Studi e ricerche per il restauro
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Studi e ricerche per il restauro
Soprintendenza per i Beni Architettonici Paesaggistici Storico Artistici ed Etnoantropologici per le province di Sassari e Nuoro *MDPNQMFTTPEFMMBSPUPOEBEFMMB #FBUBB 7FSHJOFEJ-PSFUPB.BNPJBEB 4UVEJFSJDFSDIFQFSJMSFTUBVSP .BSJB1BPMB%FUUPSJ (BCSJFMB'SVMJP Indice Il complesso della Rotonda della Beata Vergine di Loreto Gabriela Frulio p. 3 La decorazione pittorica dell’abside della chiesa della Beata Vergine di Loreto Maria Paola Dettori p. 11 Maestri costruttori, botteghe e famiglie di frescanti Maria Paola Dettori, Gabriela Frulio p. 19 Cronistoria delle recenti trasformazioni e degli interventi di restauro architettonico Gabriela Frulio p. 25 La campagna di rilievo scanner-laser Francesco Tioli p. 29 1 2VFTUPMBWPSPÒEFEJDBUPBMMBDPNVOJUËNBNPJBEJOBDBQBDFDPNFOFMMBUSBTMB[JPOFEJ-PSFUPEJPąSJSFF VOB DBTB B DIJQFSEJTFHOPPQFSWFOUVSBWJTJSFDIJ(' 2 Il complesso della Rotonda della Beata Vergine di Loreto Gabriela Frulio Il cantiere La rotonda intitolata alla Beata Vergine di Loreto sorge al centro dell’abitato storico di Mamoiada; il paese ha origini certamente medievali per la sua rilevanza territoriale, pur se le prime fonti scritte attestanti la Villa risalgono alla metà del XIV secolo. Nell’area storica sono ancora presenti tipi edilizi e murature che testimoniano una parte importante dello sviluppo urbano entro il XIV secolo, nonché alcuni importanti registri decorativi, sia in edifici religiosi che civili, ascrivibili all’età gotico-catalana1. La chiesa è un edifico ad icnografia centrica costituito, in esterno, da un nitido volume cilindrico di base con un tamburo esagonale a risparmio, su cui imposta una alta cupola ogivale con lanternino. Internamente la chiesa mantiene la scansione senaria ovvero un ampio vano cilindrico dilatato da un’abside e cinque nicchie radiali, separate da lesene interrotte; la principale fonte di luce è costituita dalle sei finestre distribuite sul tamburo ed altrettanti sei oculi in asse, all’imposta della cupola. L’attribuzione cronologica della struttura rotonda a partizione esagonale rimane ad oggi ancora aperta nonostante l’indagine delle fonti abbia restituito per l’attuale edificio una datazione certa intorno ai primi anni del XVIII secolo. Sono infatti la particolare icnografia centrica scandita sul modulo senario e la stereotomia circolare del cilindro di base e del tamburo che lasciano aperti i dubbi su una attribuzione anteriore, forse una rotonda sul modello imitativo orientale organizzata secondo il numero sei, caro alla tradizione medievale2. Il 10 maggio 1709 è stipulato in Mamoiada presso il notaio Alessio Demontis un contratto tra Giuseppe Gualliò milanese, domiciliato nella città di Sassari, capomastro di fabbrica, e Quirico Querenty, devoto di Nostra Signora di Loreto della presente villa di Mamoyada, con il permesso del rettore don Proto Melony e del procuratore delle chiese della villa Giuseppe Galisay ed il nobile don Antonio Sedda Satta priore della confraternita di N. S. dei Sette Dolori e la licenza dell’Ill. mo don Francesco Masones y Nin arcivescovo di Arborea, ottenuta il 15 aprile 1708. Il contratto3 si basa su un precedente atto rogato in data 1708 presso il notaio Giovanni Battista Lay “in questa villa”, un accordo sui lavori iniziati della nuova chiesa della SS. Vergine di Loreto, sita dentro l’abitato, per la cui opera e assistenza il predetto Querenty aveva offerto al Gualliò la somma di 650 scudi in danaro contante e 50 pecore in Il complesso della chiesa della Beata Vergine di Loreto a Mamoiada, vista dalla piazza comune. L’atto del 1709, con l’aggiunta di altre 50 pecore in comune, rinnova i patti precedenti, per fugare questioni e contrasti sulla conclusione dei lavori. Nel primo contratto la chiesa doveva essere conclusa e perfezionata come la chiesa del glorioso S. Antonio Abate dell’illustre e magnifica città di Cagliari e nell’atto di rinnovo il maestro Gualliò si impegna ad ultimarla dentro e fuori come la chiesa cagliaritana, “tranne che non resta boligat aflores y persungris que non tocan y no pertenessen a son arte”. L’edificio in questione è dunque intitolato alla Santissima Vergine di Loreto ed è detto “nuova chiesa”; nel 1709 la sua costruzione risulta già iniziata a seguito del primo contratto stipulato tra il Gualliò ed il Querenty l’anno precedente. Nel 1709 risulta inoltre già esistente la Confraternita di N. S. dei Sette Dolori (alla quale sarà dedicata una delle tre cappelle nella stessa chiesa e nel 1783 le decorazioni nella volta dell’oratorio) ma non la Confraternita della Vergine di Loreto, citata invece nel Registro di Amministrazione redatto a partire dal 17234, a lavori quasi ultimati ed a chiesa già officiata. Il committente è Quirico Querenty, della villa di Mamoyada e devoto di Nostra Signora di Loreto5; non ha l’appellativo di nobile, a differenza del priore don Antonio Sedda Satta, ma è certamente un personaggio benestante per poter intraprendere la costruzione di un’opera di 3 tali dimensioni e complessità costruttive, tanto da affidare i lavori non a maestranze locali ma alla bottega lombarda del Gualliò, che in quegli anni nell’isola si era resa interprete delle istanze di rinnovamento seguite nella fine del XVII secolo alla lunga tradizione costruttiva tardogotica di marca iberica. L’araldica sugli stemmi rinvenuti nell’abside potrà forse indicare qualche dato in più sul munifico committente. Giuseppe Gualliò o Quallio6, capomastro e capobottega lombardo con una fervida attività nell’isola, è in quegli anni attivo nel cantiere della basilica della Madonna dei Martiri a Fonni, con l’incarico di ristrutturare ed ampliare la chiesa esistente e realizzare il Santuario sotterraneo7. Nella chiesa di Loreto a Mamoiada le stesse maestranze si confrontano con i complessi lavori di una struttura ad impianto esagonale centrico. I lavori pattuiti escludono la parte “tranne che non resta boligat aflores y persungris que non tocan y no pertenessen a son arte”, di difficile interpretazione, forse allusiva alla realizzazione delle finiture e del partito decorativo8. D’altra parte, a differenza dei suoi collaboratori lombardi Arietti, Mutoni e Corbellini che sono attivi a Fonni, a Sassari ed a Cagliari anche col ruolo di stuccatori, il Quallio riveste la sola qualifica di Mastre ed a Fonni, si evince, di impresario. Quale che sia la interpretazione del rigo, certamente il contratto escludeva alcune Planimetria della Rotonda (riduzione arbitraria da una restituzione grafica in scala 1/100) parti importanti del lavoro sull’erigenda chiesa, tali da meritare l’apposita specifica contrattuale. È da considerarsi poi singolare che il Querenty abbia vincolato la bottega del Quallio alla realizzazione di una chiesa sul modello di un’altra in Cagliari che in quegli anni risulta ancora in costruzione (i lavori della chiesa di S. Antonio abate sono già iniziati en forma Rotunda nel 1704 ad opera di maestranze ancora non individuate e la chiesa è consacrata nel 17239). In ogni caso, posto che l’impianto centrico della attuale chiesa di Loreto si debba alla ristrutturazione di una fabbrica preesistente o alla precisa volontà della committenza di evocare la centralità del tempio della casa di Loreto, il riferimento a modelli certi, come in uso nei contratti edili del tempo, dovette rimandare necessariamente a coeve realizzazioni a icnografia centrica: il citato Sant’Antonio oppure il San Michele, sempre a Cagliari, che in quegli anni doveva aver realizzate almeno le strutture10. Non sembra scontato il riferimento al modello del S. Antonio se non ipotizzando un coinvolgimento della bottega dei Quallio nel medesimo cantiere11. La chiesa della Vergine di Loreto può dunque comprendersi a pieno titolo all’interno di un filone icnografico centrico sperimentato nella Sardegna barocca da maestranze extrainsulari ed esempio di un rinnovamento del gusto felicemente accolto dalla committenza locale. Posto il riferimento al modello, rimane tuttavia aperta la questione della scansione senaria della rotonda mamoiadina che non corrisponde all’impianto ottagonale del Sant’Antonio cagliaritano, peral- tro con icnografia a spinta longitudinale lungo l’asse principale. Sembra invece rimandare al tamburo esagonale della chiesa di S. Bernardino a Busachi12 la stereotomia volumetrica della parte tergale della chiesa di Loreto. Anche il rapporto con lo scenario urbano costituisce a Mamoiada un unicum se si considera che le altre due chiese centriche sarde del Sant’Antonio e del San Michele a Cagliari sono progettate ab origine per essere inglobate tra le strutture rispettivamente di un ospedale e di un convento, che di fatto ne obliterano il volume esterno13. Una interessante nota di storia sulla costruzione della Vergine di Loreto e sulla sua potenziale importanza strategica riguarda la vicenda dell’intenzione di alcuni religiosi della comunità dei Serviti di Sassari, nel 1718, di fondare un loro Convento presso la chiesa, già visitata durante un precedente sopralluogo. Il progetto non è attuato per la veemente opposizione dei frati minori Osservanti della Basilica dei Martiri a Fonni14. La cronaca sul cantiere dell’erigenda chiesa continua col “Registro di Amministrazione della chiesa di Loreto a Mamoyada”15, redatto a partire dal 1723 fino al XIX secolo, con una accurata descrizione delle entrate e delle uscite riguardanti i lavori ed i materiali utilizzati per la fabbrica. Nella prima nota di cargo, che riferisce di entrate anche degli anni precedenti, è citato il committente Quirighe Querenti devoto de la SS. Vierge de Loreto de todas las entradas y elimosinas algun de la (…) SS Vierge. La successiva nota di descargo dello stesso 1723 registra 4 a mastre Juan Baptiste Arieti la cuenta de la conclusion de la Iglesia segun la obbligassion del contrato ciento y sinco scudos y sinquenta (…). È dunque subentrato un nuovo capomastro nelle veci del Quallio, che conclude i lavori secondo quanto stabilito dal contratto, quello del 1708 o del 1709, evidentemente con i fondi ancora a disposizione dal lascito del Querenty. Anche l’elenco dei pagamenti seguenti sottende ad una chiesa in gran parte già costruita e dunque prossima alle finiture se nel 1723 si provvede al pagamento a los mastres han trabajado la pisarra ha servido per las capillas aconche del cinberio guarnatione y campanario16. È poi pagato il Maestro Josep Usay por la hida ha echo a la V(ill).a de Ottana por quitar los cantos han servido a la puerta de (…) paredes17; nel descargo degli anni 1724-26 è registrato ancora il pagamento per aconche dita iglesia ed oltre per componir las barandillass e per il ferro, verosimilmente l’inferriata che doveva diaframmare il presbiterio e l’abside18; nel 1727 la madera del pulpito ed altri pagamenti per le feste di Maggio, segno che nel mese mariano la chiesa è già in grado di essere officiata. Tra gli altri materiali, oltre a gran quantità di pisarra e cal, spesso de Oliena, il Registro annota anche di entejada de Campidano19, di tejass provenienti da Dorgali, di ferro generico ma anche di hierro y acero20, di cuerdas de la fabbrica. Un saldo riferito al 1721 è a tale Ignazio Grossa (o Gratta), forse un fornitore locale, per todo el tempo ha assistito a la fabbrica horno de cal y sacar pietra para el hierro i pisarra21. Il nome di mastre Juan Bap.te Arieti compare nel Registro di Amministrazione in data 1723 in bella grafia, come menzionato per la prima volta; J. Ganliò è registrato soltanto in una nota pregressa del 1720, nonostante sappiamo essere già defunto almeno dal 1715. Giovanni Battista Arietti è un capomastro di origine lombarda, documentato per la prima volta nell’isola nel 1710 nel cantiere di Fonni, impiegato con la direzione del Quallio come maestro fabricero e stuccatore insieme ai lombardi Corbellini e Mutoni ed ai pittori Are22. Nel cantiere di Mamoiada prende certamente le veci del Quallio rilevandone il contratto, come espresso nel primo descargo del 1723 per la cuenta de la conclusion de la Iglesia, che registra il pagamento di centocinque scudi e altri cinquanta. Poiché la chiesa risulta già in gran parte costruita (il primo saldo fuori contratto all’Arietti è registrato per la pisarra23), non è escluso potergli riferire anche il programma decorativo generale degli interni, se è vero che il Quallio contrattò per la sola costruzione e non per quelle parti “que non tocan y no pertenessen a son arte”. Il progetto per l’invaso prevedeva forse un registro cromatico gioioso e squillante al pari del sotterraneo Santuario dei Martiri di Fonni, come si può senza difficoltà immaginare estendendo a tutta la rotonda le decorazioni recentemente riportate alla luce nell’abside. Alla bottega dell’Arietti potrebbero essere attribuiti anche i simulacri di stucco in dimensione umana, un tempo allocati sull’apice delle lesene e distrutti durante gli sciagurati lavori di metà del ‘Novecento24. I successivi pagamenti sono riassunti in una nota del Registro del 15 de henero 1731 riguardanti emolumentos de la Vierge de Loreto, se la an somado las quentas y pr. los años 24, 25, 26, 27, 28, 29. Il cantiere è finanziato almeno fino al 1729, anno in cui si registra il descargo per l’aconche de la linterna, evidentemente il lanternino di chiusura della cupola. Nel 1731 si paga ancora chi ha sacado la pisarra e pietra de cal necessari de las fabbrica. Sono anni in cui l’Arietti non lavora più assiduamente al cantiere di Mamoiada perché impegnato in altre commesse: ad Alghero con la qualifica di Capomastro del Re fra 1726 e 1729, in seguito ad Oristano alla ricostruzione della cattedrale fra 1731 e 1743, nel 1732 a Ozieri per il collegio dei Gesuiti e nel 1740 ad Oliena ancora per i Gesuiti. L’Arietti morirà nel 174325, a chiesa presumibilmente ultimata, nonostante nel registro si continuino ad annotare note di cargo y descargo, sia per materiali edili che per l’organizzazione delle feste mariane26. Nel Registro, fino circa agli anni trenta del ‘Settecento, sono presenti anche altri creditori e Mastre a cui sono riferiti i pagamenti per le opere ed i materiali, evidentemente maestranze locali o diverse dalla bottega Quallio-Arietti, in buona sostanza fuori contratto, che altrimenti non avrebbero curato in forma personale gli aspetti economici. Tra questi sono menzionati27: mastre Josep Usay (1723), Ignazio Grossa o Gratta (1721, 1731) 28, un pintorr de Gavoy (1723), Joseph Paddeu (1723), Joseph Mattu (1723)29, Anto Angel Sieto (1723, poi detto Anto Angel Sietto o Satta de Gavoyy nel 1729)30 e Juan Balia (1723)31, Cosma Mamely (1724-’26), mastre Juan Ispano (1724-’26), mastre Antony Usay (1724-’26), mastre(?) Joseph Salvador Piras (1729, 1734), mastre Joseph Buy (1729), pintor Pietro Ant. Nonnis de Gavoyy (di seguito richiamato Pietro Ant. Nonny y su compagnero de Gavoy,1729), mastre(?) Juan M. Carta (1729). La presenza di alcuni di questi nomi conferma lo stretto legame che il cantiere della chiesa di Loreto continua ad avere con quello dei Martiri a Fonni, nel quale risultano ugualmente attive maestranze di Gavoi impegate soprattutto nel repertorio decorativo mobile32. Nel dia 8 de Henero 1734 insieme a don Diego Meloni e Prisca, pone la firma nel Registro, per emolumentos decha Contraria, Joseph Salvador Piras, già indicato nella contabilità precedente forse come capomastro, al quale si può supporre sia affidato il compito del completamento della chiesa e fors’anche la realizzazione del programma decorativo degli interni33. Nel 1738 si paga inoltre la tribuna a Juan Mura, la hechura confessionario, il pintor de Fonny por pintar las columnas, ed altri lavori a l’aconche de la cupola. Anche il panorama della committenza e dei personaggi che ruotano intorno alla amministrazione della fabbrica sembra essere cambiato. La confraternita della Madonna dei Sette Dolori retta dal priore don Antonio Sedda Satta, cosiccome nel contratto del 1708, è divenuta, almeno dal 1723, Confraria de Loreto rappresentata dal nobile Pedro Pablo Crisponi. Nel 1734 è denominata Confraria de la Santissima Vergine di Loreto e de los dolores de Maria in un atto stipulato a casa del nobile don Proto Meloni, in cui firmano Joseph Salvador Piras, don Diego Meloni e Prisca, Gregorio Melis; ed ancora Confraria de Loreto nel 174534. Non sappiamo quale ruolo il Querenty avesse svolto nella istituzione della Confraria de Loreto, giacché non è chiaro se nella nota di descargo del 1723 fosse ancora vivo o se fosse stato semplicemente citato in merito alle obbligazioni del lascito. Nel 1731 risulta però certamente morto se i pagamenti annotano se ha dado per el servisio hecho a Quirigo Querenti segun los marche en los testamentos35. I firmatari del Registro, risultano ancora il Crisponi ed i Melony, forse i nuovi mecenati. La chiesa è ormai nel vivo delle funzioni; nel 1738, il reggitore del ducato di Mandas si preoccupa di pagare all’amministrazione di Loreto una limosina de dos escudos cada anos che S. E. paga por el alzeite de la Lampara segun decreto del Ill. Regidor, r cioè l’olio della lampada nel periodo quaresimale36. Nuovi lavori edili interessano l’edificio nel 1772. Il giorno 22 ottobre il nobile don Agostino Melis, amministratore della chiesa della SS. Vergine di Loreto, col consenso del rev. rettore Pietro Porcu, stipula un contratto notarile con il mastro Francesco Selis, muratore nativo della città di Cagliari e domiciliato a Paulilatino, per l’esecuzione entro un anno di interventi di restauro sulla chiesa, per la somma di 440 scudi37. Nello specifico le opere consistono nella riparazione di tutta la parte esterna, “dalle fondamenta fino alla croce, levando tutto il mattone” (si legga: la pisarra) “che sta nella cupola e mettendolo nuovo e tinteggiato, ponendo prima quattro dita e secondo il punto mezzo palmo di smalto intorno alla cupola per ottenere una maggiore elevazione38 e poi il mattone tutto tinteggiato ed ogni mattone con il suo chiodo ben infisso, come richiede l’arte, e leverà anche il mattone che sta nel cupolino della croce e lo sostituirà con lo stesso materiale tinteggiato e anche le cordonate39 le farà di tegole tinteggiate, come le camineras40 sia superiori che inferiori le 5 La cupola ed il campaniletto a vela della sagrestia oratorio Interno della Rotonda, vista verso l’ingresso Innesto dell’abside sul corpo della Rotonda Vista dal lato a Sud, innesto dell’abside sul corpo della Rotonda coprirà di nuove tegole di Oliena levando quelle attuali che restaranno al Selis”41. Il maestro Selis si impegna a fornire la mano d’opera ed i materiali necessari: calce, tegole, chiodi, corde, funi, sabbia, acqua e quant’altro necessario compreso lo smalto, la sabbia e la calce della migliore qualità. Come spesso accade nei contratti in materia edilizia, l’amministratore Melis si impegna a fornire il vitto al maestro Selis ed ai suoi collaboratori e due letti per i muratori, nonché “le travi necessarie con dodici dozzine di tavole per l’impalcatura”, “sei gavette e due gavettoni”42, il tutto di proprietà della chiesa. Alla stessa chiesa resterà “anche la pisarca o mattone vecchio43 mentre l’altro materiale messo dal Selis resterà di sua proprietà”. I lavori dunque riguardano l’esterno della chiesa con particolare attenzione al rifacimento del manto di copertura, da realizzarsi con nuove tegole fissate con chiodi su un nuovo strato di massetto di calce a comportamento idraulico. C’è da supporre che il precedente manto di pisarra realizzato dalla bottega dell’Arietti non fosse stato eseguito a regola d’arte e che lo spessore del massetto non risultasse sufficiente a isolare dalle infiltrazioni. Nei successivi anni si costruisce l’oratorio e si restaura la sagrestia, il cui cantiere è documentato nelle note di descargo del Registro di Amministrazione dal 1783: par el reparo de la boveda, per claraboii44 e para las ladrillas de la boveda, per carro per conducir la arena. Nel 1784 è citato l’oratorio e nel 1785 sono ancora registrate spese per la Iglesia de la SS Vierge de Loreto de dicha Villa e nel Oratorio de dicha Iglesia, ed ancora por la fabbrica de la nueva Sacristia hecha per orden del q(uonda)m y felix memoria del Il.mo y R.mo Monsenor Serra se ha gastaldo 515 escudos. Non è chiaro se oratorio e sagrestia abbiano corrisposto ad un medesimo vano, ma è lecito pensare che le notazioni di quegli anni corrispondano alla realizzazione dei due vani aggiunti successivamente al corpo della rotonda, il più ampio dei quali, presumibilmente l’oratorio che ospitava la Confraternita, conserva oggi nella ampia volta a padiglione unghiata parche decorazioni in stucco raffiguranti i simboli mariani dei sette dolori45. Con altro atto notarile, il 22 luglio 1793, si stipula con il maestro Fabrizio Brizzi, milanese abitante ad Ozieri, un contratto per nuovi lavori alla chiesa di Loreto46. Firmano l’atto l’amministratore generale di tutte le chiese di Mamoiada don Francesco Satta Galisay, l’amministratore particolare della chiesa di Loreto il sacerdote Giuseppe Luigi Serritu ed il sindaco il nobile don Giovanni Meloni Melis. Al Brizzi sono affidati lavori per 1020 scudi al fine di restaurare la chiesa entro l’anno 1794, sia all’esterno che all’interno, “tinteggiandola, riportandola allo stato precedente, eseguendo all’interno las pinturas necessarias ed in ogni cappella due lesene con una pintada tapisseria47 decente y de gusto degli amministratori, mettendo le tegole delos cordoness della stessa qualità di quelle attuali”. Gli amministratori si impegnano inoltre a “portare le tegole che serviranno per la cupola e i dos cerquios48 di sotto e di sopra da Oliena a Mamoiada, a dare al muratore ed ai suoi operai l’alloggio, il fuoco e la luce di candela e i locali per riporre il materiale necessario all’impresa”. I lavori riguardano dunque nuovi interventi di restauro al manto di copertura e opere di decorazione interne. Porta la data del 1798 una delle due campane alloggiate sul campaniletto a vela che connette rotonda ed oratorio, originariamente chiuso da un piccolo a tetto a falda; la seconda campana, forse in sostituzione di quella registrata nella contabilità del 1723, è dono di Antonio Meloni Gaia nel 1907. La chiesa è infine consacrata il 9 settembre 1804, anche se, come abbiamo finora ritenuto viste le note di spesa registrate per le feste mariane e la donazione per la lampara da parte del reggitore del ducato di Mandas nel 1738, l’edificio doveva essere officiato al culto già in precedenza. La cerimonia del 1804, come documenta una lapide murata oggi a destra dell’abside, avviene ad opera dell’Ecc.mo e Rev.mo Padre Alberto Maria Solinas Nurra, carmelitano, vescovo di Galtellì-Nuoro49. A quella data la chiesa di Loreto ha certamente assunto la sua compiutezza; negli anni successivi segue la sistemazione dello spazio esterno antistante, rialzato rispetto al livello stradale e chiuso da una alta balaustrata di pilastri e sfere litiche e da una cancellata in ferro battuto. Lavori di ristrutturazione interessano la chiesa tra XIX e XX secolo, particolarmente nel presbiterio, probabilmente a seguito del crollo di una porzione della calotta absidale che compromette parte della decorazione originaria poi sostituita con un ciclo pittorico di medesimo soggetto50. La storia recente della chiesa, restauri e libarazioni, è scritta perloppiù in termini di sottrazione e l’attuale nitidezza volumetrica dell’invaso, che riporta l’edificio ad una mera fase del cantiere settecentesco, non restituisce giusto valore all’impresa costruttiva della casa di Loreto a Mamoiada, alla quale il Querenty aveva affidato gran copie di risorse finanziare e gran parte della sua volitiva devozione e aspirazione di carità. L’edificio L’edificio giunge a noi quasi interamente privo della decorazione interna settecentesca che arricchiva cromaticamente l’intero l’invaso, così come raccontano i ricordi degli anziani del paese, che di seguito si riferiscono51. L’interno si caratterizza oggi per la nitidezza dei volumi: un cilindro di base polilobato costituito da un ampio vano centrico e sei scarselle radiali di cui una, 6 La cupola esagonale Settore della Rotonda in corrispondenza dell’ingresso: si rileva il risparmio della muratura, traccia dell’originaria finestra ad arco Sagrestia-oratorio: particolare della volta a padiglione unghiata (dopo il restauro) Sagrestia-oratorio: particolare della pavimentazione dopo i lavori di restauro (seminato di graniglia con inserimento di maioliche settecentesche rinvenute in loco) o semicircolare e di maggiore profondità, ospita l’abside parzialmente in asse con l’ingresso, posto anch’esso al centro di una delle sei scarselle. Sopra il portale d’accesso, di semplice fattura ed esternamente con ghiera in trachite, è ospitato oggi un rosoncino di dubbio gusto, che sostituisce la originaria finestra ad arco, l’unica apertura che interrompe la continuità stereotomica del possente cilindro esterno della Rotonda. In corrispondenza di portone e finestra, fino ad anni recenti, era collocata la cosiddetta trona, la cantoria lignea con balaustrini che ospitava l’organo. La trona poggiava su un bussolotto ligneo e vi si accedeva attraverso una scala a chiocciola in ferro battuto, smontata ed oggi ospitata all’ingresso della chiesa parrocchiale della B. V. Assunta52. Eccetto l’abside, che si sviluppa a semicilindro anche oltre il profilo esterno della rotonda, le scarselle risultano geometricamente da una sottrazione in muratura e sono voltate a semicatino ribassato53. Tre erano adibite a cappelle, dedicate alla Madonna dei Sette Dolori, a Santa Rita ed a San Isidoro. Ciascun simulacro era ospitato in una nicchia con tenda, su un altare a cassa gradonato, realizzato in legno scuro e decorato a girali fogliacei o racemi. La scarsella a sinistra dell’abside ospita il pulpito, oggi marmoreo, ma in origine ligneo come racconta il Registro di contabilità dei lavori. Attraverso una passerella il pulpito si connetteva ad una apertura che conduceva al vano scala del campanile e dunque all’oratorio, oggi utilizzato come sagrestia. L’abside ospitava certamente un altare di foggia differente, forse in stucco al pari di quelli di Fonni; il ciclo pittorico emerso durante gli ultimi restauri è infatti interrotto dall’innesto dell’altare in marmo realizzato nel 1898, presumibilmente in sostituzione del precedente ormai degradato, come pure l’attuale pulpito marmoreo. L’area del presbiterio era certamente rialzata, secondo lo schema attuale, e chiusa da una ampia cancellata in ferro La sagrestia-oratorio (dopo il restauro) Vista del settore absidale dopo i lavori di liberazione e restauro del ciclo pittorico battuto, al pari dei raffinati modelli barocchi dell’isola. Le sei scarselle ritmano lo spazio interno insieme ad altrettante lesene interrotte oltre l’altezza delle arcate. Le lesene erano probabilmente destinate ad essere decorate a strigile e ad ospitare basamento e capitello; su di esso, ipotizzando un classico registro decorativo barocco, sarebbe dovuta poggiare una cornice modanata preludio all’imposta della cupola. Considerate le vicende del cantiere ed i ricordi di chi ha vissuto la chiesa prima delle rimozioni degli anni ‘Cinquanta, può escludersi tuttavia che questo repertorio sia stato realizzato e ritenersi che tutte le decorazioni pittoriche un tempo presenti nell’invaso siano state eseguite su un partito decorativo architettonico di fatto rimasto interrotto. Su quattro delle sei lesene, quelle in prossimità dell’abside, o forse in origine su tutte, erano ospitati simulacri di grandezza umana realizzati in stucco bianco con le vesti colorate54, raffiguranti presumibilmente santi (uno con un bastone) o angeli. Le lesene erano decorate con colori vivaci, presumibilmente a racemi e girali come i lacerti rinvenuti negli angolari dell’abside. I muri d’ambito che emergono dalle scarselle costituiscono il tamburo esagonale su cui si aprono sei semplici finestre; a metà della sua altezza il tamburo accenna ad una prima curvatura, poi interrotta dall’esile cornice modanata che segna l’imposta della cupola ogivale. In corrispondenza delle finestre, altri sei oculi contribuiscono all’illuminazione dell’invaso. Tamburo e cupola dovevano essere anch’èssi decorati, “a ricami” e con un “cerchio a tre colori ed angioletti”, come descrivono i ricordi. Il vano centrale era illuminato da un grande lampadario in vetro, ancorato sulla base del lanternino. L’attuale pavimento risulta da una com7 mistione di preesistenze, e si conservano ancora elementi della pavimentazione ottocentesca in lastre quadrangolari di marmo bianco e bardiglio apparecchiati a scacchiera. Secondo i ricordi il pavimento del presbiterio, compresi i gradini, doveva essere di mattonelle maiolicate sui toni dell’azzurro, probabilmente le stesse, azzurre e gialle, conservate nella chiesa e recentemente riapparecchiate nel seminato dell’attuale sagrestia. Gli ultimi lavori di restauro hanno messo in luce la tecnica costruttiva dell’edificio costituita da bozze di granito locale apparecchiate in corsi sub-regolari con malta di calce e altrettante zeppe; le volte delle scarselle sono invece rigorosamente realizzate con mattoni disposti a coltello. Lo stato di degrado degli intonaci della cupola mostra una analoga muratura in scapolame di granito zeppato da inserti laterizi. Il colore della rotonda doveva essere esternamente il rosso, come peraltro ricordato dagli anziani ed evocato in una cartolina d’epoca realizzata da una foto in bianco e nero e poi dipinta a colori, nonché dai lacerti di intonaco, presumibilmente originario, oggi conservatosi nel vano scale del campaniletto e dal rivestimento emerso nell’intradosso dell’originaria finestra in asse con il portale. Lo stato attuale della cupola ripropone l’originaria soluzione con manto in lastre d’ardesia e cordonadass a contrasto cromatico di tegole rosse. Sia cupola che caminerass impostavano su un’esile decorazione, oggi irrobustita a seguito di restauri. Il corpo dei locali annessi si innesta alla rotonda attraverso il muro di facciata del campaniletto a vela, oggi decorato con partito architettonico a contrasto cromatico di lesene che scandisce i due fornici delle campane, di diversa ampiezza, e culmina con una trabeazione liscia, che non trova riscontro nelle foto d’epoca, come pure non trova riscontro l’attuale soluzione di copertura. Il vano oggi utilizzato come sagrestia, o in origine l’Oratorio della Confraternita della Madonna dei sette dolori, è un ampio vano rettangolare coperto con volta a padiglione unghiata in mattoni, decorata con un parco registro in stucchi a bassorilievo di rosette e cherubini e lo stemma centrale simbolo dell’Addolorata. Le murature ospitano rispettivamente due nicchie nei lati corti e diaframmano l’innesto della volta attraverso un’ampia treabeazione modanata, decorata con racemi di stucco a bassorilievo nei colori originari del rosso e bianco, e teste d’angelo angolari. Dall’oratorio si accede ad un vano minore retrostante, che abbraccia il setto circolare della chiesa, forse l’originaria sagrestia che comunica infatti con l’estremo lembo del presbiterio. Dall’oratorio si accede anche alla chiesa, nella scarsella del pulpito, questo un tempo pure in comunicazione con il vano scala del campanile. L’attuale pavimentazione dei due vani è il risultato dei recenti restauri e sostituisce, nell’oratorio, un getto di cemento a stampo, ed un pavimento in quadrelle di laterizio, forse settecentesche, nella ex sagrestia, di cui è stato conservato un lacerto. Abbreviazioni: ASNu = Archivio di Stato di Nuoro ASCNu = Archivio Storico della Curia di Nuoro Cat. = catalano Cast. = castigliano Note 1 Per un’analisi dell’abitato storico di Mamoiada, si veda (a cura di) G. DEPLANO, Gli insediamenti storici della Sardegna. La conoscenza per il recupero, Firenze 2004, pp. 63-75; per la storia del paese si veda lo studio di G. ZIROTTU, Mamoiada. Il racconto del tempo, Nuoro 2004. 2 Nella simbologia sacra il numero sei corrisponde alla potenza creatrice di Dio (i sei giorni della creazione cari a S. Agostino nella “Città di Dio”); al sigillo esagramma di Salomone; alla stella di David; al monogramma di Cristo a sei punte (in hoc signo vinces); alla rosa a sei petali medievale. Tra le rotonde a scansione senaria, in ambito italico segnaliamo: la S. Sofia a Benevento dell’VIII sec.; la rotonda di Palazzo Pignano a Crema di età altomedievale; la rotonda di Vigolo Marchese (Pc) dell’XI sec.; la rotonda di S. Michele di Novacella (Bz) del XII sec.; il San Paolo a Castelseprio (Va) (fine del XII sec.). In ambito europeo (chiese rotonde con deambulacro a sei sostegni): la rotonda della chiesa dei Templari a Londra (XII sec.); la cappella degli Ospedalieri a Little Maplestead (XII sec.); il Tempio di Parigi (XII sec.), secondo la ricostruzione di Viollet le Duc; la cappella di S. Antonio nel castello di Vianden (XII sec.); la cappella del castello di Kobern (XII sec.); ecc.. Un esaustivo regesto delle chiese ad icnografia circolare in Italia è in (a cura di) V. VOLTA, Rotonde d’Italia. Analisi tipologica della pianta centrale, Milano 2008; il volume comprende anche un breve saggio sulle chiese rotonde della Sardegna, a cura della scrivente. Per la trattazione sui modelli a pianta centrale in età medievale: A. CADEI, Architettura sacra templare, in (a cura di) G. VITI, A. CALDEI, V. ASCANI, Monaci in armi. L’architettura sacra dei Templari attraverso il Mediterraneo, Firenze 1995. La imponente dimensione della chiesa di Loreto a Mamoiada rispetto alle due rotonde sarde medievali di Santa Sabina a Silanus e di N. S. di Mesumundu a Siligo, sembrerebbe tuttavia escludere una origine medievale per l’edificio, anche sotto l’aspetto tecnico-costruttivo, considerando la capacità delle maestranze allora presenti nell’isola. La possibilità di affrontare una fabbrica delle attuali dimensioni può ammettersi solo immaginando una scansione interna a dembulacro con colonne o pilastri, di cui allo stato attuale delle ricerche non è stata rinvenuta traccia. Singolare rimane tuttavia la doppia curvatura della cupola, rilevabile nel profilo della sezione interna: una prima curvatura del tamburo si rileva infatti a circa metà delle finestre, per poi interrompersi in corrispondenza dell’attuale cornice, su cui infine imposta la cupola ogivale. Medesima soluzione con doppia curvatura a pendentif si rileva nel profilo interno della Santa Sabina a Silanus (doppia curvatura attribuita ad una ricostruzione seriore della cupola, si veda G. FRULIO, Edifici ad icnografia circolare in uso in Sardegna nell’età medievale, in VOLTA 2008, pp. 199). Non si esclude inoltre, considerata la tradizione popolare locale che vorrebbe la chiesa di origini pisane, che l’attuale chiesa di Loreto sorga sul luogo di una preesistenza medievale, di dimensioni minori e fors’anche ad incnografia centrica con scansione senaria, poi evocata nella versione settecentesca. L’ipotesi di una origine medievale della chiesa di Loreto è proposta anche in DEPLANO 2004, ed in S. NAITZA, Architettura dal tardo ‘600 al classicismo purista, Nuoro 1992. 3 ASNu, Atti notarili, Tappa di Oliena, Ville, Originali, Diversi, 1700-1801, trascritto in ZIROTTU 2004, pp. 101-106. In occasione del presente lavoro il documento citato non è risultato disponibile presso l’Archivio di Stato, pertanto non è stato possibile svolgere le verifiche sulle parti trascritte ma non tradotte dal Zirottu. 4 Il Registro di Amministrazione della chiesa della SS. Vergine di Loreto, 1723-XIX sec., è in ASCNu. 5 Del committente non si ha alcun riscontro documentario: un Antonio Tedde Querenti d’Alghero è incaricato nel 1716 di patrocinare una causa per conto della Confraternita della B.V. dei Martiri a Fonni (si veda il successivo paragrafo a cura della dott. M.P. Dettori); un Pedro Leon Querenty è notaio ad Oliena nel 1740 e stipula il contratto tra i gesuiti ed i maestri Arietti e Pirino per la conclusione della chiesa del Collegio (Cfr. ASNu, Atti notarili, Tappa di Oliena, Città 1739-1741). 6 Per Giuseppe Gallio (Quallio) milanese, si veda il successivo paragrafo di approfondimento sulle maestranze. 7 Il cantiere settecentesco del complesso della Madonna dei Martiri a Fonni è fondato nel 1702 per commissione di Padre Pacifico Guiso Pirella; la chiesa di sopra (che viene ristrutturata sull’esistente ed ampliata) è ultimata nel 1706 e benedetta con rito nel 1708, il documento relativo tuttavia esplicita che non erano ancora in ordine gli ornamenti ed i simulacri. Forse anche per questa ragione la consacrazione della chiesa di sopra avviene nel 1714 e quella del Santuario di sotto soltanto nel 1730, dopo 27 anni dalla posa della prima pietra. Fino a quegli anni risultano at- 8 tive numerose maestranze, particolarmente di origine lombarda, il capomastro Quallio e l’Arietti, il Mutoni ed il Corbellini, i pittori Are, scultori di Gavoi ed ancora altre maestranze. Le notizie sono in A. MEREU, La Basilica ed il Convento Francescano della Madonna dei Martiri in Fonni, Cagliari 1973; si veda inoltre la trascrizione di alcuni dei documenti in G. CAVALLO, Maestranze intelvesi in Sardegna tra il XVII e il XVIII secolo, in “La valle Intelvi. Contributi per la conoscenza di ambiente, archeologia, architettura, arte, lettere e storia delle Valli e dei Laghi comacini”, 12, 2007, pp. 131-162. 8 Si legga forse boligat a flores y per su guarnii (starebbe per “aflores y persungris” trascritto dallo Zirottu), ovvero: che non foderi con i rivestimenti che non riguardano il suo mestiere. 9 La chiesa di S. Antonio Abate, nel quartiere di Marina o Lappola a Cagliari, sorge sull’area dell’Ospedale di S. Antonio (XIII sec.), che durante la seconda metà del ‘Seicento diviene Fatebenefratelli. Nel 1674 iniziano lavori di ristrutturazione dei locali dell’Ospedale e nel 1704 risulta in costruzione una nuova chiesa en forma Rotunda, consacrata nel 1723. Si tratta di un edificio ad icnografia centrica, con sviluppo volumetrico all’interno del lotto dell’Ospedale, cosicché è denunciato all’esterno soltanto da un pregevole portale di gusto barocco. Ha impianto ottagonale cupolato con otto snelle scarselle voltate a botte, una di queste è l’accesso sull’asse maggiore dell’ottagono, che conferisce all’impianto centrico una tendenza longitudinale, verso l’altar maggiore. Le membrature architettoniche sono semplici e rigorose: slanciate paraste angolari con capitelli corinzi, ma anche capitelli stilizzati per le paraste delle scarselle, fino ad una sporgente trabeazione spezzata; nel tamburo, arcate a tutto sesto tra paraste, che contengono le finestre rettangolari. La cupola, con rivestimento ad intonaco come tutto l’invaso, è ritmata con specchiature negli otto settori. Lavori di arredo e sistemazione della chiesa dovettero continuare fino alla metà del XIX secolo. Il primo arredo in stucchi dovette essere già ultimato alla data di consacrazione della chiesa (1723) e consisteva certamente nell’altare maggiore e, per analogie, nei due altari simmetrici al centro dei lati lunghi. Nel 1773 il Viana redige nuovi progetti per l’ampliamento dell’Ospedale, disegnando le strutture della chiesa che oggi risultano coincidenti con lo stato attuale. Di particolare interesse per la nostra trattazione è un documento del 1704 che recita “San Antonio Abad, hospital quel goviernen los Religiosos de San Juan de Dios, à cuya solicitud se deve la fabbrica de un Sumptuoso Templo, que se està acabando de perficionar d (in P. LEO, en forma Rotunda al Santo Abad” Descrizione della città di Cagliari alla fine del XVII secolo, in “Nuovo Bollettino Bibliografico Sardo”, VII, 1962, nn. 37-37, pp. 7-8). Giorgio Cavallo attribuisce le decorazioni in stucco del S. Antonio a Giovanni Battista Corbellini, capomastro e stuccatore lombardo attivo in quegli anni a Cagliari nella chiesa di S. Michele ed in altri cantieri, e già nella bottega del Quallio per le opere nella chiesa dei Martiri a Fonni (in CAVALLO 2007, p. 145). 10 La chiesa di San Michele a Cagliari è realizzata tra 1674 e 1712, almeno per le strutture e la funzionalità; è consacrata nel 1738 ma i lavori proseguono oltre il 1764, considerando anche gli interventi decorativi nella sagrestia. 11 L’attribuzione, qui proposta in prima sede, della costruzione della chiesa di S. Antonio Abate a Cagliari alla bottega del Quallio, o ad una bottega lombarda a lui vicina per collaborazione ed estrazione culturale, è suffragata dalla attestazione della presenza di Giovan- ni Battista Corbellini a Cagliari tra il 1710 e il 1711, in occasione del contratto stipulato per la realizzazione della volta della Sacrestia del San Michele (i documenti sul Corbellini sono in CAVALLO 2007, p. 140). Per rafforzare tale attribuzione si consideri la cronistoria dei quattro cantieri delle chiese di San Michele e Sant’Antonio a Cagliari, della chiesa dei Martiri a Fonni e della chiesa di Loreto a Mamoiada. Il Quallio ed il Corbellini lavorano tra 1702 e 1706 al cantiere di Fonni; nel 1704 è già iniziata en forma Rotunda la costruzione della chiesa di S. Antonio a Cagliari; nel 1708 il Quallio contratta la costruzione della chiesa di Mamoiada citando il S. Antonio di Cagliari; nel 1710 il Corbellini stipula il contratto per la Sagrestia del San Michele a Cagliari. Il Quallio ed il Corbellini potrebbero perciò aver lavorato insieme anche a Cagliari, non già al cantiere della chiesa di San Michele che in quegli anni era ormai più che avviato, ma nel cantiere del Sant’Antonio, citato appunto a modello nel contratto del Quallio del 1708 per la chiesa di Mamoiada. Morto poi quest’ultimo (secondo i documenti entro il 1715), il cantiere del S. Antonio, ormai avanzato, potrebbe essere passato al Corbellini che lo porta a termine realizzando le decorazioni correttamente attribuitegli da G. Cavallo. Già attivo al Sant’Antonio, il Corbellini in quegli anni riceve anche la commessa del San Michele (1710-1711), poi rinnovata dopo il 1727 per la realizzazione della volta del presbiterio (si veda ancora CAVALLO 2007, pp. 140, 147). Nel cantiere di Fonni il Quallio ed il Corbellini sono attivi insieme ad altri lombardi, Ambrogio Muttoni e Giovanni Battista Arietti; quest’ultimo comparirà nei documenti contabili di Loreto a Mamoiada compilati a partire dal 1723. 12 La chiesa di Loreto a Mamoiada e il San Bernardino di Busachi sono le due uniche chiese dell’isola ad usare il modulo senario per lo sviluppo dello spazio cupolato. La chiesa di San Bernardino, che meriterebbe a tal proposito approfondite ricerche, è edificata nelle forme attuali tra XVII e XVIII secolo. Consta di un impianto a croce latina con volta a botte e cupola esagonale. Singolare circostanza è poi che nella stessa Busachi, nella chiesa di S. Susanna, sia attiva la bottega di pittori degli Are, alla quale può verosimilmente essere attribuito parte del ciclo decorativo dell’abside della chiesa di Loreto a Mamoiada (si veda il successivo paragrafo a cura della dott. M. P. Dettori). Ricercando modelli ad impianto senario in area extra-insulare, si consideri che il modulo esagonale per le chiese ad icnografia centrica, contrariamente a quanto si suole ritenere, non è prevalentemente consuetudine medievale. In ambito italico, tra gli esempi, segnaliamo: la Santa Maria del Quartiere a Parma (1604-1619); il Sant’Ivo alla Sapienza del Borromini (1642-1660); il Santuario della Consolata a Torino su disegno di Guarino Guarini (1678); il progetto di Ferdinando Fuga per la chiesa dell’Albergo dei Poveri a Napoli (1751); la Santa Maddalena a Venezia (1780); la Madonna del Pezo o della Crocetta a Levico Terme (Tn) (1786), la Cappella di Tregole a Castellina in Chianti (Si) (XVIII sec.). Non si può poi tralasciare, pur variando ordine di scala, il rigoroso impianto urbano esagonale utilizzato per la ricostruzione di Granmichele (Ct) nel 1693, tutti modelli estremamente colti di interpretazione dello spazio centrale. 13 In questi termini non risulterebbe però pertinente la specifica del contratto mamoiadino che richiede per la chiesa di Loreto “mastro Gualliò concluderà la chiesa dentro e fuori come la chiesa cagliaritana” (così nella trascrizione dello Zirottu). Sezione est-ovestt della Rotonda (riduzione arbitraria da una restituzione grafica in scala 1/100) 14 L’opposizione al progetto è riportata nel provvedimento del Vicario generale dell’allora sede vacante della diocesi di Arborea notificato per tramite del pubblico notaio apostolico e regio Giovanni Maria Sequi al M.R.P. fra Francesco Pinna Vicario generale dell’Ordine dei Serviti il 27 ottobre 1718. La notizia è argomentata in MEREU 1973, p. 65. 15 ASCNu, Registro di Amministrazione, 1723XIX secolo. 16 Starebbe per: ai Maestri che hanno lavorato la ardesia che è servita, per le cappelle, la cupola del tamburo, il rivestimento e la campana. La pizarra in cast. è genericamente la lastra in ardesia, mentre in cat. pissarra sta per tegola in ardesia. Piso tuttavia, sia in cat. che in cast., significa pavimento, perciò non è dato sapere se le lastre di ardesia, servissero quali finiture anche per il pavimento dei vari ambienti della chiesa o, più verosimilmente, solo per le coperture delle cappelle e della cupola. Di seguito nel Registro si paga per sacar pisarra, intendendo l’attività di estrazione della ardesia, per la quale si annotano numerosi e consistenti pagamenti. Per ciò si vedano i lavori del 1772 che prevedono la sostituzione della pisarca nella cupola. Di seguito non vi è maggiore chiarezza poiché conche è usato in cast. per indicare conchiglia, da cui concavo (la cupola o l’area del semicatino absidale), ma anche guscio. Il cimborrio o ciborii , ast. e cat., indica il corpo del tamburo che sostiene la cupola. Guarnecerr in cast. sta per rivestire, ovvero intonacare. 17 Per il viaggio che ha fatto alla Villa di Ottana per cavare i blocchi di pietra che sono serviti per la porta di una parete. 9 18 Durante le interviste svolte alle anziane del paese in occasione del presente lavoro, è risultato che prima dei lavori di ristrutturazione della chiesa negli anni ‘Cinquanta, la parte absidale fosse chiusa con una maestosa cancellata in ferro battuto (nei ricordi di color verde, in sintonia con altri arredi verdi nella chiesa). Si consideri che anche il presbiterio della chiesa superiore di Fonni è diaframmato da una imponente cancellata in ferro battuto. 19 Il pagamento di un assito di tegole del Campidano ed altro è registrato al M. Gualliò con data 1720, che a quella data doveva essere però già morto, secondo i documenti entro il 1715. 20 In catalano l’acerr è un ferro additivato, che si identifica oggi con il moderno acciaio ma che in antico corrispondeva ad un prodotto in ferro di migliori caratteristiche. 21 Per tutto il tempo speso per assistere al forno di calce, per cavare pietra, per il ferro e la ardesia; e di seguito ancora un pagamento a las giornadas dal erro sacar pietra y pisarra. 22 Per Giovanni Battista Arietti, detto cabomaestro e albanil de stoque, si veda il successivo paragrafo approfondimento sulle maestranze. 23 Si intende: escluso dal pagamento precedente riguardante i citati lavori de la conclusion de la Igl(esi)a segun la obbligassion del contrato ciento y sinco scudos y sinquenta. 24 In occasione del presente lavoro, sono state svolte alcune interviste agli anziani del paese, i quali ricordavano per esperienza diretta l’aspetto della rotonda prima dei lavori di rimozione e restauro operati a metà del ‘Novecento. Le descrizioni dell’invaso, pressochè coincidenti, ricordavano di una chiesa riccamente decorata, con la presenza anche di statuaria in stucco del tipo dei sinulacri presenti a tutt’oggi nel Santuario della chiesa dei Martiri a Fonni. Le interviste sono state gentilmente concesse da: Giovanna Mele (82 anni), Antonietta Sedda (80 anni) e Annico Montisci (77 anni). 25 I dati anagrafici dell’Arietti e le notizie sulla sua attività negli altri cantieri dell’isola sono in M. PORCU GAIAS 2000 e G. CAVALLO 2007. 26 Il Registro non segnala esplicitamente il nome del capomastro che seguì i lavori di finitura, forse la stessa bottega dell’Arietti o le botteghe di frescanti e decoratori che si occuparono del partito decorativo degli interni, per le quali si rimanda al successivo paragrafo curato dalla dott. M. P. Dettori. 27 La trascrizione di molti di questi nomi è stata spesso difficoltosa pertanto l’elenco riportato è passibile di non pochi refusi. Si tratta probabilmente per la maggior parte di pittori, scultori o decoratori per la cui specifica trattazione si veda al successivo paragrafo curato dalla dott. Maria Paola Dettori. 28 Presumibilmente mamoiadino. 29 Mamoiadino: un maestro Giovanni Maria Mattu nel 1727 è chiamato come esperto per la divisione di un salto nella Villa di Mammoiada (in ZIROTTU 2004, pp. 21-35). 30 Un Antonio Angelo Satta è rettore della Confraternita dei Martiri a Fonni dal 1736 al 1741; si consideri che nel cantiere di Fonni sono attive maestranze di Gavoi e che anche il pittore Gregorio Are assume la carica di rettore della medesima Confraternita, nel 1744 (MEREU 1973, p. 40). 31 Mamoiadino, pagato per la campana ed altro, insieme ad Anto Angel Sieto. 32 Ad un pinter de Gavoyy si paga nel 1723 il restauro della mano di una statua della Vergine; allo scultore Maria Marchi da Gavoi nel 1725 il Guiso Pirella commissiona il restauro del crocifisso ligneo della basilica di Fonni nonché la realizzazione di due simulacri in legno e cartapesta. Un Pietro Sebastiano Nonni con Salvatore Busi sono attivi al repertorio decorativo mobile del complesso di Fonni ed anche a Gavoi (MEREU 1973, pp. 189, 191, 196). 33 Per la trattazione sul programma decorativo della chiesa di Loreto si veda al successivo paragrafo curato dalla dott. M. P. Dettori. 34 Si tratta di atti e note al Registro di Amministrazione. 35 La nota aggiunge a Ignasio Grossa el año muerto Quirigo le ha dado. 36 ZIROTTU 2004, pp. 21-35. 37 ASNu, Atti notarili, Tappa di Oliena, Ville, Originali, Diversi, 1700-1801, trascritto in ZIROTTU 2004, pp. 101-106. In occasione del presente lavoro il documento citato non è risultato disponibile presso l’Archivio di Stato, pertanto non è stato possibile svolgere le verifiche sulle porzioni trascritte ma non tradotte dal Zirottu. 38 Per smalto (esmaldo in cast.) si intende una malta a comportamento idraulico per esterni, evidentemente usata nel nostro cantiere per aumentare lo spessore isolante del massetto. Per una più approfondita comprensione del termine si veda G. FRULIO, Glossario storico e definizione terminologica, in G. FRULIO La produzione in stucco nelle architetture della Sardegna tra XVII e XVIII secolo, Tesi di Dottorato di Ricerca, Milano 2003, p. 311. 39 In questo contesto, le cordonate corrispondono ai punti di giuntura dei margini dei sei spicchi della cupola. Cordò in cat. sta per modanatura con sezione a semicilindro. 40 Per camineras si intendono le gronde, gli scoli (in algherese caminera è il canale di scolo delle acque al margine di una strada). Il termine è forse da mettersi in relazione con “i dos cerquioss di sotto e di sopra” per i quali si lavora nel contratto successivo del 1793. Si tratta presumibilmente delle due cerchiature di copertura, in assito di tegole, relative al corpo delle cappelle ed alla congiunzione del tamburo con la cupola, che anche attualmente sono in laterizio. Come pure a contrasto cromatico, in laterizio e non in ardesia, sono oggi i profili degli spicchi della cupola. 41 Nella traduzione di Zirottu, mattone sta probabilmente per pisarra, come richiamato di seguito nel contratto, per cui i restauri riguarderebbero soprattutto il rifacimento del manto di copertura della cupola, del cupolotto della lanterna e della circonferenza delle cappelle. I lavori interessano dunque l’aumento dello strato di massetto ed il rifacimento del manto di copertura con nuove tegole, fissate con chiodi, evidentemente per lo stato di degrado in cui versavano le precedenti in opera da circa cinquanta anni. 42 La gavetta in cat. è il cassone di legno quadrangolare dove i muratori preparano l’impasto per la malta. 43 Nella trascrizione di Zirottu si legga pisarra, o mattone vecchio. 44 Claraboya in cast. o claraboia in cat. è la finestra sul tetto (del tipo Mansart), oppure il lucernaio o abbaino. 45 Nonostante non vi siano sufficienti riferimenti alla vicenda costruttiva della sagrestia, questa per ovvie ragioni dovette essere realizzata entro gli anni in cui la chiesa cominciava ad essere officiata, e dovette corrispondere al vano che oggi comunica, attraverso una piccola apertura, direttamente con l’abside. Quello oggi in uso come sagrestia sarebbe invece l’originario Oratorio, che ospitava presumibilmente la Confraternita della SS. Vergine di Loreto e della Madonna dei Sette Dolori, come rappresentato dalle decorazioni sulla volta. I lavori di restauro alla volta (par el reparo de la boveda) forse sottendono ad una ristrutturazione e ad un cambio di funzioni. Che la chiesa sia stata in origine isolata in una piazza, e dunque priva di vani annessi, è inoltre attestato dalla presenza di ampi lacerti di intonaco tinteggiato di rosso su una porzione della rotonda oggi compresa all’interno del vano del campanile, tra le scale ed il muro dell’Oratorio. Il colore esterno della chiesa doveva essere infatti il rosso, come peraltro ricordato dagli anziani ed evocato in una cartolina d’epoca realizzata da una foto in bianco e nero e poi dipinta a colori. 46 ASNu, Atti notarili, Tappa di Oliena, Ville, Originali, Diversi, 1700-1801, trascritto in ZIROTTU 2004, pp. 101-106. In occasione del presente lavoro il documento citato non è risultato disponibile presso l’Archivio di Stato, pertanto non è stato possibile svolgere le verifiche sulle parti trascritte ma non tradotte dal Zirottu. 47 Per tapisseria si intende genericamente un rivestimento di stoffe o tappeti, ma può trattarsi anche di tappezzeria lignea. 48 Il termine è probabilmente da mettersi in relazione con quello del contratto precedente del Selis, che citava camineras sia superiori che inferiori. 49 In un documento in latino redatto dal notaio Giovanni Pietro Porcu è raccontata la cerimonia di consacrazione. La traduzione è di Don Giovanni Carta: “Sia noto a tutti che l’anno 1804 della nascita di Nostro Signore Gesù Cristo padre e signore Papa Pio VIII nell’anno III° del regno di Sardegna il Principe Carlo Felice, duca di Genova, fratello del Re, l’otto settembre, mi trovavo a Mamoiada essendo pubblico Notaio del Regno di Sardegna. Vennero da me sottoscritto il Sindaco Giuseppe Massidda Ballore, della stessa città, ed i consiglieri che rappresentavano la stessa città e mi pregarono di partecipare alla solenne consacrazione della Chiesa della B.V. Maria 10 di Loreto, sita nello stesso paese ad opera dell’Ecc.mo e Rev.mo Padre Albreto Maria Solinas Nurra, carmelitano, vescovo di Galtellì-Nuoro, il quale dimorava in questa città e trascriveva a penna la stessa Cerimonia”. Il documento continua elencando i notabili presenti alla cerimonia e descrivendo il rito della chiusura delle reliquie dei santi Clemente papa e Venanzio Martire nell’urna appositamente predisposta con i vasi del S. crisma e olio dei catecumeni da deporre nel sepolcreto dell’altare da consacrare. 50 I lavori di restauro pittorico eseguiti nell’area del presbiterio nel 2011 hanno messo in evidenza la ricostruzione di parte della calotta absidale, almeno per il rivestimento ad intonaco. I lavori di rimozione della decorazione ottocentesca hanno infatti lasciato spazio alle originarie decorazioni eccetto che per alcuni punti ove l’intonaco è risultato una seriore ricostruzione, oggi identificati dal colore omogeneo delle lacune. Non sono stati eseguiti tuttavia saggi in muratura per verificare se il crollo abbia interessato soltanto lo strato di rivestimento o anche la compagine muraria. 51 Le interviste sono state gentilmente concesse da: Giovanna Mele (82 anni), Antonietta Sedda (80 anni) e Annico Montisci (77 anni). 52 La scala era tinteggiata di color verde, in accordo cromatico con la cancellata del presbiterio, con i supporti lignei per la lampara nell’abside e con le due porte lignee che conducevano ad oratorio e sagrestia. Durante i lavori di restauro del 2011 che hanno riaperto internamente parte della sagoma della originaria finestra ad arco, sono stati rinvenuti elementi lignei ancorati in muratura, forse parte della struttura della cantoria o dell’organo. L’intradosso dell’apertura è rivestito con un intonaco a calce tinteggiato di colore rosso, come i pochi lacerti di tinteggiatura che si conservano nelle parti, una volta in esterno, della chiesa. 53 Lo stesso tipo di soluzione è adottata dalla bottega del Quallio nelle cappelle laterali del presbiterio della Madonna dei Martiri a Fonni; diverse sono invece le capelle del S. Antonio a Cagliari che risolvono con una stretta volta a botte. 54 I ricordi descrivono questi simulacri (secondo alcuni evangelisti, secondo altri angeli seduti), al pari di quelli ospitati nel Santuario sotterraneo della chiesa dei Martiri a Fonni; nella chiesa superiore il simulacro di un angelo a grandezza umana è seduto sulla semplice cornice di un pilastro. La decorazione pittorica dell’abside della chiesa della Beata Vergine di Loreto Maria Paola Dettori Premessa Tra il dicembre 2010 e la primavera del 2011 è stato realizzato l’intervento di restauro delle superfici dipinte della Chiesa della Beata Vergine di Loreto, interessante edificio dalla icnografia localmente inconsueta e di non semplice datazione, per possibili preesistenze e consistenti rimaneggiamenti succedutisi nel corso dei secoli; Vittorio Angius, che la vede nel 1850, afferma che «tra tutte [le chiese di Mamoiada] la più considerevole è quella di Loreto, e tienesi come una delle più belle che siano nel dipartimento»1. Al momento dell’intervento la chiesa si presentava piuttosto spoglia di arredi e quasi priva di decorazione, tranne che nell’area presbiteriale, la cui abside mostrava una decorazione dipinta a tempera, suddivisa in due zone delimitate dalla cornice marcapiano, l’inferiore - più semplice e schematica - imitante una tenda o tappezzeria a linee verticali alternativamente blu e bianche, arricchite da un più tardo ornato floreale verde ripetuto realizzato a stampigliatura, la superiore - sulla quale si svolgeva, coerentemente all’intitolazione dell’edificio sacro, la narrazione della Traslazione della Santa Casa di Loreto - invece riccamente figurata. Un forte degrado, dovuto sia a umidità di risalita sia a infiltrazioni e percolamenti dall’alto, aveva però compromesso entrambe le zone, lasciando affiorare in diversi punti una pellicola pittorica più antica, che mostrava, tra l’altro, una migliore adesione al supporto e una maggiore tenuta e brillantezza del colore. Sin dagli inizi l’intervento si presentava perciò alquanto problematico, soprattutto perché poneva l’obbligo di interrogarsi su scelte difficili e non reversibili, ovvero la rimozione dei livelli superiori della decorazione, in particolare dell’ultimo, realizzato sul finire del XIX secolo: indispensabile dunque riflettere sull’opportunità di cancellare una parte della storia della chiesa, tra l’altro l’unica conosciuta dalla popolazione attuale di Mamoiada. Una preliminare campagna stratigrafica e l’apertura di nuovi tasselli (che andavano ad aggiungersi a quanto già visibile) hanno quindi costituito le operazioni propedeutiche all’intervento vero e proprio; la scelta è stata effettuata solo dopo aver accertato l’effettiva possibilità di recupero di un partito decorativo originario sufficientemente integro e leggibile, che restituisse quanto più possibile la perduta unità di composizione dell’intero edificio. La storia e i documenti La villa di Mamoiada fa capo, sino al 1779, all’Arcidiocesi di Arborea/Oristano; da quella data entra a far parte della neo costituita Diocesi di Galtellì/Nuoro2. Come già rilevato nella relazione pro- 1, 2. Emanuele Carboni, La Madonna di Loreto e la traslazione della Santa Casa; partito decorativo della fine del XIX secolo, oggi rimosso. grammatica redatta per il restauro, la chiesa della Beata Vergine di Loreto subisce nel corso dei secoli XVIII-XIX una serie di interventi di ristrutturazione e abbellimento, comprendenti sia lavori sulla struttura sia l’approntamento di un nuovo apparato decorativo. Di questi interventi esiste traccia documentaria negli atti notarili conservati presso l’Archivio di Stato di Nuoro, ma la ricerca condotta da chi scrive in occasione di questo studio ha verificato che di essi (pubblicati nel 2004) non è più possibile prendere visione, dal momento che non si trovano lì dove erano stati rinvenuti3. Lo studioso che li ha pubblicati - Giacomino Zirottu - ha comunque fortunatamente riportato integralmente il contratto di 11 costruzione dell’edificio, dal quale è perciò opportuno partire. Viene sottoscritto a Mamoiada nel 1709, su licenza dell’arcivescovo arborense Francesco Masones y Nin (in carica dal 1704 al 1717), tra il capomastro milanese Giuseppe Gualliò (ovvero Quallio) e il priore Quirico Querenty, devoto della Beata Vergine di Loreto, con il permesso del rettore Don Pietro Meloni, e ha per oggetto la “nuova chiesa della Santissima Vergine di Loreto”; nel contratto non si fa cenno a preesistenze, ma ciò non esclude del tutto l’esistenza di un edificio precedente, suggerita peraltro da diversi indizi. Mentre nulla sappiamo del committente, Quirico Querenty (se non che un Antonio Tedde Querenti d’Alghero è incaricato 3, 4. Pietro Antonio Nonnis (?) e Pietro Antonio Are, La traslazione della Santa Casa di Loreto, 1723. nel 1716 di patrocinare una causa per conto della Confraternita della B.V. dei Martiri a Fonni4), Giuseppe Quallio non è affatto uno sconosciuto: domiciliato in Sassari, fa parte dei maestri della sassarese Confraria de Nostra Signora de los Angeles, la corporazione che riunisce maestri d’ascia e muratori; viene citato nei registri della Confraternita, insieme al fratello Giacomo, tra il 1695 e il 1715; nel 1702 lo troviamo a Fonni impegnato a dirigere i lavori della fabbrica della Basilica della B.V. dei Martiri, cui partecipano gli altri milanesi (ovvero lombardi provenienti dalla Val d’Intelvi) Giovan Battista Corbellini e Ambrogio Mutoni. Insieme a questi capifabbrica/decoratori troviamo a Mamoiada (ma la notizia non compare nell’atto pubblicato da Zirottu) il terzo loro collaboratore (nonché genero del Quallio, avendone sposato la figlia Lucia Antonia) Giovan Battista Arieti o Arietti:5è a lui che viene corrisposto, al termine dei lavori, il saldo. Il dato è registrato nel- l’unico libro di amministrazione conservatosi sino a noi, che fornisce notizie su quasi l’intero XVIII secolo, ma purtroppo non sulla nascita dell’attuale fabbrica6; si tratta del volume intitolato Asientos de las cobranzas ha echo el S.r V.ble Crisponi de la Cofadria de Loreto, che, nel 1723, così riporta: « «A Mestre Juan Baptista Arieti a cuenta de la conclusion de la Iglesia secun la obligassion del contrato ciento y sinco escudos.»7 Nel frattempo, nel 1715, Giuseppe Quallio era morto, e l’Arieti gli era evidentemente subentrato nella direzione dei lavori; insieme a lui vengono pagati i maestri che hanno lavorato nelle cappelle, nel sistemare la cupola, la decorazione e il campanile («por las capillas, aconche del cinborio, guarnacion y campanario»). Purtroppo però di costoro non vengono fatti i nomi, e i pittori ai quali era stata affidata la decorazione rimangono ignoti; tuttavia accade che, nello stesso anno 1723 e poi alcuni anni dopo, nel 1729, venga citato 12 due volte un “pittore di Gavoi”, Pietro An« pintor de Gavoy por las tonio Nonnis («Al manos de la Virgen»,81723 e « «Al pintor Pedro Antonio Nonnis de Gavoy por renovar las insiñ i ias», 1729); si tratta dunque di un pittore di opere lignee9 o, forse, su tela (ma è possibile che fossero su tavola anche le insegne di confraternita citate: le riaccomoda, dopo una decina d’anni, nel 1739, Juan Thomas Piras). Il registro d’amministrazione riporta anche notizie dell’altro contratto pubblicato da Zirottu, ovvero quello relativo al secondo capomastro milanese coinvolto più tardi, nel 1793, nei lavori di ammodernamento della chiesa: il suo nome è Fabrizio Brizzi, residente a Ozieri. Nel frattempo, nel 1783-85, era stata realizzata una nuova sacrestia, che non è chiaro se sia da identificare nel vano dedicato alla Madonna Addolorata.10 La solenne consacrazione della chiesa avviene dopo una decina d’anni dagli ultimi lavori, nel 1804, a opera di Alberto Maria Solinas Nurra, carmelitano, divenuto vescovo della Diocesi di Galtellì Nuoro (circoscrizione vescovile alla quale, come si è detto, nel mentre è stata assegnata la villa di Mamoiada) appena l’anno prima: il suo stemma, in marmo bianco dal pregevole intaglio, compare sul pilastro destro dell’arco trionfale; simmetricamente è apposta l’epigrafe che ricorda l’avvenimento e il nome del committente. Questi diversi interventi hanno comportato, com’è ovvio, una serie di modifiche, dovute sia alle obiettive necessità di restauro sia al mutare del gusto; interessante per noi è il fatto che il documento notarile relativo ai lavori del 1709 attesti che il capomastro Giuseppe Quallio sia chiamato a operare avendo come riferimento il sant’Antonio Abate di Cagliari (alla cui realizzazione pare collabori, almeno per la parte decorativa, lo stesso Corbellini, ma solo intorno al 171311), ma non debba occuparsi delle parti decorate, poiché non “pertenessen a son arte””12. Nel 1793, invece, al milanese Brizzi viene esplicitamente richiesto di decorare la chiesa eseguendo “las pinturas necessarias”, ” e in ogni cappella una lesena con una “pintada tapisseria 5. Lapide di consacrazione della chiesa della B. V. di Loreto da parte del Vescovo Alberto Maria Solinas Nurra, carmelitano, datata 9 settembre 1804. 8, 9. Pietro Antonio Nonnis (?) e Pietro Antonio Are, La traslazione della Santa Casa: il porto di Costantinopoli e la cinta muraria di Ancona. A rappresentare il viaggio da Oriente a Occidente compare la moschea con la mezzaluna turca (Costantinopoli?) e un edificio su cui svetta il vessillo con la croce (la città di Ancona - particolari). , 7. Stemmi sulla parete absidale: in alto blasone di Casa Savoia, in basso arma sconosciuta. decente y de gusto”” dei committenti13. Dei maestri espressamente citati per la decorazione alla chiusura dei lavori nel 1723 purtroppo abbiamo visto che non si hanno i nomi; sappiamo però che non si tratta dei capimastri milanesi, dal momento che è escluso dal contratto che essi siano competenti per la realizzazione del partito decorativo: è comunque noto che non di pittori si tratta, ma di architetti e stuccatori, certo però in grado di contattare maestranze specializzate da affiancarsi nel lavoro. In ogni caso ancor prima della fine dei lavori, nel 1718, la nuova chiesa desta l’interesse degli ordini monastici, e il tentativo di “appropriazione” da parte dei Serviti di Sassari, tentativo sventato dai francescani del convento della Basilica della B.V. dei Martiri della vicina Fonni14. I dipinti Dai tasselli di prova aperti durante la precedente campagna di restauro dell’edificio era già emerso chiaramente che i partiti decorativi erano almeno tre: il primo di questi doveva quindi potersi datare al 1723, il secondo testimonierebbe l’intervento del 1793, il terzo, realizzato dal pittore di Ittiri Emanuele Carboni,15 sarebbe da assegnare alla fine del XIX – inizi XX secolo, presumibilmente allo stesso anno 1898 in cui viene costruito il nuovo altare in marmo, il cui collocamento è debitamente ricordato dal committente, l’allora rettore Pietro Luigi Oggiano, in un’epigrafe incisa sulla base. Lo stato di conservazione di questi dipinti, a un’analisi meramente visiva, da subito mostrava l’estrema fragilità dello strato superiore di ridipintura a tempera, già parzialmente caduto, mentre maggiormente saldo e coeso al paramento murario appariva il più antico, realizzato a mezzo fresco. Questa tecnica è quella che più frequentemente – o, per meglio dire, quasi esclusivamente – compare in Sardegna in questo periodo: scomparso l’affresco (la cui realizzazione richiede competenze più complesse), presente pressoché solo in età medievale, le superfici dipinte sono quasi sempre realizzate a tempera a mezzo fresco, con l’utilizzo di finiture a secco. Di norma tuttavia accade che la presenza di infiltrazioni d’acqua e umidità diffusa provochino nel corso del tempo il fenomeno della carbonatazione, con il risultato di trasformare di fatto queste opere in affreschi, da un lato favorendone, fortunatamente, la durata, dall’altro comportando il saldarsi insieme all’originale delle eventuali ridipinture, e perciò un difficile e lungo processo di rimozione. Il ciclo decorativo realizzato dal Carboni utilizzava il sistema del quadro riporta13 10. Due orientali, Mamoiada (part., in alto) 11. Motivi decorativi: pavoncelle ai lati del cantaro (in basso) to, scompartendo in sei episodi (anche se la numerazione ne indicava quattro) - tre grandi tondi centrali e tre paesaggi entro cornice mistilinea - la narrazione della traslazione della Santa Casa di Loreto. Il tondo centrale, inserito un po’ maldestramente all’interno di due elementi conchiliformi sui quali sedeva una figurina angelica per parte, raffigurava la Vergine col bambino; cornici e modanature d’inquadramento architettonico evidenziavano l’utilizzo di un sistema già seriale dei cartoni. Al di sotto della parte figurata, sulla parete absidale, era finto il semplice tendaggio sui toni dell’azzurro, ornato da due simmetrici vasi di fiori, cui si è fatto cenno in apertura. Poco o nulla si poteva dire dello strato intermedio, se non che s’intuiva al di sotto dell’ultima ridipintura un decoro floreale abbastanza schematico (la “tapisseria” più su ricordata?) con prevalenza di colore verde. Della stesura più antica s’intravedevano invece alcune figure: i colori prevalenti in questo caso erano il rosso, il verde e il giallo ocra. La decorazione occupava chiaramente tutta la superficie absidale e, stando ad alcune piccole prove di pulitura effettuate nel corso dell’intervento di restauro della sacrestia (2006), continuava oltre l’arco trionfale sulla faccia anteriore dei pilastri. In questa situazione si è decisa la rimozione delle ridipinture ottocentesche, nonostante apparisse molto problematica la condizione della porzione centrale della calotta - ovvero della zona figurativamente più importante, in quanto probabile fuoco principale della scena - interessata da un’ampia e spessa stuccatura, sopra la quale il Carboni aveva realizzato la figura della Madonna16. Era però già visibile una mano benedicente, appartenente al ciclo più antico, che affiorava al di sopra del- 12 a. (1720: figg. 12a e b) e Sassari (1711- 12c), su parete a Nuoro (metà XVIII sec. - 12e) e Triei (seconda metà XVIII sec - 12d); a Mamoiada compare però anche la natura morta di fiori – 12f e il vaso biansato assume anche una bizzarra foggia antropomorfa (1723 - 12g). la Vergine, a testimonianza del fatto che sicuramente era anche prevista, come figura centrale, quella del Dio Padre. Queste le condizioni nel momento in cui ci si accingeva a iniziare i lavori. La rimozione delle ridipinture e la parallela analisi delle fonti d’archivio hanno rivelato una situazione piuttosto articolata: ciò che è emerso mostra infatti un partito decorativo inusuale e variegato, peraltro assai interessante, senz’altro attribuibile a mani diverse (sembrerebbero presenti due maestri) e forse anche, in parte, a due momenti di poco successivi, come pare attestare una nota sul registro d’amministrazione che menziona, nel 1738/39, un nuovo intervento del “pintor de Fonny por pintar las columnas”.17 Vistose appaiono infatti le differenze di gusto e stile tra le varie parti della decorazione: in linea di massima sembra esservi un maestro cui è affidata per buona parte la realizzazione del catino, mentre appare d’altra mano la parete absidale al di sotto della cornice marcapiano; in generale si osserva un’insolita alternanza di delicatezza e rusticità un po’ greve, non priva di un certo gusto per il grottesco, un accostarsi per tentativi all’accuratezza di una veritiera raffigurazione colta condita da popolaresca imprecisione, caratteristiche evidenti nel fregio dell’arco trionfale. Ciò si può facilmente notare anche nel modo di realizzare le figure: messi a confronto con le figure angeliche del sottarco e della parte inferiore, delimitate da un deciso tratteggio della linea di contorno, appaiono di delicatissima stesura i mori che a Oriente sorridono osservando il volo della Santa Casa, probabilmente definiti da finiture a secco - e infatti oggi evanescenti e quasi perduti. Così capita che nel punto di raccordo tra il sottarco e la parte frontale dell’arco trionfale si accostino, anche in modo un po’ incongruo, due partiti decorativi non dialoganti tra loro, differenti persino nella scelta del tono di colore del fondo, più rosato quello 12 b. 12 d. 12 c. 12 e. 12 f. 12 g. del catino, più bianco l’altro. Impossibile dire che cosa ornasse la parete frontale del presbiterio, perduta ormai quasi del tutto la decorazione; rimane perciò, nel suo tono popolareggiante, il racconto disteso nello spazio absidale. L’iconografia della Traslazione della Santa Casa, per caratteristiche intrinseche alla stessa leggenda agiografica, ha consentito nei secoli una discreta libertà agli artisti. L’arrivo della casa della Madonna da Nazareth a Loreto è infatti preceduto da una serie di tappe intermedie (Tersatto, in Croazia, Ancona, infine Loreto):18 l’imprescindibile figura centrale della Vergine con Bambino assisa sul tetto dell’edificio trasportato dagli angeli è di volta in volta collocata nella sola corona di nubi, in un paesaggio verdeggiante, in volo sul mare, nei pressi del santuario e altre varianti; Le glorie maestose del Santuario di Loreto di Baldassarre Bartoli, edito nel 1693,19 quindi non molto tempo prima dei nostri dipinti, reca ad esempio in apertura una stampa con la versione iconografica più semplice, la prima citata. Ma il primo libro a trattare la storia della traslazione è la Lauretanae Virginis Historia di Girolamo Angelita, ben più antico (1525) e più noto, specie nella traduzione curata da Giulio Cesare Galeoti intitolata Historia della traslatione della Santa Casa della Madonna a Loreto; ad ornarne il frontespizio compaiono, nelle sue numerosissime edizioni,20 tre diverse incisioni: la versione semplificata della Casa sulle nubi, la seconda arricchita da due angeli che incoronano la Vergine, la terza costruita 14 12. Frontespizio dell’edizione 1611 dell’Historia della traslatione della Santa Casa della Madonna a Loreto già scritta à Clemente VII Pontefice Massimo da Girolamo Angelita, e tradotta in lingua volgare da Giu. Cesare Galeotti d’Ascisi, Venezia, presso Bernardo Giunti. su una visione “a volo d’uccello”, che permette l’inserimento del mare solcato da due navi, in basso. Tuttavia il tema non è particolarmente diffuso nell’Isola: l’esempio più famoso lo troviamo nell’omonimo retablo (metà XVI sec.) che a Ozieri dà nome al Maestro che lo dipinse; a Mamoiada invece le chiese dedicate alla Madonna di Loreto sono addirittura due, la seconda, rurale, connotata dall’appellativo di Loretto attesu, cioè Loreto lontana, a testimonianza di una particolare devozione locale. Nella “nostra” Loreto la struttura della decorazione dipinta è, come accennato, chiaramente bipartita e divisa in due registri, superiore e inferiore, delimitati dalla cornice marcapiano in stucco e aggettante: in alto è il racconto della Traslazione della Santa Casa; in basso si attinge al repertorio barocco costruendo una finta architettura d’inquadramento dell’altare (presumibilmente a stucco, o forse ligneo,21 oggi perduto) nella quale compaiono, secondo uno schema consueto negli altari lignei dell’Isola, le doppie colonne, lisce le interne, tortili le esterne, due finte porte laterali (la sinistra brutalmente distrutta dall’inserimento di una vera porta moderna) e si drappeggiano tendaggi e sontuosi panneggi; ai lati è l’omaggio ai nuovi regnanti e ai committenti, ricordati da due grandi emblemi nobiliari: sulla sinistra è infatti lo stemma, un po’ semplificato, di Casa Savoia, ai quali l’Isola era passata (molto male accetta) nel 1720; a destra è un’arma non identificata, e che non corrisponde ai soli nomi citati nelle cronache d’archivio, Giuseppe Galisay e il nobile don Antonio Sedda Satta. Il primo appartiene a un’importante famiglia mamoiadina, che ottiene il cavalierato già nel 1541, ma il riconoscimento della nobiltà solo nel 1735: in ogni caso la sua 14 a e b. Pietro Antonio Are, I ventisei martiri del Giappone, totale e particolare edifici, 1712, olio su tela, cm 130 x 150. arma è parlante, e presenta due galli e tre pali d’oro; la Sedda Satta sembra invece costituita dall’unione di due diverse famiglie nobili: i Satta, originari della Gallura, trasferitisi in parte a Bitti, che ottengono la nobiltà nel 1646 e si stabiliscono nel XVIII secolo a Mamoiada; e i Sedda, che sono invece originari del Mandrolisai; uno di loro, Martino, forma il ramo di Mamoiada, conseguendo la nobiltà nel 1700: le loro armi sono però alquanto differenti dalla nostra22. Ciò che colpisce nei dipinti della calotta absidale, purtroppo mutili della parte centrale, sono fondamentalmente due cose: la libertà d’invenzione, pur nel rispetto del racconto, che si traduce in una parallela rustica spigliatezza del linguaggio pittorico, e la delicatezza della cromia, unica nel suo genere nelle coeve decorazioni parietali della Sardegna centrale: nel raffigurare i cieli popolati di cherubini che fanno corona ai due angeli e alla Santa Casa (sulla quale doveva stare assisa, secondo tradizione, la Vergine col Bambino, al di sotto del Dio Padre benedicente) agli abituali e al15 quanto diffusi ocra, rosso porpora e verde si affiancano delicate tonalità rosate e cilestrine, qua e là viranti al malva e al violaceo. Il maestro che realizza questa scena dimostra poi un’indubbia conoscenza, forse anche in parte diretta oltreché mediata dalle stampe, e di un certo tipo di architettura e della struttura delle navi, che traccia con ricchezza di particolari: con tratto leggero sono delineati i due alberi, le sartie e le vele giustamente raccolte, dato che i vascelli sono alla fonda in un porto d’Oriente, presumibilmente a Costantinopoli, come pare suggerire l’edificio (qui a pianta centrale) cupolato che allude a Santa Sofia: Nazareth era allora infatti sotto il dominio turco. Alla rotonda classicheggiante (un pentimento mostra che il pittore aveva inizialmente previsto anche un portale timpanato) si addossano contrafforti e altri corpi di fabbrica, forati da oculi e parecchie ulteriori aperture: più che a Santa Sofia il rimando più immediato sembra essere quello alle numerose rotonde del romanico lombardo. Abbastanza inusuale appare anche la decorazione del sottarco, fat- 15 a e b. Pietro Antonio Are, La venuta in Sardegna di San Giacomo, 1715, olio su tela, cm 130 x 150 (15 b: particolare). ta di clipei e medaglioni mistilinei contenenti vere e proprie nature morte (vasi di fiori), oggetti simbolici (il melone, allusivo al nome del rettore della chiesa all’epoca dei lavori, don Pedro Meloni, parroco a Mamoiada dal 1704 al 1735), figure di buffi cherubini, dalle guance rubizze e dai boccoli biondi e ricciuti, uno con la bocca ridente semiaperta a mostrare i denti. Insolite e poco rispondenti ai modelli diffusi in zona appaiono anche le figure di orientali che osservano la scena. Nella parte inferiore l’intradosso è invece ornato da un decoro floreale a racemi e volute, che prende avvio, in maniera speculare, dalla parte bassa del pilastro scaturendo dal cantaro presso il quale stanno affrontate per le terga due pavoncelle; quest’ultimo è un motivo decorativo piuttosto antico, il cui significato salvifico è legato alla resurrezione, simbolicamente richiamata dall’acqua e dai pavoni, indicanti l’immortalità dell’anima: già noto nel periodo paleocristiano, gode di ampia diffusione in età bizantina, ma appare ormai abbastanza inusuale per una cronologia così avanzata, tanto più che al di sopra di esso compare una struttura a baldacchino decisamente barocca. Sulla parete di fondo si sviluppa invece l’altare barocco più su descritto. Nel suo complesso un simile partito decorativo non trova quindi l’immediato riscontro che è possibile effettuare per gli altri cicli noti; trae anzi con certezza i suoi modelli non soltanto dai coevi dipinti murali ma anche da tele e altari lignei, dai quali derivano particolari decorativi -i ricorrenti vasi di fiori- e spunti iconografici: è infatti possibile avanzare confronti sia con opere presenti nel santuario della Madonna dei Martiri di Fonni -impegnativo e ricco cantiere per buona parte del XVIII secolo- sia con alcuni di poco precedenti lavori sassaresi, guarda caso anch’es- 16 a. 16 c. 16 b. 16 d. va), Triei (16c, Chiesa dei SS. Cosma e Damiano) e Orani (16d, Chiesa della B.V. del Rosario). si, come Fonni, di ambito francescano; si veda ad esempio la balaustrata (oggi smembrata) della tribuna lignea realizzata nel 1711 dal carpintero y esculptor Antonio de Querqui per il santuario della B.V. delle Grazie a S. Pietro in Silki.23 L’insieme di questi dati ci porta ad alcune considerazioni, a partire da un primo e immediato raffronto con le opere degli Are, cui pure si presume faccia un generico riferimento più tardo il registro d’amministrazione: ebbene, niente che somigli alla decorazione del catino absidale è presente nelle superstiti pitture autografe degli Are a Fonni,24 Nuoro, Orani, Busachi e Tonara,25 né in quelle di bottega presenti nella parrocchiale di Triei. Tutti questi cicli nascono infatti con una differente impostazione, che intende in modo dissimile sia la scansione dello spazio che la disposizione ritmica delle masse e delle figure, spesso affidate a inquadrature architettoniche che dividono il racconto per scenette, oppure isolano i protagonisti o ancora si sviluppano in modo da avere un andamento quasi rotatorio intorno a un fuoco centrale. A questa diversa partitura si associano evidenti difformità nel trattamento di alcune forme (gli onnipresenti vasi, qui dotati di volto umano o raffigurati come vere e proprie nature morte di fiori, segno di un’attenzione verso la contemporanea produzione pittorica da cavalletto), nonché delle figure, a Loreto di qualità inferiore rispetto a quelle di Pietro Antonio, ma più vivaci e caratterizzate di quelle di Gregorio, fortemente ripetitive. Questo almeno, come detto, nelle decorazioni parietali; il discorso cambia in parte quando si prendono in esame le opere giovanili di Pietro Antonio Are dipinte su tela. «Per tenere un ordine nell’osservare i quadri cominceremo dai più grandi. Questi sono quattro uguali opera dell’Aru Pietro Antonio, bislunghi di lato di m 16 1.30 p. 1.50. Uno rappresenta i 25 Martiri Giapponesi dell’ordine serafico l’altro è delli 11 osservanti beati detti volgarmente Gorgoniensi. Degli altri due, uno rappresenta la venuta in Sardegna dell’Apostolo San Giacomo … l’altro quadro qual’oggetto principale rappresenta il Martirio di San Ponziano Papa.»26 Tra queste quattro opere, oggi custodite nel convento, il confronto più puntale lo offre la tela con I ventiseii27 martiri del Giappone. Si osservino infatti gli edifici che compaiono su entrambi i lati di questa scena: sono indubbiamente da mettere in relazione col porto orientale dipinto a Loreto, e così le figure degli indigeni, simili, con quelle loro fasce dal bianco intenso, agli orientali che guardano il volo. Il dipinto raffigurante La venuta in Sardegna di San Giacomo offre invece un utile modello per lo schema di realizzazione delle navi, questo sì realistico e accurato rispetto alle più tarde creazioni di Gregorio e della bottega: quando le navi compaiono nei dipinti seriori degli Are non sono altro che schematiche rappresentazioni di un’idea astratta - si veda ad esempio La predica di sant’Antonio ai pescii di Tonara (e Triei, dalla prima immediatamente derivata, ma il modello era probabilmente quello di Fonni, oggi ridipinto) -, cui corre l’obbligo di diventare appena più ricca e definita nella scena de La battaglia di Lepanto della Chiesa della B.V. del Rosario di Orani; qui invece, come si è visto, pur nell’approssimazione della forma i velieri sono ricchi di dettagli precisi e concreti. Se il Pistis si limita a certificare – in base, scrive, ai documenti d’archivio28 – la paternità di Pietro Antonio Are per tutte e quattro le tele, il Mereu, dopo aver presumibilmente operato alcune verifiche, ne modifica in parte l’attribuzione, fornendo al contempo la datazione di tre di esse: conferma la paternità dell’Are sia per La venuta in Sardegna di San Giacomo (1715) che per due delle scene di martirio (il Martirio dei venticinque giapponesi dell’Ordine Serafico -1712- e il Martirio dei Minori Osservanti Gorgoniensi 1715), ma attribuisce ad Antonio Todde il Martirio di San Ponziano Papa, datandolo alla seconda metà del XVIII secolo.29 Ma a un confronto puntuale delle tele non appaiono giustificati né l’attribuzione al Todde – che conosciamo solo per la non trascurabile opera Il Padreterno, lo Spirito Santo, la Madonna con Bambino e Santi,30 sulla quale compare la sua firma (un cartellino reca infatti la scritta Soberaña Señora por Antonio Todde el pintor) r – né la datazione così avanzata, dal momento che, apposta sul pannello laterale di uno dei plinti dell’altare, c’è la data 1720, ed è intorno a questo giro d’anni che va quindi collocata l’attività del pittore; nella decorazione dell’incasamento ligneo sembra peraltro potersi riconoscere la mano di Pietro Antonio Are, ed è qui che abbiamo constatato l’esistenza dei vasi di fiori che ritroveremo identici nei successivi dipinti murali. Se dunque, per l’evidente disparità qualitativa, l’attribuzione del ciclo di Loreto a 17. Pietro Antonio Are (?), Volto di orientale, Mamoiada, 1723 (part.) quest’altro protagonista degli impegnativi lavori della Basilica di Fonni non regge, è però possibile ipotizzare la presenza a Mamoiada del giovane Pietro Antonio Are almeno per una parte dell’opera; e tuttavia non come unico maestro. Identificare però il suo coautore non è semplice: la citazione nei documenti d’archivio del pintor de Gavoyy ci porta obbligatoriamente a prendere in considerazione l’ipotesi che possa essere Pietro Antonio Nonnis quello cui si deve guardare per trovare il più probabile artefice di questo ciclo mamoiadino; ma di lui non conosciamo nessun’altra opera che ci fornisca certezza di un riscontro. Non manca infatti la possibilità di proporre altri nomi; intanto va registrata l’interessante presenza a Fonni dei quadri di un altro pittore, Giuseppe Lopes o Lopez, che firma (Iosephus Lopes) nel 1717 la grande tela con l’Ultima cena e realizza, pur non firmandola, l’altra con la Pietà: autore certamente non digiuno di pittura napoletana, a giudicare dalle ghirlande di fiori che circondano le scene sacre: che non sia casuale la concordanza del cognome con quello di Gaspare Lopez (Napoli 1650 - Firenze 174031), cosiddetto “dei fiori”? Non troppo lontani dai suoi appaiono infatti i tulipani aperti, screziati di rosa e reclinati; i dipinti del Lopes (alla metà del XIX secolo, secondo padre Pistis, se ne conservavano anche altri quattro, un San Potito, un San Priamo, un San Giovanni Battista e «uno piccolino dei Santi Lussorio, Cesello e Camerino»,32 ora non più rintracciabili) non possono aver lasciato indifferente l’Are, che da questo pittore pare infatti derivare alcune suggestioni sull’impostazione della figura e le tipologie facciali. Ma, più verosimilmente, non è peregrino ipotizzare la partecipazione al ciclo mamoiadino di un altro Todde, forse parente di Antonio: esiste infatti un pittore che si firma Mulas Todde, probabilmente di Dorgali come il più capace Antonio Todde, conosciuto proprio per una serie di tele conserva- te nella Parrocchiale di quel paese, una delle quali fortunatamente firmata e datata 1747. Il Canonico Spano nella sua Storia dei pittori sardi e Catalogo descrittivo della privata Pinacoteca ne cita anche il nome, Francesco, confermandone la provenienza da Dorgali e asserendo che «nella Baronia esistono molte sue opere di pregio»,33 fatto oggi non più riscontrabile. Vi sono alcune concordanze che fanno presupporre una conoscenza diretta dei dipinti di Pietro Antonio Are da parte del Mulas Todde: si veda ad esempio il particolare degli edifici nel quadro di San Quirico martire, con la statua che svetta sul campanile della chiesa così come nella tela citata dei Martiri giapponesi. La presenza della statua è anzi, in qualche modo, una sorta di “marchio di fabbrica” di questo artista, dal momento che compare anche nella tela del degradatissimo Martirio di sant’Agata, del quale è per noi interessante notare (pur con molte difficoltà di lettura) l’accentuata impronta grottesca e caricaturale di alcune figure, non lontana da quella riscontrata nei farseschi cherubini del sottarco di Loreto. Nella tela firmata, un San Giovanni Nepomuceno, i cherubini che fanno corona al martire rimandano a quelli che compaiono nel cielo di Loreto, mentre in basso a destra spuntano due buffe figurette, che rivolgono entrambe lo sguardo sorridente all’osservatore; questo particolare atteggiamento, che denota la ricerca di un coinvolgimento diretto del riguardante (pur riscontrabile in opere con un ben diverso tipo di fruizione, dato che una si colloca a diversi metri d’altezza sulla parete), e le comuni caratteristiche fisionomiche richiamano per analogia i giovani orientali sorridenti che compaiono a Mamoiada. Diverso il discorso per la parte inferiore della decorazione, dove sicuramente ritroviamo il fare tipico degli Are e delle maestranze direttamente a loro legate: lo spazio viene scandito da una ordinata partitura architettonica; muta la cromia, che si riduce fondamentalmente ai tre toni dell’ocra, del porpora e del verde; compaiono le colonne percorse dalle finte venature marmoree rosse che troviamo anche a Fonni; tralci fogliacei corrono lungo l’arco trionfale e, soprattutto, ritroviamo la firma dei festoni floreali ai lati dell’altare, precursori di quelli presenti a Nuoro, Tonara e Triei. Note 1 18. Francesco Mulas Todde, San Giovanni Nepomuceno, 1747, olio su tela, Dorgali, Chiesa di Santa Caterina d’Alessandria 17 V. Angius – G. Casalis, Dizionario geografico, storico, statistico, commerciale degli Stati di S.M. il Re di Sardegna, Torino 1851, v. II, p. 853. 2 G. Todde, Storia di Nuoro e delle Barbagie, Cagliari 1971, pp. 159-161. 3 Gli atti, di notevole importanza, vengono pubblicati da G. Zirottu, Mamoiada: il racconto del tempo, Nuoro 2004, pp. 101-103, che indica la loro collocazione come relativa alla cartella dell’Archivio di Stato di Nuoro denominata “Tappa di Oliena Ville. Originali, Diversi (1700-1801)”. Anche la ricerca a partire dai nomi dei due notai che, in momenti diversi, rogano i contratti - Giovanni Battista Lay e Alessio Demontis - non ha dato alcun frutto. 4 A. Mereu, La Basilica e il convento francescano della Madonna dei Martiri in Fonni, Cagliari 1973, pp. 107-108. 5 L’Arieti - anche Oretti o Reti - risulta presente a Fonni già dal 1710, quando firma la balaustra del presbiterio della Madonna. Per le notizie su questi maestri si vedano M. Porcu Gaias, La confraternita di Nostra Signora degli Angeli e l’attività t edilizia a Sassari nel XVII e XVIII secolo, in A. Mattone (a cura di), Corporazioni, Gremi e Artigianato tra Sardegna, Spagna e Italia nel Medioevo e nell’Età t moderna (XIV-XIX secolo), Cagliari 2000, pp. 466-499, G. Cavallo, Maestranze intelvesi in Sardegna tra il XVII e il XVIII secolo, in Contributi per la conoscenza di ambiente, archeologia, architettura, arte, lettere e storia delle Valli e dei Laghi comacini, Quaderno n. 12 – 2007 La Valle Intelvi n. 33 – 2008, pp. 131-162 e G. Frulio, La produzione in stucco nelle architetture della Sardegna tra XVII e XVIII secolo, Politecnico di Milano, tesi di dottorato in Conservazione dei beni Architettonici, XV ciclo, pp. 69-119: a quest’ultima si rimanda per una più puntuale definizione delle diverse professionalità citate. Per la fabbrica di Fonni si vedano L. Pistis, Pitture sarde nel convento di Fonni, in Bullettino Archeologico Sardo, v. VIII, a. 1862, pp. 84-87 (a p. 87: «Finalmente passo a notare il nome di Giovan Battista Retti, di Gio. Coallo, di Giovan Battista Corbellino, e di Ambrogio Mutoni, i quali eseguirono la fabbrica di questo sacro edifizio, specialmente il Coallo che fu distinto ingegnere, cogli stucchi meravigliosi a fiorami, e gli ornati di tutta la chiesa. E sebbene questi fossero artisti milanesi, pure si possono considerare sardi, perché avevano il domicilio in Sassari»); Id., Santuario o Basilica della SS. Vergine dei Martiri in Fonni. Guida, Cagliari 1862; A. Mereu, La Basilica cit. La necessità di diversificare le specializzazioni per poter far fronte alle richieste della committenza fa sì che all’interno della famiglia Quaglio ci fossero, negli stessi anni, anche diversi pittori, tra i quali Giulio (Laino 1668-1771), un più che dignitoso frescante, a sua volta figlio e nipote di pittori: il suo capolavoro è l’affresco con le Scene della vita della Vergine, del Cristo e gli Evangelistii realizzato nel 1694 nella Cappella del Monte di Pietà di Udine, al quale lavora coadiuvato dai suoi stuccatori: cfr. A. Rizzi, Storia dell’arte in Friuli. Il Seicento, Udine 1969, pp. 76-78. 6 La scarsa attenzione nella tenuta degli archivi della Diocesi viene lamentata proprio dall’Arcivescovo Masones y Nin nella relazione sinodale del 1708: cfr. A. Pillittu, Chiese e arte sacra in Sardegna. Arcidiocesi di Oristano, Cagliari 2003, p. 61. 7 Archivio storico Curia Nuoro, cartella Mamoiada, Chiesa B.V. di Loreto. 8 Si tratta della statua – manichino processionale vestita della Madonna Addolorata, ascrivibile a bottega napoletana del XVII secolo. 9 Lodovico Pistis parla di un «Pietro Sabastiano Nonni di Gavoi che aveva a compagno un Salvatore Busu parimenti di Gavoi» i il quale scolpisce diverse statue per la Basilica di Fonni, tra cui quella del Beato Salvatore da Horta: cfr. L. Pistis, Santuario cit., pp. 24-25. 10 Archivio Storico Curia Nuoro, cartella Mamoiada, Chiesa B.V. di Loreto: Asientos de las cobranzas ha echo el S.r V.ble Crisponi de la Cofadria de Loreto, anno 1785: «Por la fabrica de la nueva sacristia hecha per orden del q(uonda)m y felis memoria del Il.mo y R.mo Monsenor Serra se ha gastado 515 escudos»; i lavori erano iniziati nel 1783. Lo Zirottu riporta anche un contratto del 1772 relativo a lavori di rifacimento degli intonaci esterni e delle tegole della cupola: cfr. G. Zirottu, op. cit., p. 106. Difficile stabilire se la nuova sacrestia sia un vano che va ad aggiungersi a un primitivo oratorio dell’Addolorata o se invece semplicemente conservi il ricordo della prima Confraternita; ciò che si può dire per quel che riguarda la decorazione di questo secondo vano (a stucco dipinto, con figure di cherubini, elementi conchiliformi e floreali) è che le maestranze stavolta sono modesti collaboratori di bottega, fortemente dipendenti dai modi degli Are, gli stessi, forse, che realizzano la decorazione a stucco (e pittura) della Parrocchiale di Triei. 11 G. Cavallo, Maestranze cit., p. 145. 12 La frase riportata dallo Zirottu purtroppo, così com’è, risulta intraducibile; recita infatti: «tranne che non resta boligat aflores y persungris que no tocan y pertenessen a son arte”: cfr. G. Zirottu, op. cit., p. 106. 13 Ivi. Il registro d’amministrazione citato nella nota 6 (ASC NU, cartella Mamoiada, chiesa B.V. di Loreto) riporta le spese fatte per Maestre Fabricio Brizzi, che riceve 700 scudi a saldo «en varias jornadas por el trabajo impendido en el aconce de la dicha Iglesia secun aguste e recibo firmado del mismo», comprese 22 lire e mezza “para comprar dos mantos sardos y tela para dos savanas para Maestre Fabricio que acomodava la dicha Iglesia y esto era secun contrato.” 14 A. Mereu, La Basilica cit., p. 65. 15 L’attribuzione a questo per altri versi sconosciuto pittore è confermata dal confronto con i dipinti della cosiddetta “Sacrestia del Guiso” nella Basilica di Fonni, palesemente della stessa mano, dove, in un riquadro, compare l’epigrafe: “Rovinata questa volta per incuria dei tempi, una società delle primarie persone di Fonni colle cure e sacrifizi propri e colle oblazioni del Municipio, di tutto il paese e di pie persone di fuori ne ha procurato il restauro nel 1888, e la fece dipingere da Emanuele Carboni d’Ittiri”. Di questi dipinti riferisce anche A. Mereu, La Basilica cit., p. 211. 16 La situazione di questa zona della muratura ha condotto a non rimuovere, ma coprire con un neutro, il tondo centrale raffigurante la Madonna col Bambino, dal momento che sarebbe stato comunque impossibile recuperare la decorazione originaria al di sotto della grande stuccatura centrale, a suo tempo verosimilmente resasi necessaria a causa dei gravi problemi del paramento murario. 17 ASC NU, cartella Mamoiada, chiesa B.V. di Loreto, anni 1738/39. 18 Studi recenti, archeologici, documentali e sui materiali di costruzione, confermano l’ipotesi che le pietre che costituiscono la casa siano state trasportate per mare da crociati reduci dalla Palestina, nel 1291, per iniziativa della nobile famiglia Angeli, che regnava sull’Epiro: menziona infatti “le sante pietre portate via dalla Casa della Nostra Signora la Vergine Madre di Dio” un documento del settembre 1294, scoperto di recente, che attesta come Niceforo Angeli, despota dell’Epiro, trasmettesse a Filippo di Taranto, quartogenito di Carlo II d’Angiò, re di Napoli, come dote della propria figlia Ithamar una serie di beni, tra cui le preziose reliquie. 19 Le glorie maestose del Santuario di Loreto opera nuova di Baldassarre Bartoli Cappellano d’Honore dell’Altezza Serenissima Elettorale di Baviera con privilegio del Sommo Pontefice Innocenzio XII dedicata all’Eminentiss. Principe il Sig. Cardinale Altieri, Macerata 1693. 20 G. Angelita, Lauretanae Virginis Historia, 1525, stampato presso la Tipografia del Principe Elettore di Baviera; Historia della traslatione della Santa Casa della Madonna a Loreto già i scritta à Clemente VII Pontefice Massimo da Girolamo Angelita, e tradotta in lingua volgare da Giu. Cesare Galeotti d’Ascisi; difficile dar conto delle numerose edizioni che si succedettero tra Ancona, dove si registra la prima nel 1575, presso l’editore veronese Astolfo de’ Grandi, Macerata e Fermo; ve ne furono nel 1585, 1587, 1589 e 1590 (Fermo); nel 1596, 1599, 1600, 1602, 1603 (Macerata); nel 1611 l’edizione avviene invece a Venezia, presso Bernardo Giunti. 21 In sacrestia è conservato un tabernacolo ligneo, dorato e policromato, appartenente a un perduto altare: poteva però trattarsi di un altare secondario, dal momento che purtroppo non è sopravvissuto quasi niente degli arredi antichi. 22 F. Floris – S. Serra, Storia della nobiltà t in 18 Sardegna, Cagliari 1986, pp. 244 e 320-322. È importante notare che il priore della Confraternita della B.V. dei Martiri che a Fonni nel 1705 richiama il Quallio a compiere i lavori lasciati in sospeso è un Antioco Sedda, mentre nel 1731 un Sebastiano Satta Sedda è notaio: cfr. A. Mereu, La Basilica cit., pp. 105 e 107. 23 M. Porcu Gaias, I sacri arredi di San Pietro di Silki, pp. 81-116, in M. Porcu Gaias (a cura di), San Pietro di Silki, Muros 1998; a pag. 93 la studiosa annota che il modesto pittore che affianca De Querqui si mostra «aggiornato sul gusto dell’epoca nei due riquadri con dipinti trionfi di fiori»; A. Sari, Chiese e arte sacra in Sardegna. Arcidiocesi di Sassari, tomo I, Cagliari 2003, pp. 180-181. Padre Lodovico Pistis attesta che la cupola di Fonni era dipinta da Pietro Antonio Are con finte nicchie sopra le quali «vi sono altretanti [sic] vasi di fiori, col doppio di putti e altri fiorami in rilievo e pitture»; cfr. L. Pistis, Santuario cit., pp. 26-27. 24 C’è da considerare che molte delle decorazioni realizzate a Fonni nel Settecento sono andate perdute o sono attualmente non visibili perché obliterate dalle ridipinture otto/novecentesche. 25 Per il ciclo decorativo della Chiesa della B.V. del Rosario di Orani si veda M.G. Scano, Pittura e scultura del ‘600 e del ‘700, Nuoro 1991, pp. 220-223; per la Chiesa della B.V. delle Grazie di Nuoro si veda F. Dini, La Chiesa delle Grazie e le sue pitture murali, Nuoro 2001; per la Chiesa di Sant’Antonio da Padova di Tonara si veda invece S. Naitza, “Tonara: i dipinti di Sant’Antonio”, in Altair, r Cagliari, a. IV, n. 23, marzo 1980, pp. 16-19. 26 L. Pistis, Santuario cit., pp. 73-74; in Pitture sarde nel Convento di Fonnii aveva scritto: «Di Pietro Antonio sono i due grandi quadri a olio, uno dei quali rappresentante gli undici religiosi Minori martirizzati nel Belgio dagli eretici detti comunemente Gorgonciensi; l’altro i 23 martirizzati nel Giappone. Della stessa mano sono altri due quadri della medesima grandezza che riposano nella Sacristia: il primo rappresenta l’approdo in Sardegna dell’apostolo S. Giacomo […] il secondo il martirio di S. Ponziano papa»: cfr. L. Pistis, Pitture sarde cit., p. 85. 27 Tanti infatti - e non venticinque o ventitré, come pure riporta l’epigrafe nella parte inferiore della tela - sono i protomartiri giapponesi (non solo francescani, anche gesuiti), crocifissi nel 1597. 28 L. Pistis, Pitture cit., p. 84: «ma quelli che più lavorarono nelle dette chiese sono i primi due [Pietro Antonio e Gregorio], dei quali, sebbene di nessuno comparisca il nome nelle opere che eseguirono, pure ciò rilevasi dai registri amministrativi dove sono notate le diverse quote che furono a loro sborsate». 29 A. Mereu, La Basilica cit., p. 212. Nelle note numero 47 e 48, a p. 234, specifica: «Permangono presso la Soprintendenza alle Belle Arti di Sassari quasi tutti i dipinti della Sagrestia del Guiso, posti sotto controllo per verificare la validità dei restauri ai quali sono stati sottoposti nel 1971». Le tele mostrano oggi diffusi sbiancamenti dovuti probabilmente all’alterazione del prodotto usato come vernice finale dopo il restauro. 30 A. Mereu, op. cit., pp. 184, 197: nella nota 10 a p. 184 il Mereu riferisce di un altro quadro del Todde a Mandas. In ogni caso la qualità dell’opera autografa del Todde è tale che non può essere paragonata a quella degli Are e degli altri più o meno anonimi maestri che lavorarono alle decorazioni murali; cfr. anche M.G. Scano, Pittura cit.. 31 Per questo pittore, dalla biografia ancora incerta, si vedano B. de Dominici, Vite de’ pittori, scultori ed architetti napoletani, Napoli 1742 (ed. 1846), tomo IV, pp. 401-402; L. Salerno, La natura morta italiana, Roma 1964, pp. 249-251. 32 L. Pistis, Santuario cit., pp. 82-83. 33 G. Spano, Storia dei pittori sardi e Catalogo descrittivo della privata Pinacoteca del can. Giovanni Spano, Cagliari 1870, p. 22: erroneamente lo Spano lo colloca entro i confini del XVII secolo. Maestri costruttori, botteghe e famiglie di frescanti Maria Paola Dettori, Gabriela Frulio Le professioni edili L’organizzazione delle professioni edili in Sardegna durante primi anni del Seicento, ormai sempre più specializzate per le mutate esigenze dei moderni cantieri ove si sperimenta un linguaggio nuovo insieme a nuovi materiali e tecniche costruttive, si configura ancora con il retaggio della regolamentazione delle categorie artigianali in gremii e confraries, le confraternite di lavoratori di origine medievale iberica. La struttura delle corporazioni o confraternite è ancora bloccata e rigida, suddivisa nominalmente nei principali mestieri di picapedrerr o mestre de muru (piccapietre e muratore), e successivamente dilatatasi per incorporare nell’uno o nell’altro gruppo artigiano la nuova professionalità richiesta, come ad esempio quella degli scultori, degli stuccatori, ma anche dei doratori o dei marmorari. Le professioni che ricorrono tra i documenti riguardanti l’attività edilizia nella Sardegna spagnola, sono sostanzialmente poche ed alle soglie del ‘Seicento risultano piuttosto generiche: mestre de muru u (muratore, ma usato anche nell’accezione di architetto), mestre de paleta (muratore), albanill (muratore, ma usato anche nell’accezione di architetto), picapedrerr (piccapietre, scalpellino ma anche artista decoratore di pietra ed architetto), fuster (falegname, ma anche carpentiere per lavori edili). Il mestiere del picapedrers durante il XVII secolo sembra ormai rivestire un ruolo subalterno nell’organizzazione della produzione edilizia, come si evince da diversi contratti di affidamento lavori, di registri di confraternite o di tariffari dei lavori edili, perloppiù relegato alle attività di cava o di finitura dei blocchi lapidei. Lo scultore in pietra (di provenienza generalmente non sarda) viene invece ad assumere un ruolo differente: non è più una maestranza di bottega, ma è piuttosto il singolo artista che, in seguito, con la produzione scultorea in marmo, diviene autonomo ed eventualmente crea la propria bottega1. Si consideri il testamento del lombardo Giovanni Battista Arietti, mastre attivo in Sardegna in numerosi cantieri, nel quale si ha menzione della sua attività ulteriore di stuccatore, con l’elenco degli attrezzi del mestiere di albanil de stoque2. Albanil è il termine castigliano per indicare il muratore ed in Sardegna anche l’architetto, la specifica de stoque, ovvero di stucco, sta a dimostrare l’evidente difficoltà, in un atto giuridico, di definire una specifica professionale evidentemente non contemplata in nessuna delle categorie artigianali regolamentate iscritte. L’Arietti infatti era sì albanill e cabo mastro, attivo nella chiesa di Loreto Mamoiada, nella chiesa del Collegio ad Oliena, nella cattedrale di Oristano ed anche cabo mastre del rey, ma anche stuccatore e scagliolista a Fonni. Come l’Arietti, lombardi sono anche gran parte de los mastres attivi nell’isola durante il XVIII secolo; ve ne sono però anche di napoletani, siciliani o romani. Le maestranze di importazione, stabilitesi in grande numero in Sardegna tra ‘Sei e ‘Settecento, hanno la possibilità di inserirsi nei registri delle confraternite locali solo se in possesso della cittadinanza della località ove operano, ovvero solo se entro un certo lasso dall’inizio della attività hanno preso moglie de logu: ad Alghero, ad esempio, si doveva regolarizzare la posizione matrimoniale del forestiero artigiano entro un anno3. Molti di questi personaggi infatti risultano aver preso moglie locale, generalmente figlia o parente di un altro mestre già iscritto alla medesima confraternita. A partire dal XVIII secolo le professionalità sembrano maggiormente individuate e più rigorosamente censite; dal 1739 il registro della Confraria de nostra Seniora de los Angeless di Sassari, porta i nomi di tutti gli ulteriori iscritti suddivisi per categorie artigianali: carpinteros, boteros, albaniles, maestros de molino. L’Arietti, il Corbellini, il Quallio, i lombardi attivi anche in consistenti fabbriche del nuorese e del cagliaritano, risultano registrati nella Confraria sempre come albaniles. Tra questi è solo l’Arietti ad essere documentato come albanil de stoque; la qualifica di architeto è propria invece dei tre forestieri Baldassarre Romero e Giovanni Battista Corbellini, lombardi, e Francisco de la Riva, spagnolo4. L’Arietti ed il Quallio sono detti anche cabo maestro, per la mansione di direttore dei lavori, ma anche presumibilmente in riferimento alle attività della bottega, di cui sono impresari e coordinatori nel cantiere. La qualifica di ingegnere invece è sempre data a personaggi di provenienza italica o nello specifico piemontese, occupati in lavori di riparazioni idrauliche o in lavori su strutture portuali. Dall’età Sabauda la figura del tecnico è sempre legata alla progettazione o alla direzione di lavori su fabbriche militari; la stessa qualifica viene in seguito mantenuta anche per tutti i lavori di edilizia civile o religiosa. Rimane aperta la questione che riguarda la composizione delle botteghe, la regolamentazione delle associazioni d’impresa e le specializzazioni professionali di quei gruppi che facevano capo ad un unico impresario. In sostanza sarebbe lecito domandarsi se in una bottega ad 19 ampio ambito familiare ci fosse stata una preordinata diversificazione delle mansioni, finalizzata a ricoprire tutte le attività necessarie al compimento di un cantiere, oppure al contrario se ciascuna bottega sta stata specializzata in un solo mestiere o in una specifica parte della produzione edilizia. Se prendiamo ad esempio la struttura delle famiglie delle maestranze lombarde che lavorarono in Italia ed nell’Europa centrale tra ‘500 e ‘700, rileviamo che nonostante l’apparente dispersione geografica nella quale si collocano i cantieri da loro interessati, questi ceppi conservano forti legami con le zone native e rimangono sempre intrecciati in strutture familiari allargate e comunitarie, legate ai mestieri dell’edilizia. La struttura compatta di queste botteghe, che conta in una altissima specializzazione dei singoli, riesce così ad imporsi anche in ambienti socioculturali estranei, eludendo leggi protettive locali sull’esercizio delle arti e dei mestieri, o lunghe e difficili gavette per affrancarsi professionalmente. I gruppi si formano nell’area d’origine, rafforzati ogni qual volta vi si fa ritorno, forse anche attraverso il suggello di un nuovo legame di parentela; oppure si creano rapporti di familiarità e legami professionali, di volta in volta diversi in ciascuna città, destinati però a divenire anche questi permanenti. Si pensi ai rapporti tra le famiglie, originarie della valle Intelvi, degli Arietti, o Reti, e dei Corbellini: un Emanuel Retti lavora al fianco di Antonio Corbellini nel Wuttemberg intorno al 1718, Giacomo Antonio Corbellini nel 1719 lavora con suo nipote Donato Retti di Laino agli stucchi della chiesa di Weingarten in Baviera; anche un Giovanni Battista Arietti e un Giovanni Battista Corbellini lavorano insieme agli stucchi del Santuario di Fonni, all’inizio del Settecento; il Corbellini lavora alla sagrestia del San Michele a Cagliari mentre, presumibilmente, il Quallio è impiegato nel cantiere della Chiesa di S. Antonio Abate. Un Leonardo Retti lavora al fianco del pittore Giulio Quallio a Laino nel 1715; il nostro Giovanni Battista Arietti sposa in prime nozze Lucia Quallio, figlia di Joseph Quallio direttore nei lavori di Fonni e capomastro a Mamoiada, dal quale eredita poi il cantiere5. La maestranze lombarde attive in Sardegna si inseriscono professionalmente nei luoghi delle commesse cooptando nella bottega maestranze locali, come accade a Fonni ove sono documentate maestranze di Gavoi, impiegate anche Mamoiada. A titolo di esempio, durante la direzione dell’Arietti risultano impiegati nel cantiere della chiesa di Loreto a Mamoiada anche: i mamoiadini Juan Balia, Joseph Mattu e Ignazio Grossa o Gratta, Antonio Angelo Sieto o Satta de Gavoy, pintor Pietro Anto. Nonnis y su compagnero de Gavoy, mastre Josep Usay, Joseph Paddeu, Cosma Mamely, mastre Juan Ispano, mastre Antony Usay, mastre(?), Joseph Salvador Piras, mastre Joseph Buy, mastre(?) Juan M. Carta. Ed ancora, nel cantiere tardosettecentesco del maestro milanese Fabrizio Brizzi, è impiegato anche tale albanil mestre Vito Crisponi. Dalla disamina dei documenti del cantiere di Fonni si denota un’organizzazione secondo precisi ruoli di bottega: il Quallio era capocantiere e architetto che aveva reclutato il Corbellini ed il Muttoni, addetti alla realizzazione delle decorazioni in stucco e dei frontali degli altari, il Corbellini era inoltre specializzato nella statuaria a tutto tondo. L’Arietti arriva in un secondo tempo forse come lavoratore autonomo ed impegnato come scagliolista. Le maestranze di Gavoi sono prevalentemente pittori o scultori in legno e si affiancano alla bottega degli Are, pittori di decorazioni murali di probabile origine lombarda poi naturalizzati in Sardegna. Esaminiamo i canali di penetrazione di questi costruttori e decoratori lombardi, arrivati in Sardegna certamente attraverso i rapporti commerciali con Genova. Numerosi studi hanno messo in luce la portata della presenza ligure nell’isola durante il XVII e XVIII secolo, attraverso l’esame dei tanti cognomi di mercanti ivi residenti in tutti i grossi centri6. Genova nel ‘Settecento è un emporio internazionale di marmi, le commissioni giungono dalla Provenza, dalla Spagna, dalla Corsica e dalla Sardegna; talvolta erano le opere a viaggiare, talvolta erano gli artisti a muoversi e in alcuni casi a stabilirsi definitivamente in nuove botteghe d’oltremare7. La seconda metà del XVII secolo rappresenta per l’isola un momento di rinnovato fervore edilizio, con la costruzione e l’aggiornamento di diverse strutture a carattere religioso, cui fanno capo architetti di diversa provenienza con le loro botteghe. L’ambito culturale sassarese sembra legato prevalentemente all’Italia centrosettentrionale e nello specifico all’ambito culturale della valle d’Intelvi, attraverso Genova, che si fa tramite della penetrazione e della migrazione di maestranze liguri e lombarde nel Logudoro e poi nel Nuorese, giunte probabilmente in seguito al calo demografico di tutta l’isola seguito alle ondate di pestilenza che certamente decimarono nel territorio anche le maestranze edili8. Si tratta di famiglie di costruttori e decoratori le quali, con botteghe strutturate a rigida conduzione familiare e fra loro imparentate, hanno apportato un notevole contributo alla produzione architettonica e decorativa nell’Europa centrale ed alla sua diffusione tra XVII e XVIII secolo, per essersi stabilite nelle più fervide corti e nei più moderni cantieri del tempo mutuando, con un reciproco apporto e scambio di stilemi e repertori figurativi, la tradizione lombarda con le più rinnovate tendenze del gusto barocco e rococò. Frange di queste grandi botteghe sono state attive anche nelle cosiddette periferie del barocco tanto da ritrovarle impegnate nella direzione di fabbriche e nella realizzazione di numerosi apparati decorativi in gran parte dell’Italia. Nel meridione dell’isola, oltre agli stretti e continui rapporti commerciali mantenuti con Genova, è tradizionalmente documentata la rete di scambi con Napoli e la Sicilia, che risulta invece di minore portata nel Capo di Sopra sia rispetto agli apporti culturali che all’insediamento di maestranze d’importazione. Non si trascuri però l’apporto dei lombardi nella produzione architettonica e decorativa settecentesca cagliaritana, non ultima la presenza del maestro Giovanni Battista Corbellini nel Cantiere del San Michele a Cagliari e forse in altri di pari prestigio, nonché probabilmente del Quallio9. Dal variegato panorama di nomi restituitici dall’analisi documentaria, che aiuta a definire però solo figure di artisti piuttosto che fare luce sull’anonimato collettivo delle maestranze, si evince che tra la fine del XVI e tutto il XVII secolo dovette avvenire un grande cambiamento in seno alla cultura architettonica e tecnico-costruttiva delle imprese edili in Sardegna. È lecito supporre infatti che parallelamente a questo concerto sinergico di apporti geograficamente e culturalmente diversificati si sia verificato un vero e proprio contrasto in seno alle maestranze esecutrici ed i capimastri, ovvero gli architetti responsabili di cantiere o gli appaltatori, prevalentemente non sardi e non sempre inseriti nella struttura corporativa artigiana locale. Dall’analisi della produzione scaturisce infatti che le maestranze di formazione tradizionale, pur tenendo vive alcune attitudini e moduli decorativi, nella maggior parte dei casi si sanno adattare ai nuovi modelli, ai nuovi materiali ed alle nuove tecniche costruttive ed ornamentali, risultato evidente di un rinnovamento dei quadri in seno a quelle stesse botteghe, come d’altronde si andrà a verificare nell’ambito della produzione attribuita agli ingegneri piemontesi10. (G. F.) La bottega dei Quallio I Quallio risultano attivi nel settentrione dell’isola a partire dalla seconda metà del ‘Seicento, ma è dal secolo successivo che può essere attestata con maggiore certezza documentaria l’attività di una vera e propria bottega. Il cognome Quallio appartiene alla famiglia di stuccatori e magistri, originari della valle d’Intelvi11. Come albaniless di Thiesi, un Giovanni Battista ed un Agostino Quigl sono impiegati in qualità di periti nella causa che Baldassarre Romero, altro albanil milanese, aveva intentato nel 1671 per la sopraelevazione del campanile della parrocchiale di Thiesi; di questi non si ha altra notizia di attività edilizia che pur dovettero aver svolto se nominati quali 20 periti. Joseph Quallio (o Coallo, o Gualliò) è documentato a Sassari quale mastre de muru u milanese tra 1695 e 1715, dove risulta iscritto alla Confraria de nostra Seniora de los Angeles. Risiede nella parrocchia di S. Donato, la cui costruzione si deve all’albanil Pedro Falqui; ha tre figli di cui uno maschio è battezzato nel 1704 dalla figlia e dal genero dello stesso Falqui, la femmina va in sposa a Giovanni Battista Arietti. Joseph ed il fratello Jayme acquistano la cittadinanza sassarese sposando le due figlie dell’albanill Joseph Mela, al tempo priore della Confraria de Nostra Seniora de los Angeles. Perciò è lecito supporre che dovettero avere una cospicua bottega con lavoranti sia locali che di altra provenienza. La attività di Joseph è documentata anche a Bolotana nell’anno 1700, riguardo all’ampliamento di un palazzo nobiliare e la costruzione di una chiesa, da eseguirsi sul modello della chiesa del Collegio gesuitico di Sassari. Dal 1702 Joseph è attivo a Fonni come architetto e capomastro nella chiesa e nel santuario sotterraneo della Madonna dei Martiri; al cantiere, ciascuno per le specifiche competenze, lavora con i lombardi Giovanni Battista Corbellini ed Ambrogio Nicola Mutoni. Nel 1706 il Quallio riceve l’incarico della decorazione in stucco delle volte delle cappelle del transetto della chiesa di sopra. Nel 1710, nello stesso cantiere, si unirà con il ruolo di decoratore anche il lombardo Giovanni Battista Arietti. Nel 1708 il capomastro di fabbrica milanese Giuseppe Gualliò stipula il primo contratto per la costruzione della chiesa della Santissima Vergine di Loreto a Mamoiada, poi rinnovato nel 170912; la chiesa sarà da edificarsi secondo il modello “del glorioso S. Antonio Abate dell’illustre e magnifica città di Cagliari”. Dal 1723 il cantiere è diretto da Giovanni Battista Arietti. A Cagliari il Quallio o la sua bottega lombarda è probabilmente presente durante i primi anni del ‘Settecento ed è possibile attribuirgli anche la progettazione e l’iniziale impianto costruttivo dello stesso S. Antonio abate nell’Ospedale a Lapola13. In un atto di acquisto stipulato a Sassari nel 1681, come albanil de dicha ciutad, è documentato anche Jayme Quallio, fratello di Joseph; compare come mastres de muru u attivo nella stessa città tra 1691 e 1715. Nell’aprile del 1715 i due fratelli Quallio, Joseph e Jaime risultano defunti. Dalle attestazioni documentarie è attivo a Sassari in quegli anni anche un certo Jaque Quallio. (G. F.) Giovanni Battista Arietti Di provenienza lombarda, come si evince dai documenti che riguardano la sua attività di albaniles14, Giovanni Battista Arietti (o Oreti, Riety, Retti, Arieti o forse Ariste) risulta attivo per la prima volta a Fonni nel 1710, nella basilica della Ver- gine dei Martiri insieme ai pittori Are ed ai lombardi Corbellini e Mutoni, sotto la direzione del capomastro Joseph Quallio. Nel cantiere l’Arietti è impiegato autonomamente alla specifica produzione in scagliola della balaustra e di nove paliotti d’altare. Se è veritiera l’interpretazione del numerario presente sullo zoccolo dell’altare maggiore, l’iscrizione delle iniziali G. B. R. S. indicherebbe Giovanni Battista Reti Scultore nel 1710, il che corrisponderebbe all’unica opera in stucco firmata tra le realizzazioni sarde del XVII secolo. Al sodalizio dei maestri lombardi è attribuito l’intero apparato decorativo in stucco della basilica e della cripta. L’Arietti, il cui cognome sembra appartenere a quella famiglia di stuccatori e magistri provenienti dalla valle d’Intelvi15, sposa in prime nozze Lucia Quallio, figlia di Joseph Quallio direttore nei lavori di Fonni, e sorella di Jayme Quallio, che sarà il suo esecutore testamentario. Nel 1723, per la cuenta de la conclusion de la Iglesia, compare nel registro di amministrazione della erigenda chiesa della SS. Vergine di Loreto a Mamoiada, subentrato al precedente contratto di Joseph Quallio, a quella data ormai defunto. Dal 1726 almeno al 1731 è ad Alghero per lavori edili di diverso genere, tra i quali la costruzione della sagrestia della cattedrale e dal 1727 in qualità di cabo mastro del Rey; nel 1731 è nuovamente documentato a Sassari. Nel 1739 risulta tra gli iscritti alla sassarese Confraria de nostra Seniora de los Angeles. Tra il 1731 ed il 1743 la sua attività è documentata anche ad Oristano, ai lavori di ristrutturazione della cattedrale, eseguiti in parte sul suo discusso progetto e forse in parte sul disegno dell’ingegnere militare piemontese De Vincenti16. Nel 1732 è incaricato di realizzare l’ala nuova del collegio gesuitico della villa di Ozieri, secondo suo preciso disegno; il contratto lo vincola a trabajarlo con la prompitud mas possibile, sin que pueda apartarse de dicha fabbrica por ningu motivo ni suspenderla hasta a tanto se ritire ala ciudad de Oristano. Sempre nel 1740 Giovanni Battista Ariste17, milanes y domiciliado en la ciudad de Sasser, r insieme al muratore Giovanni Pirino, firma un contratto per la conclusione della volta e della copertura della chiesa di S. Ignazio ad Oliena, il cui cantiere era stato iniziato dal genovese Domenico Spotorno. Anche in questo contratto sono menzionati gli impegni dell’Arietti che lo llamen a la ciudad de Oristano para la fabbrica che corre en ella, impegni che evidentemente destano la preoccupazione dei suoi committenti. Nel 1741 è documentato ancora a Sassari, dove risulterà già defunto nel 1744. Un anno prima aveva stipulato un contratto per la costruzione della parrocchiale di Plaghe, dunque è nel lasso di questi due anni che deve attribuirsi la sua morte. I lavori ad Oliena dovettero essere ultimati soltanto dal Pirino, che eredita an- che quelli per la parrocchiale di Ploaghe. Nell’inventario dei beni del suo testamento sono elencati anche gli strumenti da lavoro, che documentano in maniera certa la sua attività di stuccatore oltre che di costruttore: nove strumenti di ferro di differente qualità che servono per il lavoro di albanil de stoque18. Riguardo a questa sua attività, di sicura attribuzione ci sarebbero le opere a scagliola della basilica della Madonna dei Martiri a Fonni, ma non è esclusa la sua attività a Sassari per la esecuzione della decorazione delle cappelle della chiesa del Rosario19. Riguardo ad altre possibili attribuzioni di opere in stucco è stato rilevato con un certo interesse che la sua disposizione testamentaria chiede espressamente la sepoltura nella chiesa del Carmelo a Sassari, nella quale figurano due altari in stucco; c’è da domandarsi se la sua volontà dipendesse dall’aver lavorato anche in quella chiesa. La totale assonanza del repertorio ornamentale infatti, spinta fino alla individuazione dei medesimi stampi utilizzati dalla bottega anche per gli altari del Santuario dei Martiri a Fonni, assieme al ricorso della tecnica della scagliola marmorizzata per le colonne, fanno ritenere certa l’attribuzione. Indipendentemente dalle attestazioni documentarie l’Arietti risulta, in ambito sardo e nell’arco di tempo qui esaminato, l’unico maestro del quale sia esplicitamente menzionata l’attività di albanil de stoque. (G. F.) La diffusione della decorazione dipinta nella Sardegna centrale: spunti per una riflessione Già in fase di progettazione del restauro di Loreto la presenza del “capomastro” Giuseppe Quallio aveva portato a ipotizzare il contemporaneo intervento nella decorazione della bottega degli Are, che con lui opera nello stesso giro d’anni a Fonni; ma allo stesso tempo già ci si interrogava sulla possibile attribuzione ad altri artisti, poiché - si ricordava - nella stessa Mamoiada, nel santuario dei SS. Cosma e Damiano, si conserva parzialmente un altro ciclo decorativo, realizzato da altra mano e che appare precedente rispetto all’iniziale XVIII secolo di questo di Loreto. In realtà il discorso sulla presenza di famiglie o botteghe di “frescanti” (da intendere ovviamente in senso lato) nella Sardegna centrale va affrontato in maniera più ampia rispetto agli anni scorsi, poiché quasi ovunque stanno riemergendo cicli decorativi ricchi e diversificati, che non possono essere tutti indistintamente ricondotti a un’unica bottega. Già Maria Grazia Scano20 segnalava brevemente a suo tempo le tempere della Chiesa della Beata Vergine d’Itria di Orani, per fortuna precisamente datate (1678), ma allora visibili solo in piccola parte: i restauri attualmente in corso stanno restituendo una decorazione variegata e distesa su quasi tutte le pareti dell’edificio, cappelle comprese, di 21 1. Pietro Antonio e Gregorio Are, Dipinti murali del presbiterio (1738) e dell’aula (1754) della Chiesa della B.V. del Rosario di Orani. discreta qualità e sicuramente precedente quella degli Are, anche se a essi va notoriamente attribuito, a Orani, il successivo ciclo della Madonna del Rosario. Nell’abside di Itria è raffigurato, sulla parete sinistra, un Trionfo di Cristo, con la figura del Redentore circondata di santi; sulla parete opposta, in posizione inconsueta, è il Giudizio finale, purtroppo mutilato dall’inserimento di una finestra moderna: il sapore è ancora quello - gustoso ed efficacissimo - delle raffigurazioni medievali, con i diavoli cornuti, alati e dalla coda di serpente che artigliano le anime dei dannati mentre, dall’altro lato, bionde figure angeliche sottraggono i beati alle fiamme; da quest’opera sembrano derivare le notazioni paesistiche - le rocce fortemente stilizzate che compaiono nelle Storie di San Paolo eremita - che vedremo poi realizzate dagli Are al Rosario. Il pittore si sforza di conferire personalità e caratterizzazione fisionomica alle figure, anche se la perdita delle finiture a secco che garantivano definizione e profondità non consente oggi di apprezzarne pienamente gli sforzi. Alla stessa bottega che realizza la decorazione della B.V. d’Itria vanno a nostro parere ricondotti, nella stessa Orani, i frammentari dipinti dell’antica chiesa parrocchiale di Sant’Andrea (Camposantu ‘ezzu), e, a Mamoiada, il ciclo più antico del santuario campestre dei Santi Cosma e Damiano. Quest’ultimo orna la volta e le pareti dell’ambiente che si trova nella parte retrostante l’altare, moderno e sovradimensionato, che chiude la zona presbiteriale: di fatto cioè si sviluppava, in origine, nell’abside. La volta mostra una decorazione (realizzata specularmente sulle due porzioni lunghe della curvatura della botte) raffigurante putti che recano cesti di fiori e di frutti, ed erme, mentre le pareti, assai più danneggiate, conservano lacerti di diverse scene sacre: è riconoscibile quella del martirio, con la decapitazione dei santi. È la trasposizione in un linguaggio non 3. Mamoiada, Chiesa dei SS. Cosma e Damiano, Putti ed erme (decorazione della volta, 1678 ca.) 2 a-b-c. Orani, Chiesa della B.V. d’Itria, dipinti del presbiterio: (dall’alto) Santissima Trinità tra la Madonna, San Giovanni Battista e Santi; Giudizio Universale e Angelo del Purgatorio (part.). troppo sapiente di un modello senz’altro alto. Caratteristica di questo maestro e della sua bottega è l’estrema sobrietà nella scelta dei colori; l’uso è infatti quasi esclusivamente limitato a quattro soltanto: l’ocra (dominante), il bruno più o meno carico, il rosso e il verde; il risultato è quello di una quasi monocromia, rialzata qua e là - a sottolineare un dettaglio - dagli altri tre toni, con un effetto, comunque, di raffinata eleganza. Difficile identificare le labili figure di Apostolii apparse invece sulle pareti di Sant’Andrea, ma la prevalenza degli stessi toni più su indicati e la caratteristica cornice a rettangoli di colore bianco e ocra definiti da una spessa linea nera permettono con certezza di attribuirne l’esecuzione alle stesse maestranze che eseguono nel 1678 il ciclo decorativo d’Itria. E, al di fuori di questo contesto strettamente nuorese, si avanza l’ipotesi di assegnare almeno a parte delle stesse maestranze anche la bella decorazione del presbiterio della chiesa di San Quirico di Buddusò, che mostra lo stesso tipo di cornici – i rettangoli alternativamente gialli, neri e bianchi ma anche i più complessi girali fitomorfi di Itria – ma nel complesso una qualità assolutamente superiore: sulla parete sinistra è rappresentata la Trinità con la Madonna, San Giovanni Battista e Santi, su quella destra una scena parzialmente illeggibile con Cristo, San Giovanni Battista e San Michele Arcangelo, mentre sui pennacchi sono Angeli musicanti: l’opera ha eleganze che ricordano Francesco Pinna e la pittura campana dell’iniziale XVII secolo. Realizzata probabilmente da un maestro non locale potrebbe aver avuto funzione di modello e di scuola per l’avvio di una bottega che ha poi proseguito autonomamente il lavoro: della scena con la Trinità vi è forse un ricordo anche a Fonni, nel dipinto di analogo soggetto posto nella volta della Cappella dell’Immacolata. Queste le preesistenze da collocare entro il XVII secolo; ma, per tornare agli Are, è certo che il corpuss delle loro opere va ampliato, distinguendo quelle realizzate direttamente dai maestri da altre invece semplicemente da loro derivate: il primo caso si registra a Gavoi (per il solo Gregorio?), dove, nella chiesa della B.V. del Carmelo21, stanno emergendo lacerti di decorazione antica, da mettere in relazione con i dipinti del Sant’Antonio di Tonara (anche questi in via di recupero complessivo e certamente degli Are: coincidono perfettamente sia gli elementi principali, come il trattamento delle figure, che quelli secondari come le cornici e la tapisseria) e dell’antico coro di Fonni, dove gli spicchi della volta a crociera sono usati, come qui, per ospitare singole figure di Santi, rappresentati nello studio; altre opere, nella chiesa di Sant’Antioco, sono invece tutte da studiare dopo che il restauro avrà rimosso la totale ridipintura. Di sicura derivazione ma non di mano maestra sono i dipinti di Triei, dove è accertato l’utilizzo degli stessi cartoni nelle parti ornamentali (è lo schema decorativo che corre nei sottarchi, fatto di volute e racemi, talvolta abitati e talaltra no, come ben attestato a Tonara), ma non la stessa mano nella realizzazione delle 22 figure principali, dovute chiaramente a un mediocre collaboratore di bottega: i singoli personaggi, isolati sulla scena o inseriti in uno spicchio di crociera, ripetono, impoverendolo, lo schema appena ricordato. A questi stessi epigoni si devono forse anche le decorazioni della Chiesa campestre di San Cristoforo a Fonni e forse, di nuovo a Mamoiada, il devastato ciclo con gli Evangelistii che orna le vele dell’Oratorio di Santa Croce, oggi completamente ridipinto, ma, in linea di massima, dipendente o collegato a quello del Carmelo di Gavoi. Nella piccola chiesa rurale dei Santi Egidio e Anania a Orgosolo un’interessante serie di riquadri purtroppo in via di disgregazione, già quasi perduti, attesta anche per questo centro la diffusione della decorazione parietale, probabilmente a opera delle stesse maestranze: vicini al gusto degli Are - vedi Tonara - sono infatti i mascheroni che compaiono a scandire le scene; e anche a Sarule è presente una devastatissima serie di dipinti, ancora da restaurare e studiare. Per concludere, questo breve elenco ha il solo scopo di mostrare quanto sia diffuso e tuttora in parte da individuare il nostro patrimonio di dipinti murali, da non ricondurre indistintamente a quell’unica etichetta di cui al momento disponiamo, tra l’altro correndo il rischio di appiattire e disconoscere le possibili preesistenze e presenze diverse. E che esso non si limiti al solo Nuorese lo rivela il ciclo, completo e ben conservato, della Chiesa di Santa Susanna di Busachi (OR): raffigura, nella solita spartizione in riquadri divisi da inquadrature architettoniche e con lo stesso altare che troviamo a Tonara, i Dottori della Chiesa, l’Immacolata (nell’identica versione realizzata a Fonni e a Triei), alcuni Santi e Apostoli e Scene di martirio; datato 175322, è da ascrivere con certezza agli Are. (M. P. D.) 4 a-b. Orani, Chiesa di Sant’Andrea (Camposantu ‘ezzu), Apostolo Paolo e motivo decorativo delle cornici, 1678 ca. Note 1 Per l’organizzazione del lavoro edile nella Sardegna barocca si veda G. FRULIO, Maestri e botteghe in G. FRULIO, La produzione in stucco nelle architetture della Sardegna tra XVII e XVIII secolo, Tesi di Dottorato di Ricerca, Milano 2003, pp. 67-85 e M. SCHIRRU, Progettisti ed artigiani edili nella Sardegna moderna, in “Ricerche di storia dell’architettura della Sardegna”, Quaderni del Dipartimento di Architettura dell’Università di Cagliari, Cagliari 2007, pp. 131-148. 2 ASS, Atti notarili, tappa di Sassari città, copie, 1734, I, c.409; II, c.5: (…) noeve instrumentos de hierro de diferentes calidades que sirven para el trabajo de albanil de stoque; trascrizione di M PORCU GAIAS, La confraternita di Nostra Signora degli Angeli e l’attività edilizia a Sassari nel XVII e XVIII secolo, in A. MATTONE (a cura di), Corporazioni, gremi e artigianato tra Sardegna, Spagna ed Italia nel medioevo e nell’età moderna (XIV-XIX secolo), Cagliari 2000, p. 487. 3 A. BUDRUNI, Gremi ed Artigianato ad Alghero (XVI-XVIII secolo) in MATTONE 2000, pp. 404414. 4 Le notizie circa il Terzo registro della Confraria sono tratte da PORCU GAIAS 2000, pp. 479-481. 5 Rapporti di parentela legano anche altre famiglie protagoniste dei principali cantieri in Sardegna: a titolo di esempio si consideri che se nella prima metà del ‘Seicento a Genova la famiglia dei maestri lombardi Muttone è imparentata con quella dei Pellone; sia un Pellone che un Muttoni sono documentati anche nell’isola tra XVII e XVIII secolo, quest’ultimo particolarmente nel cantiere di Fonni. Le maestranze di origine lombarda arrivano infatti attraverso la Liguria, dove lavorano in botteghe familiari già da qualche generazione. 6 I genovesi residenti a Cagliari si riuniscono nella confraternita dei Santi Giorgio e Caterina. Si veda M. G. SCANO NAITZA, La pittura dei Seicento e del Settecento in Sardegna, in T. K. KIROVAA (a cura di), Arte e cultura del ‘600 e del ‘700 in Sardegna, Napoli 1984, p. 294, nota 27; ed i contributi relativi agli ambiti locali specifici in MATTONE 2000. 7 F. FRANCHINI GUELFI, Gli Altari dei marmorari Macetti da Rovio in Liguria ed in Sardegna, in G. C. SCIOLLA, V. TERRAROLI (a cura di), Artisti lombardi e centri di produzione italiani nel Settecento, Bergamo 1995, p. 170. 8 La Porcu Gaias ritiene che: “la presenza di architetti, capomastri e stuccatori di provenienza lombarda e di artigiani del legno di origine ligure o corsa, particolarmente dall’ultimo quarto del XVII secolo, può spiegarsi anche in rapporto alle due consecutive ondate di mortalità cui la città andò incontro a seguito dell’epidemia di peste del 1652 e della carestia del 1680-81, che determinarono certamente un forte decremento della manodopera specializzata, insufficiente a saturare la domanda di lavoro quando subentrò la fase della ripresa edilizia, incentivata anche dalle cospicue donazioni a chiese e conventi. Parallelamente in Lombardia si verificava in quegli stessi anni in fenomeno opposto di un eccesso di manodopera nel settore edile (…) e del conseguente calo nelle retribuzioni che può aver determinato una consistente migrazione in cerca di migliori opportunità di lavoro da parte di gruppi di artigiani edili, peraltro avvezzi a frequenti e lunghi spostamenti.” (M. PORCU GAIAS, Sassari, storia architettonica e urbanistica dalle origini al ‘600, Nuoro 1996, p. 241). La stessa tesi è condivisa da G. Cavallo, che aggiunge “per rivitalizzare il mercato nel 1657 fu richiesto al Vicerè di consentire il trasferimento nell’isola di maestranze straniere senza dover sostenere l’esame per l’iscrizione al gremio. Ciò facilitò l’arrivo di artigiani italiani, prevalentemente liguri, siciliani e campani, e in breve tempo questi si integrarono nella realtà locale riuscendo a raggiungere spesso ruoli di primo piano” (G. CAVALLO, Un artista lombardo in Sardegna Giulio Aprile, in “Studi Ogliastrini”, VII, 2002, p. 138). 9 Per la presenza del maestro lombardo Gio- vanni Battista Corbellini a Cagliari e le relative attestazioni documentarie e altre attribuzioni si vedano gli esiti della felice e puntuale ricerca del prof. Giorgio Cavallo sulle maestranze lombarde in Sardegna, pubblicati, fra gli altri, in G. CAVALLO, Maestranze intelvesi in Sardegna tra il XVII e il XVIII secolo, in “La valle Intelvi. Contributi per la conoscenza di ambiente, archeologia, architettura, arte, lettere e storia delle Valli e dei Laghi comacini”, 12, 2007, pp. 131-162. Per l’attribuzione dell’attività del Quallio a Cagliari si veda il precedente paragrafo a cura della scrivente. 10 L’idea del rinnovamento dei quadri in seno alle maestranze è formulata in S. NAITZA, Architettura dal tardo ‘600 al classicismo purista, Nuoro 1992, p. 25. 11 Dal puntale lavoro della Porcu Gaias e del Cavallo sono tratte le note biografiche o le attestazioni documentarie riguardanti il Quallio e la sua famiglia, salvo i lavori a Mamoiada o diversa specifica in nota (PORCU GAIAS 1996, p. 333; PORCU GAIAS 2000, pp. 496-497; CAVALLO 2007, pp. 134-137). Per le specifiche attribuzioni nel cantiere dei Fonni si veda L. PISTIS, Santuario o Basilica della beata vergine dei Martiri in Fonni. Guida, Cagliari 1862; L. PISTIS, Pitture sarde nel Convento di Fonni, “Bullettino Archeologico Sardo”, XIII, 1862, pp. 84-87, ed i documenti trascritti in CAVALLO 2007. Quaglio Gian Maria architetto e Quaglio Giulio pittore sono attivi tra ‘Sei e ‘Settecento in Valtellina e Valchiavenna (S. DELLA TORRE, T. MANNONI, V. PRACCHI (a cura di), Magistri d’Europa. Eventi, relazioni, strutture della migrazione di artisti e costruttori dei laghi lombardi, Como 1997, pp. 316, 350). Per i rapporti di collaborazione in valle d’Intelvi tra i Quallio e gli Arietti si veda anche E. ARSLAN, a cura di, Arte e Artisti dei Laghi Lombardi. Gli stuccatori dal barocco al rococò, II, Como 1964, p. 73. Una genealogia della famiglia Quallio, con evidenza per il ramo attivo in Boemia è in F. CAVAROCCHI, Artisti della valle d’Intelvi e della diocesi comense attivi in baviera alla luce delle carte d’archivio del Ducato di Milano, in “Arte Lombarda”, 2, 1965, p. 147. 12 ASNu, Atti notarili, Tappa di Oliena, Ville, Originali, Diversi, 1700-1801, trascritto in G. ZIROTTU, Mamoiada. Il racconto del tempo, Nuoro 2004, pp. 101-106. 5. Buddusò (SS), Chiesa di San Quirico, Trinità tra la Madonna, San Giovanni Battista e Santi. 23 8. Bottega degli Are, Miracoli di San Nicola di Mira: San Nicola salva Adeodato, Chiesa dei Santi Cosma e Damiano, Triei (NU). 6 a-b. Buddusò (SS), Chiesa di San Quirico, Motivi decorativi e Angelo musicante. 9. Bottega degli Are, Angelo musicante, Chiesa di San Cristoforo, Fonni (NU). 7. Gregorio Are, Angelo, Chiesa della B.V. del Carmelo, Gavoi (NU). 13 Per l’attribuzione al Quallio della costruzione della chiesa di S. Antonio abate a Cagliari si vedano le argomentazioni proposte in occasione del presente lavoro e sostenute nel precedente paragrafo a cura della scrivente. Giorgio Cavallo attribuisce le decorazioni in stucco del S. Antonio cagliaritano a Giovanni Battista Corbellini, capomastro e stuccatore lombardo attivo in quegli anni a Cagliari nella chiesa di S. Michele ed in altri cantieri, e già nella bottega del Quallio durante il cantiere della chiesa dei Martiri a Fonni (in CAVALLO 2007, p. 145). L’attribuzione della costruzione della chiesa di S. Antonio Abate a Cagliari alla bottega del Quallio, o ad una bottega lombarda a lui vicina per collaborazione ed estrazione culturale, è suffragata proprio dalla attestazione della presenza di Giovanni Battista Corbellini a Cagliari tra il 1710 e il 1711, in occasione del contratto stipulato per la realizzazione della volta della Sacrestia del San Michele (in CAVALLO 2007, p. 140). 14 Risulta milanese in un documento riguardante la stima di un immobile a Sassari e de nacion milanesa in una ricevuta rilasciata dalla sua seconda maglie. Dal puntale lavoro della Porcu Gasias e del Cavallo sono tratte le note biografiche o attestazioni documentarie riguardanti l’Arietti e la sua famiglia, salvo i lavori a Mamoiada o diversa specifica in nota (PORCU GAIAS 1996, pp. 331-332; PORCU GAIAS 2000, pp. 486, 487; CAVALLO 2007, pp. 149151). Per le specifiche attribuzioni nel cantiere dei Fonni si veda PISTIS, Santuario … 1862; PISTIS, Pitture sarde … 1862, pp. 84-87 ed i documenti trascritti in CAVALLO 2007. Il cognome Arietti o Retti appartiene ad una famiglia di stuccatori di Laino, nella valle d’Intelvi, attivi tra XVII e XVIII secolo in Italia ed in Germania. Un Leonardo Retti di Laino è a Roma durante la seconda metà del ‘Seicento e lavora nell’ambito della comunità romana di immigrati ticinesi (DELLA TORRE, MANNONI, PRACCHI 1997, p. 325). Giovanni Battista Retti, è stuccatore in Baviera alla fine del ‘600 ed in Austria ai primi del ‘700; Donato Riccardo ed Emanuele sono stuccatori in Germania occidentale nei primi del ‘700, Leopoldo è stuccatore e architetto in Baviera e con Lorenzo Mattia e Riccardo in Germania occidentale durante la prima metà del ‘700 (ARSLAN 1964, pp. 141, 142, 148, 230, 231, 233, 278, 336). 15 Gli Arietti o Retti si trovano impegnati in lavori con i Quallio, i Corbellini ed i Solari (tutti nomi presenti anche in Sardegna tra la fine del ‘Seicento e la metà del ‘Settecento) in vari cantieri d’Europa. Per citare un esempio di relazioni familiari tra maestranze i cui nomi sono attestati anche in Sardegna: un Donato Riccardo Retti di Laino risulta essere il nipote di un Giacomo Antonio Corbellini, col quale nel 1719 collabora alla realizzazione degli stucchi nella chiesa conventuale a Weingarten in Baviera (O. J. BLAZICEK, Giacomo Antonio Corbellini e la sua attività in Boemia, in “Arte Lombarda”, II, 1966, pp. 169-176). Una genealogia della famiglia Retti, con evidenza per il ramo attivo in Boemia, è in CAVAROCCHI 1965, p. 148. 16 M. CABRAS, Le opere del De Vincenti e dei primi ingegneri militari piemontesi in Sarde- 24 gna nel periodo 1720-1745, in AA. VV., Atti del XIII Congresso di Storia dell’Architettura, Roma 1966, pp. 303-304, nota 44; nel documento citato l’Arietti è detto cabo mastro del Rey en la ciudad de Alguer. 17 La dott. Marisa Porcu Gaias mi ha gentilmente suggerito l’ipotesi che Giovanni Battista Ariste possa essere una corruzione dello stesso Giovanni Battista Arietti, e che il Pirino abbia ereditato alcuni dei suoi cantieri. A supporto della ipotesi di identità tra l’Ariste e l’Arietti si considerino i risultati di una generica ricerca effettuata sulla attività delle maestranze nel XVI, XVII e XVIII secolo: risulta un solo Ariste Pierre attivo a Tolosa nel 1564 (K. G. SAUR, Allgemeines Koenstler-Lexicon, MoenchenLiepzig 1992, 5, p. 87). Non vi è altra traccia di attività di un Ariste in altro contesto geografico tale da poter dar credito all’omonimia dei due Giovanni Battista; si tratterebbe dunque di un coincidente errore di trascrizione. 18 ASSs, Atti notarili, Sassari città, copie, 1734, I, c.409; II, c.5 (…) noeve instrumentos de hierro de diferentes calidades que sirven para el trabajo de albanil de stoque. 19 Vista la specificità di decoratore a scagliola che distingue l’Arietti dagli altri lombardi nella decorazione a stucco del Santuario dei Martiri a Fonni, non è cosa improbabile attribuire a costui anche le rarissime decorazioni a scagliola eseguite nel settentrione dell’isola tra l’ultimo ventennio del ‘Seicento e gli inizi del ‘Settecento. Per rafforzare l’ipotesi di attribuzione degli stucchi e dei rivestimenti della chiesa del Rosario a Sassari consideriamo che l’impianto planimetrico e volumetrico dell’edifico “ritrovano una simile sintassi compositiva, pur in scala maggiore, nella navata del Duomo di Oristano, edificata tra 1731 e 1744 su disegno del milanese Giovanni Battista Arietti” (PORCU GAIAS 1996, p. 278, ed in CAVALLO 2007, p. 151); l’Arietti doveva dunque conoscere bene la chiesa del Rosario, forse perché ci aveva lavorato. La Porcu Gaias tuttavia attribuisce l’edificio ad un’altra bottega lombarda, quella dei Quallio. Per la tesi qui sostenuta e per le botteghe degli stuccatori lombardi attivi nell’isola si veda FRULIO 2003, pp. 85-93. 20 M. G. SCANO, Pittura e scultura del ‘600 e del ‘700, Nuoro 1991, p. 196, scheda 160. Il restauro della chiesa della B.V. d’Itria non è concluso, e perciò rimangono ancora sotto scialbo tutte le decorazioni presenti nella navata e nelle cappelle laterali. 21 Le tempere, nascoste finora dalla ridipintura novecentesca realizzata dal fiorentino Spirito Lari, attivissimo in zona, sono infatti in corso di recupero grazie a un progetto del Comune di Gavoi. 22 I due cartigli dipinti ai lati dell’altare maggiore riportano «Esta capela se ha pintado gastos de la gloriosa S. Susanna sendo R.or el muy R.do Pedro Antonio Sulis opidi de Seui y Obrero S. Geronimo Aquensa año 1753». Sulla presenza degli Are a Busachi si veda anche padre L. Pistis (L. PISTIS, Pitture sarde nel convento di Fonni, in “Bullettino Archeologico Sardo”, v. VIII, a. 1862, pp. 84-87), che a p. 86, nota 1, scrive: «Di questo autore [Gregorio]] si trovano due vaste tele nella chiesa parrocchiale di Busachi coll’indicazione del nome e della patria 1751, la prima delle quali è molto originale, rappresentando in diversi spartimenti il martirio dei dodici Apostoli.» Cronistoria delle recenti trasformazioni e degli interventi di restauro architettonico Gabriela Frulio Lavori di restauro interessarono la rotonda di Loreto fin dal suo completamento strutturale, riguardando particolarmente il rivestimento della cupola. Il problema dell’infiltrazione delle acque piovane sarà una costante delle cause di degradazione dell’edificio fino ad anni recenti. La commessa del 1772 al maestro Selis riguardò infatti la riparazione della parte esterna, dalle fondamenta fino alla croce con sostituzione del manto di copertura, come pure quella del 1793 al maestro Brizzi, che tra le altre opere, avrebbe dovuto restaurare la chiesa sia all’interno che all’esterno; nel 1783 si pagarono opere par el reparo de la boveda nei locali annessi. Nel XIX secolo, probabilmente a seguito del crollo di una porzione della calotta absidale che compromise parte della decorazione originaria, si procedette alla sostituzione dell’intero ciclo pittorico, pur senza certezza che si sia trattato di un crollo strutturale o del solo distacco di una porzione del rivestimento1. Una immagine del 1919 mostra l’esterno dell’edificio nella sua originaria compiutezza e da raffronti con una successive foto storiche possono ricavarsi dati sulle trasformazioni che interessarono la chiesa durante la prima metà del XX secolo. Al portale dell’edificio si accedeva attraverso tre ampi gradini in lastre monolitiche, poiché la originaria sistemazione dell’area esterna era differente rispetto alla successiva riorganizzazione con realizzazione del terrapieno e balaustrata di sostegno che portava la chiesa al livello dello spazio antistante e spostava i gradini del dislivello dal portale al margine con la strada, in corrispondenza della cancellata. Anche questa seconda sistemazione è oggi variata e documentata soltanto da una immagine d’epoca. In asse col portare vi era una apertura finestrata ad arco, con ghiera in laterizio, che nell’immagine del 1919 sembra faccia a vista con risparmio di intonaco, benché nel complesso tutto il rivestimento esterno appaia alquanto degradato. Il volume circolare era raccordato con la falda corrente in laterizio attraverso una esile cornice forse neppure modanata. Le finestre del tamburo appaiono ridotte in luce da un piccolo parapetto, poi riaperto nelle successive immagini. Un’altrettanto esile cornice raccordava il timpano con i coppi correnti dell’imposta della cupola, leggermente interrotta in corrispondenza dei sei oculi luciferi superiori. Le cornici appaiono nelle foto degli anni ‘Cinquanta alquanto variate, impreziosite per dimensione e modanature e realizzate a contrasto cromatico, a seguito dell’evidente riordino del manto di copertura. Con gli stessi lavori è realizzato il rosone in asse con l’ingresso, in sostituzione del- la finestra ad arco. Il rosone ha ghiera in trachite, in accordo con l’originaria ghiera del portale, ed una stella centrale ad otto punte, oggi con vetrata policroma. L’obliterazione della originaria monofora corrisponde internamente alla demolizione della cosiddetta trona e dell’organo, di cui sono stati rinvenuti lacerti lignei durante i recenti lavori di restauro. Non è dato sapere se la profonda lesione che attraversa a tutt’oggi la cupola dal lanternino sino al portale sia stata causata dall’apertura del rosone sottostante la finestra, che era stata semplicemente tamponata senza la ricostituzione della compagine muraria. In corrispondenza della lesione oggi risultano inserite due putrelle, tamponate con intonaco cementizio sul partito cromatico in azzurro; opere di rinforzo realizzate quindi, come vedremo di seguito, a decorazioni già rimosse e ad assetto monocromatico già realizzato. Nel 1937 furono eseguiti restauri all’interno dell’edificio, come annotato nel Registro di amministrazione della chiesa2, che però non fornisce informazioni di dettaglio sulle effettive opere realizzate. I lavori furono compiuti da una ditta non sarda, come ricordano in paese3 e interessarono gli interni: “riparazione cupola e setti al completo – spese 2.946,25 Lire”. Si trattò certamente di un restauro che non compromise il ciclo pittorico cosiccome pervenuto, considerato che soltanto negli anni ‘Cinquanta avvenne la rimozione dell’originario apparato decorativo interno, eccetto che per quello dell’abside già più volte interessato da ridipinture. Una scritta in ematite “circolo giovanile li Mamoiada 30-12-1932 – 5-1-1933”4, sull’ultimo strato di tinteggiatura in azzurro, documenta che a quella data le decorazioni settecentesche delle paraste del presbiterio erano già obliterate dal nuovo ciclo pittorico sui toni dell’azzurro, colore poi ripreso nella cupola e nelle scarselle. Durante gli anni ‘Cinquanta l’allora parroco decise di operare un restyling g dell’ambiente interno rimuovendo, secondo i ricordi del paese, la quasi totalità degli intonaci e demolendo i simulacri in stucco posizionati sopra le lesene, poiché i fedeli si distraevano nel guardare le decorazioni circostanti piuttosto che prestare attenzione alle funzioni. I simulacri furono gettati al macero e, eccetto le decorazioni del presbiterio, gli intonaci decorati furono totalmente obliterati o forse addirittura rimossi fino al nudo delle murature e sostituiti con intonaco cementizio (cosiccome allo stato attuale). Non vi sono purtroppo né fotografie né documenti che attestino lo stato dell’interno dell’edificio prima e durante questi lavori che certo, ispirati da un supremo rigore, hanno irreparabilmente depaupera25 to la comunità della propria espressione storica e artistica di religiosità. Lo stato dell’edificio antecedente agli anni ‘Cinquanta è conservato soltanto nella memoria degli anziani del paese, che ricordano gli intonaci decorati a girali fogliacei e racemi sulle cappelle e sul tamburo, nonché decorazioni sulla cupola5. Tuttavia i recenti lavori di restauro sul ciclo pittorico del presbiterio, risparmiato dalle rimozioni, hanno riportato alla luce una situazione stratigrafica degli intonaci apparentemente più complessa. Sotto lo strato di cemento delle lesene in corrispondenza dell’abside è risultato un ulteriore strato a gesso, con finitura sui toni del giallo ocra simulante il marmorino, soprastante l’intonaco a calce settecentesco decorato a racemi. Medesima finitura a gesso e marmorino, sovrapposto allo strato settecentesco, è stata rinvenuta per un breve tratto nel muro d’ambito che rincalza la volta del catino absidale. Una simile finitura con effetto cromatico a marmorino si riscontra negli stipiti dell’apertura che collega l’abside col vano minore della sagrestia, come pure nell’intradosso della monofora recentemente riaperta. I lavori di restauro hanno inoltre messo in evidenza che nei punti investigati (muro d’ambito di risvolto del semicatino absidale e lesene del presbiterio), sotto lo strato di cemento, l’intonaco settecentesco a calce e quello successivo a gesso e marmorino furono tagliati simultaneamente. La coincidente soluzione di continuità dei due strati pone dei dubbi sulla reale dimensione delle demolizioni che sarebbero state operate negli anni ‘Cinquanta. Posto infatti che l’attuale intonaco cementizio che ricopre il cilindro di base, tranne le scarselle, sia stato eseguito negli anni ‘Cinquanta a seguito della rimozione dei paramenti sottostanti, si potrebbe ritenere che tali rimozioni abbiano sì interessato l’originaria decorazione settecentesca, cosiccome descritta nei ricordi, ma che la stessa, in diverse porzioni della chiesa o forse nelle sole partiture architettoniche del cilindro, fosse già stata in parte ricoperta con lo strato a gesso e marmorino. Rilevato tuttavia che l’intonaco cementizio appartiene ad un successivo intervento r di manutenzione, verosimilmente eseguito durante gli anni ‘Ottanta in occasione dei restauri all’esterno della chiesa, appare più chiara la sequenza stratigrafica per la quale, almeno nel cilindro di base, le decorazioni settecentesche sarebbero state rasate a gesso con la finitura a marmorino giallo durante gli anni ‘Cinquanta e poi successivamente, entrambi gli strati, sarebbero stati rimossi fino al nudo delle murature durante un incontrollato intervento di ristrutturazione, che ha ulteriormente infierito sulla conservazione dei paramenti originali dell’edificio. Nelle scarselle infatti, che sarebbero state anch’esse depauperate delle decorazioni durante gli anni ‘Cinquanta, non è presente lo strato cementizio, ma soltanto una stratigrafia sui toni dell’azzurro su una base in bianco perla stesa su un mediocre intonaco di malta di calce e fango. In seguito l’interno dell’edificio, comprese le scarselle, fu rivestito con alte lastre di marmo, allo scopo di isolarlo dall’umidità, poi rimosse ed utilizzate per realizzare il pavimento rialzato del presbiterio. Tra gli anni 1987-‘88 sono realizzati ulteriori lavori, questa volta soprattutto in esterno per ovviare al gravoso stato di degrado della cupola per le continue infiltrazioni d’acqua cagionate dal manto di coppi e ardesia ormai in dissesto6. Dalla disamina del progetto, realizzato solo in parte, emerge che le opere riguardavano: la ricostruzione della lanterna, deteriorata e fatiscente, attraverso la ricostruzione del cupolino ed il rifacimento degli intonaci nonché il riposizionamento della croce in ferro battuto ormai divelta da tempo; la demolizione e ricostruzione del manto della cupola, quasi completamente deteriorato ed a tratti scomparso, che aveva causato notevoli infiltrazioni e fenomeni diffusi di umidità con conseguente indebolimento della struttura e disfacimento degli intonaci. Il manto di tegole d’ardesia (“squame in lastre di ardesia delle dimensioni 35x25 cm fissate sul letto di malta bastarda”) è così demolito e sostituito con analoghi elementi fissati con malta ed ancorati con ganci in acciaio zincato. Sul massetto è realizzato un “sanduich” costituito da due strati di malta di dimensioni rispettivamente 3,00 cm esterno, 4,00 cm interno di posa, con interposta guaina plastobituminosa dello spessore di 0,4 cm e armato con maglia di filo di ferro. Le tavole esplicitano che si tratta di calcestruzzo lisciato. Ugualmente, a causa delle infiltrazioni sulle murature interne, sono sostituiti i manti di tegole in laterizio nei tetti correnti all’apice del tamburo e della rotonda (con realizzazione del “sanduich” in quest’ultima parte) ed isolati con guaina, nonché ricostruito l’intonaco della modanatura superiore di imposta della cupola. L’intonaco esterno sia del cilindro che del tamburo, ormai in fase avanzata di disfacimento, viene interamente rimosso (del preesistente rimane soltanto la porzione all’interno del vano del campanile) sostituito con uno spessore stimato di 8,00 cm. In occasione del rifacimento degli intonaci esterni viene anche rimossa la lapide ai caduti in guerra, “in quanto elemento improprio che male si adatta alla particolare architettura dell’oratorio”. Il progetto prevedeva anche la “demolizione e la chiusura del rosone d’ingresso”7, non eseguita. Durante i lavori si varia anche la soluzione apicale del campaniletto a vela perché ritenuto pericolante, oggi con doppio fornice e tetto a falda, prima con tetto ad unica falda per favorire il deflusso delle acque verso l’oratorio8. La soluzione, che privilegia il tema vernacolare della faccia- ta piana, non si rivela però ottimale visti i problemi di infiltrazione che tuttora persistono all’interno della sagrestia. Della stessa sagrestia, già oratorio, si prevede la sostituzione del manto di copertura in coppi previa realizzazione del “sanduich come indicato per i solai precedenti”, nonché si sostituisce l’intonaco esterno9. Il progetto prevedeva anche il restauro delle pitture murali, da stimarsi in corso d’opera10, lo “scrostamento e ricostruzione intonaco dell’imbotte della cupola” e “delle lesene e pareti laterali”11, la demolizione e ricostruzione del pavimento12, nonché la sistemazione del cortile esterno con la ristrutturazione della balaustrata ed il riposizionamento delle sfere marmoree sui piastrini, allora custodite in sagrestia; la pavimentazione era prevista con lastre di porfido di colore grigio. Per mancanza di fondi, del progetto fu realizzato soltanto lo stralcio relativo alle opere in esterno, che risultavano più urgenti; con successivi interventi di manutenzione sono stati realizzati gli intonaci cementizi interni e le vetrate policrome. Anche la pavimentazione esterna viene realizzata in seguito, in basolato di granito arricchita da un decoro in asse con l’ingresso riproducente la stella ad otto punte inserita nel rosone del portale. La balaustrata e la cancellata in ferro battuto vengono demolite e lo spazio privato antistante la rotonda diviene una piazza rialzata aperta. Con questi lavori è realizzata anche la nuova fontana in granito, addossata al complesso ed inserita nel rivestimento in lastre di granito che corre lungo tutto il corpo della rotonda e della sagrestia, cagionando oggi una consistente umidità di risalita. IIl restauro della Sagrestia Con finanziamento nella programmazione ordinaria del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, nel 2006-2007 la Soprintendenza per i BAP e PSAE per le province di Sassari e Nuoro procede al restauro delle strutture e decorazioni della sagrestia e del vano annesso, le cui condizioni di degrado e obsolescenza rendevano inderogabili le opere di risanamento13. Per quanto dato di rilevare dalle ampie lacune del fatiscente rivestimento interno, le strutture apparivano costruite in muratura mista di pietrame di estrazione locale, prevalentemente granitico, e laterizi, legata con malta di calce, con qualche rappezzo eseguito con malta di calce e fango. La volta a padiglione unghiata della sagrestia risultava interamente realizzata in mattoni disposti a coltello e legati con malta di calce. La volta, rispetto allo stato di fatiscenza generalizzato dell’invaso, non mostrava però gravi problemi strutturali tali da ritenere che il sistema statico avesse esaurito i limiti di affidabilità prestazionale. La pavimentazione era in parte in pianelle di cotto, in estremo stato di degrado e fortemente lacunosa, con ampi rappezzi di cemento. Rilevante risultava la presenza di umidità nella parte inferiore delle murature, che lasciava pensare ad un problema di umi26 Chiesa di Loreto: immagine del 1919 Chiesa di Loreto: immagine della metà del ‘Novecento dità in base non risolto. Durante lavori attribuibili agli anni ‘Ottanta, forse quando si rifecero gli intonaci esterni, si eseguirono delle perforazioni lungo le pareti a nord e a sud per procedere ad un isolamento all’umidità tramite barriera chimica. Si consideri che le temperature invernali di Mamoiada raggiungono spesso il limite di ghiacciazione, esercitando tensionamenti per gelo all’interno delle murature per ripetute volte l’anno. Questa circostanza, unita alla presenza di efflorescenze saline veicolate dall’umidità ed alla presenza di una fodera esterna di intonaco cementizio, concorrevano all’aggravarsi dello stato di degradazione delle murature. Qualche lesione di carattere strutturale attraversava la volta con gli stucchi, che risultavano in parte staccati o decoesi; inoltre recenti ridipinture a calce avevano obliterato le tinteggiature a risalto cromatico. Un generale dissesto interessava la fascia decorata del cornicione in corrispondenza delle reni delle volte, talvolta con quadri fessurativi localizzati che si estendevano fino alla muratura sottostan- te. L’apparato decorativo in stucchi a bassorilievo della volta appariva obliterato da ridipinture e mani di colore a calce o gesso; gli eleganti racemi del cornicione che si interpone alla volta erano stati più volte rimaneggiati da successive manutenzioni con gesso ed integrazioni cromatiche, fino alla ultima ridipintura omogenea in azzurro, che aveva nascosto la originaria cromia in foglie bianche su fondo rosso14. Il progetto è stato diviso in due stralci relativi ai lavori architettonici ed alle opere sulle superfici decorate e beni mobili. Le opere che si rendevano necessarie riguardavano innanzitutto il risanamento murario dall’umidità di risalita ed il consolidamento delle murature portanti la volta, nonché alcuni interventi localizzati di chiusura di lesioni, ormai ferme ed assestate, nella volta del vano principale. Le altre opere riguardavano la pavimentazione, gli infissi e l’impianto di illuminazione da realizzare ex novo. Nel complesso l’intervento di ripristino dei materiali è stato teso sostanzialmente alla chiusura e ricucitura delle lacune esistenti, operazioni senza le quali si riteneva pregiudicata la conservazione del complesso. Partendo da questo assunto tutte le nuove realizzazioni, comprese quelle operate nell’intervento di restauro delle superfici decorate, sono state realizzate con colori neutri ed in sottosquadro, fungendo da mero sottofondo materiale/ cromatico a quello che è stato individuato come testo storico autentico cosiccome pervenuto ed a tutt’oggi permanente. Si riporta di seguito uno stralcio dalla relazione tecnica del progetto architettonico. “L’intervento di risanamento dall’umidità di risalita procederà con la necessaria messa a vista della muratura, rimuovendo gli intonaci ormai distaccati del vano principale e parte degli intonaci, solo quelli distaccati, del vano annesso. Contestualmente si procederà a consolidare la muratura sia con iniezioni a base di calce, per rinforzare la compagine muraria ormai incoerente, sia con stilature e stuccature da praticarsi nell’interfaccia superficiale onde sigillare la muratura e preparare il supporto per l’ intonaco di risarcimento. Le iniezioni nel nucleo centrale della muratura fino ad una profondità 50% dello spessore murario saranno eseguite a pressione controllata o colature per riempimento dei vacui fino al rifiuto totale con boiacca di calce eminentemente idraulica. Le stilature e stuccature saranno anch’esse eseguite in conformità e coerenza con i materiali esistenti. Saranno eseguite rincocciature di paramento in pietrame e/o pezzame misto di varia natura e dimensione, compresi elementi in laterizio, consistenti nel riempimento degli interstizi tra le pietre con scaglie di materiale lapideo della stessa natura, assestati a forza per il ripristino della continuità della muratura; l’intervento sarà finito con stuccature in malta di calce. In corrispondenza di lesioni di rilevante entità sarà effettuata una ricucitura della compagine muraria effettuata con la tecnica dello scucicuci, una volta verificato l’assestamento delle stesse, che sembra a tutt’oggi già avvenuto. Nella volta si procederà ad una chiusura delle lesioni esistenti, con riempimento di malta di calce e stuccatura per le minori, ed eventualmente con tecnica dello scuci-cuci (anche laddove in mattoni) per i casi fessurativi più significativi. (...) Nel caso in cui i lavori di restauro dell’apparato decorativo della volta dovessero restituire una decorazione pittorica in luogo delle fessure più consistenti, onde privilegiare la conservazione delle poche tracce residue dell’apparato decorativo barocco, e constatato che il quadro fessurativo può definirsi in larga massima assestato, le stesse fessurazioni saranno richiuse con iniezioni di malta di calce e stuccature. L’intonaco, traspirante ad alta porosità in malta di calce spenta, sarà realizzato secondo le tecniche tradizionali, con finitura a calce di colore bianco, una volta predisposte le campionature per gli aggregati a scelta dalla D. L.. Tale intonaco di ripristino, compreso per entrambe i vani, sia in luogo delle porzioni distaccate ed obsolescenti dell’intonaco attualmente residuo, sia in luogo delle più ampie parti lacunose, sarà eseguito in sottosquadro rispetto all’esistente onde facilitare la lettura complessiva del palinsesto. Saranno conservati i lacerti di intonaco di cui si può ancora garantire l’aderenza. L’intervento sulla pavimentazione, oggi fortemente alterata da rimozioni e sovrapposizioni di materiali diversi, oltre che in stato di degrado per la cospicua presenza di umidità, prevede la rimozione del massetto di cemento presente che funge da pavimentazione per gran parte della sala principale. Sulla superficie pavimentale sarà realizzato un massetto di conglomerato a base di calce idraulica legata con aggregato di varia granulometria e colore simile ai lacerti residui, individuato a scelta dalla D.L.”. Durante i lavori le porzioni di pavimentazione in cotto recuperabili risultarono esigue e, eccetto che per una porzione tra i due vani, è stato realizzato un unico manto di seminato cosiccome descritto; nel vano della sagrestia sono state infine inseriti a tappeto alcune mattonelle maiolicate rinvenute durante i lavori. “A corollario dell’intervento è stato previsto il monitoraggio delle lesioni interne alla cupola della rotonda della chiesa, da effettuarsi al fine di programmare un successivo lavoro di consolidamento della rotonda. La più importante delle lesioni, che attraversa l’edificio dall’imposta del lanternino fino al portale, attraverso le due finestre ed il rosone, sarà monitorata con apposizione di tradizionali vetrini posti nelle soluzioni di continuità della muratura, in corrispondenza della volta della scarsella”. A tutt’oggi i vetrini sono ancora integri e la lesione può pertanto dirsi assestata. Durante i lavori, al fine di programmare un successivo intervento sulle finiture della chiesa, sono stati eseguiti saggi sulle tinteggiature dell’abside che hanno restituito interessanti stratigrafie di decorazioni policrome, di età barocca. È stato inoltre eseguito un rilievo strumentale con laserscanner dell’intero complesso, propedeutico alla redazione di un futuro progetto di restauro complessivo della chiesa. IIl risanamento delle scarselle e dell’abside della Rotonda Con fondi residui nella programmazione ordinaria del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, nel 2010-2011 la Soprintendenza per i BAPSAE per le province di Sassari e Nuoro procede al restauro dell’apparato decorativo dell’abside, nonché al risanamento delle scarselle che maggiormente mostravano problemi di degradazione per infiltrazioni ed umidità15. Il progetto è stato diviso in due stralci relativi ai lavori architettonici ed alle opere sulle superfici decorate e beni immobili. A seguito di costanti sopralluoghi svolti per verificare l’efficacia dell’intervento 27 Chiesa di Loreto: cartolina del 1971 precedente, è risultato che nella sagrestia insisteva una infiltrazione localizzata dal tetto, nella finestra unghiata in corrispondenza dello scarico della copertura del campaniletto a vela. Inoltre, i vetrini apposti lungo la lesione in corrispondenza dell’ingresso della chiesa (posti nel 2006) erano (e sono ancora) in opera senza rotture e pertanto c’era da ritenere che la lesione fosse assestata e ferma. Con l’esiguo finanziamento destinato ai lavori nella chiesa è stato svolto un intervento di restauro conservativo delle superfici decorate dell’abside, finalizzato a riportare in luce le decorazioni policrome settecentesche ed eseguito il risanamento conservativo degli intonaci delle rimanenti cinque scarselle. Contestualmente al risanamento, che ha comportato necessarie sostituzioni, sono state ricucite le aree interessate dalle lesioni che attraversavano parte delle scarselle. Il vano della chiesa versava, e per certi aspetti versa tutto’ora, in condizioni di trascurata obsolescenza per problemi di umidità e degrado strutturale, nonostante l’opera di benefica cura profusa da alcuni devoti abitanti del vicinato. Sia lesioni che infiltrazioni sono state in parte limitate dall’intervento realizzato alla fine degli anni ‘Ottanta sulla copertura della cupola e delle scarselle, ma internamente i fenomeni di degradazione delle malte e le soluzioni di continuità nelle murature non sono stati mai risolti da un complessivo intervento. Il finanziamento della Soprintendenza, vista l’esiguità dell’importo a disposizione, è stato impiegato per risolvere alcune di queste problematiche nella fascia del solo cilindro interno di base. Si riporta di seguito uno stralcio del programma degli interventi delle opere architettoniche: “- 5 scarselle radiali: parziale eliminazione dello strato pittorico superficiale azzurro ritenuto incongruo con la materica storica della fabbrica; sostituzione parziale dell’intonaco ammalorato previa saggiatura con nuovo intonaco privo di sali e a base di malta di calce idraulica specifico per ambienti umidi; stesura di intonachino a base di calce colorato in pasta su tutte le superfici, sia sull’intonaco rimasto in opera che su quello di sostituzione; ripresa di muratura con scuci-cuci da eseguirsi con tratti murari in mattoni pieni, in corrispondenza delle lesioni; - sagrestia: sostituzione parziale e risanamento dell’intonaco ammalorato in corrispondenza della lunetta finitima al vano del campanile, previa saggiatura e pulitura, con nuovo intonaco privo di sali e a base di malta di calce idraulica specifico per ambienti umidi; - copertura sagrestia: nuova impermeabilizzazione nell’attacco del tetto con il campanile a vela e revisione generale del manto di tegole”. Durante i lavori di scuci-cuci nella scarsella dell’ingresso, in corrispondenza del rosone, è emersa la sagoma semplicemente tamponata dell’originaria monofora, nonché tracce di elementi lignei probabilmente afferenti alla struttura della cosiddetta trona ed organo, ed una putrella posta in posizione inclinata probabilmente per ricucire la profonda lesione che attraversa il setto dall’imposta del lanternino fino al portale. Considerato che della monofora rimaneva ancora la finitura ad intonaco tinteggiato si è optato per il mantenimento a vista, così da facilitare la lettura del palinsesto. Anche la putrella è stata lasciata in loco, viste le difficoltà oggettive di una sua rimozione; sotto di essa è stato realizzato un doppio arco di scarico in mattoni che possa collaborare a scaricarne il peso. Il colore scelto per l’intonachino delle scarselle è stato il bianco perla, realizzato ad hocc seguendo la colorazione dell’ultima stratigrafia di tinteggiatura sotto le ridipinture in azzurro; medesimo colore è inoltre emerso come fondale delle decorazioni policrome del semicilindro absidale. Note 1 I lavori di restauro pittorico eseguiti nell’area del presbiterio nel 2011 hanno messo in evidenza la ricostruzione di parte del rivestimento ad intonaco della calotta absidale. A seguito dei lavori di rimozione della decorazione a tempera sono emerse le originarie decorazioni settecentesche tuttavia lacunose per alcuni punti, che sono risultati di ricostruzione dell’intonaco (oggi identificati dal colore omogeneo delle lacune). Non sono però stati eseguiti saggi in muratura per verificare se il crollo abbia interessato soltanto lo strato di rivestimento o anche la compagine muraria. 2 Il Registro, relativo alla prima metà del XX secolo, è conservato presso l’Archivio storico della curia di Nuoro. La spesa di 2.946,25 Lire per “riparazione cupola e setti al completo” è annotata in data 24/06/1937. 3 Secondo testimonianze, una decina d’anni fa, un turista chiese di poter visitare l’interno della chiesa e riferì della sua profonda delusione nel non riconoscerne più il variopinto partito decorativo. Lo stesso raccontò di avere da piccolo dormito in sagrestia con gli operai mentre il padre era impiegato nei restauri alla chiesa. 4 La scritta è stata rinvenuta durante i recenti lavori sul ciclo pittorico del presbiterio ed è stata rimossa per consentire il restauro delle decorazioni sottostanti. 5 Per lo stato della chiesa prima delle rimozioni operate negli anni ‘Cinquanta si veda il precedente paragrafo a cura della scrivente. 6 Gli interventi sono realizzati a cura del Comune di Mamoiada con finanziamento regionale, progettisti ed esecutori dei lavori sono gli ingg. P. Mureddu e G. Rombi e l’arch. T. Porcu. Il progetto, per un importo al netto dei lavori di 324.500.00 Lire, riceve l’approvazione della Soprintendenza in data 12/12/1986. Con il Mamoiada, piazza San Giuseppe: immagine della metà del ‘Novecento finanziamento regionale però si copre la cifra di 80.000.000 e si opta per l’esecuzione delle sole opere sulla copertura. Un successivo stralcio del progetto è inviato dal Comune al Ministero con la richiesta di inserimento nella programmazione ordinaria della Soprintendenza. L’allora Soprintendente arch. M. Dander risponde il 30/09/1987 diniegando la richiesta e adducendo, tra l’altro, che “non ritiene il progetto meritevole di approvazione, in quanto non redatto in maniera corretta, e carente (...)”. 7 Nella Relazione si legge: “È altresì necessaria la demolizione e la chiusura del rosone di ingresso. È stato costruito qualche decennio fa con alcune somme messe a disposizione di una famiglia mamoiadina. Infatti la architettura originaria, come hanno confermato gli amministratori anziani, non comprendeva questo elemento architettonico. Si presume che la lesione verticale che parte dal cupolino e attraversa il rosone fino all’apertura d’ingresso, in quanto risulta particolarmente accentuata in corrispondenza, sia stata o indotta o quantomeno amplificata in spessore dall’indebolimento delle murature causate dall’apertura del rosone”. 8 Nella Relazione: “è da demolire e ricostruire, altresì la copertura della torre campanaria, sia perché pericolante, sia per ridimensionarla in modo da garantire una protezione adeguata contro le infiltrazioni d’acqua delle murature, e contro le infiltrazioni verso la sacrestia attraverso la scala di accesso”. 9 La relazione si cura di indicare “è necessario ricostruire l’intonaco intervenendo con cautela al fine, ove possibile, consentire il recupero dell’intonaco e degli ornamenti esistenti”, il che lascia supporre che le ghiere modanate delle finestre fossero già esistenti. 10 Nella Relazione: “è necessario intervenire con lavori di pulitura, riparazione dell’altare al fine di ristabilire condizioni decorose di agibilità. In particolare è indispensabile un intervento mirato verso gli affreschi che caratterizzano le pareti e la volta dell’altare. Al riguardo, dì concerto con gli esperti della Soprintendenza, è necessario intervenire con cautela e perizia in quanto si è potuto constatare la presenza di croste pittoriche stratificate”. 11 Nella Relazione: “è necessario rimuovere le parti di intonaco fatiscente. In particolare fino ad 1,80 m dal pavimento, a causa delle infiltrazioni d’acqua discendenti e ascendenti si è avuto un accumulo di umidità che ha prodotto la disgregazione dell’intonaco che aveva uno spessore di 10 cm circa”. 12 Nella Relazione: “in tempi successivi il pavimento è stato demolito in parte e ricostruito. Ciò che è possibile osservare oggi è un pavimento costituito da innumerevoli tipi di marmette, lastre di marmo, mermettoni. La compo- 28 sizione è tale da produrre effetti che deturpano l’architettura nel suo complesso. Pertanto si ritiene opportuno demolire completamente il pavimento ricostruendolo utilizzando lastre di marmo di dimensioni e colore tali da esaltare al massimo l’effetto complessivo”. 13 Il progetto di massima richiedeva un finanziamento di 200.000 Euro a gravare sui fondi della programmazione ordinaria del Mibac e suddiviso in due lotti d’intervento rispettivamente di 120.000 e 80.000 Euro. Il progetto, poi computato su un finanziamento di 75.000 Euro (Perizia n. 1025 del 25/07/2005, E. F. 2005), è redatto dai funzionari tecnici della Soprintendenza per i BAP e il PSAE per le province di Sassari e Nuoro: arch. G. Frulio per la parte architettonica, geom. G. Doro per la parte tecnica, dott. L. Donati per la parte storico-artistica e la restauratrice M. F. Mureddu per la parte tecnica sulle superfici decorate ed i beni mobili. Ditte esecutrici: Impresa Solinas CP srl di Sassari per le opere nella categoria OG2 e Impresa Sara Notarlo di Porto Torres per le opere nella categoria OS2. 14 L’apparato decorativo con stucchi è localizzato sulla volta, in particolare tra le lunette ed il cornicione di raccordo. Si tratta di una piccola teoria di angeli e cherubini che si alternano a piccole decorazioni floreali e geometriche. L’alto cornicione è ornato con eleganti racemi di stucco tinteggiati di rosso su fondo bianco, ma alla data del restauro obliterati da manutenzioni a gesso e da una omogenea ridipintura in azzurro. L’interno era intonacato con scialbatura a calce superficiale e a tratti a gesso, che copriva anche gli stucchi. Questi ultimi, di fattura grossolana, risultavano modellati a mano, almeno le figure dei putti e dei cherubini; a stampo e finitura a mano erano realizzate le rimanenti decorazioni. Gli stucchi sono realizzati con malta di calce senza l’ausilio di gesso, secondo la tecnica ed i materiali utilizzati anche a Fonni ed in altre aree della Sardegna. Alla data del progetto risultavano molto rimaneggiati da successive integrazioni cromatiche. 15 La Perizia n. 41 del 30/07/2010 per un importo di 70.846,62 Euro (a gravare sui residui passivi E.F. 1994-2005 e relativa Rimodulazione economie D. M. 10/03/2008), è redatta dai funzionari tecnici della Soprintendenza per i BAPSAE per le province di Sassari e Nuoro: arch. G. Frulio per la parte architettonica, geom. G. Doro per la parte tecnica, dott. M. P. Dettori per la parte storico-artistica e la restauratrice M. F. Mureddu per la parte tecnica sulle superfici decorate ed i beni mobili. Ditte esecutrici: Impresa Solinas CP srl di Sassari per le opere nella categoria OG2 e Impresa Sara Notarbo di Porto Torres per le opere nella categoria OS2. La campagna di rilievo scanner-laser Francesco Tioli Premessa La mole e la particolare conformazione geometrica del complesso di Santa Maria di Loreto hanno suggerito un progetto di rilievo basato sull’utilizzo estensivo di metodologie e di strumentazioni avanzate. Nello specifico sono state effettuate riprese con scannerlaser ricomposte, in fase di elaborazione dei dati raccolti, sulla base di un rilievo topografico. Tale procedura, ampiamente testata, permette di ottenere un modello tridimensionale completo dell’oggetto garantendo l’accuratezza necessaria per la documentazione dello stato attuale del manufatto. Il rilievo con scanner-laser Il rilievo è stato condotto con un sistema laser tridimensionale, basato su tecnologia detta “a tempo di volo”, uno scanner laser Leica HDS 3000 capace di misurare circa 1200 punti al secondo. Il modello utilizzato permette di rilevare punti secondo inquadrature, variabili a scelta dell’utente, che prevedono coperture angolari massime di 360° in orizzontale e di 270° in verticale. Decisa l’inquadratura di quanto si vuole rilevare, lo scanner emette un segnale laser che riflesso dagli oggetti che incontra ritorna verso l’origine del segnale; in base al tempo impiegato dalla luce laser per compiere il percorso di andata e ritorno, lo strumento calcola la distanza del punto misurato dal suo centro. La misurazione dell’angolo orizzontale e verticale secondo cui l’emissione è stata eseguita, unitamente alla distanza calcolata, permette di collocare nello spazio, in modo completamente automatico e con grande precisione (intorno ai cinque millimetri di approssimazione) ogni singolo punto rilevato. La stazione di rilevamento è costituita dall’unità laser, un gruppo di alimentazione elettrica ed un computer portatile che, utilizzando un software specifico (in questo caso il Leica Cyclone ) permette di controllare lo strumento laser in tutte le sue funzioni e di gestire da subito la base dati composta da tutte le scansioni eseguite. Il software permette anche di stabilire, in fase di acquisizione, la “risoluzione” della scansione ovvero il numero di punti che si vuol rilevare in una determinata parte della scena ripresa. La scansione viene infatti effettuata seguendo una maglia quadrata “proiettata” sull’oggetto e posta ad una distanza dal centro di presa misurata in un punto baricentrico della scena stessa; per il rilievo della chiesa di Loreto sono state adottate maglie con Vista assonometrica del modello completo passo di 2 cm per le strutture della chiesa e di 4 cm per il contesto urbano che la circonda; sono stati eseguiti inoltre dei raffittimenti (in ragione di una griglia con passo di 1 cm) nelle porzioni della chiesa meritevoli di maggior dettaglio quali ad esempio il portale di ingresso ed il rosone sovrastante. Il sistema laser permette di misurare solamente i punti effettivamente raggiunti dal segnale, per cui ogni singola scansione presenta anche una serie di zone “in ombra”, ovvero quelle parti dell’oggetto non rilevabili a causa della presenza, tra la stazione laser e l’oggetto stesso, di ostacoli temporanei o permanenti. Tecnicamente queste “ombre” vengono dette “spazi di occlusione”. Per il corretto e quanto più possibile completo rilevamento delle strutture della chiesa, sono state eseguite 2 riprese laser all’interno (una in prossimità dell’altare ed una nelle vicinanze dell’ingresso) e 5 all’esterno, di cui una dalla terrazza del fabbricato ubicato in adiacenza ai locali della Sacrestia. Da ogni singola postazione di presa si ottiene un modello tridimensionale a nuvola di punti riferito ad un sistema cartesiano di riferimento “locale” con origine nel centro dello strumento ed orientato in maniera del tutto casuale; al fine di garantire la ricomposizione dei modelli parziali ottenuti al termine delle singole prese, vengono utilizzati dei punti notevoli, rilevati con procedure semiautomatiche dallo strumento e materializzati all’interno della scena rilevata attraverso l’apposizione di appositi target quadrati realizzati in materiali catarifrangenti. Per poter realizzare la ricomposizione delle 29 singole scansioni occorre che ognuna contenga almeno il rilievo di 3 target; nel caso in esame è stata predisposta una rete di target tale da garantire la presenza di almeno 5 target in ogni presa. Il rilievo topografico Il rilievo topografico eseguito sul complesso della chiesa di Loreto è stato eseguito attraverso l’utilizzo di una stazione totale Leica 706 no prism.. Il risultato delle operazioni topografiche consiste in una rete topografica di inquadramento suddivisa in vari livelli gerarchici e formata da: •una poligonale chiusa di 4 vertici impostata attorno alle strutture della chiesa che costituisce il sistema locale di riferimento; •un ramo di poligonale aperta con vertice all’interno della chiesa e collegata al vertice della poligonale chiusa posto frontalmente all’ingresso; •rilievo di dettaglio di punti significativi. I cinque vertici di poligonale sono stati individuati a terra, laddove possibile, mediante l’apposizione di chiodi o sfruttando elementi di pavimentazione ben visibili e rintracciabili quali spigoli di mattonelle. La misura dei vertici di poligonale è stata effettuata attraverso il centramento forzato degli stessi ottenuto utilizzando tre cavalletti dotati di basamento che permette l’intercambiabilità tra strumento e prisma riflettente. La posizione dei vertici di poligonale è stata accuratamente documentata attraverso la stesura di monografie redatte sulla base di eidotipi e di immagini digitali in modo da rendere possibile un eventuale proseguimento od integrazio- ne delle operazioni di rilevamento. La nuvola di punti rada, risultato delle operazioni di rilievo topografico, è composta da due diverse categorie di elementi rilevati: la prima compete alla rete dei target necessari alla ricomposizione dei rilievi eseguiti con scanner laser mentre la seconda è costituita dal rilievo di punti di dettaglio descrittivi di alcune parti, nello specifico la zona absidale del complesso, poco documentate dal rilievo laser. Elaborazione dei dati e produzione grafica La fase di elaborazione dei dati raccolti nelle varie sessioni di rilevamento è stata condotta mediante l’utilizzo del software dedicato Leica Cyclone. Come accennato in precedenza, ogni 30 singola ripresa effettuata con lo scanner laser, denominata Scanworld dal software, costituisce un modello a nuvola di punti dipendente da un sistema di riferimento proprio, di centro coincidente con il centro dello strumento e con direzioni svincolate dalle caratteristiche di verticalità della scena inquadrata. Il software utilizzato consente di importare al proprio interno la nuvola di punti corrispon- denti ai target rilevati topograficamente e di mettere a registro le altre scansioni imponendola come principale, prerogativa questa che permette di ovviare alle carenze segnalate in precedenza e di georeferenziare il modello ottenuto. La fase di registrazione si configura come momento nevralgico per l’esito finale della restituzione del rilievo. Ogni singola scansione deve contenere al proprio interno almeno tre punti riconoscibili (i target) per poter essere collegata alle altre; in realtà, in fase di rilievo, sono stati disposti sull’oggetto i target in maniera tale da garantire un numero sovrabbondante per ogni scansione effettuata. La sovrabbondanza di elementi di controllo implica necessariamente, in ogni Scanworld, scostamenti di alcuni di essi dalla configurazione rilevata topo- 31 graficamente, situazione questa prevista e gestibile dal modulo di registrazione del software che permette di attribuire più o meno peso ad ogni singolo target fino all’esclusione dello stesso dal processo di messa a registro: è questa una operazione che comporta valutazioni di tipo interpretativo ed è quindi auspicabile, se non necessario, che l’operatore che presiede alla registrazione conosca perfettamente il contesto operativo della fase di rilievo. Il modello ricomposto è stato configurato in base a layer tematici e strutturato secondo viste in modo da permetterne una fruizione ed una gestione agevole; è stato ad esempio suddiviso in livelli che comprendono le parti esterne ed interne di quanto rilevato e sono stati realizzati dei piani di riferimento visualizzati da griglia quadrata di passo editabile, congruenti con le viste che del modello si vogliono utilizzare; il software permette infatti di visualizzare il modello sia in proiezione centrale (viste prospettiche) che in proiezione parallela (viste di proiezione ortogonale piuttosto che assonometriche). Il software permette di disporre il modello opportunamente editato secondo viste canoniche di proiezione ortogonale e, bloccando la rotazione del modello ed il livello di zoom, è possibile utilizzare un comando dedicato alla cattura video di porzioni del modello; si possono ottenere così degli scatti parziali della vista desiderata che vengono successivamente ricomposti in software dedicati al fotori- tocco per ottenere immagini ad alta definizione delle viste del modello. Le immagini così ottenute sono a tutti gli effetti rappresentazioni canoniche e misurabili della chiesa, non prive di una propria valenza grafica, che costituiscono la base fondante, attraverso procedimenti di vettorializzazione in ambiente C.A.D., per la produzione di elaborati grafici bidimensionali tipici della rappresentazione dell’architettura quali piante prospetti e sezioni. Il modello digitale a nuvola di punti, esito del rilievo scannerlaser rappresenta a tutti gli effetti il documento più completo, da un punto di vista della quantità di elementi misurati, dello stato attuale del manufatto e costituisce un elaborato su cui compiere a tavolino operazioni di misura in tempo reale su tutte le parti rilevate; il modello si configura inoltre come base per elaborazioni grafiche e tematiche più avanzate quali la modellazione solida e la produzione di elaborati digitali connotabili di valenze scientifiche e divulgative. Il rilievo delle coperture effettuate da un fabbricato adiacente la chiesa Rilievo del fronte principale Fase di rilievo dell’interno della chiesa Stazione totale per il rilievo topografico dei target Prospetto della Rotonda dalla piazza (riduzione arbitraria da una restituzione grafica in scala 1/100) 32