Studi e ricerche per il restauro

Transcript

Studi e ricerche per il restauro
Soprintendenza per i Beni Architettonici Paesaggistici Storico Artistici
ed Etnoantropologici per le province di Sassari e Nuoro
*MDPNQMFTTPEFMMBSPUPOEBEFMMB
#FBUBB 7FSHJOFEJ-PSFUPB.BNPJBEB
4UVEJFSJDFSDIFQFSJMSFTUBVSP
.BSJB1BPMB%FUUPSJ
(BCSJFMB'SVMJP
Indice
Il complesso della Rotonda della Beata Vergine di Loreto
Gabriela Frulio
p. 3
La decorazione pittorica dell’abside della chiesa della Beata Vergine di Loreto
Maria Paola Dettori
p. 11
Maestri costruttori, botteghe e famiglie di frescanti
Maria Paola Dettori, Gabriela Frulio
p. 19
Cronistoria delle recenti trasformazioni e degli interventi
di restauro architettonico
Gabriela Frulio
p. 25
La campagna di rilievo scanner-laser
Francesco Tioli
p. 29
1
2VFTUPMBWPSPÒEFEJDBUPBMMBDPNVOJUËNBNPJBEJOBDBQBDFDPNFOFMMBUSBTMB[JPOFEJ-PSFUPEJPąSJSFF VOB DBTB
B DIJQFSEJTFHOPPQFSWFOUVSBWJTJSFDIJ('
2
Il complesso della Rotonda della Beata Vergine di Loreto
Gabriela Frulio
Il cantiere
La rotonda intitolata alla Beata Vergine di Loreto sorge al centro dell’abitato
storico di Mamoiada; il paese ha origini
certamente medievali per la sua rilevanza territoriale, pur se le prime fonti scritte
attestanti la Villa risalgono alla metà del
XIV secolo. Nell’area storica sono ancora
presenti tipi edilizi e murature che testimoniano una parte importante dello sviluppo urbano entro il XIV secolo, nonché
alcuni importanti registri decorativi, sia in
edifici religiosi che civili, ascrivibili all’età
gotico-catalana1.
La chiesa è un edifico ad icnografia centrica costituito, in esterno, da un nitido
volume cilindrico di base con un tamburo esagonale a risparmio, su cui imposta una alta cupola ogivale con lanternino. Internamente la chiesa mantiene
la scansione senaria ovvero un ampio
vano cilindrico dilatato da un’abside e
cinque nicchie radiali, separate da lesene interrotte; la principale fonte di luce è
costituita dalle sei finestre distribuite sul
tamburo ed altrettanti sei oculi in asse,
all’imposta della cupola.
L’attribuzione cronologica della struttura
rotonda a partizione esagonale rimane
ad oggi ancora aperta nonostante l’indagine delle fonti abbia restituito per l’attuale edificio una datazione certa intorno
ai primi anni del XVIII secolo. Sono infatti
la particolare icnografia centrica scandita sul modulo senario e la stereotomia
circolare del cilindro di base e del tamburo che lasciano aperti i dubbi su una
attribuzione anteriore, forse una rotonda
sul modello imitativo orientale organizzata secondo il numero sei, caro alla tradizione medievale2.
Il 10 maggio 1709 è stipulato in Mamoiada presso il notaio Alessio Demontis un
contratto tra Giuseppe Gualliò milanese,
domiciliato nella città di Sassari, capomastro di fabbrica, e Quirico Querenty, devoto di Nostra Signora di Loreto
della presente villa di Mamoyada, con il
permesso del rettore don Proto Melony
e del procuratore delle chiese della villa
Giuseppe Galisay ed il nobile don Antonio
Sedda Satta priore della confraternita di
N. S. dei Sette Dolori e la licenza dell’Ill.
mo don Francesco Masones y Nin arcivescovo di Arborea, ottenuta il 15 aprile
1708.
Il contratto3 si basa su un precedente
atto rogato in data 1708 presso il notaio
Giovanni Battista Lay “in questa villa”,
un accordo sui lavori iniziati della nuova chiesa della SS. Vergine di Loreto,
sita dentro l’abitato, per la cui opera e
assistenza il predetto Querenty aveva
offerto al Gualliò la somma di 650 scudi in danaro contante e 50 pecore in
Il complesso della chiesa della Beata Vergine di Loreto a Mamoiada, vista dalla piazza
comune. L’atto del 1709, con l’aggiunta
di altre 50 pecore in comune, rinnova i
patti precedenti, per fugare questioni e
contrasti sulla conclusione dei lavori. Nel
primo contratto la chiesa doveva essere
conclusa e perfezionata come la chiesa
del glorioso S. Antonio Abate dell’illustre
e magnifica città di Cagliari e nell’atto di
rinnovo il maestro Gualliò si impegna ad
ultimarla dentro e fuori come la chiesa
cagliaritana, “tranne che non resta boligat aflores y persungris que non tocan y
no pertenessen a son arte”.
L’edificio in questione è dunque intitolato alla Santissima Vergine di Loreto ed
è detto “nuova chiesa”; nel 1709 la sua
costruzione risulta già iniziata a seguito
del primo contratto stipulato tra il Gualliò
ed il Querenty l’anno precedente.
Nel 1709 risulta inoltre già esistente la
Confraternita di N. S. dei Sette Dolori
(alla quale sarà dedicata una delle tre
cappelle nella stessa chiesa e nel 1783
le decorazioni nella volta dell’oratorio)
ma non la Confraternita della Vergine di
Loreto, citata invece nel Registro di Amministrazione redatto a partire dal 17234,
a lavori quasi ultimati ed a chiesa già officiata.
Il committente è Quirico Querenty, della villa di Mamoyada e devoto di Nostra
Signora di Loreto5; non ha l’appellativo
di nobile, a differenza del priore don Antonio Sedda Satta, ma è certamente un
personaggio benestante per poter intraprendere la costruzione di un’opera di
3
tali dimensioni e complessità costruttive,
tanto da affidare i lavori non a maestranze locali ma alla bottega lombarda del
Gualliò, che in quegli anni nell’isola si
era resa interprete delle istanze di rinnovamento seguite nella fine del XVII secolo alla lunga tradizione costruttiva tardogotica di marca iberica. L’araldica sugli
stemmi rinvenuti nell’abside potrà forse
indicare qualche dato in più sul munifico
committente.
Giuseppe Gualliò o Quallio6, capomastro
e capobottega lombardo con una fervida
attività nell’isola, è in quegli anni attivo
nel cantiere della basilica della Madonna dei Martiri a Fonni, con l’incarico di
ristrutturare ed ampliare la chiesa esistente e realizzare il Santuario sotterraneo7. Nella chiesa di Loreto a Mamoiada
le stesse maestranze si confrontano con
i complessi lavori di una struttura ad impianto esagonale centrico.
I lavori pattuiti escludono la parte “tranne
che non resta boligat aflores y persungris
que non tocan y no pertenessen a son
arte”, di difficile interpretazione, forse
allusiva alla realizzazione delle finiture
e del partito decorativo8. D’altra parte, a
differenza dei suoi collaboratori lombardi
Arietti, Mutoni e Corbellini che sono attivi
a Fonni, a Sassari ed a Cagliari anche
col ruolo di stuccatori, il Quallio riveste
la sola qualifica di Mastre ed a Fonni, si
evince, di impresario.
Quale che sia la interpretazione del rigo,
certamente il contratto escludeva alcune
Planimetria della Rotonda (riduzione arbitraria da una restituzione grafica in scala 1/100)
parti importanti del lavoro sull’erigenda
chiesa, tali da meritare l’apposita specifica contrattuale.
È da considerarsi poi singolare che il
Querenty abbia vincolato la bottega del
Quallio alla realizzazione di una chiesa
sul modello di un’altra in Cagliari che in
quegli anni risulta ancora in costruzione
(i lavori della chiesa di S. Antonio abate
sono già iniziati en forma Rotunda nel
1704 ad opera di maestranze ancora
non individuate e la chiesa è consacrata nel 17239). In ogni caso, posto che
l’impianto centrico della attuale chiesa
di Loreto si debba alla ristrutturazione di
una fabbrica preesistente o alla precisa
volontà della committenza di evocare la
centralità del tempio della casa di Loreto, il riferimento a modelli certi, come in
uso nei contratti edili del tempo, dovette rimandare necessariamente a coeve
realizzazioni a icnografia centrica: il citato Sant’Antonio oppure il San Michele, sempre a Cagliari, che in quegli anni
doveva aver realizzate almeno le strutture10. Non sembra scontato il riferimento
al modello del S. Antonio se non ipotizzando un coinvolgimento della bottega
dei Quallio nel medesimo cantiere11.
La chiesa della Vergine di Loreto può
dunque comprendersi a pieno titolo all’interno di un filone icnografico centrico
sperimentato nella Sardegna barocca da
maestranze extrainsulari ed esempio di
un rinnovamento del gusto felicemente
accolto dalla committenza locale.
Posto il riferimento al modello, rimane
tuttavia aperta la questione della scansione senaria della rotonda mamoiadina
che non corrisponde all’impianto ottagonale del Sant’Antonio cagliaritano, peral-
tro con icnografia a spinta longitudinale
lungo l’asse principale. Sembra invece
rimandare al tamburo esagonale della
chiesa di S. Bernardino a Busachi12 la
stereotomia volumetrica della parte tergale della chiesa di Loreto. Anche il rapporto con lo scenario urbano costituisce
a Mamoiada un unicum se si considera
che le altre due chiese centriche sarde
del Sant’Antonio e del San Michele a
Cagliari sono progettate ab origine per
essere inglobate tra le strutture rispettivamente di un ospedale e di un convento, che di fatto ne obliterano il volume
esterno13.
Una interessante nota di storia sulla costruzione della Vergine di Loreto e sulla
sua potenziale importanza strategica riguarda la vicenda dell’intenzione di alcuni religiosi della comunità dei Serviti
di Sassari, nel 1718, di fondare un loro
Convento presso la chiesa, già visitata
durante un precedente sopralluogo. Il
progetto non è attuato per la veemente
opposizione dei frati minori Osservanti
della Basilica dei Martiri a Fonni14.
La cronaca sul cantiere dell’erigenda
chiesa continua col “Registro di Amministrazione della chiesa di Loreto a Mamoyada”15, redatto a partire dal 1723 fino al
XIX secolo, con una accurata descrizione delle entrate e delle uscite riguardanti
i lavori ed i materiali utilizzati per la fabbrica.
Nella prima nota di cargo, che riferisce
di entrate anche degli anni precedenti,
è citato il committente Quirighe Querenti devoto de la SS. Vierge de Loreto de
todas las entradas y elimosinas algun
de la (…) SS Vierge. La successiva nota
di descargo dello stesso 1723 registra
4
a mastre Juan Baptiste Arieti la cuenta
de la conclusion de la Iglesia segun la
obbligassion del contrato ciento y sinco
scudos y sinquenta (…).
È dunque subentrato un nuovo capomastro nelle veci del Quallio, che conclude
i lavori secondo quanto stabilito dal contratto, quello del 1708 o del 1709, evidentemente con i fondi ancora a disposizione dal lascito del Querenty.
Anche l’elenco dei pagamenti seguenti
sottende ad una chiesa in gran parte già
costruita e dunque prossima alle finiture
se nel 1723 si provvede al pagamento a
los mastres han trabajado la pisarra ha
servido per las capillas aconche del cinberio guarnatione y campanario16.
È poi pagato il Maestro Josep Usay por
la hida ha echo a la V(ill).a de Ottana por
quitar los cantos han servido a la puerta de (…) paredes17; nel descargo degli
anni 1724-26 è registrato ancora il pagamento per aconche dita iglesia ed oltre
per componir las barandillass e per il ferro, verosimilmente l’inferriata che doveva diaframmare il presbiterio e l’abside18;
nel 1727 la madera del pulpito ed altri
pagamenti per le feste di Maggio, segno
che nel mese mariano la chiesa è già in
grado di essere officiata.
Tra gli altri materiali, oltre a gran quantità
di pisarra e cal, spesso de Oliena, il Registro annota anche di entejada de Campidano19, di tejass provenienti da Dorgali,
di ferro generico ma anche di hierro y
acero20, di cuerdas de la fabbrica.
Un saldo riferito al 1721 è a tale Ignazio
Grossa (o Gratta), forse un fornitore locale, per todo el tempo ha assistito a la
fabbrica horno de cal y sacar pietra para
el hierro i pisarra21.
Il nome di mastre Juan Bap.te Arieti compare nel Registro di Amministrazione in
data 1723 in bella grafia, come menzionato per la prima volta; J. Ganliò è registrato soltanto in una nota pregressa del
1720, nonostante sappiamo essere già
defunto almeno dal 1715.
Giovanni Battista Arietti è un capomastro
di origine lombarda, documentato per la
prima volta nell’isola nel 1710 nel cantiere di Fonni, impiegato con la direzione del Quallio come maestro fabricero e
stuccatore insieme ai lombardi Corbellini
e Mutoni ed ai pittori Are22.
Nel cantiere di Mamoiada prende certamente le veci del Quallio rilevandone
il contratto, come espresso nel primo
descargo del 1723 per la cuenta de la
conclusion de la Iglesia, che registra il
pagamento di centocinque scudi e altri
cinquanta. Poiché la chiesa risulta già in
gran parte costruita (il primo saldo fuori contratto all’Arietti è registrato per la
pisarra23), non è escluso potergli riferire
anche il programma decorativo generale degli interni, se è vero che il Quallio
contrattò per la sola costruzione e non
per quelle parti “que non tocan y no pertenessen a son arte”.
Il progetto per l’invaso prevedeva forse
un registro cromatico gioioso e squillante al pari del sotterraneo Santuario dei
Martiri di Fonni, come si può senza difficoltà immaginare estendendo a tutta
la rotonda le decorazioni recentemente
riportate alla luce nell’abside. Alla bottega dell’Arietti potrebbero essere attribuiti
anche i simulacri di stucco in dimensione
umana, un tempo allocati sull’apice delle
lesene e distrutti durante gli sciagurati
lavori di metà del ‘Novecento24.
I successivi pagamenti sono riassunti in
una nota del Registro del 15 de henero 1731 riguardanti emolumentos de la
Vierge de Loreto, se la an somado las
quentas y pr. los años 24, 25, 26, 27, 28,
29. Il cantiere è finanziato almeno fino al
1729, anno in cui si registra il descargo
per l’aconche de la linterna, evidentemente il lanternino di chiusura della cupola. Nel 1731 si paga ancora chi ha sacado la pisarra e pietra de cal necessari
de las fabbrica.
Sono anni in cui l’Arietti non lavora più
assiduamente al cantiere di Mamoiada
perché impegnato in altre commesse: ad
Alghero con la qualifica di Capomastro
del Re fra 1726 e 1729, in seguito ad Oristano alla ricostruzione della cattedrale
fra 1731 e 1743, nel 1732 a Ozieri per il
collegio dei Gesuiti e nel 1740 ad Oliena
ancora per i Gesuiti.
L’Arietti morirà nel 174325, a chiesa presumibilmente ultimata, nonostante nel
registro si continuino ad annotare note di
cargo y descargo, sia per materiali edili
che per l’organizzazione delle feste mariane26.
Nel Registro, fino circa agli anni trenta
del ‘Settecento, sono presenti anche altri
creditori e Mastre a cui sono riferiti i pagamenti per le opere ed i materiali, evidentemente maestranze locali o diverse
dalla bottega Quallio-Arietti, in buona sostanza fuori contratto, che altrimenti non
avrebbero curato in forma personale gli
aspetti economici.
Tra questi sono menzionati27: mastre
Josep Usay (1723), Ignazio Grossa
o Gratta (1721, 1731) 28, un pintorr de
Gavoy (1723), Joseph Paddeu (1723),
Joseph Mattu (1723)29, Anto Angel Sieto (1723, poi detto Anto Angel Sietto o
Satta de Gavoyy nel 1729)30 e Juan Balia (1723)31, Cosma Mamely (1724-’26),
mastre Juan Ispano (1724-’26), mastre
Antony Usay (1724-’26), mastre(?) Joseph Salvador Piras (1729, 1734), mastre
Joseph Buy (1729), pintor Pietro Ant.
Nonnis de Gavoyy (di seguito richiamato
Pietro Ant. Nonny y su compagnero de
Gavoy,1729), mastre(?) Juan M. Carta
(1729).
La presenza di alcuni di questi nomi conferma lo stretto legame che il cantiere
della chiesa di Loreto continua ad avere
con quello dei Martiri a Fonni, nel quale
risultano ugualmente attive maestranze
di Gavoi impegate soprattutto nel repertorio decorativo mobile32.
Nel dia 8 de Henero 1734 insieme a
don Diego Meloni e Prisca, pone la firma nel Registro, per emolumentos decha Contraria, Joseph Salvador Piras,
già indicato nella contabilità precedente
forse come capomastro, al quale si può
supporre sia affidato il compito del completamento della chiesa e fors’anche la
realizzazione del programma decorativo
degli interni33.
Nel 1738 si paga inoltre la tribuna a Juan
Mura, la hechura confessionario, il pintor
de Fonny por pintar las columnas, ed altri lavori a l’aconche de la cupola.
Anche il panorama della committenza e
dei personaggi che ruotano intorno alla
amministrazione della fabbrica sembra
essere cambiato. La confraternita della
Madonna dei Sette Dolori retta dal priore
don Antonio Sedda Satta, cosiccome nel
contratto del 1708, è divenuta, almeno
dal 1723, Confraria de Loreto rappresentata dal nobile Pedro Pablo Crisponi.
Nel 1734 è denominata Confraria de la
Santissima Vergine di Loreto e de los
dolores de Maria in un atto stipulato a
casa del nobile don Proto Meloni, in cui
firmano Joseph Salvador Piras, don Diego Meloni e Prisca, Gregorio Melis; ed
ancora Confraria de Loreto nel 174534.
Non sappiamo quale ruolo il Querenty
avesse svolto nella istituzione della Confraria de Loreto, giacché non è chiaro se
nella nota di descargo del 1723 fosse
ancora vivo o se fosse stato semplicemente citato in merito alle obbligazioni
del lascito. Nel 1731 risulta però certamente morto se i pagamenti annotano se
ha dado per el servisio hecho a Quirigo
Querenti segun los marche en los testamentos35. I firmatari del Registro, risultano ancora il Crisponi ed i Melony, forse i
nuovi mecenati.
La chiesa è ormai nel vivo delle funzioni;
nel 1738, il reggitore del ducato di Mandas si preoccupa di pagare all’amministrazione di Loreto una limosina de dos
escudos cada anos che S. E. paga por el
alzeite de la Lampara segun decreto del
Ill. Regidor,
r cioè l’olio della lampada nel
periodo quaresimale36.
Nuovi lavori edili interessano l’edificio
nel 1772. Il giorno 22 ottobre il nobile
don Agostino Melis, amministratore della
chiesa della SS. Vergine di Loreto, col
consenso del rev. rettore Pietro Porcu,
stipula un contratto notarile con il mastro
Francesco Selis, muratore nativo della
città di Cagliari e domiciliato a Paulilatino, per l’esecuzione entro un anno di
interventi di restauro sulla chiesa, per
la somma di 440 scudi37. Nello specifico
le opere consistono nella riparazione di
tutta la parte esterna, “dalle fondamenta
fino alla croce, levando tutto il mattone”
(si legga: la pisarra) “che sta nella cupola e mettendolo nuovo e tinteggiato,
ponendo prima quattro dita e secondo
il punto mezzo palmo di smalto intorno
alla cupola per ottenere una maggiore
elevazione38 e poi il mattone tutto tinteggiato ed ogni mattone con il suo chiodo
ben infisso, come richiede l’arte, e leverà anche il mattone che sta nel cupolino
della croce e lo sostituirà con lo stesso
materiale tinteggiato e anche le cordonate39 le farà di tegole tinteggiate, come le
camineras40 sia superiori che inferiori le
5
La cupola ed il campaniletto a vela della
sagrestia oratorio
Interno della Rotonda, vista verso l’ingresso
Innesto dell’abside sul corpo della Rotonda
Vista dal lato a Sud, innesto dell’abside sul
corpo della Rotonda
coprirà di nuove tegole di Oliena levando
quelle attuali che restaranno al Selis”41.
Il maestro Selis si impegna a fornire la
mano d’opera ed i materiali necessari:
calce, tegole, chiodi, corde, funi, sabbia,
acqua e quant’altro necessario compreso lo smalto, la sabbia e la calce della
migliore qualità. Come spesso accade
nei contratti in materia edilizia, l’amministratore Melis si impegna a fornire il vitto
al maestro Selis ed ai suoi collaboratori
e due letti per i muratori, nonché “le travi
necessarie con dodici dozzine di tavole
per l’impalcatura”, “sei gavette e due gavettoni”42, il tutto di proprietà della chiesa. Alla stessa chiesa resterà “anche la
pisarca o mattone vecchio43 mentre l’altro materiale messo dal Selis resterà di
sua proprietà”.
I lavori dunque riguardano l’esterno della chiesa con particolare attenzione al
rifacimento del manto di copertura, da
realizzarsi con nuove tegole fissate con
chiodi su un nuovo strato di massetto di
calce a comportamento idraulico. C’è da
supporre che il precedente manto di pisarra realizzato dalla bottega dell’Arietti
non fosse stato eseguito a regola d’arte e che lo spessore del massetto non
risultasse sufficiente a isolare dalle infiltrazioni.
Nei successivi anni si costruisce l’oratorio e si restaura la sagrestia, il cui cantiere è documentato nelle note di descargo del Registro di Amministrazione dal
1783: par el reparo de la boveda, per
claraboii44 e para las ladrillas de la boveda, per carro per conducir la arena.
Nel 1784 è citato l’oratorio e nel 1785
sono ancora registrate spese per la Iglesia de la SS Vierge de Loreto de dicha
Villa e nel Oratorio de dicha Iglesia, ed
ancora por la fabbrica de la nueva Sacristia hecha per orden del q(uonda)m y
felix memoria del Il.mo y R.mo Monsenor
Serra se ha gastaldo 515 escudos.
Non è chiaro se oratorio e sagrestia abbiano corrisposto ad un medesimo vano,
ma è lecito pensare che le notazioni di
quegli anni corrispondano alla realizzazione dei due vani aggiunti successivamente al corpo della rotonda, il più ampio
dei quali, presumibilmente l’oratorio che
ospitava la Confraternita, conserva oggi
nella ampia volta a padiglione unghiata
parche decorazioni in stucco raffiguranti
i simboli mariani dei sette dolori45.
Con altro atto notarile, il 22 luglio 1793,
si stipula con il maestro Fabrizio Brizzi,
milanese abitante ad Ozieri, un contratto
per nuovi lavori alla chiesa di Loreto46.
Firmano l’atto l’amministratore generale
di tutte le chiese di Mamoiada don Francesco Satta Galisay, l’amministratore
particolare della chiesa di Loreto il sacerdote Giuseppe Luigi Serritu ed il sindaco
il nobile don Giovanni Meloni Melis.
Al Brizzi sono affidati lavori per 1020
scudi al fine di restaurare la chiesa entro
l’anno 1794, sia all’esterno che all’interno, “tinteggiandola, riportandola allo stato precedente, eseguendo all’interno las
pinturas necessarias ed in ogni cappella
due lesene con una pintada tapisseria47
decente y de gusto degli amministratori,
mettendo le tegole delos cordoness della
stessa qualità di quelle attuali”. Gli amministratori si impegnano inoltre a “portare
le tegole che serviranno per la cupola e i
dos cerquios48 di sotto e di sopra da Oliena a Mamoiada, a dare al muratore ed ai
suoi operai l’alloggio, il fuoco e la luce di
candela e i locali per riporre il materiale
necessario all’impresa”. I lavori riguardano dunque nuovi interventi di restauro al
manto di copertura e opere di decorazione interne.
Porta la data del 1798 una delle due
campane alloggiate sul campaniletto a
vela che connette rotonda ed oratorio,
originariamente chiuso da un piccolo a
tetto a falda; la seconda campana, forse
in sostituzione di quella registrata nella
contabilità del 1723, è dono di Antonio
Meloni Gaia nel 1907.
La chiesa è infine consacrata il 9 settembre 1804, anche se, come abbiamo finora ritenuto viste le note di spesa registrate per le feste mariane e la donazione
per la lampara da parte del reggitore del
ducato di Mandas nel 1738, l’edificio doveva essere officiato al culto già in precedenza. La cerimonia del 1804, come
documenta una lapide murata oggi a
destra dell’abside, avviene ad opera dell’Ecc.mo e Rev.mo Padre Alberto Maria
Solinas Nurra, carmelitano, vescovo di
Galtellì-Nuoro49.
A quella data la chiesa di Loreto ha certamente assunto la sua compiutezza; negli
anni successivi segue la sistemazione
dello spazio esterno antistante, rialzato
rispetto al livello stradale e chiuso da una
alta balaustrata di pilastri e sfere litiche e
da una cancellata in ferro battuto.
Lavori di ristrutturazione interessano la
chiesa tra XIX e XX secolo, particolarmente nel presbiterio, probabilmente a
seguito del crollo di una porzione della
calotta absidale che compromette parte
della decorazione originaria poi sostituita
con un ciclo pittorico di medesimo soggetto50.
La storia recente della chiesa, restauri e
libarazioni, è scritta perloppiù in termini
di sottrazione e l’attuale nitidezza volumetrica dell’invaso, che riporta l’edificio
ad una mera fase del cantiere settecentesco, non restituisce giusto valore all’impresa costruttiva della casa di Loreto a
Mamoiada, alla quale il Querenty aveva
affidato gran copie di risorse finanziare e
gran parte della sua volitiva devozione e
aspirazione di carità.
L’edificio
L’edificio giunge a noi quasi interamente privo della decorazione interna settecentesca che arricchiva cromaticamente
l’intero l’invaso, così come raccontano i
ricordi degli anziani del paese, che di seguito si riferiscono51.
L’interno si caratterizza oggi per la nitidezza dei volumi: un cilindro di base
polilobato costituito da un ampio vano
centrico e sei scarselle radiali di cui una,
6
La cupola esagonale
Settore della Rotonda in corrispondenza
dell’ingresso: si rileva il risparmio della muratura, traccia dell’originaria finestra ad arco
Sagrestia-oratorio: particolare della volta a
padiglione unghiata (dopo il restauro)
Sagrestia-oratorio: particolare della pavimentazione dopo i lavori di restauro (seminato
di graniglia con inserimento di maioliche
settecentesche rinvenute in loco)
o
semicircolare e di maggiore profondità,
ospita l’abside parzialmente in asse con
l’ingresso, posto anch’esso al centro di
una delle sei scarselle. Sopra il portale
d’accesso, di semplice fattura ed esternamente con ghiera in trachite, è ospitato oggi un rosoncino di dubbio gusto,
che sostituisce la originaria finestra ad
arco, l’unica apertura che interrompe
la continuità stereotomica del possente
cilindro esterno della Rotonda. In corrispondenza di portone e finestra, fino ad
anni recenti, era collocata la cosiddetta
trona, la cantoria lignea con balaustrini
che ospitava l’organo. La trona poggiava su un bussolotto ligneo e vi si accedeva attraverso una scala a chiocciola in
ferro battuto, smontata ed oggi ospitata
all’ingresso della chiesa parrocchiale
della B. V. Assunta52. Eccetto l’abside,
che si sviluppa a semicilindro anche oltre
il profilo esterno della rotonda, le scarselle risultano geometricamente da una
sottrazione in muratura e sono voltate
a semicatino ribassato53. Tre erano adibite a cappelle, dedicate alla Madonna
dei Sette Dolori, a Santa Rita ed a San
Isidoro. Ciascun simulacro era ospitato
in una nicchia con tenda, su un altare
a cassa gradonato, realizzato in legno
scuro e decorato a girali fogliacei o racemi. La scarsella a sinistra dell’abside
ospita il pulpito, oggi marmoreo, ma in
origine ligneo come racconta il Registro
di contabilità dei lavori. Attraverso una
passerella il pulpito si connetteva ad una
apertura che conduceva al vano scala
del campanile e dunque all’oratorio, oggi
utilizzato come sagrestia.
L’abside ospitava certamente un altare
di foggia differente, forse in stucco al pari
di quelli di Fonni; il ciclo pittorico emerso
durante gli ultimi restauri è infatti interrotto dall’innesto dell’altare in marmo realizzato nel 1898, presumibilmente in sostituzione del precedente ormai degradato,
come pure l’attuale pulpito marmoreo.
L’area del presbiterio era certamente
rialzata, secondo lo schema attuale, e
chiusa da una ampia cancellata in ferro
La sagrestia-oratorio (dopo il restauro)
Vista del settore absidale dopo i lavori di liberazione e restauro del ciclo pittorico
battuto, al pari dei raffinati modelli barocchi dell’isola.
Le sei scarselle ritmano lo spazio interno
insieme ad altrettante lesene interrotte oltre l’altezza delle arcate. Le lesene
erano probabilmente destinate ad essere decorate a strigile e ad ospitare basamento e capitello; su di esso, ipotizzando
un classico registro decorativo barocco,
sarebbe dovuta poggiare una cornice
modanata preludio all’imposta della cupola. Considerate le vicende del cantiere
ed i ricordi di chi ha vissuto la chiesa prima delle rimozioni degli anni ‘Cinquanta,
può escludersi tuttavia che questo repertorio sia stato realizzato e ritenersi che
tutte le decorazioni pittoriche un tempo
presenti nell’invaso siano state eseguite
su un partito decorativo architettonico di
fatto rimasto interrotto.
Su quattro delle sei lesene, quelle in
prossimità dell’abside, o forse in origine
su tutte, erano ospitati simulacri di grandezza umana realizzati in stucco bianco
con le vesti colorate54, raffiguranti presumibilmente santi (uno con un bastone)
o angeli. Le lesene erano decorate con
colori vivaci, presumibilmente a racemi e
girali come i lacerti rinvenuti negli angolari dell’abside.
I muri d’ambito che emergono dalle scarselle costituiscono il tamburo esagonale
su cui si aprono sei semplici finestre; a
metà della sua altezza il tamburo accenna ad una prima curvatura, poi interrotta
dall’esile cornice modanata che segna
l’imposta della cupola ogivale. In corrispondenza delle finestre, altri sei oculi
contribuiscono all’illuminazione dell’invaso. Tamburo e cupola dovevano essere
anch’èssi decorati, “a ricami” e con un
“cerchio a tre colori ed angioletti”, come
descrivono i ricordi.
Il vano centrale era illuminato da un
grande lampadario in vetro, ancorato
sulla base del lanternino.
L’attuale pavimento risulta da una com7
mistione di preesistenze, e si conservano ancora elementi della pavimentazione
ottocentesca in lastre quadrangolari di
marmo bianco e bardiglio apparecchiati
a scacchiera. Secondo i ricordi il pavimento del presbiterio, compresi i gradini,
doveva essere di mattonelle maiolicate
sui toni dell’azzurro, probabilmente le
stesse, azzurre e gialle, conservate nella
chiesa e recentemente riapparecchiate
nel seminato dell’attuale sagrestia.
Gli ultimi lavori di restauro hanno messo
in luce la tecnica costruttiva dell’edificio
costituita da bozze di granito locale apparecchiate in corsi sub-regolari con malta
di calce e altrettante zeppe; le volte delle scarselle sono invece rigorosamente
realizzate con mattoni disposti a coltello.
Lo stato di degrado degli intonaci della
cupola mostra una analoga muratura in
scapolame di granito zeppato da inserti
laterizi.
Il colore della rotonda doveva essere
esternamente il rosso, come peraltro ricordato dagli anziani ed evocato in una
cartolina d’epoca realizzata da una foto
in bianco e nero e poi dipinta a colori,
nonché dai lacerti di intonaco, presumibilmente originario, oggi conservatosi
nel vano scale del campaniletto e dal
rivestimento emerso nell’intradosso dell’originaria finestra in asse con il portale.
Lo stato attuale della cupola ripropone
l’originaria soluzione con manto in lastre
d’ardesia e cordonadass a contrasto cromatico di tegole rosse. Sia cupola che
caminerass impostavano su un’esile decorazione, oggi irrobustita a seguito di
restauri.
Il corpo dei locali annessi si innesta alla
rotonda attraverso il muro di facciata del
campaniletto a vela, oggi decorato con
partito architettonico a contrasto cromatico di lesene che scandisce i due fornici
delle campane, di diversa ampiezza, e
culmina con una trabeazione liscia, che
non trova riscontro nelle foto d’epoca,
come pure non trova riscontro l’attuale
soluzione di copertura.
Il vano oggi utilizzato come sagrestia, o
in origine l’Oratorio della Confraternita
della Madonna dei sette dolori, è un ampio vano rettangolare coperto con volta a
padiglione unghiata in mattoni, decorata
con un parco registro in stucchi a bassorilievo di rosette e cherubini e lo stemma
centrale simbolo dell’Addolorata. Le murature ospitano rispettivamente due nicchie nei lati corti e diaframmano l’innesto
della volta attraverso un’ampia treabeazione modanata, decorata con racemi di
stucco a bassorilievo nei colori originari
del rosso e bianco, e teste d’angelo angolari. Dall’oratorio si accede ad un vano
minore retrostante, che abbraccia il setto circolare della chiesa, forse l’originaria sagrestia che comunica infatti con
l’estremo lembo del presbiterio. Dall’oratorio si accede anche alla chiesa, nella
scarsella del pulpito, questo un tempo
pure in comunicazione con il vano scala
del campanile. L’attuale pavimentazione
dei due vani è il risultato dei recenti restauri e sostituisce, nell’oratorio, un getto
di cemento a stampo, ed un pavimento
in quadrelle di laterizio, forse settecentesche, nella ex sagrestia, di cui è stato
conservato un lacerto.
Abbreviazioni:
ASNu = Archivio di Stato di Nuoro
ASCNu = Archivio Storico della Curia di
Nuoro
Cat. = catalano
Cast. = castigliano
Note
1
Per un’analisi dell’abitato storico di Mamoiada, si veda (a cura di) G. DEPLANO, Gli insediamenti storici della Sardegna. La conoscenza
per il recupero, Firenze 2004, pp. 63-75; per
la storia del paese si veda lo studio di G. ZIROTTU, Mamoiada. Il racconto del tempo, Nuoro 2004.
2
Nella simbologia sacra il numero sei corrisponde alla potenza creatrice di Dio (i sei
giorni della creazione cari a S. Agostino nella
“Città di Dio”); al sigillo esagramma di Salomone; alla stella di David; al monogramma di
Cristo a sei punte (in hoc signo vinces); alla
rosa a sei petali medievale.
Tra le rotonde a scansione senaria, in ambito
italico segnaliamo: la S. Sofia a Benevento
dell’VIII sec.; la rotonda di Palazzo Pignano
a Crema di età altomedievale; la rotonda di
Vigolo Marchese (Pc) dell’XI sec.; la rotonda
di S. Michele di Novacella (Bz) del XII sec.;
il San Paolo a Castelseprio (Va) (fine del XII
sec.). In ambito europeo (chiese rotonde con
deambulacro a sei sostegni): la rotonda della chiesa dei Templari a Londra (XII sec.); la
cappella degli Ospedalieri a Little Maplestead
(XII sec.); il Tempio di Parigi (XII sec.), secondo la ricostruzione di Viollet le Duc; la cappella di S. Antonio nel castello di Vianden (XII
sec.); la cappella del castello di Kobern (XII
sec.); ecc..
Un esaustivo regesto delle chiese ad icnografia circolare in Italia è in (a cura di) V. VOLTA,
Rotonde d’Italia. Analisi tipologica della pianta
centrale, Milano 2008; il volume comprende
anche un breve saggio sulle chiese rotonde
della Sardegna, a cura della scrivente. Per
la trattazione sui modelli a pianta centrale in
età medievale: A. CADEI, Architettura sacra
templare, in (a cura di) G. VITI, A. CALDEI, V.
ASCANI, Monaci in armi. L’architettura sacra
dei Templari attraverso il Mediterraneo, Firenze 1995.
La imponente dimensione della chiesa di Loreto a Mamoiada rispetto alle due rotonde
sarde medievali di Santa Sabina a Silanus e
di N. S. di Mesumundu a Siligo, sembrerebbe tuttavia escludere una origine medievale
per l’edificio, anche sotto l’aspetto tecnico-costruttivo, considerando la capacità delle maestranze allora presenti nell’isola. La possibilità
di affrontare una fabbrica delle attuali dimensioni può ammettersi solo immaginando una
scansione interna a dembulacro con colonne
o pilastri, di cui allo stato attuale delle ricerche
non è stata rinvenuta traccia. Singolare rimane tuttavia la doppia curvatura della cupola,
rilevabile nel profilo della sezione interna: una
prima curvatura del tamburo si rileva infatti a
circa metà delle finestre, per poi interrompersi
in corrispondenza dell’attuale cornice, su cui
infine imposta la cupola ogivale. Medesima
soluzione con doppia curvatura a pendentif
si rileva nel profilo interno della Santa Sabina
a Silanus (doppia curvatura attribuita ad una
ricostruzione seriore della cupola, si veda G.
FRULIO, Edifici ad icnografia circolare in uso in
Sardegna nell’età medievale, in VOLTA 2008,
pp. 199).
Non si esclude inoltre, considerata la tradizione popolare locale che vorrebbe la chiesa di
origini pisane, che l’attuale chiesa di Loreto
sorga sul luogo di una preesistenza medievale, di dimensioni minori e fors’anche ad incnografia centrica con scansione senaria, poi
evocata nella versione settecentesca.
L’ipotesi di una origine medievale della chiesa
di Loreto è proposta anche in DEPLANO 2004,
ed in S. NAITZA, Architettura dal tardo ‘600 al
classicismo purista, Nuoro 1992.
3
ASNu, Atti notarili, Tappa di Oliena, Ville, Originali, Diversi, 1700-1801, trascritto in ZIROTTU
2004, pp. 101-106. In occasione del presente
lavoro il documento citato non è risultato disponibile presso l’Archivio di Stato, pertanto
non è stato possibile svolgere le verifiche sulle parti trascritte ma non tradotte dal Zirottu.
4
Il Registro di Amministrazione della chiesa
della SS. Vergine di Loreto, 1723-XIX sec., è
in ASCNu.
5
Del committente non si ha alcun riscontro
documentario: un Antonio Tedde Querenti
d’Alghero è incaricato nel 1716 di patrocinare
una causa per conto della Confraternita della
B.V. dei Martiri a Fonni (si veda il successivo paragrafo a cura della dott. M.P. Dettori);
un Pedro Leon Querenty è notaio ad Oliena
nel 1740 e stipula il contratto tra i gesuiti ed i
maestri Arietti e Pirino per la conclusione della chiesa del Collegio (Cfr. ASNu, Atti notarili,
Tappa di Oliena, Città 1739-1741).
6
Per Giuseppe Gallio (Quallio) milanese, si
veda il successivo paragrafo di approfondimento sulle maestranze.
7
Il cantiere settecentesco del complesso
della Madonna dei Martiri a Fonni è fondato
nel 1702 per commissione di Padre Pacifico
Guiso Pirella; la chiesa di sopra (che viene
ristrutturata sull’esistente ed ampliata) è ultimata nel 1706 e benedetta con rito nel 1708,
il documento relativo tuttavia esplicita che
non erano ancora in ordine gli ornamenti ed i
simulacri. Forse anche per questa ragione la
consacrazione della chiesa di sopra avviene
nel 1714 e quella del Santuario di sotto soltanto nel 1730, dopo 27 anni dalla posa della
prima pietra. Fino a quegli anni risultano at-
8
tive numerose maestranze, particolarmente
di origine lombarda, il capomastro Quallio e
l’Arietti, il Mutoni ed il Corbellini, i pittori Are,
scultori di Gavoi ed ancora altre maestranze.
Le notizie sono in A. MEREU, La Basilica ed
il Convento Francescano della Madonna dei
Martiri in Fonni, Cagliari 1973; si veda inoltre la trascrizione di alcuni dei documenti in
G. CAVALLO, Maestranze intelvesi in Sardegna
tra il XVII e il XVIII secolo, in “La valle Intelvi. Contributi per la conoscenza di ambiente,
archeologia, architettura, arte, lettere e storia
delle Valli e dei Laghi comacini”, 12, 2007, pp.
131-162.
8
Si legga forse boligat a flores y per su guarnii
(starebbe per “aflores y persungris” trascritto
dallo Zirottu), ovvero: che non foderi con i rivestimenti che non riguardano il suo mestiere.
9
La chiesa di S. Antonio Abate, nel quartiere
di Marina o Lappola a Cagliari, sorge sull’area
dell’Ospedale di S. Antonio (XIII sec.), che durante la seconda metà del ‘Seicento diviene
Fatebenefratelli. Nel 1674 iniziano lavori di
ristrutturazione dei locali dell’Ospedale e nel
1704 risulta in costruzione una nuova chiesa en forma Rotunda, consacrata nel 1723.
Si tratta di un edificio ad icnografia centrica,
con sviluppo volumetrico all’interno del lotto
dell’Ospedale, cosicché è denunciato all’esterno soltanto da un pregevole portale di
gusto barocco. Ha impianto ottagonale cupolato con otto snelle scarselle voltate a botte,
una di queste è l’accesso sull’asse maggiore
dell’ottagono, che conferisce all’impianto centrico una tendenza longitudinale, verso l’altar
maggiore. Le membrature architettoniche
sono semplici e rigorose: slanciate paraste
angolari con capitelli corinzi, ma anche capitelli stilizzati per le paraste delle scarselle,
fino ad una sporgente trabeazione spezzata;
nel tamburo, arcate a tutto sesto tra paraste,
che contengono le finestre rettangolari. La cupola, con rivestimento ad intonaco come tutto
l’invaso, è ritmata con specchiature negli otto
settori. Lavori di arredo e sistemazione della
chiesa dovettero continuare fino alla metà del
XIX secolo. Il primo arredo in stucchi dovette
essere già ultimato alla data di consacrazione
della chiesa (1723) e consisteva certamente
nell’altare maggiore e, per analogie, nei due
altari simmetrici al centro dei lati lunghi. Nel
1773 il Viana redige nuovi progetti per l’ampliamento dell’Ospedale, disegnando le strutture della chiesa che oggi risultano coincidenti
con lo stato attuale.
Di particolare interesse per la nostra trattazione è un documento del 1704 che recita
“San Antonio Abad, hospital quel goviernen
los Religiosos de San Juan de Dios, à cuya
solicitud se deve la fabbrica de un Sumptuoso
Templo, que se està acabando de perficionar
d (in P. LEO,
en forma Rotunda al Santo Abad”
Descrizione della città di Cagliari alla fine del
XVII secolo, in “Nuovo Bollettino Bibliografico
Sardo”, VII, 1962, nn. 37-37, pp. 7-8).
Giorgio Cavallo attribuisce le decorazioni in
stucco del S. Antonio a Giovanni Battista Corbellini, capomastro e stuccatore lombardo attivo in quegli anni a Cagliari nella chiesa di S.
Michele ed in altri cantieri, e già nella bottega
del Quallio per le opere nella chiesa dei Martiri a Fonni (in CAVALLO 2007, p. 145).
10
La chiesa di San Michele a Cagliari è realizzata tra 1674 e 1712, almeno per le strutture
e la funzionalità; è consacrata nel 1738 ma i
lavori proseguono oltre il 1764, considerando
anche gli interventi decorativi nella sagrestia.
11
L’attribuzione, qui proposta in prima sede,
della costruzione della chiesa di S. Antonio
Abate a Cagliari alla bottega del Quallio, o ad
una bottega lombarda a lui vicina per collaborazione ed estrazione culturale, è suffragata
dalla attestazione della presenza di Giovan-
ni Battista Corbellini a Cagliari tra il 1710 e il
1711, in occasione del contratto stipulato per
la realizzazione della volta della Sacrestia del
San Michele (i documenti sul Corbellini sono
in CAVALLO 2007, p. 140).
Per rafforzare tale attribuzione si consideri la
cronistoria dei quattro cantieri delle chiese di
San Michele e Sant’Antonio a Cagliari, della
chiesa dei Martiri a Fonni e della chiesa di Loreto a Mamoiada.
Il Quallio ed il Corbellini lavorano tra 1702
e 1706 al cantiere di Fonni; nel 1704 è già
iniziata en forma Rotunda la costruzione della chiesa di S. Antonio a Cagliari; nel 1708 il
Quallio contratta la costruzione della chiesa di
Mamoiada citando il S. Antonio di Cagliari; nel
1710 il Corbellini stipula il contratto per la Sagrestia del San Michele a Cagliari. Il Quallio
ed il Corbellini potrebbero perciò aver lavorato
insieme anche a Cagliari, non già al cantiere
della chiesa di San Michele che in quegli anni
era ormai più che avviato, ma nel cantiere del
Sant’Antonio, citato appunto a modello nel
contratto del Quallio del 1708 per la chiesa
di Mamoiada. Morto poi quest’ultimo (secondo i documenti entro il 1715), il cantiere del
S. Antonio, ormai avanzato, potrebbe essere
passato al Corbellini che lo porta a termine
realizzando le decorazioni correttamente attribuitegli da G. Cavallo. Già attivo al Sant’Antonio, il Corbellini in quegli anni riceve anche
la commessa del San Michele (1710-1711),
poi rinnovata dopo il 1727 per la realizzazione
della volta del presbiterio (si veda ancora CAVALLO 2007, pp. 140, 147).
Nel cantiere di Fonni il Quallio ed il Corbellini
sono attivi insieme ad altri lombardi, Ambrogio
Muttoni e Giovanni Battista Arietti; quest’ultimo comparirà nei documenti contabili di Loreto a Mamoiada compilati a partire dal 1723.
12
La chiesa di Loreto a Mamoiada e il San
Bernardino di Busachi sono le due uniche
chiese dell’isola ad usare il modulo senario
per lo sviluppo dello spazio cupolato.
La chiesa di San Bernardino, che meriterebbe
a tal proposito approfondite ricerche, è edificata nelle forme attuali tra XVII e XVIII secolo.
Consta di un impianto a croce latina con volta
a botte e cupola esagonale. Singolare circostanza è poi che nella stessa Busachi, nella
chiesa di S. Susanna, sia attiva la bottega di
pittori degli Are, alla quale può verosimilmente essere attribuito parte del ciclo decorativo
dell’abside della chiesa di Loreto a Mamoiada
(si veda il successivo paragrafo a cura della
dott. M. P. Dettori).
Ricercando modelli ad impianto senario in
area extra-insulare, si consideri che il modulo esagonale per le chiese ad icnografia
centrica, contrariamente a quanto si suole
ritenere, non è prevalentemente consuetudine medievale. In ambito italico, tra gli esempi,
segnaliamo: la Santa Maria del Quartiere a
Parma (1604-1619); il Sant’Ivo alla Sapienza
del Borromini (1642-1660); il Santuario della Consolata a Torino su disegno di Guarino
Guarini (1678); il progetto di Ferdinando Fuga
per la chiesa dell’Albergo dei Poveri a Napoli
(1751); la Santa Maddalena a Venezia (1780);
la Madonna del Pezo o della Crocetta a Levico Terme (Tn) (1786), la Cappella di Tregole
a Castellina in Chianti (Si) (XVIII sec.). Non
si può poi tralasciare, pur variando ordine di
scala, il rigoroso impianto urbano esagonale
utilizzato per la ricostruzione di Granmichele
(Ct) nel 1693, tutti modelli estremamente colti
di interpretazione dello spazio centrale.
13
In questi termini non risulterebbe però pertinente la specifica del contratto mamoiadino
che richiede per la chiesa di Loreto “mastro
Gualliò concluderà la chiesa dentro e fuori
come la chiesa cagliaritana” (così nella trascrizione dello Zirottu).
Sezione est-ovestt della Rotonda (riduzione arbitraria da una restituzione grafica in scala 1/100)
14
L’opposizione al progetto è riportata nel
provvedimento del Vicario generale dell’allora
sede vacante della diocesi di Arborea notificato per tramite del pubblico notaio apostolico e regio Giovanni Maria Sequi al M.R.P. fra
Francesco Pinna Vicario generale dell’Ordine
dei Serviti il 27 ottobre 1718. La notizia è argomentata in MEREU 1973, p. 65.
15
ASCNu, Registro di Amministrazione, 1723XIX secolo.
16
Starebbe per: ai Maestri che hanno lavorato la ardesia che è servita, per le cappelle, la
cupola del tamburo, il rivestimento e la campana.
La pizarra in cast. è genericamente la lastra
in ardesia, mentre in cat. pissarra sta per tegola in ardesia. Piso tuttavia, sia in cat. che in
cast., significa pavimento, perciò non è dato
sapere se le lastre di ardesia, servissero quali
finiture anche per il pavimento dei vari ambienti della chiesa o, più verosimilmente, solo
per le coperture delle cappelle e della cupola.
Di seguito nel Registro si paga per sacar pisarra, intendendo l’attività di estrazione della
ardesia, per la quale si annotano numerosi e
consistenti pagamenti. Per ciò si vedano i lavori del 1772 che prevedono la sostituzione
della pisarca nella cupola.
Di seguito non vi è maggiore chiarezza poiché
conche è usato in cast. per indicare conchiglia, da cui concavo (la cupola o l’area del semicatino absidale), ma anche guscio.
Il cimborrio o ciborii , ast. e cat., indica il corpo
del tamburo che sostiene la cupola.
Guarnecerr in cast. sta per rivestire, ovvero
intonacare.
17
Per il viaggio che ha fatto alla Villa di Ottana
per cavare i blocchi di pietra che sono serviti
per la porta di una parete.
9
18
Durante le interviste svolte alle anziane del
paese in occasione del presente lavoro, è risultato che prima dei lavori di ristrutturazione
della chiesa negli anni ‘Cinquanta, la parte absidale fosse chiusa con una maestosa
cancellata in ferro battuto (nei ricordi di color
verde, in sintonia con altri arredi verdi nella
chiesa). Si consideri che anche il presbiterio
della chiesa superiore di Fonni è diaframmato
da una imponente cancellata in ferro battuto.
19
Il pagamento di un assito di tegole del Campidano ed altro è registrato al M. Gualliò con
data 1720, che a quella data doveva essere
però già morto, secondo i documenti entro il
1715.
20
In catalano l’acerr è un ferro additivato, che
si identifica oggi con il moderno acciaio ma
che in antico corrispondeva ad un prodotto in
ferro di migliori caratteristiche.
21
Per tutto il tempo speso per assistere al forno di calce, per cavare pietra, per il ferro e la
ardesia; e di seguito ancora un pagamento a
las giornadas dal erro sacar pietra y pisarra.
22
Per Giovanni Battista Arietti, detto cabomaestro e albanil de stoque, si veda il successivo paragrafo approfondimento sulle
maestranze.
23
Si intende: escluso dal pagamento precedente riguardante i citati lavori de la conclusion de la Igl(esi)a segun la obbligassion del
contrato ciento y sinco scudos y sinquenta.
24
In occasione del presente lavoro, sono
state svolte alcune interviste agli anziani del
paese, i quali ricordavano per esperienza diretta l’aspetto della rotonda prima dei lavori
di rimozione e restauro operati a metà del
‘Novecento. Le descrizioni dell’invaso, pressochè coincidenti, ricordavano di una chiesa
riccamente decorata, con la presenza anche
di statuaria in stucco del tipo dei sinulacri
presenti a tutt’oggi nel Santuario della chiesa dei Martiri a Fonni. Le interviste sono state
gentilmente concesse da: Giovanna Mele (82
anni), Antonietta Sedda (80 anni) e Annico
Montisci (77 anni).
25
I dati anagrafici dell’Arietti e le notizie sulla
sua attività negli altri cantieri dell’isola sono in
M. PORCU GAIAS 2000 e G. CAVALLO 2007.
26
Il Registro non segnala esplicitamente il
nome del capomastro che seguì i lavori di finitura, forse la stessa bottega dell’Arietti o le
botteghe di frescanti e decoratori che si occuparono del partito decorativo degli interni, per
le quali si rimanda al successivo paragrafo
curato dalla dott. M. P. Dettori.
27
La trascrizione di molti di questi nomi è stata spesso difficoltosa pertanto l’elenco riportato è passibile di non pochi refusi. Si tratta
probabilmente per la maggior parte di pittori,
scultori o decoratori per la cui specifica trattazione si veda al successivo paragrafo curato
dalla dott. Maria Paola Dettori.
28
Presumibilmente mamoiadino.
29
Mamoiadino: un maestro Giovanni Maria
Mattu nel 1727 è chiamato come esperto per
la divisione di un salto nella Villa di Mammoiada (in ZIROTTU 2004, pp. 21-35).
30
Un Antonio Angelo Satta è rettore della
Confraternita dei Martiri a Fonni dal 1736 al
1741; si consideri che nel cantiere di Fonni
sono attive maestranze di Gavoi e che anche
il pittore Gregorio Are assume la carica di rettore della medesima Confraternita, nel 1744
(MEREU 1973, p. 40).
31
Mamoiadino, pagato per la campana ed altro, insieme ad Anto Angel Sieto.
32
Ad un pinter de Gavoyy si paga nel 1723 il restauro della mano di una statua della Vergine;
allo scultore Maria Marchi da Gavoi nel 1725 il
Guiso Pirella commissiona il restauro del crocifisso ligneo della basilica di Fonni nonché la
realizzazione di due simulacri in legno e cartapesta. Un Pietro Sebastiano Nonni con Salvatore Busi sono attivi al repertorio decorativo
mobile del complesso di Fonni ed anche a
Gavoi (MEREU 1973, pp. 189, 191, 196).
33
Per la trattazione sul programma decorativo
della chiesa di Loreto si veda al successivo
paragrafo curato dalla dott. M. P. Dettori.
34
Si tratta di atti e note al Registro di Amministrazione.
35
La nota aggiunge a Ignasio Grossa el año
muerto Quirigo le ha dado.
36
ZIROTTU 2004, pp. 21-35.
37
ASNu, Atti notarili, Tappa di Oliena, Ville,
Originali, Diversi, 1700-1801, trascritto in
ZIROTTU 2004, pp. 101-106. In occasione del
presente lavoro il documento citato non è risultato disponibile presso l’Archivio di Stato,
pertanto non è stato possibile svolgere le verifiche sulle porzioni trascritte ma non tradotte
dal Zirottu.
38
Per smalto (esmaldo in cast.) si intende una
malta a comportamento idraulico per esterni,
evidentemente usata nel nostro cantiere per
aumentare lo spessore isolante del massetto.
Per una più approfondita comprensione del
termine si veda G. FRULIO, Glossario storico
e definizione terminologica, in G. FRULIO La
produzione in stucco nelle architetture della
Sardegna tra XVII e XVIII secolo, Tesi di Dottorato di Ricerca, Milano 2003, p. 311.
39
In questo contesto, le cordonate corrispondono ai punti di giuntura dei margini dei sei
spicchi della cupola. Cordò in cat. sta per modanatura con sezione a semicilindro.
40
Per camineras si intendono le gronde, gli
scoli (in algherese caminera è il canale di
scolo delle acque al margine di una strada).
Il termine è forse da mettersi in relazione con
“i dos cerquioss di sotto e di sopra” per i quali
si lavora nel contratto successivo del 1793. Si
tratta presumibilmente delle due cerchiature
di copertura, in assito di tegole, relative al
corpo delle cappelle ed alla congiunzione del
tamburo con la cupola, che anche attualmente sono in laterizio. Come pure a contrasto
cromatico, in laterizio e non in ardesia, sono
oggi i profili degli spicchi della cupola.
41
Nella traduzione di Zirottu, mattone sta probabilmente per pisarra, come richiamato di
seguito nel contratto, per cui i restauri riguarderebbero soprattutto il rifacimento del manto
di copertura della cupola, del cupolotto della
lanterna e della circonferenza delle cappelle.
I lavori interessano dunque l’aumento dello
strato di massetto ed il rifacimento del manto di copertura con nuove tegole, fissate con
chiodi, evidentemente per lo stato di degrado
in cui versavano le precedenti in opera da circa cinquanta anni.
42
La gavetta in cat. è il cassone di legno quadrangolare dove i muratori preparano l’impasto per la malta.
43
Nella trascrizione di Zirottu si legga pisarra,
o mattone vecchio.
44
Claraboya in cast. o claraboia in cat. è la
finestra sul tetto (del tipo Mansart), oppure il
lucernaio o abbaino.
45
Nonostante non vi siano sufficienti riferimenti alla vicenda costruttiva della sagrestia,
questa per ovvie ragioni dovette essere realizzata entro gli anni in cui la chiesa cominciava ad essere officiata, e dovette corrispondere al vano che oggi comunica, attraverso una
piccola apertura, direttamente con l’abside.
Quello oggi in uso come sagrestia sarebbe invece l’originario Oratorio, che ospitava
presumibilmente la Confraternita della SS.
Vergine di Loreto e della Madonna dei Sette
Dolori, come rappresentato dalle decorazioni
sulla volta. I lavori di restauro alla volta (par
el reparo de la boveda) forse sottendono ad
una ristrutturazione e ad un cambio di funzioni. Che la chiesa sia stata in origine isolata in
una piazza, e dunque priva di vani annessi, è
inoltre attestato dalla presenza di ampi lacerti
di intonaco tinteggiato di rosso su una porzione della rotonda oggi compresa all’interno
del vano del campanile, tra le scale ed il muro
dell’Oratorio. Il colore esterno della chiesa
doveva essere infatti il rosso, come peraltro
ricordato dagli anziani ed evocato in una cartolina d’epoca realizzata da una foto in bianco
e nero e poi dipinta a colori.
46
ASNu, Atti notarili, Tappa di Oliena, Ville,
Originali, Diversi, 1700-1801, trascritto in
ZIROTTU 2004, pp. 101-106. In occasione del
presente lavoro il documento citato non è risultato disponibile presso l’Archivio di Stato,
pertanto non è stato possibile svolgere le verifiche sulle parti trascritte ma non tradotte dal
Zirottu.
47
Per tapisseria si intende genericamente un
rivestimento di stoffe o tappeti, ma può trattarsi anche di tappezzeria lignea.
48
Il termine è probabilmente da mettersi in
relazione con quello del contratto precedente
del Selis, che citava camineras sia superiori
che inferiori.
49
In un documento in latino redatto dal notaio
Giovanni Pietro Porcu è raccontata la cerimonia di consacrazione. La traduzione è di Don
Giovanni Carta: “Sia noto a tutti che l’anno
1804 della nascita di Nostro Signore Gesù
Cristo padre e signore Papa Pio VIII nell’anno III° del regno di Sardegna il Principe Carlo
Felice, duca di Genova, fratello del Re, l’otto
settembre, mi trovavo a Mamoiada essendo
pubblico Notaio del Regno di Sardegna. Vennero da me sottoscritto il Sindaco Giuseppe
Massidda Ballore, della stessa città, ed i consiglieri che rappresentavano la stessa città
e mi pregarono di partecipare alla solenne
consacrazione della Chiesa della B.V. Maria
10
di Loreto, sita nello stesso paese ad opera
dell’Ecc.mo e Rev.mo Padre Albreto Maria
Solinas Nurra, carmelitano, vescovo di Galtellì-Nuoro, il quale dimorava in questa città
e trascriveva a penna la stessa Cerimonia”. Il
documento continua elencando i notabili presenti alla cerimonia e descrivendo il rito della chiusura delle reliquie dei santi Clemente
papa e Venanzio Martire nell’urna appositamente predisposta con i vasi del S. crisma e
olio dei catecumeni da deporre nel sepolcreto
dell’altare da consacrare.
50
I lavori di restauro pittorico eseguiti nell’area
del presbiterio nel 2011 hanno messo in evidenza la ricostruzione di parte della calotta
absidale, almeno per il rivestimento ad intonaco. I lavori di rimozione della decorazione
ottocentesca hanno infatti lasciato spazio alle
originarie decorazioni eccetto che per alcuni
punti ove l’intonaco è risultato una seriore ricostruzione, oggi identificati dal colore omogeneo delle lacune. Non sono stati eseguiti
tuttavia saggi in muratura per verificare se il
crollo abbia interessato soltanto lo strato di rivestimento o anche la compagine muraria.
51
Le interviste sono state gentilmente concesse da: Giovanna Mele (82 anni), Antonietta
Sedda (80 anni) e Annico Montisci (77 anni).
52
La scala era tinteggiata di color verde, in
accordo cromatico con la cancellata del presbiterio, con i supporti lignei per la lampara
nell’abside e con le due porte lignee che conducevano ad oratorio e sagrestia.
Durante i lavori di restauro del 2011 che hanno riaperto internamente parte della sagoma
della originaria finestra ad arco, sono stati
rinvenuti elementi lignei ancorati in muratura,
forse parte della struttura della cantoria o dell’organo. L’intradosso dell’apertura è rivestito
con un intonaco a calce tinteggiato di colore
rosso, come i pochi lacerti di tinteggiatura che
si conservano nelle parti, una volta in esterno,
della chiesa.
53
Lo stesso tipo di soluzione è adottata dalla
bottega del Quallio nelle cappelle laterali del
presbiterio della Madonna dei Martiri a Fonni;
diverse sono invece le capelle del S. Antonio
a Cagliari che risolvono con una stretta volta
a botte.
54
I ricordi descrivono questi simulacri (secondo alcuni evangelisti, secondo altri angeli
seduti), al pari di quelli ospitati nel Santuario
sotterraneo della chiesa dei Martiri a Fonni;
nella chiesa superiore il simulacro di un angelo a grandezza umana è seduto sulla semplice cornice di un pilastro.
La decorazione pittorica dell’abside della chiesa della Beata Vergine di Loreto
Maria Paola Dettori
Premessa
Tra il dicembre 2010 e la primavera del
2011 è stato realizzato l’intervento di restauro delle superfici dipinte della Chiesa della Beata Vergine di Loreto, interessante edificio dalla icnografia localmente
inconsueta e di non semplice datazione,
per possibili preesistenze e consistenti
rimaneggiamenti succedutisi nel corso
dei secoli; Vittorio Angius, che la vede
nel 1850, afferma che «tra tutte [le chiese di Mamoiada] la più considerevole è
quella di Loreto, e tienesi come una delle
più belle che siano nel dipartimento»1.
Al momento dell’intervento la chiesa si
presentava piuttosto spoglia di arredi e
quasi priva di decorazione, tranne che
nell’area presbiteriale, la cui abside mostrava una decorazione dipinta a tempera, suddivisa in due zone delimitate dalla
cornice marcapiano, l’inferiore - più semplice e schematica - imitante una tenda
o tappezzeria a linee verticali alternativamente blu e bianche, arricchite da un
più tardo ornato floreale verde ripetuto
realizzato a stampigliatura, la superiore
- sulla quale si svolgeva, coerentemente all’intitolazione dell’edificio sacro, la
narrazione della Traslazione della Santa Casa di Loreto - invece riccamente
figurata. Un forte degrado, dovuto sia
a umidità di risalita sia a infiltrazioni e
percolamenti dall’alto, aveva però compromesso entrambe le zone, lasciando
affiorare in diversi punti una pellicola
pittorica più antica, che mostrava, tra
l’altro, una migliore adesione al supporto e una maggiore tenuta e brillantezza
del colore. Sin dagli inizi l’intervento si
presentava perciò alquanto problematico, soprattutto perché poneva l’obbligo
di interrogarsi su scelte difficili e non
reversibili, ovvero la rimozione dei livelli
superiori della decorazione, in particolare dell’ultimo, realizzato sul finire del XIX
secolo: indispensabile dunque riflettere
sull’opportunità di cancellare una parte
della storia della chiesa, tra l’altro l’unica
conosciuta dalla popolazione attuale di
Mamoiada. Una preliminare campagna
stratigrafica e l’apertura di nuovi tasselli
(che andavano ad aggiungersi a quanto già visibile) hanno quindi costituito le
operazioni propedeutiche all’intervento
vero e proprio; la scelta è stata effettuata
solo dopo aver accertato l’effettiva possibilità di recupero di un partito decorativo originario sufficientemente integro e
leggibile, che restituisse quanto più possibile la perduta unità di composizione
dell’intero edificio.
La storia e i documenti
La villa di Mamoiada fa capo, sino al
1779, all’Arcidiocesi di Arborea/Oristano; da quella data entra a far parte della
neo costituita Diocesi di Galtellì/Nuoro2.
Come già rilevato nella relazione pro-
1, 2. Emanuele Carboni, La Madonna di Loreto e la traslazione della Santa Casa; partito decorativo della fine del XIX secolo, oggi rimosso.
grammatica redatta per il restauro, la
chiesa della Beata Vergine di Loreto subisce nel corso dei secoli XVIII-XIX una
serie di interventi di ristrutturazione e abbellimento, comprendenti sia lavori sulla
struttura sia l’approntamento di un nuovo
apparato decorativo. Di questi interventi
esiste traccia documentaria negli atti notarili conservati presso l’Archivio di Stato
di Nuoro, ma la ricerca condotta da chi
scrive in occasione di questo studio ha
verificato che di essi (pubblicati nel 2004)
non è più possibile prendere visione, dal
momento che non si trovano lì dove erano stati rinvenuti3.
Lo studioso che li ha pubblicati - Giacomino Zirottu - ha comunque fortunatamente riportato integralmente il contratto di
11
costruzione dell’edificio, dal quale è perciò opportuno partire. Viene sottoscritto a
Mamoiada nel 1709, su licenza dell’arcivescovo arborense Francesco Masones
y Nin (in carica dal 1704 al 1717), tra il
capomastro milanese Giuseppe Gualliò
(ovvero Quallio) e il priore Quirico Querenty, devoto della Beata Vergine di Loreto, con il permesso del rettore Don Pietro
Meloni, e ha per oggetto la “nuova chiesa
della Santissima Vergine di Loreto”; nel
contratto non si fa cenno a preesistenze,
ma ciò non esclude del tutto l’esistenza
di un edificio precedente, suggerita peraltro da diversi indizi.
Mentre nulla sappiamo del committente,
Quirico Querenty (se non che un Antonio
Tedde Querenti d’Alghero è incaricato
3, 4. Pietro Antonio Nonnis (?) e Pietro Antonio Are, La traslazione della Santa Casa di Loreto,
1723.
nel 1716 di patrocinare una causa per
conto della Confraternita della B.V. dei
Martiri a Fonni4), Giuseppe Quallio non
è affatto uno sconosciuto: domiciliato in
Sassari, fa parte dei maestri della sassarese Confraria de Nostra Signora de los
Angeles, la corporazione che riunisce
maestri d’ascia e muratori; viene citato
nei registri della Confraternita, insieme al
fratello Giacomo, tra il 1695 e il 1715; nel
1702 lo troviamo a Fonni impegnato a
dirigere i lavori della fabbrica della Basilica della B.V. dei Martiri, cui partecipano
gli altri milanesi (ovvero lombardi provenienti dalla Val d’Intelvi) Giovan Battista
Corbellini e Ambrogio Mutoni. Insieme a
questi capifabbrica/decoratori troviamo
a Mamoiada (ma la notizia non compare nell’atto pubblicato da Zirottu) il terzo
loro collaboratore (nonché genero del
Quallio, avendone sposato la figlia Lucia
Antonia) Giovan Battista Arieti o Arietti:5è
a lui che viene corrisposto, al termine dei
lavori, il saldo. Il dato è registrato nel-
l’unico libro di amministrazione conservatosi sino a noi, che fornisce notizie su
quasi l’intero XVIII secolo, ma purtroppo
non sulla nascita dell’attuale fabbrica6; si
tratta del volume intitolato Asientos de
las cobranzas ha echo el S.r V.ble Crisponi de la Cofadria de Loreto, che, nel
1723, così riporta: «
«A Mestre Juan Baptista Arieti a cuenta de la conclusion de la
Iglesia secun la obligassion del contrato
ciento y sinco escudos.»7 Nel frattempo,
nel 1715, Giuseppe Quallio era morto, e
l’Arieti gli era evidentemente subentrato nella direzione dei lavori; insieme a
lui vengono pagati i maestri che hanno
lavorato nelle cappelle, nel sistemare
la cupola, la decorazione e il campanile
(«por las capillas, aconche del cinborio,
guarnacion y campanario»). Purtroppo
però di costoro non vengono fatti i nomi,
e i pittori ai quali era stata affidata la decorazione rimangono ignoti; tuttavia accade che, nello stesso anno 1723 e poi
alcuni anni dopo, nel 1729, venga citato
12
due volte un “pittore di Gavoi”, Pietro An« pintor de Gavoy por las
tonio Nonnis («Al
manos de la Virgen»,81723 e «
«Al pintor
Pedro Antonio Nonnis de Gavoy por renovar las insiñ
i ias», 1729); si tratta dunque di un pittore di opere lignee9 o, forse,
su tela (ma è possibile che fossero su
tavola anche le insegne di confraternita
citate: le riaccomoda, dopo una decina
d’anni, nel 1739, Juan Thomas Piras).
Il registro d’amministrazione riporta anche notizie dell’altro contratto pubblicato
da Zirottu, ovvero quello relativo al secondo capomastro milanese coinvolto
più tardi, nel 1793, nei lavori di ammodernamento della chiesa: il suo nome è
Fabrizio Brizzi, residente a Ozieri. Nel
frattempo, nel 1783-85, era stata realizzata una nuova sacrestia, che non
è chiaro se sia da identificare nel vano
dedicato alla Madonna Addolorata.10 La
solenne consacrazione della chiesa avviene dopo una decina d’anni dagli ultimi
lavori, nel 1804, a opera di Alberto Maria
Solinas Nurra, carmelitano, divenuto vescovo della Diocesi di Galtellì Nuoro (circoscrizione vescovile alla quale, come si
è detto, nel mentre è stata assegnata la
villa di Mamoiada) appena l’anno prima:
il suo stemma, in marmo bianco dal pregevole intaglio, compare sul pilastro destro dell’arco trionfale; simmetricamente
è apposta l’epigrafe che ricorda l’avvenimento e il nome del committente.
Questi diversi interventi hanno comportato, com’è ovvio, una serie di modifiche,
dovute sia alle obiettive necessità di restauro sia al mutare del gusto; interessante per noi è il fatto che il documento
notarile relativo ai lavori del 1709 attesti
che il capomastro Giuseppe Quallio sia
chiamato a operare avendo come riferimento il sant’Antonio Abate di Cagliari
(alla cui realizzazione pare collabori, almeno per la parte decorativa, lo stesso
Corbellini, ma solo intorno al 171311),
ma non debba occuparsi delle parti decorate, poiché non “pertenessen a son
arte””12. Nel 1793, invece, al milanese
Brizzi viene esplicitamente richiesto di
decorare la chiesa eseguendo “las pinturas necessarias”,
” e in ogni cappella
una lesena con una “pintada tapisseria
5. Lapide di consacrazione della chiesa della
B. V. di Loreto da parte del Vescovo Alberto
Maria Solinas Nurra, carmelitano, datata 9
settembre 1804.
8, 9. Pietro Antonio Nonnis (?) e Pietro Antonio Are, La traslazione della Santa Casa: il
porto di Costantinopoli e la cinta muraria di
Ancona. A rappresentare il viaggio da Oriente a Occidente compare la moschea con
la mezzaluna turca (Costantinopoli?) e un
edificio su cui svetta il vessillo con la croce
(la città di Ancona - particolari).
, 7. Stemmi sulla parete absidale: in alto
blasone di Casa Savoia, in basso arma
sconosciuta.
decente y de gusto”” dei committenti13.
Dei maestri espressamente citati per la
decorazione alla chiusura dei lavori nel
1723 purtroppo abbiamo visto che non
si hanno i nomi; sappiamo però che non
si tratta dei capimastri milanesi, dal momento che è escluso dal contratto che
essi siano competenti per la realizzazione del partito decorativo: è comunque
noto che non di pittori si tratta, ma di architetti e stuccatori, certo però in grado
di contattare maestranze specializzate
da affiancarsi nel lavoro. In ogni caso ancor prima della fine dei lavori, nel 1718,
la nuova chiesa desta l’interesse degli
ordini monastici, e il tentativo di “appropriazione” da parte dei Serviti di Sassari, tentativo sventato dai francescani del
convento della Basilica della B.V. dei
Martiri della vicina Fonni14.
I dipinti
Dai tasselli di prova aperti durante la precedente campagna di restauro dell’edificio era già emerso chiaramente che i
partiti decorativi erano almeno tre: il primo di questi doveva quindi potersi datare al 1723, il secondo testimonierebbe
l’intervento del 1793, il terzo, realizzato
dal pittore di Ittiri Emanuele Carboni,15
sarebbe da assegnare alla fine del XIX
– inizi XX secolo, presumibilmente allo
stesso anno 1898 in cui viene costruito il
nuovo altare in marmo, il cui collocamento è debitamente ricordato dal committente, l’allora rettore Pietro Luigi Oggiano, in un’epigrafe incisa sulla base. Lo
stato di conservazione di questi dipinti,
a un’analisi meramente visiva, da subito
mostrava l’estrema fragilità dello strato
superiore di ridipintura a tempera, già
parzialmente caduto, mentre maggiormente saldo e coeso al paramento murario appariva il più antico, realizzato a
mezzo fresco. Questa tecnica è quella
che più frequentemente – o, per meglio
dire, quasi esclusivamente – compare in
Sardegna in questo periodo: scomparso
l’affresco (la cui realizzazione richiede
competenze più complesse), presente
pressoché solo in età medievale, le superfici dipinte sono quasi sempre realizzate a tempera a mezzo fresco, con l’utilizzo di finiture a secco. Di norma tuttavia
accade che la presenza di infiltrazioni
d’acqua e umidità diffusa provochino nel
corso del tempo il fenomeno della carbonatazione, con il risultato di trasformare di fatto queste opere in affreschi, da
un lato favorendone, fortunatamente, la
durata, dall’altro comportando il saldarsi
insieme all’originale delle eventuali ridipinture, e perciò un difficile e lungo processo di rimozione.
Il ciclo decorativo realizzato dal Carboni
utilizzava il sistema del quadro riporta13
10. Due orientali, Mamoiada (part., in alto)
11. Motivi decorativi: pavoncelle ai lati del
cantaro (in basso)
to, scompartendo in sei episodi (anche
se la numerazione ne indicava quattro)
- tre grandi tondi centrali e tre paesaggi
entro cornice mistilinea - la narrazione
della traslazione della Santa Casa di
Loreto. Il tondo centrale, inserito un po’
maldestramente all’interno di due elementi conchiliformi sui quali sedeva una
figurina angelica per parte, raffigurava
la Vergine col bambino; cornici e modanature d’inquadramento architettonico
evidenziavano l’utilizzo di un sistema già
seriale dei cartoni. Al di sotto della parte
figurata, sulla parete absidale, era finto il
semplice tendaggio sui toni dell’azzurro,
ornato da due simmetrici vasi di fiori, cui
si è fatto cenno in apertura. Poco o nulla
si poteva dire dello strato intermedio, se
non che s’intuiva al di sotto dell’ultima ridipintura un decoro floreale abbastanza
schematico (la “tapisseria” più su ricordata?) con prevalenza di colore verde.
Della stesura più antica s’intravedevano
invece alcune figure: i colori prevalenti
in questo caso erano il rosso, il verde e
il giallo ocra. La decorazione occupava
chiaramente tutta la superficie absidale
e, stando ad alcune piccole prove di pulitura effettuate nel corso dell’intervento
di restauro della sacrestia (2006), continuava oltre l’arco trionfale sulla faccia
anteriore dei pilastri. In questa situazione
si è decisa la rimozione delle ridipinture
ottocentesche, nonostante apparisse
molto problematica la condizione della
porzione centrale della calotta - ovvero
della zona figurativamente più importante, in quanto probabile fuoco principale
della scena - interessata da un’ampia
e spessa stuccatura, sopra la quale il
Carboni aveva realizzato la figura della Madonna16. Era però già visibile una
mano benedicente, appartenente al ciclo
più antico, che affiorava al di sopra del-
12 a.
(1720: figg. 12a e b) e Sassari (1711- 12c),
su parete a Nuoro (metà XVIII sec. - 12e)
e Triei (seconda metà XVIII sec - 12d); a
Mamoiada compare però anche la natura
morta di fiori – 12f e il vaso biansato assume
anche una bizzarra foggia antropomorfa
(1723 - 12g).
la Vergine, a testimonianza del fatto che
sicuramente era anche prevista, come
figura centrale, quella del Dio Padre.
Queste le condizioni nel momento in cui
ci si accingeva a iniziare i lavori. La rimozione delle ridipinture e la parallela analisi delle fonti d’archivio hanno rivelato una
situazione piuttosto articolata: ciò che è
emerso mostra infatti un partito decorativo inusuale e variegato, peraltro assai interessante, senz’altro attribuibile a mani
diverse (sembrerebbero presenti due
maestri) e forse anche, in parte, a due
momenti di poco successivi, come pare
attestare una nota sul registro d’amministrazione che menziona, nel 1738/39,
un nuovo intervento del “pintor de Fonny por pintar las columnas”.17 Vistose
appaiono infatti le differenze di gusto e
stile tra le varie parti della decorazione:
in linea di massima sembra esservi un
maestro cui è affidata per buona parte la
realizzazione del catino, mentre appare
d’altra mano la parete absidale al di sotto
della cornice marcapiano; in generale si
osserva un’insolita alternanza di delicatezza e rusticità un po’ greve, non priva
di un certo gusto per il grottesco, un accostarsi per tentativi all’accuratezza di
una veritiera raffigurazione colta condita
da popolaresca imprecisione, caratteristiche evidenti nel fregio dell’arco trionfale. Ciò si può facilmente notare anche
nel modo di realizzare le figure: messi
a confronto con le figure angeliche del
sottarco e della parte inferiore, delimitate
da un deciso tratteggio della linea di contorno, appaiono di delicatissima stesura i
mori che a Oriente sorridono osservando
il volo della Santa Casa, probabilmente
definiti da finiture a secco - e infatti oggi
evanescenti e quasi perduti. Così capita
che nel punto di raccordo tra il sottarco
e la parte frontale dell’arco trionfale si
accostino, anche in modo un po’ incongruo, due partiti decorativi non dialoganti
tra loro, differenti persino nella scelta del
tono di colore del fondo, più rosato quello
12 b.
12 d.
12 c.
12 e.
12 f.
12 g.
del catino, più bianco l’altro. Impossibile
dire che cosa ornasse la parete frontale
del presbiterio, perduta ormai quasi del
tutto la decorazione; rimane perciò, nel
suo tono popolareggiante, il racconto disteso nello spazio absidale.
L’iconografia della Traslazione della Santa Casa, per caratteristiche intrinseche
alla stessa leggenda agiografica, ha consentito nei secoli una discreta libertà agli
artisti. L’arrivo della casa della Madonna
da Nazareth a Loreto è infatti preceduto
da una serie di tappe intermedie (Tersatto, in Croazia, Ancona, infine Loreto):18
l’imprescindibile figura centrale della Vergine con Bambino assisa sul tetto dell’edificio trasportato dagli angeli è di volta in
volta collocata nella sola corona di nubi,
in un paesaggio verdeggiante, in volo sul
mare, nei pressi del santuario e altre varianti; Le glorie maestose del Santuario
di Loreto di Baldassarre Bartoli, edito nel
1693,19 quindi non molto tempo prima dei
nostri dipinti, reca ad esempio in apertura
una stampa con la versione iconografica
più semplice, la prima citata. Ma il primo
libro a trattare la storia della traslazione è
la Lauretanae Virginis Historia di Girolamo Angelita, ben più antico (1525) e più
noto, specie nella traduzione curata da
Giulio Cesare Galeoti intitolata Historia
della traslatione della Santa Casa della
Madonna a Loreto; ad ornarne il frontespizio compaiono, nelle sue numerosissime edizioni,20 tre diverse incisioni: la versione semplificata della Casa sulle nubi,
la seconda arricchita da due angeli che
incoronano la Vergine, la terza costruita
14
12. Frontespizio dell’edizione 1611 dell’Historia della traslatione della Santa Casa della
Madonna a Loreto già scritta à Clemente VII
Pontefice Massimo da Girolamo Angelita,
e tradotta in lingua volgare da Giu. Cesare
Galeotti d’Ascisi, Venezia, presso Bernardo
Giunti.
su una visione “a volo d’uccello”, che permette l’inserimento del mare solcato da
due navi, in basso.
Tuttavia il tema non è particolarmente
diffuso nell’Isola: l’esempio più famoso lo
troviamo nell’omonimo retablo (metà XVI
sec.) che a Ozieri dà nome al Maestro
che lo dipinse; a Mamoiada invece le
chiese dedicate alla Madonna di Loreto
sono addirittura due, la seconda, rurale,
connotata dall’appellativo di Loretto attesu, cioè Loreto lontana, a testimonianza
di una particolare devozione locale. Nella “nostra” Loreto la struttura della decorazione dipinta è, come accennato, chiaramente bipartita e divisa in due registri,
superiore e inferiore, delimitati dalla cornice marcapiano in stucco e aggettante:
in alto è il racconto della Traslazione della
Santa Casa; in basso si attinge al repertorio barocco costruendo una finta architettura d’inquadramento dell’altare (presumibilmente a stucco, o forse ligneo,21
oggi perduto) nella quale compaiono,
secondo uno schema consueto negli
altari lignei dell’Isola, le doppie colonne,
lisce le interne, tortili le esterne, due finte
porte laterali (la sinistra brutalmente distrutta dall’inserimento di una vera porta
moderna) e si drappeggiano tendaggi e
sontuosi panneggi; ai lati è l’omaggio ai
nuovi regnanti e ai committenti, ricordati
da due grandi emblemi nobiliari: sulla sinistra è infatti lo stemma, un po’ semplificato, di Casa Savoia, ai quali l’Isola era
passata (molto male accetta) nel 1720; a
destra è un’arma non identificata, e che
non corrisponde ai soli nomi citati nelle
cronache d’archivio, Giuseppe Galisay e
il nobile don Antonio Sedda Satta. Il primo appartiene a un’importante famiglia
mamoiadina, che ottiene il cavalierato
già nel 1541, ma il riconoscimento della
nobiltà solo nel 1735: in ogni caso la sua
14 a e b. Pietro Antonio Are, I ventisei martiri del Giappone, totale e particolare edifici, 1712, olio
su tela, cm 130 x 150.
arma è parlante, e presenta due galli e
tre pali d’oro; la Sedda Satta sembra invece costituita dall’unione di due diverse
famiglie nobili: i Satta, originari della Gallura, trasferitisi in parte a Bitti, che ottengono la nobiltà nel 1646 e si stabiliscono
nel XVIII secolo a Mamoiada; e i Sedda,
che sono invece originari del Mandrolisai; uno di loro, Martino, forma il ramo di
Mamoiada, conseguendo la nobiltà nel
1700: le loro armi sono però alquanto
differenti dalla nostra22.
Ciò che colpisce nei dipinti della calotta absidale, purtroppo mutili della parte
centrale, sono fondamentalmente due
cose: la libertà d’invenzione, pur nel rispetto del racconto, che si traduce in
una parallela rustica spigliatezza del linguaggio pittorico, e la delicatezza della
cromia, unica nel suo genere nelle coeve decorazioni parietali della Sardegna
centrale: nel raffigurare i cieli popolati di
cherubini che fanno corona ai due angeli e alla Santa Casa (sulla quale doveva stare assisa, secondo tradizione,
la Vergine col Bambino, al di sotto del
Dio Padre benedicente) agli abituali e al15
quanto diffusi ocra, rosso porpora e verde si affiancano delicate tonalità rosate
e cilestrine, qua e là viranti al malva e al
violaceo. Il maestro che realizza questa
scena dimostra poi un’indubbia conoscenza, forse anche in parte diretta oltreché mediata dalle stampe, e di un certo
tipo di architettura e della struttura delle
navi, che traccia con ricchezza di particolari: con tratto leggero sono delineati i
due alberi, le sartie e le vele giustamente
raccolte, dato che i vascelli sono alla fonda in un porto d’Oriente, presumibilmente a Costantinopoli, come pare suggerire
l’edificio (qui a pianta centrale) cupolato
che allude a Santa Sofia: Nazareth era
allora infatti sotto il dominio turco.
Alla rotonda classicheggiante (un pentimento mostra che il pittore aveva inizialmente previsto anche un portale timpanato) si addossano contrafforti e altri corpi di fabbrica, forati da oculi e parecchie
ulteriori aperture: più che a Santa Sofia
il rimando più immediato sembra essere
quello alle numerose rotonde del romanico lombardo. Abbastanza inusuale appare anche la decorazione del sottarco, fat-
15 a e b. Pietro Antonio Are, La venuta in
Sardegna di San Giacomo, 1715, olio su
tela, cm 130 x 150 (15 b: particolare).
ta di clipei e medaglioni mistilinei contenenti vere e proprie nature morte (vasi di
fiori), oggetti simbolici (il melone, allusivo
al nome del rettore della chiesa all’epoca dei lavori, don Pedro Meloni, parroco
a Mamoiada dal 1704 al 1735), figure di
buffi cherubini, dalle guance rubizze e dai
boccoli biondi e ricciuti, uno con la bocca
ridente semiaperta a mostrare i denti. Insolite e poco rispondenti ai modelli diffusi
in zona appaiono anche le figure di orientali che osservano la scena.
Nella parte inferiore l’intradosso è invece ornato da un decoro floreale a racemi
e volute, che prende avvio, in maniera
speculare, dalla parte bassa del pilastro
scaturendo dal cantaro presso il quale
stanno affrontate per le terga due pavoncelle; quest’ultimo è un motivo decorativo piuttosto antico, il cui significato
salvifico è legato alla resurrezione, simbolicamente richiamata dall’acqua e dai
pavoni, indicanti l’immortalità dell’anima:
già noto nel periodo paleocristiano, gode
di ampia diffusione in età bizantina, ma
appare ormai abbastanza inusuale per
una cronologia così avanzata, tanto più
che al di sopra di esso compare una
struttura a baldacchino decisamente barocca. Sulla parete di fondo si sviluppa
invece l’altare barocco più su descritto.
Nel suo complesso un simile partito decorativo non trova quindi l’immediato riscontro che è possibile effettuare per gli
altri cicli noti; trae anzi con certezza i suoi
modelli non soltanto dai coevi dipinti murali ma anche da tele e altari lignei, dai
quali derivano particolari decorativi -i ricorrenti vasi di fiori- e spunti iconografici:
è infatti possibile avanzare confronti sia
con opere presenti nel santuario della Madonna dei Martiri di Fonni -impegnativo e
ricco cantiere per buona parte del XVIII
secolo- sia con alcuni di poco precedenti
lavori sassaresi, guarda caso anch’es-
16 a.
16 c.
16 b.
16 d.
va), Triei (16c, Chiesa dei SS. Cosma e Damiano) e Orani (16d, Chiesa della B.V. del Rosario).
si, come Fonni, di ambito francescano;
si veda ad esempio la balaustrata (oggi
smembrata) della tribuna lignea realizzata nel 1711 dal carpintero y esculptor
Antonio de Querqui per il santuario della
B.V. delle Grazie a S. Pietro in Silki.23
L’insieme di questi dati ci porta ad alcune considerazioni, a partire da un primo
e immediato raffronto con le opere degli
Are, cui pure si presume faccia un generico riferimento più tardo il registro
d’amministrazione: ebbene, niente che
somigli alla decorazione del catino absidale è presente nelle superstiti pitture autografe degli Are a Fonni,24 Nuoro,
Orani, Busachi e Tonara,25 né in quelle
di bottega presenti nella parrocchiale di
Triei. Tutti questi cicli nascono infatti con
una differente impostazione, che intende
in modo dissimile sia la scansione dello
spazio che la disposizione ritmica delle
masse e delle figure, spesso affidate a
inquadrature architettoniche che dividono il racconto per scenette, oppure isolano i protagonisti o ancora si sviluppano
in modo da avere un andamento quasi
rotatorio intorno a un fuoco centrale. A
questa diversa partitura si associano evidenti difformità nel trattamento di alcune
forme (gli onnipresenti vasi, qui dotati
di volto umano o raffigurati come vere
e proprie nature morte di fiori, segno di
un’attenzione verso la contemporanea
produzione pittorica da cavalletto), nonché delle figure, a Loreto di qualità inferiore rispetto a quelle di Pietro Antonio,
ma più vivaci e caratterizzate di quelle di
Gregorio, fortemente ripetitive.
Questo almeno, come detto, nelle decorazioni parietali; il discorso cambia in
parte quando si prendono in esame le
opere giovanili di Pietro Antonio Are dipinte su tela.
«Per tenere un ordine nell’osservare
i quadri cominceremo dai più grandi.
Questi sono quattro uguali opera dell’Aru Pietro Antonio, bislunghi di lato di m
16
1.30 p. 1.50. Uno rappresenta i 25 Martiri Giapponesi dell’ordine serafico l’altro
è delli 11 osservanti beati detti volgarmente Gorgoniensi. Degli altri due, uno
rappresenta la venuta in Sardegna dell’Apostolo San Giacomo … l’altro quadro
qual’oggetto principale rappresenta il
Martirio di San Ponziano Papa.»26
Tra queste quattro opere, oggi custodite nel convento, il confronto più puntale
lo offre la tela con I ventiseii27 martiri del
Giappone. Si osservino infatti gli edifici
che compaiono su entrambi i lati di questa scena: sono indubbiamente da mettere in relazione col porto orientale dipinto a Loreto, e così le figure degli indigeni,
simili, con quelle loro fasce dal bianco intenso, agli orientali che guardano il volo.
Il dipinto raffigurante La venuta in Sardegna di San Giacomo offre invece un
utile modello per lo schema di realizzazione delle navi, questo sì realistico e
accurato rispetto alle più tarde creazioni
di Gregorio e della bottega: quando le
navi compaiono nei dipinti seriori degli
Are non sono altro che schematiche rappresentazioni di un’idea astratta - si veda
ad esempio La predica di sant’Antonio ai
pescii di Tonara (e Triei, dalla prima immediatamente derivata, ma il modello
era probabilmente quello di Fonni, oggi
ridipinto) -, cui corre l’obbligo di diventare appena più ricca e definita nella scena
de La battaglia di Lepanto della Chiesa
della B.V. del Rosario di Orani; qui invece, come si è visto, pur nell’approssimazione della forma i velieri sono ricchi di
dettagli precisi e concreti.
Se il Pistis si limita a certificare – in base,
scrive, ai documenti d’archivio28 – la paternità di Pietro Antonio Are per tutte e
quattro le tele, il Mereu, dopo aver presumibilmente operato alcune verifiche, ne
modifica in parte l’attribuzione, fornendo
al contempo la datazione di tre di esse:
conferma la paternità dell’Are sia per
La venuta in Sardegna di San Giacomo
(1715) che per due delle scene di martirio (il Martirio dei venticinque giapponesi
dell’Ordine Serafico -1712- e il Martirio
dei Minori Osservanti Gorgoniensi 1715), ma attribuisce ad Antonio Todde il
Martirio di San Ponziano Papa, datandolo alla seconda metà del XVIII secolo.29
Ma a un confronto puntuale delle tele
non appaiono giustificati né l’attribuzione
al Todde – che conosciamo solo per la
non trascurabile opera Il Padreterno, lo
Spirito Santo, la Madonna con Bambino e Santi,30 sulla quale compare la sua
firma (un cartellino reca infatti la scritta
Soberaña Señora por Antonio Todde el
pintor)
r – né la datazione così avanzata,
dal momento che, apposta sul pannello
laterale di uno dei plinti dell’altare, c’è
la data 1720, ed è intorno a questo giro
d’anni che va quindi collocata l’attività
del pittore; nella decorazione dell’incasamento ligneo sembra peraltro potersi
riconoscere la mano di Pietro Antonio
Are, ed è qui che abbiamo constatato
l’esistenza dei vasi di fiori che ritroveremo identici nei successivi dipinti murali.
Se dunque, per l’evidente disparità qualitativa, l’attribuzione del ciclo di Loreto a
17. Pietro Antonio Are (?), Volto di orientale,
Mamoiada, 1723 (part.)
quest’altro protagonista degli impegnativi
lavori della Basilica di Fonni non regge,
è però possibile ipotizzare la presenza
a Mamoiada del giovane Pietro Antonio
Are almeno per una parte dell’opera; e
tuttavia non come unico maestro. Identificare però il suo coautore non è semplice: la citazione nei documenti d’archivio
del pintor de Gavoyy ci porta obbligatoriamente a prendere in considerazione
l’ipotesi che possa essere Pietro Antonio Nonnis quello cui si deve guardare
per trovare il più probabile artefice di
questo ciclo mamoiadino; ma di lui non
conosciamo nessun’altra opera che ci
fornisca certezza di un riscontro. Non
manca infatti la possibilità di proporre
altri nomi; intanto va registrata l’interessante presenza a Fonni dei quadri di un
altro pittore, Giuseppe Lopes o Lopez,
che firma (Iosephus Lopes) nel 1717 la
grande tela con l’Ultima cena e realizza,
pur non firmandola, l’altra con la Pietà:
autore certamente non digiuno di pittura
napoletana, a giudicare dalle ghirlande
di fiori che circondano le scene sacre:
che non sia casuale la concordanza del
cognome con quello di Gaspare Lopez
(Napoli 1650 - Firenze 174031), cosiddetto “dei fiori”? Non troppo lontani dai suoi
appaiono infatti i tulipani aperti, screziati
di rosa e reclinati; i dipinti del Lopes (alla
metà del XIX secolo, secondo padre
Pistis, se ne conservavano anche altri
quattro, un San Potito, un San Priamo,
un San Giovanni Battista e «uno piccolino dei Santi Lussorio, Cesello e Camerino»,32 ora non più rintracciabili) non possono aver lasciato indifferente l’Are, che
da questo pittore pare infatti derivare alcune suggestioni sull’impostazione della
figura e le tipologie facciali. Ma, più verosimilmente, non è peregrino ipotizzare
la partecipazione al ciclo mamoiadino di
un altro Todde, forse parente di Antonio:
esiste infatti un pittore che si firma Mulas
Todde, probabilmente di Dorgali come il
più capace Antonio Todde, conosciuto
proprio per una serie di tele conserva-
te nella Parrocchiale di quel paese, una
delle quali fortunatamente firmata e datata 1747. Il Canonico Spano nella sua
Storia dei pittori sardi e Catalogo descrittivo della privata Pinacoteca ne cita anche il nome, Francesco, confermandone
la provenienza da Dorgali e asserendo
che «nella Baronia esistono molte sue
opere di pregio»,33 fatto oggi non più riscontrabile. Vi sono alcune concordanze
che fanno presupporre una conoscenza
diretta dei dipinti di Pietro Antonio Are da
parte del Mulas Todde: si veda ad esempio il particolare degli edifici nel quadro
di San Quirico martire, con la statua che
svetta sul campanile della chiesa così
come nella tela citata dei Martiri giapponesi. La presenza della statua è anzi, in
qualche modo, una sorta di “marchio di
fabbrica” di questo artista, dal momento che compare anche nella tela del degradatissimo Martirio di sant’Agata, del
quale è per noi interessante notare (pur
con molte difficoltà di lettura) l’accentuata impronta grottesca e caricaturale
di alcune figure, non lontana da quella
riscontrata nei farseschi cherubini del
sottarco di Loreto. Nella tela firmata, un
San Giovanni Nepomuceno, i cherubini
che fanno corona al martire rimandano a
quelli che compaiono nel cielo di Loreto,
mentre in basso a destra spuntano due
buffe figurette, che rivolgono entrambe
lo sguardo sorridente all’osservatore;
questo particolare atteggiamento, che
denota la ricerca di un coinvolgimento
diretto del riguardante (pur riscontrabile
in opere con un ben diverso tipo di fruizione, dato che una si colloca a diversi
metri d’altezza sulla parete), e le comuni
caratteristiche fisionomiche richiamano
per analogia i giovani orientali sorridenti
che compaiono a Mamoiada.
Diverso il discorso per la parte inferiore della decorazione, dove sicuramente
ritroviamo il fare tipico degli Are e delle
maestranze direttamente a loro legate:
lo spazio viene scandito da una ordinata
partitura architettonica; muta la cromia,
che si riduce fondamentalmente ai tre
toni dell’ocra, del porpora e del verde;
compaiono le colonne percorse dalle
finte venature marmoree rosse che troviamo anche a Fonni; tralci fogliacei corrono lungo l’arco trionfale e, soprattutto,
ritroviamo la firma dei festoni floreali ai
lati dell’altare, precursori di quelli presenti a Nuoro, Tonara e Triei.
Note
1
18. Francesco Mulas Todde, San Giovanni Nepomuceno, 1747, olio su tela, Dorgali, Chiesa di
Santa Caterina d’Alessandria
17
V. Angius – G. Casalis, Dizionario geografico,
storico, statistico, commerciale degli Stati di S.M.
il Re di Sardegna, Torino 1851, v. II, p. 853.
2
G. Todde, Storia di Nuoro e delle Barbagie, Cagliari 1971, pp. 159-161.
3
Gli atti, di notevole importanza, vengono pubblicati da G. Zirottu, Mamoiada: il racconto del
tempo, Nuoro 2004, pp. 101-103, che indica la
loro collocazione come relativa alla cartella dell’Archivio di Stato di Nuoro denominata “Tappa
di Oliena Ville. Originali, Diversi (1700-1801)”.
Anche la ricerca a partire dai nomi dei due notai
che, in momenti diversi, rogano i contratti - Giovanni Battista Lay e Alessio Demontis - non ha
dato alcun frutto.
4
A. Mereu, La Basilica e il convento francescano della Madonna dei Martiri in Fonni, Cagliari
1973, pp. 107-108.
5
L’Arieti - anche Oretti o Reti - risulta presente
a Fonni già dal 1710, quando firma la balaustra
del presbiterio della Madonna. Per le notizie
su questi maestri si vedano M. Porcu Gaias,
La confraternita di Nostra Signora degli Angeli e l’attività
t edilizia a Sassari nel XVII e XVIII
secolo, in A. Mattone (a cura di), Corporazioni,
Gremi e Artigianato tra Sardegna, Spagna e
Italia nel Medioevo e nell’Età
t moderna (XIV-XIX
secolo), Cagliari 2000, pp. 466-499, G. Cavallo,
Maestranze intelvesi in Sardegna tra il XVII e il
XVIII secolo, in Contributi per la conoscenza di
ambiente, archeologia, architettura, arte, lettere
e storia delle Valli e dei Laghi comacini, Quaderno n. 12 – 2007 La Valle Intelvi n. 33 – 2008,
pp. 131-162 e G. Frulio, La produzione in stucco
nelle architetture della Sardegna tra XVII e XVIII
secolo, Politecnico di Milano, tesi di dottorato in
Conservazione dei beni Architettonici, XV ciclo,
pp. 69-119: a quest’ultima si rimanda per una più
puntuale definizione delle diverse professionalità
citate. Per la fabbrica di Fonni si vedano L. Pistis,
Pitture sarde nel convento di Fonni, in Bullettino
Archeologico Sardo, v. VIII, a. 1862, pp. 84-87
(a p. 87: «Finalmente passo a notare il nome di
Giovan Battista Retti, di Gio. Coallo, di Giovan
Battista Corbellino, e di Ambrogio Mutoni, i quali
eseguirono la fabbrica di questo sacro edifizio,
specialmente il Coallo che fu distinto ingegnere,
cogli stucchi meravigliosi a fiorami, e gli ornati
di tutta la chiesa. E sebbene questi fossero artisti milanesi, pure si possono considerare sardi, perché avevano il domicilio in Sassari»); Id.,
Santuario o Basilica della SS. Vergine dei Martiri
in Fonni. Guida, Cagliari 1862; A. Mereu, La Basilica cit. La necessità di diversificare le specializzazioni per poter far fronte alle richieste della
committenza fa sì che all’interno della famiglia
Quaglio ci fossero, negli stessi anni, anche diversi pittori, tra i quali Giulio (Laino 1668-1771),
un più che dignitoso frescante, a sua volta figlio
e nipote di pittori: il suo capolavoro è l’affresco
con le Scene della vita della Vergine, del Cristo
e gli Evangelistii realizzato nel 1694 nella Cappella del Monte di Pietà di Udine, al quale lavora
coadiuvato dai suoi stuccatori: cfr. A. Rizzi, Storia dell’arte in Friuli. Il Seicento, Udine 1969, pp.
76-78.
6
La scarsa attenzione nella tenuta degli archivi
della Diocesi viene lamentata proprio dall’Arcivescovo Masones y Nin nella relazione sinodale
del 1708: cfr. A. Pillittu, Chiese e arte sacra in
Sardegna. Arcidiocesi di Oristano, Cagliari 2003,
p. 61.
7
Archivio storico Curia Nuoro, cartella Mamoiada, Chiesa B.V. di Loreto.
8
Si tratta della statua – manichino processionale
vestita della Madonna Addolorata, ascrivibile a
bottega napoletana del XVII secolo.
9
Lodovico Pistis parla di un «Pietro Sabastiano
Nonni di Gavoi che aveva a compagno un Salvatore Busu parimenti di Gavoi»
i il quale scolpisce diverse statue per la Basilica di Fonni, tra cui
quella del Beato Salvatore da Horta: cfr. L. Pistis,
Santuario cit., pp. 24-25.
10
Archivio Storico Curia Nuoro, cartella Mamoiada, Chiesa B.V. di Loreto: Asientos de las cobranzas ha echo el S.r V.ble Crisponi de la Cofadria de Loreto, anno 1785: «Por la fabrica de la
nueva sacristia hecha per orden del q(uonda)m
y felis memoria del Il.mo y R.mo Monsenor Serra se ha gastado 515 escudos»; i lavori erano
iniziati nel 1783. Lo Zirottu riporta anche un
contratto del 1772 relativo a lavori di rifacimento
degli intonaci esterni e delle tegole della cupola:
cfr. G. Zirottu, op. cit., p. 106. Difficile stabilire se
la nuova sacrestia sia un vano che va ad aggiungersi a un primitivo oratorio dell’Addolorata o se
invece semplicemente conservi il ricordo della
prima Confraternita; ciò che si può dire per quel
che riguarda la decorazione di questo secondo
vano (a stucco dipinto, con figure di cherubini,
elementi conchiliformi e floreali) è che le maestranze stavolta sono modesti collaboratori di
bottega, fortemente dipendenti dai modi degli
Are, gli stessi, forse, che realizzano la decorazione a stucco (e pittura) della Parrocchiale di
Triei.
11
G. Cavallo, Maestranze cit., p. 145.
12
La frase riportata dallo Zirottu purtroppo, così
com’è, risulta intraducibile; recita infatti: «tranne
che non resta boligat aflores y persungris que no
tocan y pertenessen a son arte”: cfr. G. Zirottu,
op. cit., p. 106.
13
Ivi. Il registro d’amministrazione citato nella
nota 6 (ASC NU, cartella Mamoiada, chiesa B.V.
di Loreto) riporta le spese fatte per Maestre Fabricio Brizzi, che riceve 700 scudi a saldo «en
varias jornadas por el trabajo impendido en el
aconce de la dicha Iglesia secun aguste e recibo
firmado del mismo», comprese 22 lire e mezza
“para comprar dos mantos sardos y tela para dos
savanas para Maestre Fabricio que acomodava
la dicha Iglesia y esto era secun contrato.”
14
A. Mereu, La Basilica cit., p. 65.
15
L’attribuzione a questo per altri versi sconosciuto pittore è confermata dal confronto con i
dipinti della cosiddetta “Sacrestia del Guiso” nella Basilica di Fonni, palesemente della stessa
mano, dove, in un riquadro, compare l’epigrafe:
“Rovinata questa volta per incuria dei tempi, una
società delle primarie persone di Fonni colle cure
e sacrifizi propri e colle oblazioni del Municipio,
di tutto il paese e di pie persone di fuori ne ha
procurato il restauro nel 1888, e la fece dipingere
da Emanuele Carboni d’Ittiri”. Di questi dipinti riferisce anche A. Mereu, La Basilica cit., p. 211.
16
La situazione di questa zona della muratura
ha condotto a non rimuovere, ma coprire con un
neutro, il tondo centrale raffigurante la Madonna
col Bambino, dal momento che sarebbe stato
comunque impossibile recuperare la decorazione originaria al di sotto della grande stuccatura
centrale, a suo tempo verosimilmente resasi
necessaria a causa dei gravi problemi del paramento murario.
17
ASC NU, cartella Mamoiada, chiesa B.V. di Loreto, anni 1738/39.
18
Studi recenti, archeologici, documentali e sui
materiali di costruzione, confermano l’ipotesi
che le pietre che costituiscono la casa siano state trasportate per mare da crociati reduci dalla
Palestina, nel 1291, per iniziativa della nobile
famiglia Angeli, che regnava sull’Epiro: menziona infatti “le sante pietre portate via dalla Casa
della Nostra Signora la Vergine Madre di Dio”
un documento del settembre 1294, scoperto di
recente, che attesta come Niceforo Angeli, despota dell’Epiro, trasmettesse a Filippo di Taranto, quartogenito di Carlo II d’Angiò, re di Napoli,
come dote della propria figlia Ithamar una serie
di beni, tra cui le preziose reliquie.
19
Le glorie maestose del Santuario di Loreto
opera nuova di Baldassarre Bartoli Cappellano
d’Honore dell’Altezza Serenissima Elettorale di
Baviera con privilegio del Sommo Pontefice Innocenzio XII dedicata all’Eminentiss. Principe il
Sig. Cardinale Altieri, Macerata 1693.
20
G. Angelita, Lauretanae Virginis Historia, 1525,
stampato presso la Tipografia del Principe Elettore di Baviera; Historia della traslatione della
Santa Casa della Madonna a Loreto già
i scritta
à Clemente VII Pontefice Massimo da Girolamo Angelita, e tradotta in lingua volgare da Giu.
Cesare Galeotti d’Ascisi; difficile dar conto delle
numerose edizioni che si succedettero tra Ancona, dove si registra la prima nel 1575, presso
l’editore veronese Astolfo de’ Grandi, Macerata
e Fermo; ve ne furono nel 1585, 1587, 1589 e
1590 (Fermo); nel 1596, 1599, 1600, 1602, 1603
(Macerata); nel 1611 l’edizione avviene invece a
Venezia, presso Bernardo Giunti.
21
In sacrestia è conservato un tabernacolo ligneo, dorato e policromato, appartenente a un
perduto altare: poteva però trattarsi di un altare
secondario, dal momento che purtroppo non è
sopravvissuto quasi niente degli arredi antichi.
22
F. Floris – S. Serra, Storia della nobiltà
t in
18
Sardegna, Cagliari 1986, pp. 244 e 320-322. È
importante notare che il priore della Confraternita della B.V. dei Martiri che a Fonni nel 1705
richiama il Quallio a compiere i lavori lasciati in
sospeso è un Antioco Sedda, mentre nel 1731
un Sebastiano Satta Sedda è notaio: cfr. A. Mereu, La Basilica cit., pp. 105 e 107.
23
M. Porcu Gaias, I sacri arredi di San Pietro di
Silki, pp. 81-116, in M. Porcu Gaias (a cura di),
San Pietro di Silki, Muros 1998; a pag. 93 la studiosa annota che il modesto pittore che affianca De Querqui si mostra «aggiornato sul gusto
dell’epoca nei due riquadri con dipinti trionfi di
fiori»; A. Sari, Chiese e arte sacra in Sardegna.
Arcidiocesi di Sassari, tomo I, Cagliari 2003, pp.
180-181. Padre Lodovico Pistis attesta che la
cupola di Fonni era dipinta da Pietro Antonio Are
con finte nicchie sopra le quali «vi sono altretanti
[sic] vasi di fiori, col doppio di putti e altri fiorami
in rilievo e pitture»; cfr. L. Pistis, Santuario cit.,
pp. 26-27.
24
C’è da considerare che molte delle decorazioni realizzate a Fonni nel Settecento sono andate
perdute o sono attualmente non visibili perché
obliterate dalle ridipinture otto/novecentesche.
25
Per il ciclo decorativo della Chiesa della B.V.
del Rosario di Orani si veda M.G. Scano, Pittura
e scultura del ‘600 e del ‘700, Nuoro 1991, pp.
220-223; per la Chiesa della B.V. delle Grazie di
Nuoro si veda F. Dini, La Chiesa delle Grazie e
le sue pitture murali, Nuoro 2001; per la Chiesa
di Sant’Antonio da Padova di Tonara si veda invece S. Naitza, “Tonara: i dipinti di Sant’Antonio”,
in Altair,
r Cagliari, a. IV, n. 23, marzo 1980, pp.
16-19.
26
L. Pistis, Santuario cit., pp. 73-74; in Pitture
sarde nel Convento di Fonnii aveva scritto: «Di
Pietro Antonio sono i due grandi quadri a olio,
uno dei quali rappresentante gli undici religiosi
Minori martirizzati nel Belgio dagli eretici detti comunemente Gorgonciensi; l’altro i 23 martirizzati
nel Giappone. Della stessa mano sono altri due
quadri della medesima grandezza che riposano
nella Sacristia: il primo rappresenta l’approdo in
Sardegna dell’apostolo S. Giacomo […] il secondo il martirio di S. Ponziano papa»: cfr. L. Pistis,
Pitture sarde cit., p. 85.
27
Tanti infatti - e non venticinque o ventitré, come
pure riporta l’epigrafe nella parte inferiore della
tela - sono i protomartiri giapponesi (non solo
francescani, anche gesuiti), crocifissi nel 1597.
28
L. Pistis, Pitture cit., p. 84: «ma quelli che più
lavorarono nelle dette chiese sono i primi due
[Pietro Antonio e Gregorio], dei quali, sebbene
di nessuno comparisca il nome nelle opere che
eseguirono, pure ciò rilevasi dai registri amministrativi dove sono notate le diverse quote che
furono a loro sborsate».
29
A. Mereu, La Basilica cit., p. 212. Nelle note numero 47 e 48, a p. 234, specifica: «Permangono
presso la Soprintendenza alle Belle Arti di Sassari quasi tutti i dipinti della Sagrestia del Guiso,
posti sotto controllo per verificare la validità dei
restauri ai quali sono stati sottoposti nel 1971».
Le tele mostrano oggi diffusi sbiancamenti dovuti
probabilmente all’alterazione del prodotto usato
come vernice finale dopo il restauro.
30
A. Mereu, op. cit., pp. 184, 197: nella nota 10
a p. 184 il Mereu riferisce di un altro quadro del
Todde a Mandas. In ogni caso la qualità dell’opera
autografa del Todde è tale che non può essere
paragonata a quella degli Are e degli altri più o
meno anonimi maestri che lavorarono alle decorazioni murali; cfr. anche M.G. Scano, Pittura cit..
31
Per questo pittore, dalla biografia ancora incerta, si vedano B. de Dominici, Vite de’ pittori,
scultori ed architetti napoletani, Napoli 1742 (ed.
1846), tomo IV, pp. 401-402; L. Salerno, La natura morta italiana, Roma 1964, pp. 249-251.
32
L. Pistis, Santuario cit., pp. 82-83.
33
G. Spano, Storia dei pittori sardi e Catalogo descrittivo della privata Pinacoteca del can. Giovanni Spano, Cagliari 1870, p. 22: erroneamente lo
Spano lo colloca entro i confini del XVII secolo.
Maestri costruttori, botteghe e famiglie di frescanti
Maria Paola Dettori, Gabriela Frulio
Le professioni edili
L’organizzazione delle professioni edili in
Sardegna durante primi anni del Seicento, ormai sempre più specializzate per le
mutate esigenze dei moderni cantieri ove
si sperimenta un linguaggio nuovo insieme a nuovi materiali e tecniche costruttive, si configura ancora con il retaggio
della regolamentazione delle categorie
artigianali in gremii e confraries, le confraternite di lavoratori di origine medievale
iberica. La struttura delle corporazioni o
confraternite è ancora bloccata e rigida,
suddivisa nominalmente nei principali
mestieri di picapedrerr o mestre de muru
(piccapietre e muratore), e successivamente dilatatasi per incorporare nell’uno
o nell’altro gruppo artigiano la nuova professionalità richiesta, come ad esempio
quella degli scultori, degli stuccatori, ma
anche dei doratori o dei marmorari.
Le professioni che ricorrono tra i documenti riguardanti l’attività edilizia nella
Sardegna spagnola, sono sostanzialmente poche ed alle soglie del ‘Seicento
risultano piuttosto generiche: mestre de
muru
u (muratore, ma usato anche nell’accezione di architetto), mestre de paleta
(muratore), albanill (muratore, ma usato
anche nell’accezione di architetto), picapedrerr (piccapietre, scalpellino ma anche
artista decoratore di pietra ed architetto),
fuster (falegname, ma anche carpentiere
per lavori edili).
Il mestiere del picapedrers durante il
XVII secolo sembra ormai rivestire un
ruolo subalterno nell’organizzazione della produzione edilizia, come si evince da
diversi contratti di affidamento lavori, di
registri di confraternite o di tariffari dei
lavori edili, perloppiù relegato alle attività
di cava o di finitura dei blocchi lapidei.
Lo scultore in pietra (di provenienza generalmente non sarda) viene invece ad
assumere un ruolo differente: non è più
una maestranza di bottega, ma è piuttosto il singolo artista che, in seguito, con
la produzione scultorea in marmo, diviene autonomo ed eventualmente crea la
propria bottega1.
Si consideri il testamento del lombardo
Giovanni Battista Arietti, mastre attivo in
Sardegna in numerosi cantieri, nel quale
si ha menzione della sua attività ulteriore
di stuccatore, con l’elenco degli attrezzi
del mestiere di albanil de stoque2. Albanil
è il termine castigliano per indicare il muratore ed in Sardegna anche l’architetto,
la specifica de stoque, ovvero di stucco,
sta a dimostrare l’evidente difficoltà, in
un atto giuridico, di definire una specifica
professionale evidentemente non contemplata in nessuna delle categorie artigianali regolamentate iscritte. L’Arietti
infatti era sì albanill e cabo mastro, attivo
nella chiesa di Loreto Mamoiada, nella
chiesa del Collegio ad Oliena, nella cattedrale di Oristano ed anche cabo mastre del rey, ma anche stuccatore e scagliolista a Fonni.
Come l’Arietti, lombardi sono anche gran
parte de los mastres attivi nell’isola durante il XVIII secolo; ve ne sono però anche di napoletani, siciliani o romani. Le
maestranze di importazione, stabilitesi
in grande numero in Sardegna tra ‘Sei e
‘Settecento, hanno la possibilità di inserirsi nei registri delle confraternite locali
solo se in possesso della cittadinanza
della località ove operano, ovvero solo
se entro un certo lasso dall’inizio della
attività hanno preso moglie de logu: ad
Alghero, ad esempio, si doveva regolarizzare la posizione matrimoniale del
forestiero artigiano entro un anno3. Molti
di questi personaggi infatti risultano aver
preso moglie locale, generalmente figlia
o parente di un altro mestre già iscritto
alla medesima confraternita.
A partire dal XVIII secolo le professionalità sembrano maggiormente individuate
e più rigorosamente censite; dal 1739 il
registro della Confraria de nostra Seniora de los Angeless di Sassari, porta i nomi
di tutti gli ulteriori iscritti suddivisi per categorie artigianali: carpinteros, boteros,
albaniles, maestros de molino. L’Arietti,
il Corbellini, il Quallio, i lombardi attivi
anche in consistenti fabbriche del nuorese e del cagliaritano, risultano registrati
nella Confraria sempre come albaniles.
Tra questi è solo l’Arietti ad essere documentato come albanil de stoque; la qualifica di architeto è propria invece dei tre
forestieri Baldassarre Romero e Giovanni Battista Corbellini, lombardi, e Francisco de la Riva, spagnolo4. L’Arietti ed il
Quallio sono detti anche cabo maestro,
per la mansione di direttore dei lavori,
ma anche presumibilmente in riferimento alle attività della bottega, di cui sono
impresari e coordinatori nel cantiere.
La qualifica di ingegnere invece è sempre
data a personaggi di provenienza italica
o nello specifico piemontese, occupati in
lavori di riparazioni idrauliche o in lavori
su strutture portuali. Dall’età Sabauda la
figura del tecnico è sempre legata alla
progettazione o alla direzione di lavori su
fabbriche militari; la stessa qualifica viene in seguito mantenuta anche per tutti i
lavori di edilizia civile o religiosa.
Rimane aperta la questione che riguarda
la composizione delle botteghe, la regolamentazione delle associazioni d’impresa e le specializzazioni professionali
di quei gruppi che facevano capo ad un
unico impresario. In sostanza sarebbe
lecito domandarsi se in una bottega ad
19
ampio ambito familiare ci fosse stata
una preordinata diversificazione delle
mansioni, finalizzata a ricoprire tutte le
attività necessarie al compimento di un
cantiere, oppure al contrario se ciascuna
bottega sta stata specializzata in un solo
mestiere o in una specifica parte della
produzione edilizia.
Se prendiamo ad esempio la struttura
delle famiglie delle maestranze lombarde che lavorarono in Italia ed nell’Europa
centrale tra ‘500 e ‘700, rileviamo che
nonostante l’apparente dispersione geografica nella quale si collocano i cantieri
da loro interessati, questi ceppi conservano forti legami con le zone native e
rimangono sempre intrecciati in strutture
familiari allargate e comunitarie, legate ai
mestieri dell’edilizia. La struttura compatta di queste botteghe, che conta in una
altissima specializzazione dei singoli,
riesce così ad imporsi anche in ambienti socioculturali estranei, eludendo leggi
protettive locali sull’esercizio delle arti e
dei mestieri, o lunghe e difficili gavette
per affrancarsi professionalmente. I gruppi si formano nell’area d’origine, rafforzati
ogni qual volta vi si fa ritorno, forse anche
attraverso il suggello di un nuovo legame
di parentela; oppure si creano rapporti di
familiarità e legami professionali, di volta
in volta diversi in ciascuna città, destinati
però a divenire anche questi permanenti.
Si pensi ai rapporti tra le famiglie, originarie della valle Intelvi, degli Arietti, o Reti, e
dei Corbellini: un Emanuel Retti lavora al
fianco di Antonio Corbellini nel Wuttemberg intorno al 1718, Giacomo Antonio
Corbellini nel 1719 lavora con suo nipote
Donato Retti di Laino agli stucchi della
chiesa di Weingarten in Baviera; anche
un Giovanni Battista Arietti e un Giovanni
Battista Corbellini lavorano insieme agli
stucchi del Santuario di Fonni, all’inizio
del Settecento; il Corbellini lavora alla
sagrestia del San Michele a Cagliari
mentre, presumibilmente, il Quallio è
impiegato nel cantiere della Chiesa di S.
Antonio Abate. Un Leonardo Retti lavora
al fianco del pittore Giulio Quallio a Laino
nel 1715; il nostro Giovanni Battista Arietti sposa in prime nozze Lucia Quallio, figlia di Joseph Quallio direttore nei lavori
di Fonni e capomastro a Mamoiada, dal
quale eredita poi il cantiere5.
La maestranze lombarde attive in Sardegna si inseriscono professionalmente
nei luoghi delle commesse cooptando
nella bottega maestranze locali, come
accade a Fonni ove sono documentate
maestranze di Gavoi, impiegate anche
Mamoiada.
A titolo di esempio, durante la direzione
dell’Arietti risultano impiegati nel cantiere della chiesa di Loreto a Mamoiada
anche: i mamoiadini Juan Balia, Joseph
Mattu e Ignazio Grossa o Gratta, Antonio
Angelo Sieto o Satta de Gavoy, pintor
Pietro Anto. Nonnis y su compagnero de
Gavoy, mastre Josep Usay, Joseph Paddeu, Cosma Mamely, mastre Juan Ispano, mastre Antony Usay, mastre(?), Joseph Salvador Piras, mastre Joseph Buy,
mastre(?) Juan M. Carta. Ed ancora, nel
cantiere tardosettecentesco del maestro
milanese Fabrizio Brizzi, è impiegato anche tale albanil mestre Vito Crisponi.
Dalla disamina dei documenti del cantiere di Fonni si denota un’organizzazione
secondo precisi ruoli di bottega: il Quallio
era capocantiere e architetto che aveva
reclutato il Corbellini ed il Muttoni, addetti alla realizzazione delle decorazioni in stucco e dei frontali degli altari, il
Corbellini era inoltre specializzato nella
statuaria a tutto tondo. L’Arietti arriva in
un secondo tempo forse come lavoratore
autonomo ed impegnato come scagliolista. Le maestranze di Gavoi sono prevalentemente pittori o scultori in legno e si
affiancano alla bottega degli Are, pittori
di decorazioni murali di probabile origine
lombarda poi naturalizzati in Sardegna.
Esaminiamo i canali di penetrazione di
questi costruttori e decoratori lombardi,
arrivati in Sardegna certamente attraverso i rapporti commerciali con Genova.
Numerosi studi hanno messo in luce la
portata della presenza ligure nell’isola
durante il XVII e XVIII secolo, attraverso
l’esame dei tanti cognomi di mercanti ivi
residenti in tutti i grossi centri6. Genova
nel ‘Settecento è un emporio internazionale di marmi, le commissioni giungono
dalla Provenza, dalla Spagna, dalla Corsica e dalla Sardegna; talvolta erano le
opere a viaggiare, talvolta erano gli artisti
a muoversi e in alcuni casi a stabilirsi definitivamente in nuove botteghe d’oltremare7.
La seconda metà del XVII secolo rappresenta per l’isola un momento di rinnovato fervore edilizio, con la costruzione e
l’aggiornamento di diverse strutture a
carattere religioso, cui fanno capo architetti di diversa provenienza con le loro
botteghe.
L’ambito culturale sassarese sembra
legato prevalentemente all’Italia centrosettentrionale e nello specifico all’ambito
culturale della valle d’Intelvi, attraverso
Genova, che si fa tramite della penetrazione e della migrazione di maestranze
liguri e lombarde nel Logudoro e poi nel
Nuorese, giunte probabilmente in seguito al calo demografico di tutta l’isola
seguito alle ondate di pestilenza che certamente decimarono nel territorio anche
le maestranze edili8. Si tratta di famiglie
di costruttori e decoratori le quali, con
botteghe strutturate a rigida conduzione
familiare e fra loro imparentate, hanno
apportato un notevole contributo alla
produzione architettonica e decorativa
nell’Europa centrale ed alla sua diffusione tra XVII e XVIII secolo, per essersi
stabilite nelle più fervide corti e nei più
moderni cantieri del tempo mutuando,
con un reciproco apporto e scambio di
stilemi e repertori figurativi, la tradizione
lombarda con le più rinnovate tendenze
del gusto barocco e rococò. Frange di
queste grandi botteghe sono state attive
anche nelle cosiddette periferie del barocco tanto da ritrovarle impegnate nella
direzione di fabbriche e nella realizzazione di numerosi apparati decorativi in
gran parte dell’Italia.
Nel meridione dell’isola, oltre agli stretti
e continui rapporti commerciali mantenuti con Genova, è tradizionalmente documentata la rete di scambi con Napoli
e la Sicilia, che risulta invece di minore
portata nel Capo di Sopra sia rispetto
agli apporti culturali che all’insediamento di maestranze d’importazione. Non si
trascuri però l’apporto dei lombardi nella
produzione architettonica e decorativa
settecentesca cagliaritana, non ultima la
presenza del maestro Giovanni Battista
Corbellini nel Cantiere del San Michele
a Cagliari e forse in altri di pari prestigio,
nonché probabilmente del Quallio9.
Dal variegato panorama di nomi restituitici dall’analisi documentaria, che aiuta a
definire però solo figure di artisti piuttosto che fare luce sull’anonimato collettivo
delle maestranze, si evince che tra la fine
del XVI e tutto il XVII secolo dovette avvenire un grande cambiamento in seno
alla cultura architettonica e tecnico-costruttiva delle imprese edili in Sardegna.
È lecito supporre infatti che parallelamente a questo concerto sinergico di apporti
geograficamente e culturalmente diversificati si sia verificato un vero e proprio
contrasto in seno alle maestranze esecutrici ed i capimastri, ovvero gli architetti
responsabili di cantiere o gli appaltatori,
prevalentemente non sardi e non sempre
inseriti nella struttura corporativa artigiana locale. Dall’analisi della produzione
scaturisce infatti che le maestranze di
formazione tradizionale, pur tenendo vive
alcune attitudini e moduli decorativi, nella
maggior parte dei casi si sanno adattare
ai nuovi modelli, ai nuovi materiali ed alle
nuove tecniche costruttive ed ornamentali, risultato evidente di un rinnovamento
dei quadri in seno a quelle stesse botteghe, come d’altronde si andrà a verificare nell’ambito della produzione attribuita
agli ingegneri piemontesi10. (G. F.)
La bottega dei Quallio
I Quallio risultano attivi nel settentrione
dell’isola a partire dalla seconda metà
del ‘Seicento, ma è dal secolo successivo che può essere attestata con maggiore certezza documentaria l’attività di una
vera e propria bottega.
Il cognome Quallio appartiene alla famiglia di stuccatori e magistri, originari della valle d’Intelvi11.
Come albaniless di Thiesi, un Giovanni
Battista ed un Agostino Quigl sono impiegati in qualità di periti nella causa
che Baldassarre Romero, altro albanil
milanese, aveva intentato nel 1671 per
la sopraelevazione del campanile della
parrocchiale di Thiesi; di questi non si
ha altra notizia di attività edilizia che pur
dovettero aver svolto se nominati quali
20
periti.
Joseph Quallio (o Coallo, o Gualliò) è
documentato a Sassari quale mastre de
muru
u milanese tra 1695 e 1715, dove
risulta iscritto alla Confraria de nostra
Seniora de los Angeles. Risiede nella
parrocchia di S. Donato, la cui costruzione si deve all’albanil Pedro Falqui; ha
tre figli di cui uno maschio è battezzato
nel 1704 dalla figlia e dal genero dello
stesso Falqui, la femmina va in sposa a
Giovanni Battista Arietti.
Joseph ed il fratello Jayme acquistano la
cittadinanza sassarese sposando le due
figlie dell’albanill Joseph Mela, al tempo
priore della Confraria de Nostra Seniora
de los Angeles. Perciò è lecito supporre
che dovettero avere una cospicua bottega con lavoranti sia locali che di altra
provenienza.
La attività di Joseph è documentata anche a Bolotana nell’anno 1700, riguardo
all’ampliamento di un palazzo nobiliare e
la costruzione di una chiesa, da eseguirsi sul modello della chiesa del Collegio
gesuitico di Sassari.
Dal 1702 Joseph è attivo a Fonni come
architetto e capomastro nella chiesa e
nel santuario sotterraneo della Madonna dei Martiri; al cantiere, ciascuno per
le specifiche competenze, lavora con
i lombardi Giovanni Battista Corbellini
ed Ambrogio Nicola Mutoni. Nel 1706 il
Quallio riceve l’incarico della decorazione in stucco delle volte delle cappelle del
transetto della chiesa di sopra. Nel 1710,
nello stesso cantiere, si unirà con il ruolo
di decoratore anche il lombardo Giovanni Battista Arietti.
Nel 1708 il capomastro di fabbrica milanese Giuseppe Gualliò stipula il primo
contratto per la costruzione della chiesa
della Santissima Vergine di Loreto a Mamoiada, poi rinnovato nel 170912; la chiesa sarà da edificarsi secondo il modello
“del glorioso S. Antonio Abate dell’illustre
e magnifica città di Cagliari”. Dal 1723
il cantiere è diretto da Giovanni Battista
Arietti.
A Cagliari il Quallio o la sua bottega lombarda è probabilmente presente durante
i primi anni del ‘Settecento ed è possibile
attribuirgli anche la progettazione e l’iniziale impianto costruttivo dello stesso S.
Antonio abate nell’Ospedale a Lapola13.
In un atto di acquisto stipulato a Sassari
nel 1681, come albanil de dicha ciutad, è
documentato anche Jayme Quallio, fratello di Joseph; compare come mastres
de muru
u attivo nella stessa città tra 1691
e 1715.
Nell’aprile del 1715 i due fratelli Quallio,
Joseph e Jaime risultano defunti.
Dalle attestazioni documentarie è attivo
a Sassari in quegli anni anche un certo
Jaque Quallio. (G. F.)
Giovanni Battista Arietti
Di provenienza lombarda, come si evince dai documenti che riguardano la sua
attività di albaniles14, Giovanni Battista
Arietti (o Oreti, Riety, Retti, Arieti o forse
Ariste) risulta attivo per la prima volta a
Fonni nel 1710, nella basilica della Ver-
gine dei Martiri insieme ai pittori Are ed
ai lombardi Corbellini e Mutoni, sotto la
direzione del capomastro Joseph Quallio. Nel cantiere l’Arietti è impiegato autonomamente alla specifica produzione in
scagliola della balaustra e di nove paliotti
d’altare. Se è veritiera l’interpretazione
del numerario presente sullo zoccolo
dell’altare maggiore, l’iscrizione delle
iniziali G. B. R. S. indicherebbe Giovanni Battista Reti Scultore nel 1710, il che
corrisponderebbe all’unica opera in stucco firmata tra le realizzazioni sarde del
XVII secolo.
Al sodalizio dei maestri lombardi è attribuito l’intero apparato decorativo in stucco della basilica e della cripta. L’Arietti,
il cui cognome sembra appartenere a
quella famiglia di stuccatori e magistri
provenienti dalla valle d’Intelvi15, sposa
in prime nozze Lucia Quallio, figlia di Joseph Quallio direttore nei lavori di Fonni,
e sorella di Jayme Quallio, che sarà il
suo esecutore testamentario.
Nel 1723, per la cuenta de la conclusion
de la Iglesia, compare nel registro di amministrazione della erigenda chiesa della
SS. Vergine di Loreto a Mamoiada, subentrato al precedente contratto di Joseph Quallio, a quella data ormai defunto.
Dal 1726 almeno al 1731 è ad Alghero
per lavori edili di diverso genere, tra i
quali la costruzione della sagrestia della
cattedrale e dal 1727 in qualità di cabo
mastro del Rey; nel 1731 è nuovamente
documentato a Sassari.
Nel 1739 risulta tra gli iscritti alla sassarese Confraria de nostra Seniora de los
Angeles.
Tra il 1731 ed il 1743 la sua attività è documentata anche ad Oristano, ai lavori di
ristrutturazione della cattedrale, eseguiti
in parte sul suo discusso progetto e forse
in parte sul disegno dell’ingegnere militare piemontese De Vincenti16.
Nel 1732 è incaricato di realizzare l’ala
nuova del collegio gesuitico della villa
di Ozieri, secondo suo preciso disegno;
il contratto lo vincola a trabajarlo con la
prompitud mas possibile, sin que pueda
apartarse de dicha fabbrica por ningu
motivo ni suspenderla hasta a tanto se
ritire ala ciudad de Oristano. Sempre nel
1740 Giovanni Battista Ariste17, milanes
y domiciliado en la ciudad de Sasser,
r
insieme al muratore Giovanni Pirino, firma un contratto per la conclusione della
volta e della copertura della chiesa di S.
Ignazio ad Oliena, il cui cantiere era stato iniziato dal genovese Domenico Spotorno. Anche in questo contratto sono
menzionati gli impegni dell’Arietti che lo
llamen a la ciudad de Oristano para la
fabbrica che corre en ella, impegni che
evidentemente destano la preoccupazione dei suoi committenti.
Nel 1741 è documentato ancora a Sassari, dove risulterà già defunto nel 1744. Un
anno prima aveva stipulato un contratto
per la costruzione della parrocchiale di
Plaghe, dunque è nel lasso di questi due
anni che deve attribuirsi la sua morte.
I lavori ad Oliena dovettero essere ultimati soltanto dal Pirino, che eredita an-
che quelli per la parrocchiale di Ploaghe.
Nell’inventario dei beni del suo testamento sono elencati anche gli strumenti
da lavoro, che documentano in maniera
certa la sua attività di stuccatore oltre
che di costruttore: nove strumenti di ferro di differente qualità che servono per il
lavoro di albanil de stoque18. Riguardo a
questa sua attività, di sicura attribuzione
ci sarebbero le opere a scagliola della
basilica della Madonna dei Martiri a Fonni, ma non è esclusa la sua attività a Sassari per la esecuzione della decorazione
delle cappelle della chiesa del Rosario19.
Riguardo ad altre possibili attribuzioni di
opere in stucco è stato rilevato con un
certo interesse che la sua disposizione
testamentaria chiede espressamente
la sepoltura nella chiesa del Carmelo a
Sassari, nella quale figurano due altari
in stucco; c’è da domandarsi se la sua
volontà dipendesse dall’aver lavorato
anche in quella chiesa. La totale assonanza del repertorio ornamentale infatti,
spinta fino alla individuazione dei medesimi stampi utilizzati dalla bottega anche
per gli altari del Santuario dei Martiri a
Fonni, assieme al ricorso della tecnica
della scagliola marmorizzata per le colonne, fanno ritenere certa l’attribuzione.
Indipendentemente dalle attestazioni
documentarie l’Arietti risulta, in ambito
sardo e nell’arco di tempo qui esaminato, l’unico maestro del quale sia esplicitamente menzionata l’attività di albanil
de stoque. (G. F.)
La diffusione della decorazione
dipinta nella Sardegna centrale:
spunti per una riflessione
Già in fase di progettazione del restauro
di Loreto la presenza del “capomastro”
Giuseppe Quallio aveva portato a ipotizzare il contemporaneo intervento nella
decorazione della bottega degli Are, che
con lui opera nello stesso giro d’anni a
Fonni; ma allo stesso tempo già ci si interrogava sulla possibile attribuzione ad
altri artisti, poiché - si ricordava - nella
stessa Mamoiada, nel santuario dei SS.
Cosma e Damiano, si conserva parzialmente un altro ciclo decorativo, realizzato da altra mano e che appare precedente rispetto all’iniziale XVIII secolo
di questo di Loreto. In realtà il discorso
sulla presenza di famiglie o botteghe di
“frescanti” (da intendere ovviamente in
senso lato) nella Sardegna centrale va
affrontato in maniera più ampia rispetto
agli anni scorsi, poiché quasi ovunque
stanno riemergendo cicli decorativi ricchi
e diversificati, che non possono essere
tutti indistintamente ricondotti a un’unica
bottega. Già Maria Grazia Scano20 segnalava brevemente a suo tempo le tempere della Chiesa della Beata Vergine
d’Itria di Orani, per fortuna precisamente
datate (1678), ma allora visibili solo in
piccola parte: i restauri attualmente in
corso stanno restituendo una decorazione variegata e distesa su quasi tutte le
pareti dell’edificio, cappelle comprese, di
21
1. Pietro Antonio e Gregorio Are, Dipinti murali del presbiterio (1738) e dell’aula (1754)
della Chiesa della B.V. del Rosario di Orani.
discreta qualità e sicuramente precedente quella degli Are, anche se a essi va notoriamente attribuito, a Orani, il successivo ciclo della Madonna del Rosario.
Nell’abside di Itria è raffigurato, sulla parete sinistra, un Trionfo di Cristo, con la
figura del Redentore circondata di santi; sulla parete opposta, in posizione inconsueta, è il Giudizio finale, purtroppo
mutilato dall’inserimento di una finestra
moderna: il sapore è ancora quello - gustoso ed efficacissimo - delle raffigurazioni medievali, con i diavoli cornuti, alati
e dalla coda di serpente che artigliano le
anime dei dannati mentre, dall’altro lato,
bionde figure angeliche sottraggono i
beati alle fiamme; da quest’opera sembrano derivare le notazioni paesistiche
- le rocce fortemente stilizzate che compaiono nelle Storie di San Paolo eremita
- che vedremo poi realizzate dagli Are al
Rosario. Il pittore si sforza di conferire
personalità e caratterizzazione fisionomica alle figure, anche se la perdita delle
finiture a secco che garantivano definizione e profondità non consente oggi di
apprezzarne pienamente gli sforzi.
Alla stessa bottega che realizza la decorazione della B.V. d’Itria vanno a nostro
parere ricondotti, nella stessa Orani, i
frammentari dipinti dell’antica chiesa
parrocchiale di Sant’Andrea (Camposantu ‘ezzu), e, a Mamoiada, il ciclo
più antico del santuario campestre dei
Santi Cosma e Damiano. Quest’ultimo
orna la volta e le pareti dell’ambiente
che si trova nella parte retrostante l’altare, moderno e sovradimensionato, che
chiude la zona presbiteriale: di fatto cioè
si sviluppava, in origine, nell’abside. La
volta mostra una decorazione (realizzata
specularmente sulle due porzioni lunghe
della curvatura della botte) raffigurante
putti che recano cesti di fiori e di frutti,
ed erme, mentre le pareti, assai più danneggiate, conservano lacerti di diverse
scene sacre: è riconoscibile quella del
martirio, con la decapitazione dei santi.
È la trasposizione in un linguaggio non
3. Mamoiada, Chiesa dei SS. Cosma e Damiano, Putti ed erme (decorazione della volta, 1678 ca.)
2 a-b-c. Orani, Chiesa della B.V. d’Itria,
dipinti del presbiterio: (dall’alto) Santissima
Trinità tra la Madonna, San Giovanni Battista
e Santi; Giudizio Universale e Angelo del
Purgatorio (part.).
troppo sapiente di un modello senz’altro
alto. Caratteristica di questo maestro e
della sua bottega è l’estrema sobrietà nella scelta dei colori; l’uso è infatti
quasi esclusivamente limitato a quattro
soltanto: l’ocra (dominante), il bruno più
o meno carico, il rosso e il verde; il risultato è quello di una quasi monocromia,
rialzata qua e là - a sottolineare un dettaglio - dagli altri tre toni, con un effetto,
comunque, di raffinata eleganza.
Difficile identificare le labili figure di Apostolii apparse invece sulle pareti di Sant’Andrea, ma la prevalenza degli stessi
toni più su indicati e la caratteristica cornice a rettangoli di colore bianco e ocra
definiti da una spessa linea nera permettono con certezza di attribuirne l’esecuzione alle stesse maestranze che eseguono nel 1678 il ciclo decorativo d’Itria.
E, al di fuori di questo contesto strettamente nuorese, si avanza l’ipotesi di
assegnare almeno a parte delle stesse
maestranze anche la bella decorazione
del presbiterio della chiesa di San Quirico di Buddusò, che mostra lo stesso
tipo di cornici – i rettangoli alternativamente gialli, neri e bianchi ma anche i
più complessi girali fitomorfi di Itria – ma
nel complesso una qualità assolutamente superiore: sulla parete sinistra è
rappresentata la Trinità con la Madonna,
San Giovanni Battista e Santi, su quella
destra una scena parzialmente illeggibile
con Cristo, San Giovanni Battista e San
Michele Arcangelo, mentre sui pennacchi sono Angeli musicanti: l’opera ha
eleganze che ricordano Francesco Pinna e la pittura campana dell’iniziale XVII
secolo. Realizzata probabilmente da un
maestro non locale potrebbe aver avuto
funzione di modello e di scuola per l’avvio di una bottega che ha poi proseguito
autonomamente il lavoro: della scena
con la Trinità vi è forse un ricordo anche
a Fonni, nel dipinto di analogo soggetto
posto nella volta della Cappella dell’Immacolata.
Queste le preesistenze da collocare entro il XVII secolo; ma, per tornare agli
Are, è certo che il corpuss delle loro opere va ampliato, distinguendo quelle realizzate direttamente dai maestri da altre
invece semplicemente da loro derivate: il
primo caso si registra a Gavoi (per il solo
Gregorio?), dove, nella chiesa della B.V.
del Carmelo21, stanno emergendo lacerti
di decorazione antica, da mettere in relazione con i dipinti del Sant’Antonio di
Tonara (anche questi in via di recupero
complessivo e certamente degli Are:
coincidono perfettamente sia gli elementi
principali, come il trattamento delle figure, che quelli secondari come le cornici
e la tapisseria) e dell’antico coro di Fonni, dove gli spicchi della volta a crociera
sono usati, come qui, per ospitare singole
figure di Santi, rappresentati nello studio;
altre opere, nella chiesa di Sant’Antioco,
sono invece tutte da studiare dopo che il
restauro avrà rimosso la totale ridipintura. Di sicura derivazione ma non di mano
maestra sono i dipinti di Triei, dove è accertato l’utilizzo degli stessi cartoni nelle
parti ornamentali (è lo schema decorativo che corre nei sottarchi, fatto di volute e racemi, talvolta abitati e talaltra no,
come ben attestato a Tonara), ma non
la stessa mano nella realizzazione delle
22
figure principali, dovute chiaramente a
un mediocre collaboratore di bottega: i
singoli personaggi, isolati sulla scena o
inseriti in uno spicchio di crociera, ripetono, impoverendolo, lo schema appena ricordato. A questi stessi epigoni si devono
forse anche le decorazioni della Chiesa
campestre di San Cristoforo a Fonni e
forse, di nuovo a Mamoiada, il devastato
ciclo con gli Evangelistii che orna le vele
dell’Oratorio di Santa Croce, oggi completamente ridipinto, ma, in linea di massima, dipendente o collegato a quello del
Carmelo di Gavoi.
Nella piccola chiesa rurale dei Santi Egidio e Anania a Orgosolo un’interessante
serie di riquadri purtroppo in via di disgregazione, già quasi perduti, attesta anche
per questo centro la diffusione della decorazione parietale, probabilmente a
opera delle stesse maestranze: vicini al
gusto degli Are - vedi Tonara - sono infatti
i mascheroni che compaiono a scandire
le scene; e anche a Sarule è presente
una devastatissima serie di dipinti, ancora da restaurare e studiare.
Per concludere, questo breve elenco ha
il solo scopo di mostrare quanto sia diffuso e tuttora in parte da individuare il nostro patrimonio di dipinti murali, da non
ricondurre indistintamente a quell’unica
etichetta di cui al momento disponiamo,
tra l’altro correndo il rischio di appiattire
e disconoscere le possibili preesistenze
e presenze diverse. E che esso non si
limiti al solo Nuorese lo rivela il ciclo,
completo e ben conservato, della Chiesa
di Santa Susanna di Busachi (OR): raffigura, nella solita spartizione in riquadri
divisi da inquadrature architettoniche e
con lo stesso altare che troviamo a Tonara, i Dottori della Chiesa, l’Immacolata
(nell’identica versione realizzata a Fonni
e a Triei), alcuni Santi e Apostoli e Scene
di martirio; datato 175322, è da ascrivere
con certezza agli Are. (M. P. D.)
4 a-b. Orani, Chiesa di Sant’Andrea (Camposantu ‘ezzu), Apostolo Paolo e motivo
decorativo delle cornici, 1678 ca.
Note
1
Per l’organizzazione del lavoro edile nella
Sardegna barocca si veda G. FRULIO, Maestri
e botteghe in G. FRULIO, La produzione in stucco nelle architetture della Sardegna tra XVII e
XVIII secolo, Tesi di Dottorato di Ricerca, Milano 2003, pp. 67-85 e M. SCHIRRU, Progettisti
ed artigiani edili nella Sardegna moderna, in
“Ricerche di storia dell’architettura della Sardegna”, Quaderni del Dipartimento di Architettura dell’Università di Cagliari, Cagliari 2007,
pp. 131-148.
2
ASS, Atti notarili, tappa di Sassari città, copie, 1734, I, c.409; II, c.5: (…) noeve instrumentos de hierro de diferentes calidades que
sirven para el trabajo de albanil de stoque;
trascrizione di M PORCU GAIAS, La confraternita di Nostra Signora degli Angeli e l’attività
edilizia a Sassari nel XVII e XVIII secolo, in
A. MATTONE (a cura di), Corporazioni, gremi e
artigianato tra Sardegna, Spagna ed Italia nel
medioevo e nell’età moderna (XIV-XIX secolo), Cagliari 2000, p. 487.
3
A. BUDRUNI, Gremi ed Artigianato ad Alghero
(XVI-XVIII secolo) in MATTONE 2000, pp. 404414.
4
Le notizie circa il Terzo registro della Confraria sono tratte da PORCU GAIAS 2000, pp.
479-481.
5
Rapporti di parentela legano anche altre
famiglie protagoniste dei principali cantieri in
Sardegna: a titolo di esempio si consideri che
se nella prima metà del ‘Seicento a Genova
la famiglia dei maestri lombardi Muttone è imparentata con quella dei Pellone; sia un Pellone che un Muttoni sono documentati anche
nell’isola tra XVII e XVIII secolo, quest’ultimo
particolarmente nel cantiere di Fonni. Le maestranze di origine lombarda arrivano infatti attraverso la Liguria, dove lavorano in botteghe
familiari già da qualche generazione.
6
I genovesi residenti a Cagliari si riuniscono
nella confraternita dei Santi Giorgio e Caterina. Si veda M. G. SCANO NAITZA, La pittura dei
Seicento e del Settecento in Sardegna, in T.
K. KIROVAA (a cura di), Arte e cultura del ‘600
e del ‘700 in Sardegna, Napoli 1984, p. 294,
nota 27; ed i contributi relativi agli ambiti locali
specifici in MATTONE 2000.
7
F. FRANCHINI GUELFI, Gli Altari dei marmorari
Macetti da Rovio in Liguria ed in Sardegna,
in G. C. SCIOLLA, V. TERRAROLI (a cura di), Artisti lombardi e centri di produzione italiani nel
Settecento, Bergamo 1995, p. 170.
8
La Porcu Gaias ritiene che: “la presenza di
architetti, capomastri e stuccatori di provenienza lombarda e di artigiani del legno di origine ligure o corsa, particolarmente dall’ultimo
quarto del XVII secolo, può spiegarsi anche in
rapporto alle due consecutive ondate di mortalità cui la città andò incontro a seguito dell’epidemia di peste del 1652 e della carestia
del 1680-81, che determinarono certamente
un forte decremento della manodopera specializzata, insufficiente a saturare la domanda
di lavoro quando subentrò la fase della ripresa edilizia, incentivata anche dalle cospicue
donazioni a chiese e conventi. Parallelamente in Lombardia si verificava in quegli stessi
anni in fenomeno opposto di un eccesso di
manodopera nel settore edile (…) e del conseguente calo nelle retribuzioni che può aver
determinato una consistente migrazione in
cerca di migliori opportunità di lavoro da parte di gruppi di artigiani edili, peraltro avvezzi
a frequenti e lunghi spostamenti.” (M. PORCU
GAIAS, Sassari, storia architettonica e urbanistica dalle origini al ‘600, Nuoro 1996, p. 241).
La stessa tesi è condivisa da G. Cavallo, che
aggiunge “per rivitalizzare il mercato nel 1657
fu richiesto al Vicerè di consentire il trasferimento nell’isola di maestranze straniere senza dover sostenere l’esame per l’iscrizione al
gremio. Ciò facilitò l’arrivo di artigiani italiani,
prevalentemente liguri, siciliani e campani,
e in breve tempo questi si integrarono nella
realtà locale riuscendo a raggiungere spesso
ruoli di primo piano” (G. CAVALLO, Un artista
lombardo in Sardegna Giulio Aprile, in “Studi
Ogliastrini”, VII, 2002, p. 138).
9
Per la presenza del maestro lombardo Gio-
vanni Battista Corbellini a Cagliari e le relative
attestazioni documentarie e altre attribuzioni
si vedano gli esiti della felice e puntuale ricerca del prof. Giorgio Cavallo sulle maestranze
lombarde in Sardegna, pubblicati, fra gli altri,
in G. CAVALLO, Maestranze intelvesi in Sardegna tra il XVII e il XVIII secolo, in “La valle
Intelvi. Contributi per la conoscenza di ambiente, archeologia, architettura, arte, lettere
e storia delle Valli e dei Laghi comacini”, 12,
2007, pp. 131-162. Per l’attribuzione dell’attività del Quallio a Cagliari si veda il precedente
paragrafo a cura della scrivente.
10
L’idea del rinnovamento dei quadri in seno
alle maestranze è formulata in S. NAITZA, Architettura dal tardo ‘600 al classicismo purista, Nuoro 1992, p. 25.
11
Dal puntale lavoro della Porcu Gaias e del
Cavallo sono tratte le note biografiche o le attestazioni documentarie riguardanti il Quallio
e la sua famiglia, salvo i lavori a Mamoiada o
diversa specifica in nota (PORCU GAIAS 1996, p.
333; PORCU GAIAS 2000, pp. 496-497; CAVALLO
2007, pp. 134-137). Per le specifiche attribuzioni nel cantiere dei Fonni si veda L. PISTIS,
Santuario o Basilica della beata vergine dei
Martiri in Fonni. Guida, Cagliari 1862; L. PISTIS,
Pitture sarde nel Convento di Fonni, “Bullettino Archeologico Sardo”, XIII, 1862, pp. 84-87,
ed i documenti trascritti in CAVALLO 2007.
Quaglio Gian Maria architetto e Quaglio Giulio pittore sono attivi tra ‘Sei e ‘Settecento in
Valtellina e Valchiavenna (S. DELLA TORRE, T.
MANNONI, V. PRACCHI (a cura di), Magistri d’Europa. Eventi, relazioni, strutture della migrazione di artisti e costruttori dei laghi lombardi,
Como 1997, pp. 316, 350). Per i rapporti di
collaborazione in valle d’Intelvi tra i Quallio e
gli Arietti si veda anche E. ARSLAN, a cura di,
Arte e Artisti dei Laghi Lombardi. Gli stuccatori dal barocco al rococò, II, Como 1964, p.
73. Una genealogia della famiglia Quallio, con
evidenza per il ramo attivo in Boemia è in F.
CAVAROCCHI, Artisti della valle d’Intelvi e della diocesi comense attivi in baviera alla luce
delle carte d’archivio del Ducato di Milano, in
“Arte Lombarda”, 2, 1965, p. 147.
12
ASNu, Atti notarili, Tappa di Oliena, Ville,
Originali, Diversi, 1700-1801, trascritto in G.
ZIROTTU, Mamoiada. Il racconto del tempo,
Nuoro 2004, pp. 101-106.
5. Buddusò (SS), Chiesa di San Quirico, Trinità tra la Madonna, San Giovanni Battista e Santi.
23
8. Bottega degli Are, Miracoli di San Nicola di
Mira: San Nicola salva Adeodato, Chiesa dei
Santi Cosma e Damiano, Triei (NU).
6 a-b. Buddusò (SS), Chiesa di San Quirico,
Motivi decorativi e Angelo musicante.
9. Bottega degli Are, Angelo musicante,
Chiesa di San Cristoforo, Fonni (NU).
7. Gregorio Are, Angelo, Chiesa della B.V.
del Carmelo, Gavoi (NU).
13
Per l’attribuzione al Quallio della costruzione della chiesa di S. Antonio abate a Cagliari
si vedano le argomentazioni proposte in occasione del presente lavoro e sostenute nel
precedente paragrafo a cura della scrivente.
Giorgio Cavallo attribuisce le decorazioni in
stucco del S. Antonio cagliaritano a Giovanni
Battista Corbellini, capomastro e stuccatore
lombardo attivo in quegli anni a Cagliari nella
chiesa di S. Michele ed in altri cantieri, e già
nella bottega del Quallio durante il cantiere
della chiesa dei Martiri a Fonni (in CAVALLO
2007, p. 145). L’attribuzione della costruzione della chiesa di S. Antonio Abate a Cagliari alla bottega del Quallio, o ad una bottega
lombarda a lui vicina per collaborazione ed
estrazione culturale, è suffragata proprio dalla
attestazione della presenza di Giovanni Battista Corbellini a Cagliari tra il 1710 e il 1711,
in occasione del contratto stipulato per la realizzazione della volta della Sacrestia del San
Michele (in CAVALLO 2007, p. 140).
14
Risulta milanese in un documento riguardante la stima di un immobile a Sassari e de
nacion milanesa in una ricevuta rilasciata
dalla sua seconda maglie. Dal puntale lavoro
della Porcu Gasias e del Cavallo sono tratte
le note biografiche o attestazioni documentarie riguardanti l’Arietti e la sua famiglia, salvo i
lavori a Mamoiada o diversa specifica in nota
(PORCU GAIAS 1996, pp. 331-332; PORCU GAIAS
2000, pp. 486, 487; CAVALLO 2007, pp. 149151). Per le specifiche attribuzioni nel cantiere dei Fonni si veda PISTIS, Santuario … 1862;
PISTIS, Pitture sarde … 1862, pp. 84-87 ed i
documenti trascritti in CAVALLO 2007.
Il cognome Arietti o Retti appartiene ad una
famiglia di stuccatori di Laino, nella valle d’Intelvi, attivi tra XVII e XVIII secolo in Italia ed
in Germania.
Un Leonardo Retti di Laino è a Roma durante
la seconda metà del ‘Seicento e lavora nell’ambito della comunità romana di immigrati ticinesi (DELLA TORRE, MANNONI, PRACCHI 1997, p.
325). Giovanni Battista Retti, è stuccatore in
Baviera alla fine del ‘600 ed in Austria ai primi
del ‘700; Donato Riccardo ed Emanuele sono
stuccatori in Germania occidentale nei primi
del ‘700, Leopoldo è stuccatore e architetto
in Baviera e con Lorenzo Mattia e Riccardo in
Germania occidentale durante la prima metà
del ‘700 (ARSLAN 1964, pp. 141, 142, 148, 230,
231, 233, 278, 336).
15
Gli Arietti o Retti si trovano impegnati in lavori con i Quallio, i Corbellini ed i Solari (tutti
nomi presenti anche in Sardegna tra la fine
del ‘Seicento e la metà del ‘Settecento) in
vari cantieri d’Europa. Per citare un esempio
di relazioni familiari tra maestranze i cui nomi
sono attestati anche in Sardegna: un Donato
Riccardo Retti di Laino risulta essere il nipote
di un Giacomo Antonio Corbellini, col quale
nel 1719 collabora alla realizzazione degli
stucchi nella chiesa conventuale a Weingarten in Baviera (O. J. BLAZICEK, Giacomo Antonio Corbellini e la sua attività in Boemia, in
“Arte Lombarda”, II, 1966, pp. 169-176). Una
genealogia della famiglia Retti, con evidenza
per il ramo attivo in Boemia, è in CAVAROCCHI
1965, p. 148.
16
M. CABRAS, Le opere del De Vincenti e dei
primi ingegneri militari piemontesi in Sarde-
24
gna nel periodo 1720-1745, in AA. VV., Atti
del XIII Congresso di Storia dell’Architettura,
Roma 1966, pp. 303-304, nota 44; nel documento citato l’Arietti è detto cabo mastro del
Rey en la ciudad de Alguer.
17
La dott. Marisa Porcu Gaias mi ha gentilmente suggerito l’ipotesi che Giovanni Battista Ariste possa essere una corruzione dello
stesso Giovanni Battista Arietti, e che il Pirino abbia ereditato alcuni dei suoi cantieri. A
supporto della ipotesi di identità tra l’Ariste e
l’Arietti si considerino i risultati di una generica
ricerca effettuata sulla attività delle maestranze
nel XVI, XVII e XVIII secolo: risulta un solo Ariste Pierre attivo a Tolosa nel 1564 (K. G. SAUR,
Allgemeines Koenstler-Lexicon, MoenchenLiepzig 1992, 5, p. 87). Non vi è altra traccia di
attività di un Ariste in altro contesto geografico
tale da poter dar credito all’omonimia dei due
Giovanni Battista; si tratterebbe dunque di un
coincidente errore di trascrizione.
18
ASSs, Atti notarili, Sassari città, copie,
1734, I, c.409; II, c.5 (…) noeve instrumentos
de hierro de diferentes calidades que sirven
para el trabajo de albanil de stoque.
19
Vista la specificità di decoratore a scagliola
che distingue l’Arietti dagli altri lombardi nella
decorazione a stucco del Santuario dei Martiri a Fonni, non è cosa improbabile attribuire a costui anche le rarissime decorazioni a
scagliola eseguite nel settentrione dell’isola
tra l’ultimo ventennio del ‘Seicento e gli inizi del ‘Settecento. Per rafforzare l’ipotesi di
attribuzione degli stucchi e dei rivestimenti
della chiesa del Rosario a Sassari consideriamo che l’impianto planimetrico e volumetrico
dell’edifico “ritrovano una simile sintassi compositiva, pur in scala maggiore, nella navata
del Duomo di Oristano, edificata tra 1731 e
1744 su disegno del milanese Giovanni Battista Arietti” (PORCU GAIAS 1996, p. 278, ed in
CAVALLO 2007, p. 151); l’Arietti doveva dunque
conoscere bene la chiesa del Rosario, forse
perché ci aveva lavorato. La Porcu Gaias tuttavia attribuisce l’edificio ad un’altra bottega
lombarda, quella dei Quallio. Per la tesi qui
sostenuta e per le botteghe degli stuccatori
lombardi attivi nell’isola si veda FRULIO 2003,
pp. 85-93.
20
M. G. SCANO, Pittura e scultura del ‘600 e
del ‘700, Nuoro 1991, p. 196, scheda 160. Il
restauro della chiesa della B.V. d’Itria non è
concluso, e perciò rimangono ancora sotto
scialbo tutte le decorazioni presenti nella navata e nelle cappelle laterali.
21
Le tempere, nascoste finora dalla ridipintura
novecentesca realizzata dal fiorentino Spirito
Lari, attivissimo in zona, sono infatti in corso
di recupero grazie a un progetto del Comune
di Gavoi.
22
I due cartigli dipinti ai lati dell’altare maggiore riportano «Esta capela se ha pintado
gastos de la gloriosa S. Susanna sendo R.or
el muy R.do Pedro Antonio Sulis opidi de Seui
y Obrero S. Geronimo Aquensa año 1753».
Sulla presenza degli Are a Busachi si veda
anche padre L. Pistis (L. PISTIS, Pitture sarde
nel convento di Fonni, in “Bullettino Archeologico Sardo”, v. VIII, a. 1862, pp. 84-87), che a
p. 86, nota 1, scrive: «Di questo autore [Gregorio]] si trovano due vaste tele nella chiesa
parrocchiale di Busachi coll’indicazione del
nome e della patria 1751, la prima delle quali
è molto originale, rappresentando in diversi
spartimenti il martirio dei dodici Apostoli.»
Cronistoria delle recenti trasformazioni e degli interventi di restauro architettonico
Gabriela Frulio
Lavori di restauro interessarono la rotonda di Loreto fin dal suo completamento
strutturale, riguardando particolarmente
il rivestimento della cupola. Il problema
dell’infiltrazione delle acque piovane sarà
una costante delle cause di degradazione
dell’edificio fino ad anni recenti. La commessa del 1772 al maestro Selis riguardò
infatti la riparazione della parte esterna,
dalle fondamenta fino alla croce con sostituzione del manto di copertura, come
pure quella del 1793 al maestro Brizzi,
che tra le altre opere, avrebbe dovuto
restaurare la chiesa sia all’interno che all’esterno; nel 1783 si pagarono opere par
el reparo de la boveda nei locali annessi.
Nel XIX secolo, probabilmente a seguito del crollo di una porzione della calotta absidale che compromise parte della
decorazione originaria, si procedette alla
sostituzione dell’intero ciclo pittorico, pur
senza certezza che si sia trattato di un
crollo strutturale o del solo distacco di una
porzione del rivestimento1.
Una immagine del 1919 mostra l’esterno
dell’edificio nella sua originaria compiutezza e da raffronti con una successive
foto storiche possono ricavarsi dati sulle
trasformazioni che interessarono la chiesa durante la prima metà del XX secolo.
Al portale dell’edificio si accedeva attraverso tre ampi gradini in lastre monolitiche, poiché la originaria sistemazione
dell’area esterna era differente rispetto
alla successiva riorganizzazione con realizzazione del terrapieno e balaustrata di
sostegno che portava la chiesa al livello
dello spazio antistante e spostava i gradini del dislivello dal portale al margine con
la strada, in corrispondenza della cancellata. Anche questa seconda sistemazione
è oggi variata e documentata soltanto da
una immagine d’epoca.
In asse col portare vi era una apertura
finestrata ad arco, con ghiera in laterizio, che nell’immagine del 1919 sembra
faccia a vista con risparmio di intonaco,
benché nel complesso tutto il rivestimento esterno appaia alquanto degradato. Il
volume circolare era raccordato con la
falda corrente in laterizio attraverso una
esile cornice forse neppure modanata. Le
finestre del tamburo appaiono ridotte in
luce da un piccolo parapetto, poi riaperto
nelle successive immagini. Un’altrettanto
esile cornice raccordava il timpano con i
coppi correnti dell’imposta della cupola,
leggermente interrotta in corrispondenza
dei sei oculi luciferi superiori. Le cornici
appaiono nelle foto degli anni ‘Cinquanta
alquanto variate, impreziosite per dimensione e modanature e realizzate a contrasto cromatico, a seguito dell’evidente
riordino del manto di copertura.
Con gli stessi lavori è realizzato il rosone
in asse con l’ingresso, in sostituzione del-
la finestra ad arco. Il rosone ha ghiera in
trachite, in accordo con l’originaria ghiera
del portale, ed una stella centrale ad otto
punte, oggi con vetrata policroma.
L’obliterazione della originaria monofora
corrisponde internamente alla demolizione della cosiddetta trona e dell’organo, di
cui sono stati rinvenuti lacerti lignei durante i recenti lavori di restauro. Non è dato
sapere se la profonda lesione che attraversa a tutt’oggi la cupola dal lanternino
sino al portale sia stata causata dall’apertura del rosone sottostante la finestra,
che era stata semplicemente tamponata
senza la ricostituzione della compagine
muraria. In corrispondenza della lesione
oggi risultano inserite due putrelle, tamponate con intonaco cementizio sul partito cromatico in azzurro; opere di rinforzo
realizzate quindi, come vedremo di seguito, a decorazioni già rimosse e ad assetto
monocromatico già realizzato.
Nel 1937 furono eseguiti restauri all’interno dell’edificio, come annotato nel Registro di amministrazione della chiesa2, che
però non fornisce informazioni di dettaglio sulle effettive opere realizzate. I lavori
furono compiuti da una ditta non sarda,
come ricordano in paese3 e interessarono gli interni: “riparazione cupola e setti
al completo – spese 2.946,25 Lire”. Si
trattò certamente di un restauro che non
compromise il ciclo pittorico cosiccome
pervenuto, considerato che soltanto negli anni ‘Cinquanta avvenne la rimozione
dell’originario apparato decorativo interno, eccetto che per quello dell’abside già
più volte interessato da ridipinture.
Una scritta in ematite “circolo giovanile li
Mamoiada 30-12-1932 – 5-1-1933”4, sull’ultimo strato di tinteggiatura in azzurro,
documenta che a quella data le decorazioni settecentesche delle paraste del
presbiterio erano già obliterate dal nuovo
ciclo pittorico sui toni dell’azzurro, colore
poi ripreso nella cupola e nelle scarselle.
Durante gli anni ‘Cinquanta l’allora parroco decise di operare un restyling
g dell’ambiente interno rimuovendo, secondo
i ricordi del paese, la quasi totalità degli
intonaci e demolendo i simulacri in stucco
posizionati sopra le lesene, poiché i fedeli si distraevano nel guardare le decorazioni circostanti piuttosto che prestare
attenzione alle funzioni. I simulacri furono
gettati al macero e, eccetto le decorazioni
del presbiterio, gli intonaci decorati furono
totalmente obliterati o forse addirittura rimossi fino al nudo delle murature e sostituiti con intonaco cementizio (cosiccome
allo stato attuale).
Non vi sono purtroppo né fotografie né
documenti che attestino lo stato dell’interno dell’edificio prima e durante questi
lavori che certo, ispirati da un supremo rigore, hanno irreparabilmente depaupera25
to la comunità della propria espressione
storica e artistica di religiosità.
Lo stato dell’edificio antecedente agli anni
‘Cinquanta è conservato soltanto nella
memoria degli anziani del paese, che
ricordano gli intonaci decorati a girali fogliacei e racemi sulle cappelle e sul tamburo, nonché decorazioni sulla cupola5.
Tuttavia i recenti lavori di restauro sul ciclo pittorico del presbiterio, risparmiato
dalle rimozioni, hanno riportato alla luce
una situazione stratigrafica degli intonaci apparentemente più complessa. Sotto
lo strato di cemento delle lesene in corrispondenza dell’abside è risultato un ulteriore strato a gesso, con finitura sui toni
del giallo ocra simulante il marmorino,
soprastante l’intonaco a calce settecentesco decorato a racemi. Medesima finitura
a gesso e marmorino, sovrapposto allo
strato settecentesco, è stata rinvenuta
per un breve tratto nel muro d’ambito che
rincalza la volta del catino absidale. Una
simile finitura con effetto cromatico a marmorino si riscontra negli stipiti dell’apertura che collega l’abside col vano minore
della sagrestia, come pure nell’intradosso
della monofora recentemente riaperta. I
lavori di restauro hanno inoltre messo in
evidenza che nei punti investigati (muro
d’ambito di risvolto del semicatino absidale e lesene del presbiterio), sotto lo strato
di cemento, l’intonaco settecentesco a
calce e quello successivo a gesso e marmorino furono tagliati simultaneamente.
La coincidente soluzione di continuità dei
due strati pone dei dubbi sulla reale dimensione delle demolizioni che sarebbero state operate negli anni ‘Cinquanta.
Posto infatti che l’attuale intonaco cementizio che ricopre il cilindro di base, tranne
le scarselle, sia stato eseguito negli anni
‘Cinquanta a seguito della rimozione dei
paramenti sottostanti, si potrebbe ritenere
che tali rimozioni abbiano sì interessato
l’originaria decorazione settecentesca,
cosiccome descritta nei ricordi, ma che la
stessa, in diverse porzioni della chiesa o
forse nelle sole partiture architettoniche
del cilindro, fosse già stata in parte ricoperta con lo strato a gesso e marmorino.
Rilevato tuttavia che l’intonaco cementizio
appartiene ad un successivo intervento
r
di
manutenzione, verosimilmente eseguito
durante gli anni ‘Ottanta in occasione dei
restauri all’esterno della chiesa, appare
più chiara la sequenza stratigrafica per la
quale, almeno nel cilindro di base, le decorazioni settecentesche sarebbero state
rasate a gesso con la finitura a marmorino giallo durante gli anni ‘Cinquanta e
poi successivamente, entrambi gli strati,
sarebbero stati rimossi fino al nudo delle
murature durante un incontrollato intervento di ristrutturazione, che ha ulteriormente infierito sulla conservazione dei
paramenti originali dell’edificio.
Nelle scarselle infatti, che sarebbero state anch’esse depauperate delle decorazioni durante gli anni ‘Cinquanta, non è
presente lo strato cementizio, ma soltanto una stratigrafia sui toni dell’azzurro su
una base in bianco perla stesa su un mediocre intonaco di malta di calce e fango.
In seguito l’interno dell’edificio, comprese
le scarselle, fu rivestito con alte lastre di
marmo, allo scopo di isolarlo dall’umidità,
poi rimosse ed utilizzate per realizzare il
pavimento rialzato del presbiterio.
Tra gli anni 1987-‘88 sono realizzati ulteriori lavori, questa volta soprattutto in
esterno per ovviare al gravoso stato di
degrado della cupola per le continue infiltrazioni d’acqua cagionate dal manto di
coppi e ardesia ormai in dissesto6.
Dalla disamina del progetto, realizzato
solo in parte, emerge che le opere riguardavano: la ricostruzione della lanterna,
deteriorata e fatiscente, attraverso la ricostruzione del cupolino ed il rifacimento
degli intonaci nonché il riposizionamento
della croce in ferro battuto ormai divelta
da tempo; la demolizione e ricostruzione
del manto della cupola, quasi completamente deteriorato ed a tratti scomparso,
che aveva causato notevoli infiltrazioni
e fenomeni diffusi di umidità con conseguente indebolimento della struttura e
disfacimento degli intonaci. Il manto di
tegole d’ardesia (“squame in lastre di ardesia delle dimensioni 35x25 cm fissate
sul letto di malta bastarda”) è così demolito e sostituito con analoghi elementi
fissati con malta ed ancorati con ganci in
acciaio zincato. Sul massetto è realizzato
un “sanduich” costituito da due strati di
malta di dimensioni rispettivamente 3,00
cm esterno, 4,00 cm interno di posa, con
interposta guaina plastobituminosa dello
spessore di 0,4 cm e armato con maglia
di filo di ferro. Le tavole esplicitano che si
tratta di calcestruzzo lisciato. Ugualmente, a causa delle infiltrazioni sulle murature interne, sono sostituiti i manti di tegole
in laterizio nei tetti correnti all’apice del
tamburo e della rotonda (con realizzazione del “sanduich” in quest’ultima parte)
ed isolati con guaina, nonché ricostruito
l’intonaco della modanatura superiore di
imposta della cupola. L’intonaco esterno
sia del cilindro che del tamburo, ormai in
fase avanzata di disfacimento, viene interamente rimosso (del preesistente rimane
soltanto la porzione all’interno del vano
del campanile) sostituito con uno spessore stimato di 8,00 cm. In occasione del
rifacimento degli intonaci esterni viene
anche rimossa la lapide ai caduti in guerra, “in quanto elemento improprio che
male si adatta alla particolare architettura
dell’oratorio”. Il progetto prevedeva anche
la “demolizione e la chiusura del rosone
d’ingresso”7, non eseguita.
Durante i lavori si varia anche la soluzione apicale del campaniletto a vela perché ritenuto pericolante, oggi con doppio
fornice e tetto a falda, prima con tetto ad
unica falda per favorire il deflusso delle
acque verso l’oratorio8. La soluzione, che
privilegia il tema vernacolare della faccia-
ta piana, non si rivela però ottimale visti
i problemi di infiltrazione che tuttora persistono all’interno della sagrestia. Della
stessa sagrestia, già oratorio, si prevede
la sostituzione del manto di copertura in
coppi previa realizzazione del “sanduich
come indicato per i solai precedenti”, nonché si sostituisce l’intonaco esterno9.
Il progetto prevedeva anche il restauro
delle pitture murali, da stimarsi in corso
d’opera10, lo “scrostamento e ricostruzione intonaco dell’imbotte della cupola” e
“delle lesene e pareti laterali”11, la demolizione e ricostruzione del pavimento12,
nonché la sistemazione del cortile esterno
con la ristrutturazione della balaustrata ed
il riposizionamento delle sfere marmoree
sui piastrini, allora custodite in sagrestia;
la pavimentazione era prevista con lastre
di porfido di colore grigio.
Per mancanza di fondi, del progetto fu
realizzato soltanto lo stralcio relativo alle
opere in esterno, che risultavano più urgenti; con successivi interventi di manutenzione sono stati realizzati gli intonaci
cementizi interni e le vetrate policrome.
Anche la pavimentazione esterna viene
realizzata in seguito, in basolato di granito arricchita da un decoro in asse con
l’ingresso riproducente la stella ad otto
punte inserita nel rosone del portale. La
balaustrata e la cancellata in ferro battuto vengono demolite e lo spazio privato
antistante la rotonda diviene una piazza
rialzata aperta. Con questi lavori è realizzata anche la nuova fontana in granito,
addossata al complesso ed inserita nel
rivestimento in lastre di granito che corre
lungo tutto il corpo della rotonda e della
sagrestia, cagionando oggi una consistente umidità di risalita.
IIl restauro della Sagrestia
Con finanziamento nella programmazione ordinaria del Ministero per i Beni e le
Attività Culturali, nel 2006-2007 la Soprintendenza per i BAP e PSAE per le province di Sassari e Nuoro procede al restauro
delle strutture e decorazioni della sagrestia e del vano annesso, le cui condizioni
di degrado e obsolescenza rendevano inderogabili le opere di risanamento13.
Per quanto dato di rilevare dalle ampie
lacune del fatiscente rivestimento interno,
le strutture apparivano costruite in muratura mista di pietrame di estrazione locale, prevalentemente granitico, e laterizi,
legata con malta di calce, con qualche
rappezzo eseguito con malta di calce e
fango. La volta a padiglione unghiata della sagrestia risultava interamente realizzata in mattoni disposti a coltello e legati
con malta di calce. La volta, rispetto allo
stato di fatiscenza generalizzato dell’invaso, non mostrava però gravi problemi
strutturali tali da ritenere che il sistema
statico avesse esaurito i limiti di affidabilità prestazionale. La pavimentazione era
in parte in pianelle di cotto, in estremo
stato di degrado e fortemente lacunosa,
con ampi rappezzi di cemento.
Rilevante risultava la presenza di umidità
nella parte inferiore delle murature, che
lasciava pensare ad un problema di umi26
Chiesa di Loreto: immagine del 1919
Chiesa di Loreto: immagine della metà del
‘Novecento
dità in base non risolto. Durante lavori attribuibili agli anni ‘Ottanta, forse quando si
rifecero gli intonaci esterni, si eseguirono
delle perforazioni lungo le pareti a nord
e a sud per procedere ad un isolamento all’umidità tramite barriera chimica. Si
consideri che le temperature invernali di
Mamoiada raggiungono spesso il limite di
ghiacciazione, esercitando tensionamenti per gelo all’interno delle murature per
ripetute volte l’anno. Questa circostanza,
unita alla presenza di efflorescenze saline veicolate dall’umidità ed alla presenza
di una fodera esterna di intonaco cementizio, concorrevano all’aggravarsi dello
stato di degradazione delle murature.
Qualche lesione di carattere strutturale
attraversava la volta con gli stucchi, che
risultavano in parte staccati o decoesi;
inoltre recenti ridipinture a calce avevano
obliterato le tinteggiature a risalto cromatico. Un generale dissesto interessava la
fascia decorata del cornicione in corrispondenza delle reni delle volte, talvolta
con quadri fessurativi localizzati che si
estendevano fino alla muratura sottostan-
te. L’apparato decorativo in stucchi a bassorilievo della volta appariva obliterato da
ridipinture e mani di colore a calce o gesso; gli eleganti racemi del cornicione che
si interpone alla volta erano stati più volte
rimaneggiati da successive manutenzioni con gesso ed integrazioni cromatiche,
fino alla ultima ridipintura omogenea in
azzurro, che aveva nascosto la originaria
cromia in foglie bianche su fondo rosso14.
Il progetto è stato diviso in due stralci relativi ai lavori architettonici ed alle opere
sulle superfici decorate e beni mobili.
Le opere che si rendevano necessarie
riguardavano innanzitutto il risanamento
murario dall’umidità di risalita ed il consolidamento delle murature portanti la
volta, nonché alcuni interventi localizzati
di chiusura di lesioni, ormai ferme ed assestate, nella volta del vano principale. Le
altre opere riguardavano la pavimentazione, gli infissi e l’impianto di illuminazione
da realizzare ex novo.
Nel complesso l’intervento di ripristino
dei materiali è stato teso sostanzialmente alla chiusura e ricucitura delle lacune
esistenti, operazioni senza le quali si riteneva pregiudicata la conservazione del
complesso. Partendo da questo assunto
tutte le nuove realizzazioni, comprese
quelle operate nell’intervento di restauro
delle superfici decorate, sono state realizzate con colori neutri ed in sottosquadro,
fungendo da mero sottofondo materiale/
cromatico a quello che è stato individuato
come testo storico autentico cosiccome
pervenuto ed a tutt’oggi permanente.
Si riporta di seguito uno stralcio dalla relazione
tecnica del progetto architettonico.
“L’intervento di risanamento dall’umidità di risalita procederà con la necessaria messa a vista
della muratura, rimuovendo gli intonaci ormai
distaccati del vano principale e parte degli intonaci, solo quelli distaccati, del vano annesso.
Contestualmente si procederà a consolidare la
muratura sia con iniezioni a base di calce, per
rinforzare la compagine muraria ormai incoerente, sia con stilature e stuccature da praticarsi nell’interfaccia superficiale onde sigillare la
muratura e preparare il supporto per l’ intonaco
di risarcimento. Le iniezioni nel nucleo centrale
della muratura fino ad una profondità 50% dello
spessore murario saranno eseguite a pressione controllata o colature per riempimento dei
vacui fino al rifiuto totale con boiacca di calce
eminentemente idraulica. Le stilature e stuccature saranno anch’esse eseguite in conformità
e coerenza con i materiali esistenti.
Saranno eseguite rincocciature di paramento
in pietrame e/o pezzame misto di varia natura
e dimensione, compresi elementi in laterizio,
consistenti nel riempimento degli interstizi tra
le pietre con scaglie di materiale lapideo della
stessa natura, assestati a forza per il ripristino della continuità della muratura; l’intervento
sarà finito con stuccature in malta di calce.
In corrispondenza di lesioni di rilevante entità
sarà effettuata una ricucitura della compagine
muraria effettuata con la tecnica dello scucicuci, una volta verificato l’assestamento delle
stesse, che sembra a tutt’oggi già avvenuto.
Nella volta si procederà ad una chiusura delle lesioni esistenti, con riempimento di malta
di calce e stuccatura per le minori, ed eventualmente con tecnica dello scuci-cuci (anche
laddove in mattoni) per i casi fessurativi più
significativi. (...)
Nel caso in cui i lavori di restauro dell’apparato
decorativo della volta dovessero restituire una
decorazione pittorica in luogo delle fessure più
consistenti, onde privilegiare la conservazione
delle poche tracce residue dell’apparato decorativo barocco, e constatato che il quadro fessurativo può definirsi in larga massima assestato, le stesse fessurazioni saranno richiuse
con iniezioni di malta di calce e stuccature.
L’intonaco, traspirante ad alta porosità in malta
di calce spenta, sarà realizzato secondo le tecniche tradizionali, con finitura a calce di colore
bianco, una volta predisposte le campionature
per gli aggregati a scelta dalla D. L.. Tale intonaco di ripristino, compreso per entrambe i
vani, sia in luogo delle porzioni distaccate ed
obsolescenti dell’intonaco attualmente residuo,
sia in luogo delle più ampie parti lacunose, sarà
eseguito in sottosquadro rispetto all’esistente
onde facilitare la lettura complessiva del palinsesto. Saranno conservati i lacerti di intonaco
di cui si può ancora garantire l’aderenza.
L’intervento sulla pavimentazione, oggi fortemente alterata da rimozioni e sovrapposizioni
di materiali diversi, oltre che in stato di degrado
per la cospicua presenza di umidità, prevede
la rimozione del massetto di cemento presente
che funge da pavimentazione per gran parte
della sala principale. Sulla superficie pavimentale sarà realizzato un massetto di conglomerato a base di calce idraulica legata con aggregato di varia granulometria e colore simile ai
lacerti residui, individuato a scelta dalla D.L.”.
Durante i lavori le porzioni di pavimentazione
in cotto recuperabili risultarono esigue e, eccetto che per una porzione tra i due vani, è stato realizzato un unico manto di seminato cosiccome descritto; nel vano della sagrestia sono
state infine inseriti a tappeto alcune mattonelle
maiolicate rinvenute durante i lavori.
“A corollario dell’intervento è stato previsto il
monitoraggio delle lesioni interne alla cupola
della rotonda della chiesa, da effettuarsi al fine
di programmare un successivo lavoro di consolidamento della rotonda. La più importante
delle lesioni, che attraversa l’edificio dall’imposta del lanternino fino al portale, attraverso le
due finestre ed il rosone, sarà monitorata con
apposizione di tradizionali vetrini posti nelle
soluzioni di continuità della muratura, in corrispondenza della volta della scarsella”. A tutt’oggi i vetrini sono ancora integri e la lesione
può pertanto dirsi assestata.
Durante i lavori, al fine di programmare un
successivo intervento sulle finiture della
chiesa, sono stati eseguiti saggi sulle tinteggiature dell’abside che hanno restituito interessanti stratigrafie di decorazioni
policrome, di età barocca. È stato inoltre
eseguito un rilievo strumentale con laserscanner dell’intero complesso, propedeutico alla redazione di un futuro progetto di
restauro complessivo della chiesa.
IIl risanamento delle scarselle
e dell’abside della Rotonda
Con fondi residui nella programmazione
ordinaria del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, nel 2010-2011 la Soprintendenza per i BAPSAE per le province di
Sassari e Nuoro procede al restauro dell’apparato decorativo dell’abside, nonché
al risanamento delle scarselle che maggiormente mostravano problemi di degradazione per infiltrazioni ed umidità15.
Il progetto è stato diviso in due stralci relativi ai lavori architettonici ed alle opere
sulle superfici decorate e beni immobili.
A seguito di costanti sopralluoghi svolti per verificare l’efficacia dell’intervento
27
Chiesa di Loreto: cartolina del 1971
precedente, è risultato che nella sagrestia
insisteva una infiltrazione localizzata dal
tetto, nella finestra unghiata in corrispondenza dello scarico della copertura del
campaniletto a vela. Inoltre, i vetrini apposti lungo la lesione in corrispondenza
dell’ingresso della chiesa (posti nel 2006)
erano (e sono ancora) in opera senza
rotture e pertanto c’era da ritenere che la
lesione fosse assestata e ferma.
Con l’esiguo finanziamento destinato ai
lavori nella chiesa è stato svolto un intervento di restauro conservativo delle superfici decorate dell’abside, finalizzato a
riportare in luce le decorazioni policrome
settecentesche ed eseguito il risanamento conservativo degli intonaci delle rimanenti cinque scarselle. Contestualmente
al risanamento, che ha comportato necessarie sostituzioni, sono state ricucite
le aree interessate dalle lesioni che attraversavano parte delle scarselle. Il vano
della chiesa versava, e per certi aspetti
versa tutto’ora, in condizioni di trascurata obsolescenza per problemi di umidità
e degrado strutturale, nonostante l’opera
di benefica cura profusa da alcuni devoti
abitanti del vicinato. Sia lesioni che infiltrazioni sono state in parte limitate dall’intervento realizzato alla fine degli anni ‘Ottanta sulla copertura della cupola e delle
scarselle, ma internamente i fenomeni di
degradazione delle malte e le soluzioni di
continuità nelle murature non sono stati
mai risolti da un complessivo intervento.
Il finanziamento della Soprintendenza,
vista l’esiguità dell’importo a disposizione, è stato impiegato per risolvere alcune
di queste problematiche nella fascia del
solo cilindro interno di base.
Si riporta di seguito uno stralcio del programma degli interventi delle opere architettoniche:
“- 5 scarselle radiali: parziale eliminazione dello
strato pittorico superficiale azzurro ritenuto incongruo con la materica storica della fabbrica;
sostituzione parziale dell’intonaco ammalorato
previa saggiatura con nuovo intonaco privo di
sali e a base di malta di calce idraulica specifico per ambienti umidi; stesura di intonachino
a base di calce colorato in pasta su tutte le superfici, sia sull’intonaco rimasto in opera che
su quello di sostituzione; ripresa di muratura
con scuci-cuci da eseguirsi con tratti murari in
mattoni pieni, in corrispondenza delle lesioni;
- sagrestia: sostituzione parziale e risanamento dell’intonaco ammalorato in corrispondenza
della lunetta finitima al vano del campanile,
previa saggiatura e pulitura, con nuovo intonaco privo di sali e a base di malta di calce
idraulica specifico per ambienti umidi;
- copertura sagrestia: nuova impermeabilizzazione nell’attacco del tetto con il campanile a
vela e revisione generale del manto di tegole”.
Durante i lavori di scuci-cuci nella scarsella dell’ingresso, in corrispondenza del
rosone, è emersa la sagoma semplicemente tamponata dell’originaria monofora, nonché tracce di elementi lignei probabilmente afferenti alla struttura della
cosiddetta trona ed organo, ed una putrella posta in posizione inclinata probabilmente per ricucire la profonda lesione
che attraversa il setto dall’imposta del
lanternino fino al portale. Considerato che
della monofora rimaneva ancora la finitura ad intonaco tinteggiato si è optato per
il mantenimento a vista, così da facilitare
la lettura del palinsesto. Anche la putrella
è stata lasciata in loco, viste le difficoltà
oggettive di una sua rimozione; sotto di
essa è stato realizzato un doppio arco di
scarico in mattoni che possa collaborare
a scaricarne il peso.
Il colore scelto per l’intonachino delle scarselle è stato il bianco perla, realizzato ad
hocc seguendo la colorazione dell’ultima
stratigrafia di tinteggiatura sotto le ridipinture in azzurro; medesimo colore è inoltre
emerso come fondale delle decorazioni
policrome del semicilindro absidale.
Note
1
I lavori di restauro pittorico eseguiti nell’area
del presbiterio nel 2011 hanno messo in evidenza la ricostruzione di parte del rivestimento
ad intonaco della calotta absidale. A seguito
dei lavori di rimozione della decorazione a
tempera sono emerse le originarie decorazioni settecentesche tuttavia lacunose per alcuni
punti, che sono risultati di ricostruzione dell’intonaco (oggi identificati dal colore omogeneo
delle lacune). Non sono però stati eseguiti saggi in muratura per verificare se il crollo abbia
interessato soltanto lo strato di rivestimento o
anche la compagine muraria.
2
Il Registro, relativo alla prima metà del XX
secolo, è conservato presso l’Archivio storico
della curia di Nuoro. La spesa di 2.946,25 Lire
per “riparazione cupola e setti al completo” è
annotata in data 24/06/1937.
3
Secondo testimonianze, una decina d’anni fa,
un turista chiese di poter visitare l’interno della
chiesa e riferì della sua profonda delusione nel
non riconoscerne più il variopinto partito decorativo. Lo stesso raccontò di avere da piccolo
dormito in sagrestia con gli operai mentre il padre era impiegato nei restauri alla chiesa.
4
La scritta è stata rinvenuta durante i recenti lavori sul ciclo pittorico del presbiterio ed è
stata rimossa per consentire il restauro delle
decorazioni sottostanti.
5
Per lo stato della chiesa prima delle rimozioni
operate negli anni ‘Cinquanta si veda il precedente paragrafo a cura della scrivente.
6
Gli interventi sono realizzati a cura del Comune di Mamoiada con finanziamento regionale,
progettisti ed esecutori dei lavori sono gli ingg.
P. Mureddu e G. Rombi e l’arch. T. Porcu. Il
progetto, per un importo al netto dei lavori di
324.500.00 Lire, riceve l’approvazione della Soprintendenza in data 12/12/1986. Con il
Mamoiada, piazza San Giuseppe: immagine della metà del ‘Novecento
finanziamento regionale però si copre la cifra
di 80.000.000 e si opta per l’esecuzione delle sole opere sulla copertura. Un successivo
stralcio del progetto è inviato dal Comune al
Ministero con la richiesta di inserimento nella
programmazione ordinaria della Soprintendenza. L’allora Soprintendente arch. M. Dander risponde il 30/09/1987 diniegando la richiesta e
adducendo, tra l’altro, che “non ritiene il progetto meritevole di approvazione, in quanto non
redatto in maniera corretta, e carente (...)”.
7
Nella Relazione si legge: “È altresì necessaria la demolizione e la chiusura del rosone di
ingresso. È stato costruito qualche decennio
fa con alcune somme messe a disposizione di
una famiglia mamoiadina. Infatti la architettura
originaria, come hanno confermato gli amministratori anziani, non comprendeva questo elemento architettonico. Si presume che la lesione verticale che parte dal cupolino e attraversa
il rosone fino all’apertura d’ingresso, in quanto
risulta particolarmente accentuata in corrispondenza, sia stata o indotta o quantomeno
amplificata in spessore dall’indebolimento delle murature causate dall’apertura del rosone”.
8
Nella Relazione: “è da demolire e ricostruire,
altresì la copertura della torre campanaria, sia
perché pericolante, sia per ridimensionarla in
modo da garantire una protezione adeguata
contro le infiltrazioni d’acqua delle murature, e
contro le infiltrazioni verso la sacrestia attraverso la scala di accesso”.
9
La relazione si cura di indicare “è necessario
ricostruire l’intonaco intervenendo con cautela al fine, ove possibile, consentire il recupero
dell’intonaco e degli ornamenti esistenti”, il che
lascia supporre che le ghiere modanate delle
finestre fossero già esistenti.
10
Nella Relazione: “è necessario intervenire
con lavori di pulitura, riparazione dell’altare al
fine di ristabilire condizioni decorose di agibilità. In particolare è indispensabile un intervento
mirato verso gli affreschi che caratterizzano le
pareti e la volta dell’altare. Al riguardo, dì concerto con gli esperti della Soprintendenza, è
necessario intervenire con cautela e perizia in
quanto si è potuto constatare la presenza di
croste pittoriche stratificate”.
11
Nella Relazione: “è necessario rimuovere le
parti di intonaco fatiscente. In particolare fino
ad 1,80 m dal pavimento, a causa delle infiltrazioni d’acqua discendenti e ascendenti si è
avuto un accumulo di umidità che ha prodotto
la disgregazione dell’intonaco che aveva uno
spessore di 10 cm circa”.
12
Nella Relazione: “in tempi successivi il pavimento è stato demolito in parte e ricostruito.
Ciò che è possibile osservare oggi è un pavimento costituito da innumerevoli tipi di marmette, lastre di marmo, mermettoni. La compo-
28
sizione è tale da produrre effetti che deturpano
l’architettura nel suo complesso. Pertanto si
ritiene opportuno demolire completamente il
pavimento ricostruendolo utilizzando lastre di
marmo di dimensioni e colore tali da esaltare
al massimo l’effetto complessivo”.
13
Il progetto di massima richiedeva un finanziamento di 200.000 Euro a gravare sui fondi
della programmazione ordinaria del Mibac e
suddiviso in due lotti d’intervento rispettivamente di 120.000 e 80.000 Euro. Il progetto,
poi computato su un finanziamento di 75.000
Euro (Perizia n. 1025 del 25/07/2005, E. F.
2005), è redatto dai funzionari tecnici della Soprintendenza per i BAP e il PSAE per le province di Sassari e Nuoro: arch. G. Frulio per
la parte architettonica, geom. G. Doro per la
parte tecnica, dott. L. Donati per la parte storico-artistica e la restauratrice M. F. Mureddu
per la parte tecnica sulle superfici decorate ed
i beni mobili. Ditte esecutrici: Impresa Solinas
CP srl di Sassari per le opere nella categoria
OG2 e Impresa Sara Notarlo di Porto Torres
per le opere nella categoria OS2.
14
L’apparato decorativo con stucchi è localizzato sulla volta, in particolare tra le lunette ed il
cornicione di raccordo. Si tratta di una piccola
teoria di angeli e cherubini che si alternano a
piccole decorazioni floreali e geometriche. L’alto cornicione è ornato con eleganti racemi di
stucco tinteggiati di rosso su fondo bianco, ma
alla data del restauro obliterati da manutenzioni a gesso e da una omogenea ridipintura in
azzurro. L’interno era intonacato con scialbatura a calce superficiale e a tratti a gesso, che
copriva anche gli stucchi. Questi ultimi, di fattura grossolana, risultavano modellati a mano,
almeno le figure dei putti e dei cherubini; a
stampo e finitura a mano erano realizzate le rimanenti decorazioni. Gli stucchi sono realizzati
con malta di calce senza l’ausilio di gesso, secondo la tecnica ed i materiali utilizzati anche a
Fonni ed in altre aree della Sardegna. Alla data
del progetto risultavano molto rimaneggiati da
successive integrazioni cromatiche.
15
La Perizia n. 41 del 30/07/2010 per un importo di 70.846,62 Euro (a gravare sui residui
passivi E.F. 1994-2005 e relativa Rimodulazione economie D. M. 10/03/2008), è redatta
dai funzionari tecnici della Soprintendenza per
i BAPSAE per le province di Sassari e Nuoro: arch. G. Frulio per la parte architettonica,
geom. G. Doro per la parte tecnica, dott. M.
P. Dettori per la parte storico-artistica e la restauratrice M. F. Mureddu per la parte tecnica
sulle superfici decorate ed i beni mobili. Ditte
esecutrici: Impresa Solinas CP srl di Sassari
per le opere nella categoria OG2 e Impresa
Sara Notarbo di Porto Torres per le opere nella
categoria OS2.
La campagna di rilievo scanner-laser
Francesco Tioli
Premessa
La mole e la particolare conformazione
geometrica del complesso di Santa Maria di Loreto hanno suggerito un progetto
di rilievo basato sull’utilizzo estensivo di
metodologie e di strumentazioni avanzate. Nello specifico sono state effettuate
riprese con scannerlaser ricomposte, in
fase di elaborazione dei dati raccolti, sulla base di un rilievo topografico.
Tale procedura, ampiamente testata,
permette di ottenere un modello tridimensionale completo dell’oggetto garantendo l’accuratezza necessaria per la
documentazione dello stato attuale del
manufatto.
Il rilievo con scanner-laser
Il rilievo è stato condotto con un sistema
laser tridimensionale, basato su tecnologia detta “a tempo di volo”, uno scanner
laser Leica HDS 3000 capace di misurare circa 1200 punti al secondo. Il modello utilizzato permette di rilevare punti
secondo inquadrature, variabili a scelta
dell’utente, che prevedono coperture angolari massime di 360° in orizzontale e di
270° in verticale.
Decisa l’inquadratura di quanto si vuole
rilevare, lo scanner emette un segnale
laser che riflesso dagli oggetti che incontra ritorna verso l’origine del segnale; in
base al tempo impiegato dalla luce laser
per compiere il percorso di andata e ritorno, lo strumento calcola la distanza
del punto misurato dal suo centro.
La misurazione dell’angolo orizzontale e
verticale secondo cui l’emissione è stata
eseguita, unitamente alla distanza calcolata, permette di collocare nello spazio,
in modo completamente automatico e
con grande precisione (intorno ai cinque
millimetri di approssimazione) ogni singolo punto rilevato.
La stazione di rilevamento è costituita
dall’unità laser, un gruppo di alimentazione elettrica ed un computer portatile
che, utilizzando un software specifico (in
questo caso il Leica Cyclone ) permette
di controllare lo strumento laser in tutte
le sue funzioni e di gestire da subito la
base dati composta da tutte le scansioni
eseguite.
Il software permette anche di stabilire, in
fase di acquisizione, la “risoluzione” della
scansione ovvero il numero di punti che
si vuol rilevare in una determinata parte
della scena ripresa. La scansione viene
infatti effettuata seguendo una maglia
quadrata “proiettata” sull’oggetto e posta ad una distanza dal centro di presa
misurata in un punto baricentrico della
scena stessa; per il rilievo della chiesa
di Loreto sono state adottate maglie con
Vista assonometrica del modello completo
passo di 2 cm per le strutture della chiesa e di 4 cm per il contesto urbano che
la circonda; sono stati eseguiti inoltre dei
raffittimenti (in ragione di una griglia con
passo di 1 cm) nelle porzioni della chiesa
meritevoli di maggior dettaglio quali ad
esempio il portale di ingresso ed il rosone sovrastante.
Il sistema laser permette di misurare solamente i punti effettivamente raggiunti
dal segnale, per cui ogni singola scansione presenta anche una serie di zone
“in ombra”, ovvero quelle parti dell’oggetto non rilevabili a causa della presenza,
tra la stazione laser e l’oggetto stesso, di
ostacoli temporanei o permanenti. Tecnicamente queste “ombre” vengono dette
“spazi di occlusione”.
Per il corretto e quanto più possibile
completo rilevamento delle strutture della chiesa, sono state eseguite 2 riprese
laser all’interno (una in prossimità dell’altare ed una nelle vicinanze dell’ingresso)
e 5 all’esterno, di cui una dalla terrazza
del fabbricato ubicato in adiacenza ai locali della Sacrestia.
Da ogni singola postazione di presa si
ottiene un modello tridimensionale a nuvola di punti riferito ad un sistema cartesiano di riferimento “locale” con origine
nel centro dello strumento ed orientato
in maniera del tutto casuale; al fine di
garantire la ricomposizione dei modelli
parziali ottenuti al termine delle singole
prese, vengono utilizzati dei punti notevoli, rilevati con procedure semiautomatiche dallo strumento e materializzati
all’interno della scena rilevata attraverso
l’apposizione di appositi target quadrati
realizzati in materiali catarifrangenti. Per
poter realizzare la ricomposizione delle
29
singole scansioni occorre che ognuna
contenga almeno il rilievo di 3 target; nel
caso in esame è stata predisposta una
rete di target tale da garantire la presenza di almeno 5 target in ogni presa.
Il rilievo topografico
Il rilievo topografico eseguito sul complesso della chiesa di Loreto è stato eseguito attraverso l’utilizzo di una stazione
totale Leica 706 no prism.. Il risultato
delle operazioni topografiche consiste
in una rete topografica di inquadramento
suddivisa in vari livelli gerarchici e formata da:
•una poligonale chiusa di 4 vertici impostata attorno alle strutture della chiesa
che costituisce il sistema locale di riferimento;
•un ramo di poligonale aperta con vertice all’interno della chiesa e collegata
al vertice della poligonale chiusa posto
frontalmente all’ingresso;
•rilievo di dettaglio di punti significativi.
I cinque vertici di poligonale sono stati
individuati a terra, laddove possibile, mediante l’apposizione di chiodi o sfruttando
elementi di pavimentazione ben visibili e
rintracciabili quali spigoli di mattonelle.
La misura dei vertici di poligonale è stata
effettuata attraverso il centramento forzato degli stessi ottenuto utilizzando tre
cavalletti dotati di basamento che permette l’intercambiabilità tra strumento e
prisma riflettente.
La posizione dei vertici di poligonale è
stata accuratamente documentata attraverso la stesura di monografie redatte
sulla base di eidotipi e di immagini digitali in modo da rendere possibile un
eventuale proseguimento od integrazio-
ne delle operazioni di rilevamento.
La nuvola di punti rada, risultato delle
operazioni di rilievo topografico, è composta da due diverse categorie di elementi rilevati: la prima compete alla rete
dei target necessari alla ricomposizione
dei rilievi eseguiti con scanner laser
mentre la seconda è costituita dal rilievo
di punti di dettaglio descrittivi di alcune
parti, nello specifico la zona absidale del
complesso, poco documentate dal rilievo
laser.
Elaborazione dei dati e produzione
grafica
La fase di elaborazione dei dati raccolti
nelle varie sessioni di rilevamento è stata
condotta mediante l’utilizzo del software
dedicato Leica Cyclone.
Come accennato in precedenza, ogni
30
singola ripresa effettuata con lo scanner
laser, denominata Scanworld dal software, costituisce un modello a nuvola di
punti dipendente da un sistema di riferimento proprio, di centro coincidente con
il centro dello strumento e con direzioni
svincolate dalle caratteristiche di verticalità della scena inquadrata. Il software
utilizzato consente di importare al proprio interno la nuvola di punti corrispon-
denti ai target rilevati topograficamente
e di mettere a registro le altre scansioni
imponendola come principale, prerogativa questa che permette di ovviare alle
carenze segnalate in precedenza e di
georeferenziare il modello ottenuto. La
fase di registrazione si configura come
momento nevralgico per l’esito finale
della restituzione del rilievo.
Ogni singola scansione deve contenere
al proprio interno almeno tre punti riconoscibili (i target) per poter essere collegata alle altre; in realtà, in fase di rilievo,
sono stati disposti sull’oggetto i target
in maniera tale da garantire un numero
sovrabbondante per ogni scansione effettuata. La sovrabbondanza di elementi
di controllo implica necessariamente, in
ogni Scanworld, scostamenti di alcuni di
essi dalla configurazione rilevata topo-
31
graficamente, situazione questa prevista
e gestibile dal modulo di registrazione
del software che permette di attribuire
più o meno peso ad ogni singolo target
fino all’esclusione dello stesso dal processo di messa a registro: è questa una
operazione che comporta valutazioni di
tipo interpretativo ed è quindi auspicabile, se non necessario, che l’operatore
che presiede alla registrazione conosca
perfettamente il contesto operativo della
fase di rilievo.
Il modello ricomposto è stato configurato
in base a layer tematici e strutturato secondo viste in modo da permetterne una
fruizione ed una gestione agevole; è stato
ad esempio suddiviso in livelli che comprendono le parti esterne ed interne di
quanto rilevato e sono stati realizzati dei
piani di riferimento visualizzati da griglia
quadrata di passo editabile, congruenti
con le viste che del modello si vogliono
utilizzare; il software permette infatti di
visualizzare il modello sia in proiezione
centrale (viste prospettiche) che in proiezione parallela (viste di proiezione ortogonale piuttosto che assonometriche).
Il software permette di disporre il modello opportunamente editato secondo viste
canoniche di proiezione ortogonale e,
bloccando la rotazione del modello ed il
livello di zoom, è possibile utilizzare un
comando dedicato alla cattura video di
porzioni del modello; si possono ottenere così degli scatti parziali della vista desiderata che vengono successivamente
ricomposti in software dedicati al fotori-
tocco per ottenere immagini ad alta definizione delle viste del modello.
Le immagini così ottenute sono a tutti
gli effetti rappresentazioni canoniche e
misurabili della chiesa, non prive di una
propria valenza grafica, che costituiscono la base fondante, attraverso procedimenti di vettorializzazione in ambiente
C.A.D., per la produzione di elaborati
grafici bidimensionali tipici della rappresentazione dell’architettura quali piante
prospetti e sezioni.
Il modello digitale a nuvola di punti, esito del rilievo scannerlaser rappresenta a
tutti gli effetti il documento più completo, da un punto di vista della quantità di
elementi misurati, dello stato attuale del
manufatto e costituisce un elaborato su
cui compiere a tavolino operazioni di misura in tempo reale su tutte le parti rilevate; il modello si configura inoltre come
base per elaborazioni grafiche e tematiche più avanzate quali la modellazione
solida e la produzione di elaborati digitali connotabili di valenze scientifiche e
divulgative.
Il rilievo delle coperture effettuate da un
fabbricato adiacente la chiesa
Rilievo del fronte principale
Fase di rilievo dell’interno della chiesa
Stazione totale per il rilievo topografico dei
target
Prospetto della Rotonda dalla piazza
(riduzione arbitraria da una restituzione grafica in scala 1/100)
32