i ricordi ritrovati

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i ricordi ritrovati
Titolo della tesina: Le donne: il Sole nell’universo di Umberto Saba
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Sezione narrativa: racconto
I RICORDI RITROVATI
Entrai nel negozio alle 8 in punto, come ogni mattina.
Mi sedetti davanti alla scrivania, in attesa di qualche cliente da servire. Purtroppo nel
ventesimo secolo, un negozio di antiquariato non è fonte di grandi guadagni: pur sapendo
ciò decisi di continuare l'attività, iniziata all'inizio dell'ottocento dai miei avi.
Erano quasi le 10 quando entrò un uomo. Mi disse di voler vendere un comodino che
teneva in cantina da anni, ormai. Gli chiesi di mostrarmelo, così alcuni minuti dopo tornò
con il piccolo mobile; viste le condizioni decisi di comprarlo per poche lire, in comune
accordo con il propietario, desideroso di sbarazzarsene. Appena se ne andò cominciai ad
esaminarlo, ad aprire tutti i cassetti. Nell'ultimo intravidi una sagoma rettangolare
nascosta all'angoletto. Presi in mano l'oggetto. Era una foto fi unn uomo ed una donna,
vestiti con abiti che non definirei contemporanei. Cominciai a fantasticare sulla loro
identità, sulla loro vita. Dopo alcuni secondi mi resi conto che sul retro della foto c'era
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scritto un indirizzo. ''Via della Salvezza 15,34124, Trieste''. Preso dalla curiosità decisi di
cercare ovunque fosse possibile l'indirizzo. Sono sempre stato curioso, fin dall'infanzia:
penso che conoscere le storie di altre persone, confrontarsi, sia un mezzo per crescere,
per arricchire il mio bagaglio culturale.
Interessante, per dirla tutta. Passarono giorni di ricerca, che risultarono inutili. Decisi così
di partire, di andare personalmente a cercare quell'indirizzo, sipnto dal mio solito e del
tutto irrazionale interesse. Così, il giorno dopo presi il primo treno per Trieste, con in
mano solo un piccolo bagaglio contenente il necessario; lasciai la gestione del negozio a
mia moglie, ormai abbastanza competente.
Arrivai nel tardo pomeriggio alla stazione di Trieste e dopo l'estenuante viaggio vagai in
cerca di un ostello in cui passare la notte. Fu una notte abbastanza travagliata:
nnonostante la stanchezza non riuscivo a non pensare a quella foto. E se non avessi
trovato nessuno? O se la casa non esistesse più? Fui tormentato dalle domande, ma
dopo ore finalmente preso dalla stanchezza caddi in un sonno profondo.
Quando l'indomani mi svegliai ero ansioso, emozionato e frenetico. Iniziai a camminare in
cerca della mia destinazione e dopo più o meno un'ora arrivai davanti alla porta di quella
casa tanto cercata. Suonai il campanello, con le gambe che tremavano per l'emozione.
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Dopo alcuni secondi di attesa, dietro l'uscio intravidi un'anziana signora aprire
timidamente la porta. LA riconobbi immediatamente: era la donna della foto.
La salutai in modo gentile: <<Salve. Il mio nome è Matteo. Matteo Feltri. Lei non mi
conosce, mi scusi per l'intrusione così improvvisa. Probabilmente si starà chiedendo
perché sono qui. Ecco, penso di aver trovato qualcosa che le appartiene ed ho deciso
che fosse il caso di riportargliela.>>
La donna mi guardò confusa in silenzio; quando vide la foto nella mia mano scoppiò in un
pianto disperato e dopo alcuni secondi rispose con voce tremante. <<S..Salve, grazie,
grazie mille. Entri, la prego. Se per lei non è uun problema mi piacerebbe offrirle qualcosa
per sdebitarmi.>>
Entrai, felice di averle riportato un ricordo che per lei mi sembrò così importante. <<Vuole
un caffé? Un thé?>> chiese. Le risposi che un bicchiere d'acqua sarebbe stato più che
sufficiente. Tornò dalla cucina con il bicchiere in mano, ancora scossa e tremante.
<< La ringrazio ancora. Mi dispiace se per l'emozione non mi sono nemmeno presentata.
Mi chiamo Maria>> disse. <<Quella foto è davvero importante per me: è l'unico ricordo
materiale che ho di mio fratello>>. A quel punto timidamente le chiesi: <<Perché?
Sempre se non le dispiace rispondere..non voglio essere invadente.>>
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La donna sorrise e disse: << È una storia lunga, ma se vuola saperla non ho problemi a
raccontarla. L'uomo nella foto è mio fratello, Umberto. Siamo nati in una famiglia
ebraicadi modesti commercianti e siamo vissuti, fino all'adolescenza, in maniera serena,
come tutte le persone meriterebbero di vivere. Nel 1933 iniziò l'inferno e cominciammo ad
essere perseguitati dai nazisti per la nostra religione, colpevoli di credere in ideali diversi.
Scappammo finché ci fu possibile, per quasi sette anni cotninuammo a vivere le nostre
vite come possibile. Nel 1940 i nostri genitori erano già morti entrambied eravamo rimasti
solo io ed Umberto, giovani ed incoscienti. Nello stesso anno ci preso e ci portarono nel
campo di concentramento di Auschwit. Nel tragitto, durante il viaggio in quel treno, tutti
ammassati, senza cibo, acqua né aria, fu l'ultima volta che lo vidi. Sapevo che la mia vita
sarebbe finita in quel luogo, o che, se ne fossi uscita viva, la mia esistenza non sarebbe
stata più la stessa.
Mi portarono in una cella, una stanza maleodorante, sporca, piena di donne disperate. Ci
avevano tagliato i capelli a zero, tolto tutto ciò che avevamo. Eravamo schiavi. La nostra
vita in quel momento non valeva più niente.
Vicino alla cella c'era ciò che chiamavano ''forno''. Ho visto due o tre volte entrare li
dentro uomini e donne e non uscirne. Capitava sempre la sera tardi. Per coprirne il
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rumore le SS accendevano la radio o mettevano in moto un rumoroso autocarro.
Credevano di occultare la realtà, ma il verità la rendevano ancora più evidente. Mi ricordo
tutto ciò come se fosse ieri: un uomo entrava nelle nostre stanze a prendere i condannati.
Essi restavano in silenzio, consapevoli del loro destino, o più spesso gridavano; i passi
delle donne con cui condividevo la stanza continuavano a risuonarmi in testa per giorni,
settimane. Una sera presero quasi tutte le mie compagne di cella: mi stavano togliendo
tutto ciò che avevo di più prezioso in quel luogo infernale.Cominciai ad avere delle
allucinazioni; vedevo la figura di Umberto, lo sentivo accanto. Forse fu proprio quello a
darmi la forza per continuare a vivere. Pensavo a quanto sarebbe stato bello abbracciarlo
un'ultima volta, dirgli che gli volevo bene più di ogni altra cosa. Chissà in quel momento
cosa faceva, se era vivo, morto. Magari era riuscito ad evadere. Impossibile; ma ci
speravo. Nel dicembre del 1942 le SS mi misero a lavorare nel reparto destinato alla
cucina: mi sentivo più al sicuro, dato che almeno avevo un'occupazione reale ed utile.
Non che fosse un'assicurazione per la vita, ma almeno una parziale protezione.
Furono tre anni interminabili. Nel 1945 il campo fu liberato dalle forza dell'Unione
Sovietica. Vidi la luce. Ero salva. Mi sentii finalmente di nuovo una donna, un essere
umano. Quando tornai a casa, dove siamo ora, abbracciai persino i mobili. Non riuscii a
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credere che finalmente ero libera. Avevo di nuovo una vita. La mia.
Umberto non tornò. Sapevo che non cel'avrebbe fatta, ma speravo che sarebbe andata
diversamente.>>
Rimasi per qualche minuto in silenzio. Ero scandalizzato. << Non mi aspettavo tutto ciò.
Mi dispiace.>> Furono le uniche parole che riuscii a dire. Maria mi guardò con uno
sguardo quasi materno e rispose: <<Non dispiacerti. Ti sono grata per avermi fatto
vedere questa foto, ti ringrazio piuttosto per l'interesse mostrato verso la mia storia>>. Le
dissi la prima cosa che mi vennein mente: << La sua storia è veramente emozionante.
Grazie. Mi dispiace per ciò che ha passato, per ciò che le ho riportato alla mente. Mi
dispiace soprattutto che gli uomini siano riusciti a fare tutto ciò e che lei ne sia vittima. Le
vorrei lasciare questa foto.>>
La donna la prese: le sue mani tremavano. La strinse a sé ed iniziò a piangere, di nuovo,
ma in modo diverso. Sulla foto cadevano le sue lacrime, le lacrime amare versate da una
donna che pur avendo passato tutto quell'inferno, riesce a piangere dalla gioia solo
vedendo una foto.
Istintivamente mi alzai dalla comoda poltrona su cui sedevo, la guardai e decisi di
abbracciarla. Pur avendola conosciuta così poco tempo prima si era fidata di me, aveva
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condiviso il suo passato buio con me, un perfetto sconosciuto.
Fu una delle giornate più belle della mia vita. Porto ancora dentro di me quelle emozioni, i
brividi che mi vennero ascoltando le sue parole.
Me ne tornai a casa il giorno stesso. Non appena entrai nel negozio decisi di raccontare
tutto a mia moglie. Presi il comodino e lo portai a casa. Ogni volta che lo guardo penso
all'orrore dell'Olocausto, allo stesso tempo alla gioia di chi è riuscito ad uscirne vivo.
Grazie Maria
Federica Ursini
Classe 4LB
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