albisinni diralim 2013 l`etichettatura

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albisinni diralim 2013 l`etichettatura
DIRITTO ALIMENTARE EUROPEO
a.a. 2012-2013
prof. Ferdinando Albisinni
L’ETICHETTATURA DEI PRODOTTI ALIMENTARI
1 La disciplina risalente
Il tema dell'etichettatura dei prodotti alimentari si colloca al crocevia di plurime
discipline, aventi differenziate origini e finalità, ma tutte in vario modo incidenti sulle
regole della comunicazione nel mercato.
Accanto alle norme che assumono quale specifico oggetto l'etichettatura, si pongono
quelle relative all'igiene e salubrità degli alimenti, agli organismi geneticamente
modificati, alle denominazioni di vendita, ai marchi ed agli altri segni distintivi, alla
pubblicità ingannevole o comparativa, alla responsabilità del produttore per i prodotti
difettosi, ai sistemi di certificazione obbligatori o volontari, e da ultimo le norme in
tema di tracciabilità dei prodotti alimentari di cui al generale Reg. (CE) 28 gennaio
2002, n. 178/2002, oltre alle numerose specifiche disposizioni riferite a talune
particolari classi di prodotto.
Queste disposizioni concorrono, in varia misura, a determinare i contenuti delle
etichette dei prodotti alimentari, secondo modalità prescrittive che, in prima
approssimazione, possono essere classificate all'interno di tre categorie, in riferimento
ai contenuti di ciascun precetto: indicazioni obbligatorie, facoltative, e vietate.
L'intervento del diritto interno in materia è risalente, essendosi espresso da tempo in
un'ampia gamma di precetti assistiti da sanzioni anche penali, contenuti nel codice ed
in numerose leggi speciali, oltre che nella generale disciplina introdotta dalla L. 30
aprile 1962 n. 283, che agli artt. 8 e 13 detta analitiche prescrizioni in tema di
indicazioni obbligatorie ed indicazioni vietate nelle etichette dei prodotti alimentari,
ulteriormente specificate dal regolamento di esecuzione (D.P.R. 26 marzo 1980, n.
327).
L'ispirazione originaria della normativa nazionale era prevalentemente intesa a
comunicare al consumatore l'esistenza di specifiche qualità intrinseche del prodotto. In
questo disegno regolatore, i profili della leale concorrenza fra produttori e della tutela
del consumatore restavano in secondo piano rispetto alle esigenze della salubrità e
genuinità degli alimenti.
L'ordinamento nazionale ha inoltre conosciuto, sin dal periodo compreso fra le due
guerre mondiali (cioè sin da epoca in cui la struttura del mercato alimentare era assai
diversa da quella attuale), talune norme in tema di marchio nazionale per i prodotti
ortofrutticoli diretti all'estero (L. 23 giugno 1927, n. 1272), in prosieguo estese al riso
(R.D.L. 8 gennaio 1928, n. 486) ed ai vini (R.D.L. 26 ottobre 1933, n. 1443); norme la
cui applicazione (divenuta cogente e non più volontaria con il R.D.L. 20 dicembre
1937, n. 2213) si traduceva nell'inserimento nelle etichette e nell'imballaggio dei
prodotti di un simbolo rappresentativo di specifici requisiti di qualità, di
confezionamento e di controllo, il "marchio nazionale di esportazione", rilasciato
dall'ICE-Istituto per il Commercio Estero a fini dichiarati di promozione delle
esportazioni, e così all'interno di un quadro di penetrante regolazione della
concorrenza e dell'accesso al mercato internazionale di taluni prodotti agricoli. Ma tale
disciplina, espressione della politica protezionistica dell'epoca di adozione, pur
formalmente non abrogata, è risultata in prosieguo nei fatti disapplicata, anche in
ragione della diffusa e motivata convinzione circa l'evidente contrasto con le
disposizioni comunitarie in tema di libera circolazione delle merci. Tant'è che alla fine
degli anni '90 del secolo XX un tentativo di reintrodurre un "marchio identificativo...
per la distinzione nel commercio della produzione agroalimentare nazionale", marchio
"di proprietà del Ministero per le politiche agricole", secondo quanto previsto nell'art.
1
, D.Lgs. 30 aprile 1998, n. 173, è rimasto senza seguito alcuno, dando luogo ad
immediate contestazioni della Commissione europea.
Si può dunque concludere che le finalità assegnate alla disciplina delle etichette dei
prodotti alimentari sono state per lungo tempo riducibili all'interno di profili pubblicistici
di vigilanza sulle qualità igienico sanitarie degli alimenti, mentre altre finalità legate
alla concorrenza sul mercato ed alla protezione del consumatore sono rimaste
assegnate a quadri regolatori che non investivano specificamente l'etichettatura dei
prodotti alimentari, ma si rifacevano a generali disposizioni in tema di concorrenza,
libertà nell'esercizio del commercio o dell'industria, protezione da pratiche fraudolente
o tutela dei segni distintivi, e così ad un complesso di norme, che non riguardavano
specificamente i prodotti alimentari, ma più in generale il generale svolgimento delle
attività economiche, in un quadro di precetti eminentemente di natura penale.
2 L'emergere di nuovi modelli e di nuovi regolatori
Il quadro disciplinare è profondamente mutato negli ultimi decenni, in ragione di alcuni
convergenti fenomeni:
- per un verso la progressiva riduzione di forme di vendita di prodotti alimentari
non confezionati, in sintonia con la perdita di relazione diretta tra il produttore
ed il consumatore di alimenti e con il crescente peso della grande distribuzione;
sicché l'etichettatura dei prodotti confezionati è divenuta momento decisivo per
una comunicazione sul prodotto e sul produttore, che in passato transitava
piuttosto attraverso occasioni di diretta valutazione del prodotto non
confezionato ed utilizzava quale elemento privilegiato di scelta la personale ed
individualizzata conoscenza del produttore e del venditore;
- per altro verso l'emergere di nuovi soggetti regolatori, accanto alle tradizionali
autorità statali, e fra questi anzitutto la Comunità europea e le Autorità
regolatrici indipendenti (Si veda la Voce Autorità Europea per la sicurezza
alimentare.
3 Le basi giuridiche dell'intervento comunitario
Quanto all'intervento della Comunità europea in materia di etichettatura dei prodotti
alimentari, la base giuridica dichiarata è stata individuata anzitutto nelle norme in
tema di instaurazione e funzionamento del mercato comune (art. 100 e art. 100A del
testo originario del Trattato istitutivo della Comunità, oggi art. 115 e art. 114).
Muovendo da queste norme e dall'esigenza di ravvicinare le discipline nazionali al fine
di evitare ostacoli alla libera circolazione delle merci e disparità nelle condizioni di
concorrenza, la Comunità, a partire dagli anni '70 e con crescente frequenza ed
intensità negli ultimi anni, ha adottato un'ampia serie di disposizioni, di carattere
generale (cd. normative orizzontali), ovvero specificamente riferite ad alcune classi di
prodotto (cd. normative verticali).
Elemento caratterizzante di questa produzione normativa è l'individuazione, sin dai
primi interventi in materia, dei consumatori come referenti necessari della disciplina,
accanto alle imprese del settore, e l'adozione della finalità di assicurare
un'informazione compiuta e di garantire consapevoli scelte d'acquisto, come canone
fondante, accanto a quello inteso a contribuire alla piena affermazione dei principi di
concorrenza propri del mercato comune.
In questa prospettiva, crescita delle produzioni di massa finalizzata a fornire prodotti
alimentari in quantità sufficiente, e standards di qualità cd. "obiettiva", apparivano
elementi di un'unica politica, affidata all'intervento comunitario quanto all'incremento
delle quantità ed alla stabilità dei prezzi, e lasciata (almeno inizialmente) agli stati
membri quanto alla disciplina igienico-sanitaria ed alla correlata disciplina
dell'etichettatura.
2
Ben presto, però, l'acquisita autosufficienza alimentare (con il conseguente
spostamento dell'attenzione dai temi della quantità a quelli della qualità), la
progressiva apertura dei mercati, e la crescente circolazione di alimenti aventi
caratteristiche differenti in ragione delle diverse culture nazionali (pur con
denominazioni talvolta coincidenti o comunque confondibili), ha posto in discussione il
quadro così definito, organizzato secondo linee solo apparentemente semplici e di
immediata applicazione.
A partire dagli anni '70 del secolo passato, l'intero quadro della disciplina comunitaria
in tema di etichettatura degli alimenti (e più in generale in tema di comunicazione
commerciale nel settore alimentare) ha così visto decisivi momenti riformatori,
finalizzati a soddisfare insieme le esigenze poste dall'obiettivo di assicurare una leale
concorrenza fra le imprese, e quelle legate ad un'accresciuta sensibilità verso nuove
domande dei consumatori.
Si sono così avuti ripetuti e penetranti interventi della Corte di giustizia, sollecitata
dall'emergere di conflitti fra risalenti discipline nazionali e principi comunitari di
concorrenza, la cui rilevanza cominciava ad essere apprezzata anche dai singoli
soggetti operanti sul mercato, progressivamente avvertiti della possibilità di invocare
le regole comunitarie al fine di risolvere conflitti interni.
Nel medesimo tempo i soggetti di governo della Comunità hanno adottato molteplici
provvedimenti (in forma sia di direttive che di regolamenti), rivelandosi quello
dell'etichettatura dei prodotti alimentari uno dei settori di regolazione dall'evoluzione
più vivace, e tuttora non interamente compiuta.
Il principio del mutuo riconoscimento, affermato dalla Corte di giustizia quale
strumento di affermazione di un autentico mercato comune (v. i noti casi Dassonville
del 1974 e Cassis de Dijon del 1979), e le misure adottate dal Consiglio per il
ravvicinamento delle legislazioni in materia di etichettatura degli alimenti, si ispiravano
peraltro - secondo le letture prevalenti ancora nel corso degli anni '80 e per larga parte
degli anni '90 del secolo scorso - ad una logica di grandi numeri e di armonizzazione, e
sembravano destinati a dar corso alla progressiva ed ineluttabile uniformazione nelle
caratteristiche degli alimenti e nella loro presentazione sul mercato.
La stessa diffusione di formule quali "prodotti agricoli di qualità" e "prodotti di nicchia",
tra loro spesso confuse a formare una sorta di sinonimia, in qualche misura tradiva
un'irrisolta contraddizione, quasi che i prodotti di massa non potessero ambire ad una
definizione di peculiari qualità e distinte identità, e che viceversa ai prodotti di qualità
specifica cui si riconosceva distinta identità fosse però riservato un ambito solo
ristretto e confinato.
Una prima risposta a queste difficoltà è stata cercata, all'inizio degli anni '90 e su
sollecitazione anzitutto dei produttori francesi molto legati alle specificità dei loro
prodotti, con i Reg. (CEE) 14 luglio 1992, n. 2081/92 e Reg. (CEE) 14 luglio 1992, n.
2082/92 sui prodotti DOP, IGP ed AS, cioè con disposizioni che investivano
congiuntamente sia le caratteristiche intrinseche dei prodotti e dei metodi di
produzione sia la loro presentazione sul mercato e così fra l'altro la loro etichettatura.
Si trattava però pur sempre di norme di eccezione, applicabili a ristrette categorie di
prodotti.
Il dato originale di questi ultimi anni è, invece, il progressivo affermarsi - a fianco di
queste regole di eccezione - di modelli di regolazione, che puntano a fare della qualità
(non solo igienico-sanitaria) e dell'identità dei prodotti alimentari una caratteristica
dichiarata e verificabile anche dei prodotti di massa, e che privilegiano l'etichettatura
quale
momento
centrale
di
una
più
ampia
disciplina
così
orientata.
In questa prospettiva l'etichettatura degli alimenti si connota anzitutto come una
dichiarazione al pubblico di connotati, caratteristiche, pregi, qualità vere o presunte,
specifiche identità, e si inserisce in un meccanismo negoziale, per il quale la scelta
d'acquisto muove da un'esplicita promessa del produttore e del venditore e da un
correlativo affidamento del consumatore, traducendosi in un'obbligazione, i cui
contenuti sono precisati e dichiarati nell'etichetta con una ricchezza di informazioni
ignota sino ad un recente passato.
L'etichettatura in questo senso si va rivelando strumento di grande efficacia, siccome
inteso a coinvolgere i consumatori non solo quali beneficiari di una tutela
3
eteroimposta, ma anche quali protagonisti di un controllo diffuso e di una penetrante
sindacabilità e azionabilità.
4 La Dir. 18 dicembre 1978, n. 79/112/CEE e le altre principali
direttive in materia
Come già ricordato, gli anni '70, dopo alcuni interventi comunitari legati alle
denominazioni o all'etichettatura di particolari prodotti alimentari, hanno visto
l'introduzione di alcune norme orizzontali: nel 1977 la Dir. 21 dicembre 1976, n.
77/93/CEE del Consiglio "relativa al ravvicinamento delle legislazioni degli stati membri
concernenti i prodotti alimentari destinati ad un'alimentazione particolare", e nel 1978,
la Dir. 18 dicembre 1978, n. 79/112/CEE, "relativa al ravvicinamento delle legislazioni
degli Stati Membri concernenti l'etichettatura e la presentazione dei prodotti alimentari
destinati al consumatore finale, nonché la relativa pubblicità".
Questa seconda direttiva, "considerando che le differenze attualmente esistenti tra le
disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri in materia di
etichettatura dei prodotti alimentari ne ostacolano la libera circolazione e possono
creare disparità nelle condizioni di concorrenza" e che "è pertanto necessario
ravvicinare dette legislazioni per contribuire al funzionamento del mercato comune",
assume quale proprio scopo dichiarato quello "di stabilire le norme comunitarie di
carattere generale ed orizzontale applicabili a tutti i prodotti alimentari immessi in
commercio" (primo, secondo e terzo considerando della direttiva), mentre rinvia alle
disposizioni che disciplinano i singoli prodotti quanto alle "norme di carattere specifico
e verticale riguardanti soltanto determinati prodotti alimentari".
La Dir. 18 dicembre 1978, n. 79/112/CEE ha quale oggetto non soltanto la semplice
etichettatura intesa in senso stretto, ma più in generale la "presentazione dei prodotti
alimentari" e la "relativa pubblicità" (undicesimo considerando) (Si veda la Voce
Pubblicità, e si applica esclusivamente ai prodotti alimentari in imballaggi
preconfezionati, mentre per i prodotti alimentari venduti alla rinfusa lascia agli Stati
membri "la facoltà di fissare, tenuto conto delle condizioni locali e delle circostanze
pratiche, le modalità di etichettatura", con modalità tali che in ogni caso garantiscano
"l'informazione del consumatore" (12^ considerando).
Oggetto della direttiva erano all'epoca i soli "prodotti alimentari destinati ad esser
consegnati come tali al consumatore finale", mentre veniva lasciata agli Stati membri
la decisione sull'estensione delle relative disposizione anche ai prodotti destinati a
collettività, quali ristoranti, mense, ospedali e simili (art. 1); in prosieguo, peraltro, la
disciplina è stata estesa anche ai prodotti destinati alle collettività (con la Dir. 14
giugno 1989, n. 89/396/CEE).
Sono state così introdotte alcune generali definizioni e disposizioni, applicabili
orizzontalmente ai diversi prodotti alimentari preconfezionati, in forza delle quali:
- per "etichettatura" si intendono "le menzioni, indicazioni, marchi di fabbrica o di
commercio, immagini o simboli riferitisi ad un prodotto alimentari e figuranti su
qualsiasi imballaggio, documento, cartello, etichetta, anello o fascetta che
accompagni tale prodotto alimentare o che ad esso si riferisca" (art. 1, par. 3,
lett. a, Dir. 18 dicembre 1978, n. 79/112/CEE);
- - per "prodotto alimentare in imballaggio preconfezionato" si intende "l'unità di
vendita destinata ad essere presentata come tale al consumatore finale,
costituita da un prodotto alimentare e dall'imballaggio in cui è stato
confezionato prima di essere messo in vendita, avvolta interamente o in parte
da tale imballaggio, ma comunque in modo che il contenuto non possa essere
modificato senza che l'imballaggio sia aperto o alterato" (art. 1, par. 3, lett. b,
Dir. 18 dicembre 1978, n. 79/112/CEE) (Si veda la Voce Imballaggi e
contenitori;
- "l'etichettatura e la relativa modalità di realizzazione non devono: a) essere
tali da indurre in errore l'acquirente, specialmente: i) per quanto riguarda le
caratteristiche del prodotto alimentare e in particolare la natura, l'identità, le
qualità, la composizione, la quantità, la conservazione, l'origine o la
4
provenienza, il modo di fabbricazione o di ottenimento; ii) attribuendo al
prodotto alimentare effetti o proprietà che non possiede; iii) suggerendogli che
il prodotto alimentare possiede caratteristiche particolari, quando tutti i prodotti
alimentari analoghi possiedono caratteristiche identiche" (art. 2, par. 1, lett. a,
Dir. 18 dicembre 1978, n. 79/112/CEE);
- - le "denominazioni di vendita" sono quelle previste dalle disposizioni
legislative, regolamentari o amministrative applicabili, o in mancanza quelle
consacrate dall'uso dello Stato membro ove avviene la vendita al dettaglio,
secondo quanto previsto dall'art. 5, Dir. 18 dicembre 1978, n. 79/112/CEE.
La direttiva del 1978 ha dunque investito un'ampia area applicativa, che non si
esaurisce nella specificazione delle indicazioni per l'etichettatura, obbligatorie, vietate
o facoltative, e si connota come segmento di una più generale disciplina di
comunicazione nel mercato, che assume come proprio orizzonte una dimensione
essenzialmente concorrenziale.
Risulta evidente la novità dell'impianto rispetto alla precedente legislazione di diritto
interno propria dell'ordinamento italiano, interessata soprattutto ai profili di tutela
igienico-sanitaria. E ne emerge una scelta precisa in direzione dell'adozione di criteri
corrispondenti alla cd. "qualità obiettiva" dei prodotti alimentari.
La disciplina adottata con la Dir. 18 dicembre 1978, n. 79/112/CEE fa i conti non
soltanto con l'esigenza di fornire informazioni corrette, ma anche con quella di evitare
un eccesso di informazioni ritenute irrilevanti, che possono trasformarsi in
disinformazione e ingannevolezza. Ogni elemento che nella comunicazione sul
mercato, e quindi nell'etichettatura, in ipotesi rinvia a caratteristiche non materiali (ivi
incluse specifiche identità territoriali disgiunte da connotati intrinseci del prodotto),
traducendosi in un veicolo di differenziazione, sarebbe - secondo il disegno comunitario
così affermato - da giudicare illecito per contrasto con le norme che garantiscono la
libera circolazione dei prodotti, siccome idoneo ad orientare le scelte del consumatore
in ragione di elementi ritenuti solo apparenti, non misurabili in termini materiali e
dunque non rispondenti ad effettive differenze nei prodotti e ad effettivi bisogni del
consumatore, quali astrattamente valutati dal legislatore comunitario.
Questo impianto, pur criticato da chi rivendica una concezione soggettiva della qualità
degli alimenti, misurata sulle scelte concrete dei consumatori e non su una loro
astratta ipostatizzazione, è rimasto largamente prevalente nelle politiche comunitarie
in materia. Ed occorrerà attendere la fine del secolo ventesimo per assistere
all'emergere, anche in sede comunitaria, di modelli di regolazione diversamente
orientati.
5 L'attuazione in Italia
In Italia le due Dir. n. 77/94/CEE e Dir. 18 dicembre 1978, n. 79/112/CEE hanno avuto
attuazione con il D.P.R. 18 maggio 1982, n. 322, che ne ha sostanzialmente riprodotto
le disposizioni.
In prosieguo le due Dir. 14 giugno 1989, n. 89/395/CEE e Dir. 14 giugno 1989, n.
89/396/CEE sono state congiuntamente attuate con il D.Lgs. 27 gennaio 1992, n. 109,
che ha abrogato espressamente il precedente D.P.R. 18 maggio 1982, n. 322, nonché
"tutte le disposizioni in materia di etichettatura, di presentazione e di pubblicità dei
prodotti alimentari, diverse o incompatibili con quelle previste dal presente decreto"
(art. 29, comma 1, D.Lgs. 27 gennaio 1992, n. 109).
Nel gennaio 1992 sono state emanate anche altri due decreti legislativi, ed uno nel
febbraio 1993, che con il D.Lgs. 27 gennaio 1992, n. 109 (e le successive modifiche e
integrazioni), compongono il quadro della disciplina orizzontale nazionale di attuazione
in materia di etichettatura dei prodotti alimentari: il D.Lgs. 25 gennaio 1992, n. 74, in
tema di pubblicità ingannevole (rilevante per le competenze assegnate all'Autorità
Garante per la concorrenza ed il mercato, e per lo specifico rilievo assunto in tema di
canoni per l'etichettatura degli alimenti); il D.Lgs. 27 gennaio 1992, n. 111, di
attuazione della Dir. 3 maggio 1989, n. 89/398/CEE concernente i prodotti alimentari
destinati ad un'alimentazione particolare (che aveva nel frattempo sostituito ed
5
abrogato la Dir. n. 77/94/CEE richiamata supra); ed il D.Lgs. 16 febbraio 1993, n. 77,
di attuazione della Dir. 24 settembre 1990, n. 90/496/CEE sull'etichettatura
nutrizionale.
Questi provvedimenti, a partire dal D.Lgs. 27 gennaio 1992, n. 109, (più volte
modificato ed integrato), hanno sostanzialmente riprodotto le richiamate disposizioni
comunitarie,
disciplinando
minutamente
i
contenuti
delle
etichette.
Negli anni successivi questa normativa orizzontale sull'etichettatura è stata variamente
integrata (con il D.P.C.M. 28 luglio 1997, n. 311, il D.Lgs. 25 febbraio 2000, n. 68, ed
il D.Lgs. 10 agosto 2000, n. 259), in attuazione di alcune modifiche e integrazioni della
Dir. 18 dicembre 1978, n. 79/112/CEE medio tempore intervenute (v. le Dir. 18
novembre 1994, n. 94/54/CE, Dir. 29 marzo 1996, n. 96/21/CE, Dir. 8 marzo 1999, n.
1999/10/CE; e v, soprattutto la Dir. 27 gennaio 1997, n. 97/4/CE, che ha modificato in
misura rilevante la disciplina in tema di denominazioni di vendita e che ha trovato
attuazione in Italia con il D.Lgs. 25 febbraio 2000, n. 68).
6 Gli interventi dell'Autorità garante della concorrenza e del
mercato
Un ruolo centrale, in riferimento alla disciplina dell'etichettatura dei prodotti alimentari,
è stato acquisito nell'arco di pochi anni dall'Autorità garante della concorrenza e del
mercato, istituita nel 1990 (con la L. 10 ottobre 1990, n. 287) con compiti mutuati da
risalenti esperienze di altri paesi in materia di legislazione anti-trust.
Questa Autorità, nel 1992 (con l'emanazione del D.Lgs. 25 gennaio 1992, n. 74, di
attuazione della Dir. 10 settembre 1984, n. 84/450/CEE, in materia di pubblicità
ingannevole) ha visto ampliare in misura significativa le proprie competenze, siccome
chiamata a decidere, oltre che sulle pratiche anticoncorrenziali, anche sui
comportamenti di pubblicità ingannevole (per l'evidente impatto di questi sulla
concorrenza), con il potere di vietare la pubblicità non ancora portata a conoscenza del
pubblico e di inibire la continuazione di quella già iniziata, nonché di disporre
l'eventuale pubblicazione di dichiarazioni rettificative.
L'art. 2, D.Lgs. 25 gennaio 1992, n. 74 recitava: "Definizioni. 1. Ai fini del presente
decreto si intende: a) per "pubblicità", qualsiasi forma di messaggio che sia diffuso, in
qualsiasi modo, nell'esercizio di un'attività commerciale, industriale, artigianale o
professionale allo scopo di promuovere la vendita di beni mobili o immobili, la
costituzione o il trasferimento di diritti ed obblighi su di essi oppure la prestazione di
opere o di servizi; b) per "pubblicità ingannevole", qualsiasi pubblicità che in
qualunque modo, compresa la sua presentazione, induca in errore o possa indurre in
errore le persone fisiche o giuridiche alle quali è rivolta o che essa raggiunge e che, a
causa del suo carattere ingannevole, possa pregiudicare il loro comportamento
economico ovvero che, per questo motivo, leda o possa ledere un concorrente; ...".
Tali definizioni sono state da ultimo riprese dall'art. 20 del Codice del consumo, D.Lgs.
6 settembre 2005, n. 206, che ha sostituto ed abrogato, fra gli altri provvedimenti,
anche il D.Lgs. 25 gennaio 1992, n. 74 (Si veda la Voce Pubblicità .
L'Autorità garante è stata ben presto investita della questione della legittimità delle
etichette dei prodotti alimentari, ove esaminate sotto il profilo della possibile
ingannevolezza o decettività nella comunicazione con il consumatore, e già con il
provvedimento n.1078 del 21 aprile 1993(Oleificio Viola) ha affermato che anche le
etichette apposte sulle confezione di alimenti devono ritenersi soggette alle prescrizioni
in tema di pubblicità ingannevole, alla stregua dell'ampia definizione legislativa che
qualifica come pubblicità qualsiasi messaggio inteso a promuovere beni o servizi (nel
caso di specie l'Autorità ha dichiarato ingannevole, vietandone l'ulteriore utilizzazione,
l'etichetta di una confezione di olio di oliva che menzionava il lago di Garda, ove aveva
sede lo stabilimento di produzione, laddove la confezione conteneva in realtà oli
provenienti da altre località).
Dopo alcune iniziali incertezze sul rapporto tra disciplina dei marchi registrati e
disciplina delle etichette in riferimento alle norme in tema di pubblicità ingannevole (in
un primo momento l'AGCM aveva ritenuto di non potersi pronunciare su etichette
6
costituenti riproduzione di marchi registrati - così nel caso Frantoio Turri,
provvedimento n. 2488 del 23 novembre 1994, sempre in tema di etichettatura
dell'olio di oliva), l'Autorità in prosieguo ha modificato il proprio orientamento, nel
senso di ritenere che l'eventuale registrazione del marchio non fa venire meno l'illiceità
di un'etichetta, ove questa risulti ingannevole sotto il profilo del messaggio trasmesso
ai consumatori (si vedano in tal senso, fra le numerose pronunce conformi ed
consolidate, il provvedimento n. 4970 del 30 aprile 1997, Bertolli-Lucca, i tre
provvedimenti del 18 dicembre 1997, n. 5562 Olio Carapelli Firenze, n. 5563 Olio Carli
Oneglia, n. 5564 Olio Monini Spoleto, i provvedimenti n. 5713 del 19 febbraio 1998
Olearia del Garda, e n. 7619 del 13 ottobre 1999 Cooperativa agricola Trevi).
Le pronunce dell'Autorità garante in argomento sono state più volte sottoposte al
vaglio dei giudici amministrativi, aditi su ricorso di imbottigliatori o confezionatori, e lo
stesso Cons. Stato Sez. VI, 6 marzo 2001, n. 1254, pur riformando nel caso specifico il
provvedimento dell'Autorità per ragioni di rito, ha tuttavia confermato il principio di
diritto circa la sindacabilità delle etichette dei prodotti alimentari confezionati,
quand'anche costituenti riproduzione di marchi registrati, sotto il profilo della
violazione della normativa in tema di pubblicità ingannevole.
In esito alle ripetute pronunce dell'Autorità garante ed ai più recenti orientamenti della
giurisprudenza amministrativa, può dunque dirsi acquisito il principio della pluralità dei
fini assegnati alle etichette dei prodotti alimentari, e conseguentemente il principio
della pluralità delle disposizioni su esse incidenti, con definitivo superamento di una
logica tradizionale, che - secondo la richiamata L. 30 aprile 1962, n. 283 sulla
disciplina igienica degli alimenti - si limitava a prescrivere in positivo la presenza in
etichetta di indicazioni sul produttore, la denominazione e le caratteristiche materiali
del prodotto, ed a vietare in negativo l'attribuzione di qualità nutritive o
medicamentose in realtà assenti.
Ne è emerso un quadro di regolazione, nel quale vengono valorizzate e fatto oggetto di
attenzione disciplinare le attese dei consumatori circa elementi caratterizzanti il
prodotto ed il produttore, che non si esauriscono nelle caratteristiche materiali ed
obiettivamente misurabili degli alimenti, ma rinviano a profili di identità in precedenza
riferiti piuttosto ad altre classi di prodotti non alimentari (basti pensare in proposito al
rilevante fenomeno della contraffazione, che dal campo della moda, dell'abbigliamento
e degli oggetti di lusso, investe ormai con crescente frequenza il settore
agroalimentare).
7 Le denominazioni di vendita in etichetta
Quanto alle denominazioni di vendita, la relativa disciplina è apparsa sin dai primi
provvedimenti comunitari in materia ricca di punti di sovrapposizione e contatto con
quella, più generale, relativa alla comunicazione con il consumatore, nell'etichettatura
e nella pubblicità.
La Dir. 18 dicembre 1978, n. 79/112/CEE - come ricordato - rinviava quanto alle
denominazioni da indicare nell'etichetta dei prodotti alimentari a disposizioni
legislative, regolamentari o amministrative genericamente richiamate, o in mancanza
di queste, alla denominazione consacrata dall'uso nello Stato membro nella quale il
prodotto era venduto (così il testo originale dell'art. 5, Dir. 18 dicembre 1978, n.
79/112/CEE), e così nella sostanza prendeva atto dell'impossibilità all'epoca di
pervenire all'adozione di denominazioni uniformi per l'intero territorio della Comunità,
e sembrava lasciare spazio alle normative vigenti nei singoli mercati nazionali di
vendita, senza peraltro precisare con esattezza quali fossero i canoni cui dovevano
adeguarsi in punto di denominazioni le regole nazionali di etichettatura.
La natura interlocutoria di una disciplina siffatta non ha evitato l'insorgere di un vivace
contenzioso, anche giudiziario, negli '80 e '90 del secolo XX.
Se in un primo momento il problema che ha attirato maggiormente l'attenzione della
Corte di giustizia è stato quello della libera circolazione delle merci, e così del
superamento di discipline tecniche nazionali che si traducevano in restrizioni al libero
commercio, giudicate illegittime siccome prive di giustificazioni adeguate ai sensi degli
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artt. 30 e seguenti del Trattato istitutivo della Comunità europea (oggi artt. 34 e
seguenti del TFUE), a cominciare dalla notissima sentenza Cassis de Dijon, con la
quale può dirsi stabilmente affermato nell'ordinamento comunitario il principio del
mutuo riconoscimento, superati i divieti di vendita nei singoli Stati membri, l'indagine
si è spostata sulle denominazioni legali.
In questa prospettiva, l'area in cui collocare la disciplina sull'uso delle denominazioni
merceologiche è stata individuata in quella della concorrenza leale, nella misura in cui
la disciplina della concorrenza nel mercato regolato si risolve fra l'altro in regole di
comunicazione, e dunque di linguaggio.
Il confronto sui nomi nel commercio degli alimenti si è così tradotto in un confronto
sulle regole del mercato dell'agro-alimentare, ed all'interno di questo in un confronto
sulle regole del linguaggio, con particolare attenzione all'utilizzazione delle
denominazioni in etichetta, siccome luogo privilegiato della comunicazione indirizzata
al consumatore.
In questo contesto si può ricordare, quale esemplificazione significativa dell'evolversi
dei profili di conflitto e di regolazione, il caso dell'aceto, siccome vicenda che ha
assunto carattere paradigmatico, anche per la molteplicità di interventi legislativi e
giurisprudenziali, e per il ruolo interventista assunto dalla Corte di Giustizia
nell'interpretazione degli artt. 30 e 34 del Trattato di Roma.
La Corte di Giustizia si è pronunciata per ben tre volte sulla legislazione italiana in
tema di uso della denominazione "Aceto".
Con sentenza Corte Giustizia Comunità Europee, 26 giugno 1980, n. 788, la Corte ha
dichiarato illegittimo per violazione dell'30 del Trattato di Roma il divieto di porre in
commercio prodotti contenenti acido acetico non derivante dalla fermentazione acetica
del vino, previsto dall'art. 51, D.P.R. 12 febbraio 1965, n. 162 come modificato
dall'art. 20, L. 9 ottobre 1970, n. 739 (sentenza Corte Giustizia Comunità Europee, 26
giugno 1980, n. 788).
Il legislatore italiano, con L. 2 agosto 1982, n. 527, riconosciuta la libera
commerciabilità di aceti derivanti dalla fermentazione di prodotti agricoli diversi dal
vino, prevedeva due distinte denominazioni legali, "aceto" per i prodotti ottenuti dalla
fermentazione acetica del vino, ed "agro" per i prodotti ottenuti dalla fermentazione
acetica di altri ingredienti. Anche questo intervento nazionale sulle denominazioni
veniva peraltro rapidamente giudicato illegittimo in sede europea.
Con sentenza 15 ottobre 1985, in esito ad un ulteriore ricorso proposto dalla
Commissione contro lo Stato italiano, la Corte conclusivamente decideva, quanto alle
denominazioni in esame: "La repubblica italiana, continuando a riservare, con la L. 2
agosto 1982, n. 527, la denominazione "aceto" al solo aceto di vino, benché tale
riserva sia stata giudicata incompatibile con l'30 del trattato CEE dalla corte nella
sentenza 9 dicembre 1981 (causa 193/80, Commissione c/ Repubblica italiana), è
venuta meno agli obblighi impostile dall'art. 171 del trattato CEE" (Corte Giustizia
Comunità Europee, 15 ottobre 1985, n. 281).
A conclusione di questo pluriennale contenzioso, dunque, in Italia può essere oggi
venduto liberamente e denominato "aceto" anche un prodotto ottenuto non dal vino,
ma dai più vari prodotti agricoli (le mele, e non solo) (Si veda la VoceAceti).
Decisioni analoghe sono state pronunciate dalla Corte di giustizia in numerosi altri ben
noti casi, che hanno investito le regole nazionali che riservavano l'uso di talune
denominazioni commerciali in etichetta al rispetto di specifiche procedure produttive.
Così, ad esempio, nei casi della pasta italiana e della birra tedesca.
L'applicazione giurisprudenziale delle norme del Trattato istitutivo della Comunità
europea sulla libera circolazione delle merci ha dunque inciso profondamente sulla
disciplina delle denominazioni merceologiche.
La stessa Corte di giustizia, peraltro, nelle decisioni sopra richiamate, come in
numerose altre in tema di libera circolazione dei prodotti alimentari e di
liberalizzazione nell'uso delle denominazioni, ha segnalato l'esigenza di una più
sofisticata utilizzazione della disciplina in tema di etichettatura, al fine di assicurare al
consumatore idonea informazione sulle possibili diversità esistenti tra prodotti recanti
identica denominazione.
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Queste sollecitazioni hanno trovato risposta in sede di revisione della disciplina
orizzontale dell'etichettatura dei prodotti alimentari.
Dopo alcune minori modifiche, nel 1997 la Dir. 27 gennaio 1997, n. 97/4/CE, sulla
base degli espressi "considerando che la Corte di giustizia delle Comunità europee ha
pronunciato parecchie sentenze nelle quali raccomanda un'etichettatura adeguata
concernente la natura del prodotto venduto; che tale mezzo, che consente al
consumatore di operare la sua scelta con cognizione di causa, è il più adeguato in
quanto essa crea meno ostacoli alla libera circolazione delle merci; considerando che
spetta al legislatore comunitario adottare le misure derivanti dalla suddetta
giurisprudenza", ha modificato l'art. 5, Dir. 18 dicembre 1978, n. 79/112/CEE
sostituendone il primo paragrafo con la seguente disposizione:
"1. La denominazione di vendita di un prodotto alimentare è la denominazione prevista
per tale prodotto dalle disposizioni della Comunità europea ad esso applicabili.
a) In mancanza di disposizioni della Comunità europea, la denominazione di vendita è
la denominazione prevista dalle disposizioni legislative, regolamentari o amministrative
applicabili nello Stato membro nel quale si effettua la vendita al consumatore finale o
alle collettività.
In assenza di queste ultime, la denominazione di vendita è costituita dal nome sancito
dagli usi dello Stato membro nel quale si effettua la vendita al consumatore finale o
alle collettività o da una descrizione del prodotto alimentare e, all'occorrenza, della sua
utilizzazione, che sia sufficientemente precisa da consentire all'acquirente di
conoscerne l'effettiva natura e di distinguerlo dai prodotti con i quali potrebbe essere
confuso.
b) È parimenti autorizzata l'utilizzazione, nello Stato membro di commercializzazione,
della denominazione di vendita sotto la quale il prodotto è legalmente fabbricato e
commercializzato nello Stato membro di produzione.
Tuttavia, laddove l'applicazione delle altre disposizioni della presente direttiva, in
particolare quelle di cui all'art. 3, non sia tale da consentire al consumatore dello Stato
membro di commercializzazione di conoscere l'effettiva natura del prodotto e di
distinguerlo dai prodotti con i quali esso potrebbe essere confuso, la denominazione di
vendita è accompagnata da altre informazioni descrittive che devono figurare in
prossimità della stessa.
c) In casi eccezionali, la denominazione di vendita dello Stato membro di produzione
non è utilizzata nello Stato membro di commercializzazione quando il prodotto che
essa designa si discosta talmente, dal punto di vista della composizione o della
fabbricazione, dal prodotto conosciuto sotto tale denominazione, che le disposizioni
della lettera b) non sono sufficienti a garantire, nello Stato membro di
commercializzazione, un'informazione corretta dei consumatori".
La riforma introdotta nel gennaio 1997 ha dunque modificato in misura significativa la
precedente disciplina delle denominazioni di vendita e della relativa etichettatura,
orientandola lungo linee originali quanto all'ispirazione ed ai contenuti.
In questo innovativo disegno, che riflette esperienze e tensioni manifestatesi nell'arco
di circa un ventennio:
- per un verso si è preso atto del più deciso e diretto intervento della Comunità in
materia di denominazioni, e così della crescente adozione, in riferimento a talune classi
di prodotto, di denominazioni centralmente adottate per l'intero territorio europeo (v.
ad esempio il Reg. (CEE) 2 luglio 1987, n. 1898/87, che ha definito rigorosamente i
casi nei quali possono essere utilizzate le denominazioni "latte" o "prodotti lattierocaseari"), privilegiando l'adozione di norme uniformi, piuttosto che il semplice
ravvicinamento delle legislazioni, come strumento preferenziale di disciplina della
comunicazione nel commercio alimentare; sicché il sistema di regole dei singoli Stati
membri ha ricevuto una collocazione esplicitamente residuale rispetto a quella
assegnata alle denominazioni comunitarie (laddove nel testo originario della Dir. 18
dicembre 1978, n. 79/112/CEE neppure compariva un esplicito riferimento a
disposizioni comunitarie in tema di denominazioni);
- per altro verso si è introdotto nel testo della direttiva il principio del mutuo
riconoscimento. quale da tempo affermato in giurisprudenza (con un dialogo fra fonti
giurisprudenziali e fonti legislative, che costituisce una costante del diritto
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comunitario), riconoscendo che è in linea di principio lecita l'utilizzazione della
denominazione propria dello Stato membro di produzione, anche per la vendita nel
diverso Stato membro di commercializzazione;
- nel contempo si è riconosciuta l'esistenza di perduranti significative differenze nelle
abitudini e tradizioni alimentari dei diversi Stati membri, sicché si è consentita
l'adozione di discipline nazionali che integrino l'etichettatura prevista dallo Stato di
produzione, al fine di rendere possibile al consumatore di apprezzare le differenze fra i
prodotti, consentendo altresì - sia pure solo in casi eccezionali - l'adozione di discipline
nazionali che escludono l'utilizzazione nello Stato di commercializzazione della
denominazione e quindi dell'etichetta adottata secondo le regole proprie dello Stato di
produzione, ove questa riguardi prodotti talmente diversi che le sole precisazioni in
etichetta non risulterebbero sufficienti ad esplicitare le differenze in caso di
utilizzazione di denominazioni identiche.
La disciplina comunitaria ha preso così atto che il rispetto di generali ed uniformi
regole di etichettatura non è, in quanto tale, sufficiente a garantire una compiuta
concorrenza nel mercato e consapevoli scelte del consumatore, e che anzi proprio per
realizzare efficacemente tali finalità può essere necessario consentire che la
comunicazione commerciale in tema di alimenti assuma contenuti differenziati nei
diversi Paesi membri.
Di tal guisa, il quadro regolatore europeo successivo al 1997, se per un verso ha
sostituito, per quanto possibile, al semplice ravvicinamento delle legislazioni,
l'adozione di regole uniche e comuni, per altro verso ha tradotto in enunciati formali
taluni canoni di diversità assenti dalla precedente disciplina: le regole locali di
comunicazione sugli alimenti hanno ottenuto generale legittimazione nell'ordinamento
comunitario, siccome avvertite non più soltanto come retaggio di un particolarismo da
superare, ma piuttosto come elementi di un'identità cui garantire legittimità di uso nel
mercato in presenza di condizioni ben precisate.
La Dir. 27 gennaio 1997, n. 97/4/CE ha introdotto alcune minori modifiche quanto
all'indicazione degli ingredienti ed alla lingua da utilizzare in etichetta, ed è stata
attuata in Italia soltanto dopo oltre tre anni (pur essendo questo uno fra i paesi
maggiormente interessati all'adeguamento della disciplina delle denominazioni, in
ragione delle peculiarità delle proprie tradizioni alimentari), con il D.Lgs. 25 febbraio
2000, n. 68, che ha sostanzialmente riprodotto le norme comunitarie, precisando che
compete al Ministero dell'Industria di concerto con quelli della Sanità e delle Politiche
agricole (secondo i nomi all'epoca assegnati a questi Ministeri), autorizzare l'uso di
particolari denominazioni ed indicazioni merceologiche, quando le denominazioni
originali dei prodotti alimentari ottenuti in altri Paesi membri della Comunità designano
prodotti che si discostano in maniera sostanziale dai prodotti conosciuti sul mercato
nazionale con tali denominazioni.
All'interno di questa linea evolutiva ha trovato soluzione anche la controversia sulla
denominazione ed etichettatura della "pasta" (oggetto di un vivace contenzioso che ha
visto anche l'intervento, non del tutto chiarificatore, della Corte Cost. 30 dicembre
1997, n. 443). Con il D.P.R. 9 febbraio 2001, n. 187, previa notifica alla Commissione
Europea effettuata ai sensi della Dir. 22 giugno 1998, n. 98/34/CE sulle norme
tecniche, è stata adottata una specifica normativa sulla produzione e
commercializzazione di sfarinati e paste alimentari, in esito alla quale il nome "semola"
o "semola di grano duro" è stato riservato al solo prodotto della macinazione del grano
duro, restando esclusi dall'uso di tale nome i prodotti ottenuti dalla macinazione del
grano tenero; il nome "pasta di semola di grano duro" e "pasta di semolato di grano
duro" è stato riservato al prodotto ottenuto da macinati di grano duro; si è vietata la
produzione per il mercato interno italiano di pasta secca preparata con farina di grano
tenero, consentendone la produzione solo per l'esportazione; si è consentita
l'importazione di pasta prodotta in altri Paesi in tutto o in parte con farina di grano
tenero, ma soltanto con indicazione in etichetta delle denominazioni "pasta di farina di
grano tenero" ovvero "pasta di semola di grano duro e di farina di grano tenero", o
viceversa "pasta di farina di grano tenero e di semola di grano duro", in ragione
dell'ingrediente prevalente (Si veda la Voce "Cereali e farine").
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8. La Dir. 20 marzo 2000, n. 2000/13/CE ed i successivi
provvedimenti nazionali a carattere generale
La disciplina comunitaria è stata riordinata e consolidata dalla Dir. 20 marzo 2000, n.
2000/13/CE, relativa al ravvicinamento della legislazione degli Stati membri
concernenti l'etichettatura e la presentazione dei prodotti alimentari, nonché la relativa
pubblicità. Questa direttiva, che ha sostituito la Dir. 18 dicembre 1978, n. 79/112/CEE
e le altre medio tempore intervenute, costituisce una codificazione della disciplina già
vigente, e non introduce modifiche di rilievo rispetto a quelle già introdotte ad esempio
nel 1997 dalla Dir. 27 gennaio 1997, n. 97/4/CE.
Il D.Lgs. 23 giugno 2003, n. 181, adottato nell'esercizio della delega conferita dal
richiamato art. 27, L. 1 marzo 2002, n. 39, ha dato attuazione alla Dir. 20 marzo
2000, n. 2000/13/CE utilizzando lo strumento delle modifiche nel corpo del D.Lgs. 27
gennaio 1992, n. 109, che nella sua versione aggiornata rimane ad oggi il testo
consolidato che contiene la disciplina orizzontale dell'etichettatura dei prodotti
alimentari.
Il Codice del consumo (D.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206), ha consolidato e riordinato
nella Parte II, intitolata "Educazione, informazione e pubblicità", la vigente disciplina in
tema di comunicazione con il consumatore per la generalità dei prodotti (non solo
alimentari), relativamente sia alle etichette che alla comunicazione commerciale e
pubblicitaria. Tale generale disciplina si integra con quella relativa ai prodotti
alimentari sin qui richiamata.
In anni recenti il legislatore nazionale è più volte intervenuto in materia di
etichettatura con specifico riferimento al controverso tema dell'indicazione obbligatoria
in etichetta dell'origine dei prodotti alimentari. Le numerose norme approvate in
materia (v. art. 4, comma 49, comma 49 bis, comma 49 ter, L. 24 dicembre 2003, n.
350; art. 1 bis, D.L. 24 giugno 2004, n. 157), sono però rimaste di fatto disapplicate,
in ragione della recisa opposizione della Commissione, la quale ha sempre confermato
la propria risalente posizione, secondo la quale norme nazionali in materia di
etichettatura sarebbero illegittime per violazione degli artt. 34 e seguenti del TFUE,
traducendosi in misure di effetto equivalente a restrizioni alla libera circolazione delle
merci.
Da ultimo, con la L. 3 febbraio 2011, n. 4, è stato introdotto un ampio complesso di
disposizioni, che sotto più profili sono intervenuti nella disciplina relativa alla
comunicazione sul mercato delle caratteristiche e delle qualità dei prodotti alimentari.
La legge prevede fra l'altro un aggravamento delle sanzioni in caso di violazioni
relative ai prodotti DOP e IGP (art. 2), ed introduce uno specifico sistema di
valorizzazione ed etichettatura dei prodotti agroalimentari ottenuti da tecniche di
agricoltura integrata.
La disposizione maggiormente controversa di tale legge, peraltro, è quella contenuta
nell'art. 4, che "Al fine di assicurare ai consumatori una completa e corretta
informazione sulle caratteristiche dei prodotti alimentari commercializzati, trasformati,
parzialmente trasformati o non trasformati, nonché al fine di rafforzare la prevenzione
e la repressione delle frodi alimentari", ha introdotto l'obbligo di riportare
nell'etichettatura di tutti i prodotti alimentari l'indicazione del luogo di origine o di
provenienza. La norma precisa che "Per i prodotti alimentari non trasformati,
l'indicazione del luogo di origine o di provenienza riguarda il Paese di produzione dei
prodotti", e che "Per i prodotti alimentari trasformati, l'indicazione riguarda il luogo in
cui è avvenuta l'ultima trasformazione sostanziale e il luogo di coltivazione e
allevamento della materia prima agricola prevalente utilizzata nella preparazione o
nella produzione dei prodotti".
9 Il Regolamento (UE) n. 1169/2011 del 25 ottobre 2011
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Il 12 dicembre 2011 è entrato in vigore il nuovo Reg. (CE) 25 ottobre 2011, n.
1169/2011, relativo alla fornitura di informazioni ai consumatori di alimenti, che ha
sostituito numerose precedenti disposizioni. Questo regolamento, ai sensi dell'art. 55,
avrà applicazione a decorrere dal 13 dicembre 2014, ad eccezione dell'art. 9, paragrafo
1, lettera l) (sulle indicazioni nutrizionali in etichetta), applicabile dal 13 dicembre
2016 e dell'allegato VI, parte B (sulle "carni macinate"), applicabile a decorrere dal 1°
gennaio 2014.
L'adozione di questo nuovo regolamento, ha reso di fatto superata la L. 3 febbraio
2011, n. 4, nella parte relativa all'etichettatura di origine. Come ha sottolineato la
Commissione Europea nella propria Comunicazione del febbraio 2011 (Bruxelles, 22
febbraio 2011, COM(2011) 77 definitivo), la proposta, poi tradottasi nel nuovo
regolamento "consolida e aggiorna due importanti settori della legislazione in materia
di etichettatura, cioè l'etichettatura generale dei prodotti alimentari e l'etichettatura
nutrizionale, disciplinati rispettivamente dalle Dir. 20 marzo 2000, n. 2000/13/CE e
Dir. 24 settembre 1990, n. 90/496/CEE" e "rifonde anche altre direttive riguardanti
l'etichettatura di alcune categorie di prodotti alimentari", perseguendo quali principali
finalità:
– semplificare la legislazione relativa all'etichettatura degli alimenti grazie
all'introduzione di un unico strumento che disciplini principi e requisiti per le
disposizioni orizzontali sull'etichettatura generale e nutrizionale;
- inserire disposizioni specifiche sulla responsabilità in seno alla catena alimentare
riguardo alla presenza e all'esattezza dell'informazione alimentare;
– fissare criteri misurabili su alcuni elementi della leggibilità delle etichette apposte ai
prodotti alimentari;
- chiarire le norme riguardanti l'indicazione del paese d'origine o il luogo di
provenienza;
– introdurre indicazioni nutrizionali obbligatorie nella parte principale del campo visivo
della maggior parte degli alimenti trasformati;
– istituire un sistema che regoli alcuni aspetti dell'etichettatura volontaria degli
alimenti appoggiata dagli Stati membri".
Il nuovo Reg. (CE) 25 ottobre 2011, n. 1169/2011 introduce novità rilevanti, sia con
riferimento ai profili istituzionali, procedimentali e di competenza, sia con riferimento al
merito della disciplina.
L'adozione di un regolamento in luogo delle precedenti direttive è un chiaro indice di
una tendenza che dall'armonizzazione muove verso l'unificazione delle regole, e colloca
questa legislazione all'interno del più generale processo verso l'adozione di Codici
Europei, che caratterizza larga parte della più recente legislazione dell'Unione Europea.
Questo processo, il cui avvio può essere individuato negli anni a cavallo fra la fine del
secolo XX e l'inizio del secolo XXI, ha ricevuto ulteriore impulso dopo l'entrata in vigore
del Trattato di Lisbona.
Va detto che il processo di unificazione e codificazione del diritto europeo implica, per
la sua stessa natura, in un'Unione Europea che conta ben 27 Stati membri (e si avvia
ad accogliere a breve scadenza, il 28^ Stato membro), una legislazione multilivello,
che fissa principi, finalità, metodi, istituzioni, e li integra attraverso il contributo
cooperativo di più soggetti:
- la Commissione Europea, attraverso l'utilizzazione dei poteri delegati, quali previsti
dall'art. 290 del TFUE e dagli artt. 51 e 52 del Reg. (CE) 25 ottobre 2011, n.
1169/2011;
- gli Stati membri, mediante l'adozione di disposizioni nazionali nell'esercizio delle
competenze regolate dagli articoli da 38 a 45 del regolamento;
- le organizzazioni internazionali, quali il Codex Alimentarius (si veda la Voce Il Codex
Alimentarius),
l'OIV
(si
veda
la
Voce
Vini),
l'UNECE.
Ne risulta un complesso modello ordinamentale, all'interno del quale il nuovo
regolamento è significativo sia in sé considerato, sia in riferimento a talune decisioni
della Corte di Giustizia, ad altre normative recentemente introdotte (quale il nuovo
Reg. (CE) 23 aprile 2008, n. 450/2008 - Codice doganale aggiornato).
In termini generali il nuovo regolamento ha spostato il centro dell'attenzione
dall'etichettatura in sé considerata al più generale tema dell'informazione e della
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comunicazione quali strumenti per garantire al consumatore un ruolo attivo nelle
decisioni e nelle scelte di acquisto e di consumo.
Sicché questa disciplina si propone come componente essenziale della più ampia
legislazione in tema di concorrenza, regolazione del mercato, protezione dalle frodi e
dalle contraffazioni, ma nel medesimo tempo costituisce elemento centrale nel
processo inteso ad assicurare la qualità e la sicurezza degli alimenti, in linea con le
disposizioni dell'art. 17, Reg. (CE) 28 gennaio 2002, n. 178/2002 in tema di obblighi e
responsabilità degli operatori del settore alimentare e delle autorità pubbliche.
Con riferimento allo specifico contenuto delle disposizioni introdotte dal Reg. (CE) 25
ottobre 2011, n. 1169/2011, occorre sottolineare che non si tratta solo di un
consolidamento delle disposizioni già esistenti, ma di una codificazione in un testo
sistematico, con alcune rilevanti novità, ad esempio in tema di individuazione del
paese di origine e del luogo di provenienza (v. l'art. 2.2.g e l'art. 26) e con la
previsione di un'estensione dell'indicazione obbligatorio del luogo di origine, fra l'altro
anche per carni diverse da quelle bovine, per il latte, per i prodotti non trasformati, per
i prodotti a base di un unico ingrediente (art. 26).
Significative disposizioni vengono introdotte anche in riferimento all'esclusione di
responsabilità per il semplice rivenditore di prodotti già confezionati il quale non
modifichi l'etichetta (art. 8) ed in tema di vendite a distanza (art. 14).
I provvedimenti delegati e gli atti di esecuzione che la Commissione è chiamata ad
adottare in un prossimo futuro (v. art. 26) consentiranno di meglio apprezzare la
portata innovativa del nuovo regolamento.
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