiamo qui la conferma dell’importanza decisiva che ha la localizzazione nella distinzione delle componenti42”. Rispetto alla differenziazione tra animus ed anima, che si verifica unicamente sul piano delle funzioni, a Lucrezio sembra premere di più addurre prove della loro corporeità e, di conseguenza, mortalità. Queste ultime sono ben ventuno e si dilatano dal verso 417 al verso 829, occupando la sezione di gran lunga più consistente del III libro. Tutte le prove, dato lo scopo principale del De rerum natura, ossia quello di veicolare in ambiente romano la fisica epicurea, si rifanno a fenomeni naturali43. Nell’economia della presente trattazione, fondamentali risultano i versi d’esordio della sezione: Tu fac utrumque uno sub iungas nomine eorum, atque animam verbi causa cum dicere pergam, mortalem esse docens, animum quoque dicere credas, quatenus est unus inter se coniuntaque res est44. Da questo momento, poiché entrambi corporei e mortali, animus ed anima saranno indifferentemente riuniti sotto il generico anima: il poeta semplifica il lessico per meglio fissare quello che è per lui, così come lo fu per il maestro, il fine supremo della filosofia: eliminare nell’uomo ogni timore foriero di turbamento, in primis quello della Acherusia vita45 che, dopo la morte, attende l’uomo coi suoi tormenti. Nel riunire le due parti spirituali presenti nell’uomo, l’una, razionale, predisposta al pensiero ed all’emotività, l’altra, irrazionale, predisposta alla sensazione, sotto il nome comune di anima, Lucrezio ha conferito al termine il significato molteplice e vastissimo che ancor oggi è presente nel nostro lessico. Senza trascurare il fatto che, tanto nella lingua parlata quanto in quella letteraria, l’impiego di “animo” ed “anima” appare essere semanticamente identico. Tuttavia, l’idea ossimorica della corporeità della parte spirituale dell’uomo non fu ben accetta già ai tempi di Lucrezio e sempre meno lo divenne con l’avvento del cristianesimo, dal momento che esso, se privato della sua componente ultraterrena, non avrebbe più potuto sussistere. In sintesi dunque, se per quanto riguarda le funzioni dell’anima si è mantenuta la concezione lucreziana, per quanto invece concerne la sua natura 40 VOX ARENAE l’idea della materialità è stata occultata da quella dell’incorporeità, forse anche per assecondare l’inestinguibile sete d’eterno insita nell’uomo. (Footnotes) 1 A8, 324b 35sgg. (=Diels-Kranz, 67 A7). 2 Cfr. Reale 1987, p. 172. 3 Cfr. Reale 1987, p. 175. 4 Cfr. Reale 1987, p. 177. 5 Cfr. Reale 1987, p. 181. 6 Epic. ad Herod., 38. 7 Epic. ad Herod , 39. 8 Cic. fin., 1, 19. 9 Cfr. Reale 1989, p. 208. 10 Cic. fat. 22 sg. 11 Lucr. I, vv. 943-947. 12 Boyancé 1985, pag. 69. 13 Boyancé 1985, pag. 79. 14 Sebbene tale idea sia affine a quella espressa dal Giancotti, non oserei arguire che l’ostilità di Epicuro fosse rivolta unicamente alla poesia mitologica, dal momento che la scarsità delle fonti al riguardo non permette di propendere in toto per le controverse asserzioni dello studioso. 15 Dalzell 1986, pag. 38. Tutte le citazioni del Dalzell qui riportate sono state da me tradotte. 16 Arist. rhet. 3.5.4 (= 1407 a). 17 Piazzi 2005, pag. 38. 18 Dalzell 1986, pag. 43. 19 Lucr. I, vv. 936-937. 20 Dalzell 1986, pag. 72. 21 Cic. or., 3.152. 22 Dalzell 1986, pag. 81. 23 Dalzell 1986, pag. 87. 24 Dalzell 1986, pag. 88. 25 Barra 1953, pagg. 109-110. VOX ARENAE 41 26 Da animai, genitivo singolare del sostantivo femminile di prima declinazione anima. L’utilizzo dell’originaria terminazione in –i, che nel I secolo a.C. era già divenuta un arcaismo, è funzionale a conferire maggior rilevanza al termine nell’economia del discorso, adornandolo di un’aura di sacra solennità. 27 Lucr. I, vv. 112-116. 28 Lucr. I, vv. 130-131. 29 Lucr. III, vv. 94-96. 30 Lucr III, vv. 117-123. 31 Lucr. III, vv. 136-146 32 Traduzione da me effettuata. 33 A questo proposito, cfr. Cic. Tusc. 1,9,19 alii in corde, alii in cerebro dixerunt animi esse sedem et locum. 34 Cfr. Aet. IV,4,6, 390 D e Epicur. Epist. ad Herod. 66. 35 Più oltre, ai versi 152-160, è affermata l’influenza delle affezioni dell’animus su anima e corpus, con una descrizione sintomatologica del terror animi che trovo analoga a quella operata dalla poetessa di Lesbo, Saffo, nella sua celeberrima sintomatologia dell’amore (fr. 31 Voigt) poi traslitterata in latino dal poeta novus Catullo. 36 Pizzani 1979, p. 245. 37 Cfr. Lucr. III, v. 150. Ritengo, a questo punto, che l’impiego della desinenza arcaica per il genitivo singolare del lemma anima sia funzionale a distinguere l’anima in senso lato dall’anima in senso stretto. 38 Cfr. Lucr. III, vv. 208-215. 39 Cfr. Lucr. III, v. 233. 40 Cfr. Lucr. III, vv. 241-245. 41 Lucr. III, vv. 323-326. 42 Boyancé 1985, pag. 173. 43 Per questa sezione, cfr. Bailey 1921, pp. 1061-1131. 44 Lucr. III, vv. 421.424. 45 Cfr. Lucr. III, v. 1023. . Cristiana Lucidi 42 VOX ARENAE VOX ARENAE Ermeneutica Testuale commenti ad alcune poesie dei gladiatori Un beat che per poco non scrive in aramaico Inquadramento generale della poetica e breve analisi di “Bismillah” di Andrea Peverelli 44 pag. VOX ARENAE 45 Un beat che per poco non scrive in aramaico Inquadramento generale della poetica e breve analisi di “Bismillah” di Andrea Peverelli Nonostante la densa espressività ipersperimentale, l'influenza della modernità novecentesca (soprattutto quella beat americana e surrealista) più eclettica e una vocazione mistica sia congenita che orgogliosamente esercitata -tratti evidenti tanto al lettore celere e approssimativo quanto a quello più riflessivo e rigorosole poesie di Andrea Peverelli non si pongono mai l'obiettivo di scalfire ogni fondamento di senso, né, a ben vedere, quello di una destrutturazione/ristrutturazione eversiva o perturbante di ordine teologico, filosofico od artistico del reale. Il motore alla base del meccanismo della sua scrittura in versi è una religiosità nomade, trans-etnica, sincretista e metastorica, parallela ma non speculare al dato brado lampante della sua fede cattolica. Questo è già materiale sufficiente per constatare l'impossibilità, nel discorso dell'autore, di abolire o svalutare ogni accezione, ogni sfaccettatura di un logos che non solo deve continuare a esserci e a essere principio, ma in quanto tale deve proseguire, perseguire e comunicare tutti gli attributi di grandezza e bellezza dogmatica della divinità. Ci spingiamo ancora più in là per allegare subito un ulteriore corollario: quanto, cioè, a nostro avviso, sarebbe scorretto sconnettere il tessuto poetico dell'opera di Peverelli dal caposaldo platonico, ma soprattutto giudaico e cristiano, della suddivisione binaria e distintiva di cielo e terra, oltre che, naturalmente, da quella tra creatura e creazione, con annessa opposizione a ogni eventuale ipotesi di identificazione panteistica spinoziana. Quello che stupisce di questi presupposti di partenza è la loro genuina e assoluta arcaicità, il loro rifarsi romantico e orgoglioso solo a testi spirituali e sacri immensi della storia umana, ma soprattutto l'apparente contraddizione col modo enormemente innovativo in cui, nella pratica, queste nozioni ormai senza tempo sono sviluppate ed elaborate, prendendo vita in una materia creativa dell'aspetto accattivante, non soltanto VOX ARENAE 45 "moderno" ma ipermoderno o "catamoderno", spesso incomprensibile, sempre ultraimmaginifico (per quanto riguarda quest'ultimo carattere è da sottolineare un'altra influenza importante, l'imperitura fascinazione del poeta per i giochi concettisti del barocco). La risposta a questa (fittizia) contraddizione va ricercata, oltre che, ovviamente, nella trasversalità delle sue letture, anche nelle pieghe più recondite del misticismo di Peverelli, che, con lo stesso vigore con cui rifiuta di disperdere la virtù dogmatica "classica" del cristianesimo, preserva gelosamente la sua allergia, come dichiara egli stesso, contro "l'accidia di chi si rinchiude nella torre d'avorio", si parli dell'asceta eccessivamente sdegnoso nel suo anfratto in pietra o, in ambito sociale e culturale, del risibile snobismo dell'establishment intellettuale della sua Milano. Il fatto di credere a un Dio creatore nell'alto dei cieli non fa che acuire la necessità di un attivismo, attivismo cristiano, sì, ma totalmente terreno, agente col corpo e nel corpo: la mancata immanenza della sostanza divina nel creato non è un deterrente per l'azione e un incentivo a proteggersi dietro ai canonici bastioni dello spavento lirico e alla mortificazione del religioso che disprezza la vita terrena, quanto, al contrario, una sollecitazione antiplatonica al parallelismo fra la sensualità mondana e la sensualità divina dei mistici: la dianoia del cristiano non è figlia della ratio, è sensuale, è nei sensi, e agendo e dipingendo coi sensi Peverelli vuole delineare, contemporaneamente, come in un'immaginaria trasposizione e copia pittorica con carta carbone, la tela del cielo e la tela della terra, strutturalmente separate ma misticamente collegabili dal ponte della poesia. Da qui la natura intrinsecamente sinestetica, fino alla saturazione, di quasi tutti i componimenti. Il cardine della sinestesia spesso ha il ruolo più o meno inconscio di porsi come elemento di riequilibrio rispetto alla furiosa pesantezza concettista ugualmente propria all'autore, impedendo ai versi di sprofondare nel grigiore completo cui ogni anelito mistico che si rispetti conduce spontaneamente (giova ripeterlo: quello di Peverelli non è un anelito rivolto al cielo e non alla terra, quanto piuttosto un anelito rivolto al cielo attraverso la terra). Come abbiamo già accennato, tornando a un'angolazione più strettamente filosofica, c'è un'implicita volontà di rifiuto dei due estremi teorici tipicamente occidentali: l'idealismo trascendentalista platonico e l'immanentismo spinoziano. E' per questo che la scrittura in versi libera il cavallo del senso e del logos cosmico-divino-evangelico dalle briglie della logica classico-occidentale e della ratio greca e latina, restituendo il dualismo cielo/terra a un universo non più univocamente e chiaramente esprimibile, ma dalle radici salde ed esclusivamente cristiane. La prima conseguenza importante è che questa deoccidentalizzazione della sostanza cristiana deve comportare un rivolgersi alle sconfinate praterie del novecento nordamericano più folle - per attingere strumenti letterari adatti a questa catarsi -, e, per quanto riguarda l'aspetto etnico-etico-spirituale, all'integrità semitica e aramaica, agli studiosi e ai padri della Chiesa delle origini, oltre che ai misticismi di altre etnie e altre religioni (con particolare predilezione per il derviscismo islamico, come la poesia che fra poco analizzeremo, "Bismillah", non manca di testimoniare fin dal titolo). L'operazione forse più rilevante e da prendere in esame nell'agire poetico di Peverelli è dunque una distillazione essenziale di un principio religioso , se così possiamo esprimerci, un atto poetico di depurazione dalle scorie temporali insanguinate con cui la storia e gli uomini di ogni secolo non hanno mai cessato di sporcare e violare la pura gratuità sacrificale (ma attiva) incarnata dal duro e liscio legno della croce. --In "Bismillah" il tema, in senso anche lato e più ampio, della purificazione redentrice, leitmotiv immancabile in numerosissimi altri frammenti del corpus completo dell'opera di Peverelli, si esplicita con decisa programmaticità fin dall'incipit ("Misi ciabatte di cotone / alla mia vecchia supponenza, / la confinai in un gineceo di coperte e monocolture senza mercato"): il mettersi in discussione, la catarsi e la rinascita spirituale vengono affrontati come eventi già trascorsi prima ancora di iniziare qualsiasi tragitto; essi non sono un arrivo, ma un mero punto di partenza, un processo ciclico creativo-distruttivo che il mistico deve essere in grado di inglobare in sé come un automatismo organico autosufficiente. Già dal quarto verso questa purificazione viene configurata secondo una procedura tipicamente peverelliana; cioè attraverso la geografia dei luoghi dello spirito : luoghi mai abbastanza esotici personificano un affetto o uno stato del mistico, e i suoi slanci pindarici impensabili si dipanano così attraverso l'ecumene ("e me ne andai nella notte boreale / masticando cicche ed Orse Minori / [...] così nella notte guardai i suoi occhi d’Islanda, / sprecammo anche molti sguardi / finché il cemento artico si appese alla linea tra noi /e penetrò tutto il sospeso"). Come si può ben vedere, è al silenzio ghiacciato dell'ecosistema artico che è affidato il ruolo di comporre la scenografia della rinascita interiore del poeta, di un suo nuovo fecondo rinchiudersi dentro il silenzio, con tanto di effetti speciali come la "tramontana jazzista d'autunno" soffiata da Dio fra le "veglie amarena" (per quanto sia un dettaglio, le note cromatiche insolite sono così diffuse nelle poesie di Peverelli che meritano una sottolineatura dedicata). Si possono prendere queste escursioni geografiche in senso più o meno letterale, credere con volontaria ingenuità alla verità della loro spregiudicatezza favolosa, nonostante il relativo attributo fantastico sia non solo presente ma esibito, oppure intenderle più realisticamente come derivazioni di viaggi nel corpo, fra i nervi, il cervello e la mente del poeta, e cambia poco, visto che tanto il corpo del mistico è comunque corpo della terra; quello su cui conviene concentrarsi è infatti, in tutti i casi, l'elemento concreto, materiale, terreno di questi viaggi, che viene mantenuto senza ambiguità: si conferma l'idea di un misticismo che non esclude un valore e un ruolo rilevante alla materia mondana (come confermano i coraggiosi versi: "piovi i tuoi 99 significanti terreni / nella forma umana che contiene tutte le forme"), ma che per l'appunto, più sottilmente e raffinatamente di quanto qualsiasi sdegnoso e mortifero puritano di parrocchia ecclesiastica e non sarebbe capace, proclama necessario un "passare attraverso" il mondo, un ponte con cui attraversare, o, per meglio, dire, “trapassare” la materia, bucandone i limiti. 46 VOX ARENAE Questa "traiettoria parabolica" dell'orientamento mistico è espressa con sublime originalità da questi altri versi: "non permettere l’inizio e la fine per il nome con il nome nel nome / ma prendi il nostro sguardo a strattoni / coi morsi della fame / e sputaci al di là come semi di senape al vento -". La contingenza nominale, formale ed esistenziale della vita non si supera sognando ad occhi aperti un "di fuori" da questi recinti (di per sé ineffabile e inconcepibile), ma brucando così a lungo e con tanta convinzione i prati di questi pascoli limitati che, quasi come un miracolo, con un inconsueto gesto inaspettato, sarà il pastore ad ammazzarci a morsi e, così facendo, a "sputarci oltre". Pietro Bariola VOX ARENAE 47