L`Ombra del maschile - Matri
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L`Ombra del maschile - Matri
L’Ombra del maschile: gli dèi della forza Ringrazio di cuore Ezia Palma, Tina Nannucci e Bob Mercurio per l’invito a questo convegno, che affronta e approfondisce un tema delicato, profondo, sanguinoso e appassionato: umbratile. L’aspetto oscuro è quello che non vediamo, che sta alle nostre spalle e può levarsi improvviso, tanto più grande di noi, dominarci e intenzionare le nostre azioni. Responsabile anche - delle molte violenze che si compiono nel segreto delle mura domestiche (i peggiori delitti si compiono in famiglia, scriveva il grande esperto di assassinio Alfred Hitchcock) e delle fatali crisi depressive e suicidali quando l’ombra ci abbandona, umiliati e vinti, inorriditi di fronte ai pensieri che ci hanno abitato, agli impulsi cui abbiamo dovuto resistere (se ne siamo stati capaci). Responsabile di eccidi, di repressioni brutali, di conflittualità insanabili, di mari tappezzati di cadaveri e di montagne che sono ossari su cui continuiamo a camminare, come la catene alpine del Veneto dove vivo: nei nostri sogni la storia è continuamente presente. Il secolo scorso, il terribile ‘secolo breve’, ha posto donne e uomini dell’Occidente di fronte al levarsi degli spiriti di sangue che ci abitano, delle nostre ombre più crudeli e feroci. Alcune donne e alcuni uomini, oserei dire molte donne e molti uomini, segnati da un destino particolare, da una autentica stella, hanno scelto (come noi oggi, nella nostra piccola cerchia) di immergersi nello spirito del profondo e di comprendere, dal sotto e dall’altrove, cosa stesse accadendo. Era diventato un interrogativo ineludibile: chiudere gli occhi voleva solo dire perdersi in se stessi, come a molti è accaduto, e morire “avvelenati dall’istinto suicida dei lemming”.1 Il trattare seriamente un problema, toto homine, con la nostra presenza piena, vuole dire averne cura, lavorarlo, concorrere ad una soluzione alchemica. Noi sempre nel nostro piccolo – ne facciamo esperienza ad ogni supervisione: anche se assente, la paziente e il paziente mutano atteggiamento, come se in parte fossero stati presenti. Tra di loro due psicoanalisti, seguaci di Freud, entrambi di origine ungherese, decisero di andare a studiare di persona usi, costumi e tradizioni di popolazioni ‘più antiche’, quelle che venivano da noi elegantemente definite fino a pochissimo tempo fa come ‘primitive’ o ‘selvagge’. Volevano comprendere se le scoperte di Freud sull’incesto, il totemismo e la magia fossero universali. Fino ad allora, tutte le notizie che ci venivano da paesi altri erano rapporti di missione di conquistatori, invasori e missionari, quindi viziati alla base da assunti distorcenti e svianti. Per noi resta famoso Amory Talbot, poliziotto inglese in Nigeria, autore del testo In the shadow of the bush (All’ombra, appunto, della brousse) che ispirerà a Jung la teoria della C.G. Jung, Mysterium coniunctionis, vol. I, Bollati Boringhieri, Torino p. 158: “avvelenati dal pensiero collettivo dell’organizzazione, della statistica e della massa, e l’individuo soccombe alla follia catastrofica che presto o tardi si impossessa di ogni massa, vale a dire l’istinto suicida dei lemming. Nella sfera umana questo istinto significa guerra”. proiezione,2 attraverso il racconto del soldato Oji che non resiste alla voce dell’albero che lo chiama per nome, poiché si chiama Oji come lui:3 vocazione, appunto. E ci stringe un po’ il cuore pensare che il grande Frazer, letto, studiato e amato, non si era mai mosso dalla sua vastissima biblioteca, ed era invece in costante contatto epistolare con quelli che potremmo oggi chiamare i ricercatori sul terreno, gli agenti dell’amministrazione coloniale, profondamente influenzati dal loro sistema di credenze. Fino a poco tempo fa si è trattato di materiale pregiudizievole e più volte digerito e tradotto, sottolinea Nathan.4 Possiamo fare alcuni piccoli esempi: l’indovino viene tradotto in francese con ‘charlatan’, il guaritore con stregone, e così via. Gehza Roheim, specialista di folklore ungherese ed europeo, decide di andare a immergersi nella civiltà ritenuta la più arcaica, quella degli aborigeni australiani, accorgendosi ben presto che non si tratta di cultura né primitiva né selvaggia. Roheim ricava il materiale etnografico dall’analisi dei sogni (pubblicherà i sogni di un capo melanesiano) e dai giochi dei bambini: dall’osservazione, lo scambio, l’essere tra di loro. E inizia a cercare le invarianti, noi diremmo gli archetipi. Georges Deveureux, sempre ungherese (e dalla vicina Lituania verrà Marija Gimbutas) studia con Marie Curie, con Marcel Mauss e Paul Rivet. Psicanalista, decide di andare a vivere tra gli indiani d’America, e di diventare antropologo. Amico di Niels Bohr, fonda l’Etnopsicoterapia sul doppio discorso simultaneo e complementare. L’incrocio tra psicanalisi e antropologia è decisivo e per noi profondamente implicante: l’antropologia, disciplina estensiva che lavora sul terreno, che promuove viaggi, incontri, condivisioni di vita con l’altro diventa indissociabile dal percorso del profondo, dalla propria analisi e dal proprio processo individuativo, dalla pratica clinica. L’incontro con l’altro esterno coincide con l’incontro con l’altro interno. Negli stessi anni Jung scopriva la portata rivoluzionaria dell’inconscio collettivo, ‘altro’ rispetto alla nostra coscienza, in cui noi siamo immersi, che collega noi e il cosmo, la storia precedente con quella futura in modo complesso e vincolante. Ma su questo non mi dilungo perché tutti qui abbiamo uguale matrice. Ho avuto l’occasione e la fortuna di trovarmi immersa in un’esperienza di ricerca e formazione permanente ‘sul terreno’, compiendo viaggi annuali da più di quindici anni nel paese dei Dogon del Mali. Dalle amiche e dagli amici africani mi sono spesso sentita ripetere che noi – visti dagli altri – siamo la “civiltà della forza”. Che siamo forti perché riempiamo il cielo di aerei, la terra di macchine, le città di oggetti. Che camminiamo impettiti e fieri, che abbiamo denaro per comprare. Che abbiamo in casa una macchinetta che fabbrica denaro. Noi siamo, secondo loro, ‘gli dèi della forza”. E tutto sommato non mi è sembrato così male, temevo potessero C.G. Jung, Spirito Mercurio, in Opere, vol. 13, pp. 229-237. P. A. Talbot, In the shadow of the bush, Doran, New York e Heinemann, London 1912, pp. 31-32. T. Nathan, La folie des autres. Traité d’ethnopsychiatrie clinique, Dunos, Paris 2001, p. 5. vederci assai peggio, considerando quando abbiamo combinato in quei paesi. Mi riconducevano al mito dell’eroe, alle teorie sulla nascita della coscienza (tutte di impronta maschile), all’Arcano della forza. Chi tra gli altri ce lo ripeteva con insistenza, inoltre, era il tipico ‘interprete briccone’, per dirla con Hampaté Bâ;5 sospettavo volesse lusingarci. Poi mi è capitato, molto tempo dopo, di venire a conoscenza degli studi di un altro funzionario delle colonie, un ingegnere francese che grazie ai guasti dei motori dei camion a gas e agli incidenti delle macchine per costruire ponti venne più volte costretto a fermarsi a lungo nei villaggi del Niger, e ad avere la fortuna e la grazia di essere invitato poco a poco ad entrare – dal suo operaio, il giovane Diamouré Zika - nel ‘meraviglioso’ africano.6 Divenuto etnologo, documentarista, inventore del Cinema Verité, venne iniziato alla complessa religione dei pescatori del Niger. Tante altre civiltà basano l’importanza e l’equilibrio della vita sul rapporto con gli esseri invisibili che ci circondano: spiriti degli alberi, delle terre, dei fiumi, degli animali, degli esseri umani, dei villaggi, dei santuari, antenati, famiglie che popolano la brousse, gruppi di jnoun (plurale di djinn) che hanno nomi specifici, legami di parentela, che fanno figli e si sposano… con cui si deve sempre essere in un rapporto di reciprocità, di attenzione, di scambio. Un nome che li accomuna è ‘proprietari’: sono loro i proprietari di ciò che esiste; non noi, occasionali ed effimeri inquilini. Questi esseri divengono visibili in alcune occasioni, e due in particolare, che ci riguardano e ci coinvolgono: nelle malattie e nella danza di possessione, la più diffusa ed efficace pratica di cura della follia del nostro pianeta. Gli spiriti arrivano, e affiliano la persona malata a sé, rendendola folle (endjinné) solo il giorno della festa dedicata a quello spirito, liberandola per il resto dei giorni e della vita. Jean Rouch, l’ex ingegnere che nel 46 decide di non avere più nulla a che fare con la nostra civiltà,7 ha filmato alcune danze di possessione, che sono per noi di eccezionale valore e importanza. Nella religione Songhay vi sono, oltre agli jnoun (i djinn) e agli antenati, le famiglie degli Holey, in tutto simili agli esseri umani, con gli stessi difetti, uguali abitazioni e organizzazioni; sono invisibili ma a volte si manifestano, per esempio incarnandosi in un rituale. Ai loro sei gruppi principali se ne aggiunse improvvisamente un altro nel 1926: un contadino Haussa che tornava dalla Mecca li ha incontrati e portati con sé. Sono gli spiriti dei capi dei coloni, del famigerato crudelissimo capitan Croccicchia del Mar Rosso che diviene il cattivo Komandan Mugu, del Luogotenente Malia, del Kig Zuzi, re dei giudici, di Kapral Gardi, il Caporale di Guardia, di Locomotive capo delle ferrovie, della moglie intrattabile del medico, Madame Lokotoro.8 L’amministrazione nemica viene giocata, entrando a fare parte del mito, e anch’essa diviene strumento di guarigione (e quanta sapienza terapeutica in questo, quale lavoro sulla proiezione e l’integrazione!). Sono gli Holley Hauka, alla lettera tradotti con Gli dèi della forza, di cui racconta il filmato di Jean H. Bâ, L’interprete briccone, Edizioni Lavoro, Roma 2002. J. Rouch, La religion et la magie Songhay, Presse Universitaires de France, Paris 1960, p. 1. Tracking the pale fox: Studies on the Dogon, documentario diretto da Luc de Heusch su Jean Rouch e le scoprerte del popolo Dogon. Si può vedere in Youtube a https://youtu.be/-5VZu85HFGs Rouch. Sono immagini molto forti e crude, ma esemplari e troppo significative per noi, di cui riportiamo la traduzione del sonoro.9 Le immagini rappresentano donne e uomini posseduti, che mimano in maniera grottesca le andature militarizzate dei coloni, i loro ‘tic’ di potere, la crudeltà e l’inutilità delle ispezioni protocollari. Il filmato presenta la cura di due gravi malati (un impotente e uno schizofrenico con gravissimi episodi di scompenso) che il giorno dopo sono perfettamente guariti. Una donna è caduta a terra, è la Magazia, una delle Regine delle Pros tute di Accra. È posseduta da un Genio donna, Madame Salma. Madame Salma è la moglie del Luogotenente Salomon, uno degli ufficiali francesi che venne per primo nel Niger, nel secolo scorso. Madame Salma ha ricevuto un abito da donna e il casco coloniale. Andrà subito a fare l’ispezione della nuova statua del Governatore. Il Luogotenente rompe un uovo sulla testa del Governatore. Perché un uovo? Per imitare il pennacchio che i Governatori Britannici portano sul loro casco. Eccolo il vero Governatore Britannico, al Trooping of Colour Horse, all’apertura dell’Assemblea ad Accra. E non ci si stupisce se in questa folla ci sono degli Hauka che sono venu a trovare i loro modelli. E se l’ordine è differente qui e là, il protocollo è il medesimo. Lo Stato Maggiore si riunisce per l’ispezione del Palazzo del Governo. Il Caporale di Guardia resta all’ingresso, e il Governatore e il Luogotenente vengono a vedere se l’edificio è stato ridipinto a nuovo. Mountyeba, che ne è responsabile, è a disagio. Se il Governatore si lamenta, Mountyeba dovrà pagare una ammenda, un montone, o forse un bue. Il Governatore è soddisfa o. Quest’uomo ves to di blu è posseduto dal Generale. Il Governatore insulta il Generale, e il Capitano dice: “Sono io, Governatore, che vado a cercare il Generale”. Il generale furioso ha un a acco di collera: “È sempre così, nessuno vuole darmi re a, a me che sono il Generale!”. Il Governatore si avvicina e lo invita a una Round Table Conference, una Conferenza della Tavola Rotonda. Ecco come noi siamo, ecco come ci presentiamo. Da allora ho dovuto ripensare alle definizioni di noi come ‘dèi della forza’. Perché, amaramente, ho dovuto comprenderne il significato: noi apparteniamo una delle pochissime, forse l’unica, civiltà che si basa sulla forza, e non - come altre sull’esperienza. Per chi privilegia il valore dell’esperienza, la vera ricchezza sono i giorni di vita (quanti più giorni abbiamo vissuto accanto agli invisibili, alla divinità); sagge sono le anziane, saggi gli anziani, ed è dono prezioso invecchiare, portare a compimento la propria esistenza. Sei diventato vecchio! Così salutano i nostri amici africani gli uomini i cui capelli sono diventati bianchi, loro con gioia, i nostri con sgomento. La donna diviene fonte di sapienza quando terminano i compiti del bios, ed è risorsa grande e onorata per tutta la comunità (parametri che capovolgono le nostre categorie della menopausa). Vengono mostrati due minuti di immagini di J. Rouch, Les maitres fou, Editions Montparnasse, Paris (1955). Mi sono dolorosamente accorta di come crescere, diventare adulti, sperimentare viene da noi vissuto come perdita, come indebolimento rispetto alla forza, massimo valore. La giovinezza sembra essere il nostro grande rimpianto, la vita che si dipana una sventura e un peso difficilmente sopportabile. Il bambino invidia il fratellino più piccolo, come se la vita potesse andare a rovescio rispetto al suo corso naturale. Pubblicità e immagini collettive penalizzano i segni della vita, amano e propongono corpi imbalsamati in una forma impossibile che porta in sé l’ombra della morte e non la felicità della vita. Ho compreso allora quanto volevano dire: riempire il cielo di aerei e la terra di oggetti vuole dire restare nel visibile, nella forza, nell’isolamento della persona, e non avere più le protezioni di tutti i sottili rapporti di flussi e di influenze che invisibilmente ci collegano, in un progetto ecologico con l’ambiente naturale che ci circonda, ci ospita e ci contiene. Gli dèi della forza siamo noi, rappresentati dal crudele Crocicchia temuto torturatore, dal luogotenente del Mar Rosso Malia esperto di esecuzioni, da Madame Lokotoro che sdottora più del marito, dal Caporale di Guardia che urla i suoi comandi, dal Governatore che indice tavole rotonde su inutili tavole rotonde… Questi siamo noi. Ma da quando? Sempre nel secolo scorso una donna, esperta di folklore dell’est e della sua terra, la lituana Marija Gimbutas, iniziò ad occuparsi di rituali di sepoltura, morte e rinascita a 15 anni, alla morte del padre. Visse in prima persona le diaspore, le fughe, gli smembramenti della seconda guerra mondiale, dall’occupazione sovietica all’invasione tedesca allo sfollamento e alla fuga prima in Austria poi negli Stati Uniti. Intimamente connessa alle radici antichissime della propria cultura d’origine (come Roheim) seguì la sua intuizione e cercò culture e civiltà che precedono la nostra, quella dell’Europa antica: le trovò. Tutti noi ne conosciamo bene l’opera e l’immensa portata delle scoperte: una rivoluzione copernicana. Le sue ricerche archeologiche, oggi completate e rivisitate da molte studiose, tra cui la storica tedesca Heide Göttner Abendroth, aprono il nostro sguardo su millenni di civiltà che vivevano in pace, senza armi, senza segni di belligeranza, dove la donna veniva rispettata e onorata come datrice di vita, dove le divinità femminili presiedevano al ciclo misterico di vita morte e rinascita, dividendo con l’uomo l’onere e l’onore della vita, i compiti dell’esistenza, i mestieri e i riti. Queste civiltà esistono ancora, come i Mozo frequentati dalla Göttner Abendroth, gli aborigeni australiani con cui si è confrontata Luciana Percovich, e i Dogon che da quindici anni visito regolarmente. Ringrazio per avermi invitato a questi approfondimenti le amiche di Pistoia, Michela Pereira, le Zie di Sofia e gli studi di Matri-Arké, che mi hanno aperto nuove ricerche e nuovi saper-fare che tra noi si intrecciano fecondamente.10 Matri- Arké, in www. Matri-arke.org; le relazioni al convegno di Pistoia del 2015 sono pubblicate in Medicina & Storia, n. s. 7/ 2015/ anno XV, ETS, Pisa 2015, pp. 45-98. L’incontro con l’Altro è sconvolgente perché ci svela noi stessi, aprendoci alle radici della nostra ombra: noi siamo convinti di essere l’origine della Storia con la S maiuscola, facendola risalire ai Sumeri, “nostri antenati omicidi”, come li definisce Gimbutas. Con Sargon I viene inaugurata la guerra, intorno al 2350 a. C.,11: prima esistevano solo lotte rituali (in genere prima della stagione della distribuzione dei campi e della semina)12 o vendette. Perché sia possibile la guerra di conquista, vi è una inquietante premessa. Tutte le civiltà hanno sempre creduto in una divinità creatrice, un’entità suprema, impronta del mondo. Accanto ad essa, coesistono molteplici divinità locali di elementi, terreni, regioni, luoghi e così via, che presiedono ai loro campi di attività, hanno santuari determinati, feste in loro onore, pratiche di relazione. Questo modo di concepire la creazione fa sì che gli scambi tra esseri umani siano cauti, prudenti, accorti: nessuno può pensare di conquistare il villaggio vicino, assumendo in casa propria tutti i proprietari, spiriti, djinn di quel luogo, vendicativi e oltraggiati, potentissimi e minacciosi. Per poterlo fare, è necessario uno stravolgimento radicale. Le tribù semitiche hanno presupposto – e imposto che la propria divinità locale fosse l’unica, la più potente, e che quelle altrui fossero false, idolatre, pagane. Le proprie divinità erano maschili, belligeranti, esperte nello scagliare la folgore, come Jahvé e Zeus, e rappresentavano l’assoluto, l’ordine universale, l’oggettività storica e cosmica. Per conquistare, bisogna disprezzare l’altro, svalutarlo, umiliarlo, squalificarlo. Privarlo delle sue divinità, delle dee della vita e della morte, dei suoi culti e delle sue relazioni protettive e sacre con la dimensione trascendente. Ecco la nostra tragica ombra, di cui siamo divenuti inconsapevoli. Lo schema della creazione deve essere sbilanciato per poter affermare un principio sopra l’altro: il maschile ha preso il sopravvento, detronizzando le grandi divinità della fertilità, della vita e della rigenerazione, perché altrimenti guerre, stermini, genocidi e rapine non sarebbero semplicemente potuti accadere. Abbiamo dovuto sopprimere il femminile per assumere tratti militarizzati, imperiosi, dominanti, per diventare gli dèi della forza. Il Mysterium coniunctionis, con la sapienza annessiva originaria che procedeva secondo gli alterni ritmi della natura e della psiche, è stato spaccato fin dai miti d’origine, ricreati per l’occasione: il Dio creatore vieta proprio la conoscenza del bene e del male, il cui intreccio costituiva la meta degli iniziati e la via della trascendenza. La donna che tiene insieme abisso e ricreazione ne è l’esperta ed offre la sua saggezza all’uomo Adamo, complice il serpente che rappresenta in molti miti d’origine la saggezza antenata: per questo viene dal nuovo Dio (semita) in persona umiliata, sottomessa all’uomo, da lui dominata, costretta a subire i parti come fatica e non come gioioso contributo alla creazione. All’uomo non è riservato un destino migliore: col sudore della fronte coltiverà la terra e si dedicherà alle sue conquiste. Non va molto meglio con i miti di origine olimpici: se in quelli più antichi la dea Metis era la più potente, perché conosceva i segreti delle anime J. Campbell, Le trasformazioni del mito attraverso i tempi, lezioni documentate e commentate da W. Weick. J. Sevier, Les portes de l’année. Rites et Symboles. L’Algérie dans la tradition méditerranéenne, Laffont, Paris 1962, pp. 88 e ss.. invisibili delle piante, delle stelle, dell’argilla, delle correnti marine e degli animali, se Afrodite era indomabile e la grande generatrice capace di tenere coese per attrazione erotica le cellule dell’universo, con l’avvento di Zeus Metis viene ingoiata, Afrodite ridotta ad amare un umano e Era la sposa diviene la caricatura dell’ombra del marito: gelosa, prepotente, invidiosa, incattivita perché captiva, prigioniera, costretta in un ruolo. E Dioniso, dio androgino dello slancio della vita è costretto a cedere per più mesi l’oracolo di Delfi con Apollo, che ne ha ucciso il drago – pitone, di antica sapienza. Quest’ombra è inoltre diventata la base di molte teorie scientifiche, prima fra tutte quella dell’evoluzionismo, che presupporrebbe una creazione organizzata in senso progressivo, capace di migliorare costantemente gli esseri scartando quelli ‘inutili’ (atroce programma nazista), con l’intento di dimostrare che l’essere umano è la prima, la più evoluta fra le creature (e guarda caso è pensata da un essere umano; sarebbe interessante sapere come ci vedono i leoni), e non solo: rendendo l’uomo bianco occidentale la perla della creazione (e guarda caso…), così come molti (occidentali) pensano e scrivono che l’amore vero vive soltanto in occidente. Ed Hegel descriveva l’impero germanico (il suo) come la più alta forma evolutiva di organizzazione storica. Jean Servier, etnologo algerino autore de L’uomo e l’invisibile (testo che è pietra miliare della nostra formazione), collaboratore di Chevalier et Gheerbrandt per il Dizionario dei Simboli, direttore di un prezioso Dizionario dell’esoterismo, conoscerà Jung ed Eranos e collaborerà con von Franz per gli studi sulla sincronicità, portando la sua vasta esperienza di civiltà che fondano ogni pratica terapeutica sulla divinazione. Ne L’uomo e l’invisibile scrive: “La guerra distruttiva, la guerra totale è la caratteristica delle civiltà tecnicamente sviluppate, la cui principale preoccupazione sono le conquiste materiali. L’impero non è il termine dell’esito di una lunga serie evolutiva che è partita dal clan, ma al contrario è una forma sociale patologica. L’impero, per l’umanità e la società da cui ha origine, è ciò che è il cancro per il corpo umano: una proliferazione disordinata di cellule a spese dell’armonia dell’insieme… l’uno e l’altro sono agenti di distruzione… Quando una civiltà sopravvive a una crisi imperiale, resta a lungo diminuita, impoverita, in lotta per ritrovare la sua prima armonia. (…) Non ho mai sentito dire che un villaggio dell’Africa del Nord abbia voluto imporre le sue tradizioni ad altri villaggi, o ammassare i beni sottratti in un unico granaio; nemmeno che un clan australiano, eschimese o ottentotto abbia voluto dominare gli altri. L’etica delle civiltà tradizionali vi si oppone: conquistare un villaggio significa conquistare geni guardiani e santuari, che nel tempo finiranno per vendicarsi. (…) Il legislatore ha la fortuna di vedere sopravvivere la sua opera solo se tiene conto delle concezioni tradizionali e dell’orizzonte sociale della sua civiltà. Se si comporta così, la memoria di lui raggiungerà quella dei legislatori mitici e degli antenati fondatori; in caso contrario sparirà, dimenticato una volta che saranno cancellate le ultime rovine del suo tentativo irrisorio. Alessandro Mago, Giulio Cesare, Napoleone o Shaka Zulu hanno ritrovato l’aureola nera dei conquistatori ittiti o babilonesi, come Gengis Khan o Timour lo zoppo: non sono stati che accidenti nella storia dell’umanità”.13 Non inizia con la nostra civiltà la storia, e nemmeno la scrittura. Infatti la scrittura esisteva molto prima di quella che noi utilizziamo: era sempre riservata a funzioni sacre, come il corno di bisonte sollevato dalla Venere di Laussel che reca iscritto un calendario lunare, una delle prime testimonianze trovate di misurazioni astronomiche e matematiche (e siamo tra il 18000 e il 15000 a. C.), come le scritture lineari che risalgono al 5000 a. C. o le antichissime donne-libro, sciamane con iscritte nel corpo le loro formule misteriche. E come le domande che gli indovini dogon scrivono sulla sabbia per interrogare la volpe, unica testimonianza scritta di una grande cultura orale. L’utilizzo successivo e ‘nostro’ della scrittura invece è altro, diviene burocrazia, misura del cosmo, regolarizzazione: i mediatori con l’invisibile divengono sacerdoti professionali, e l luoghi eccezionali in cui risiedevano le anime animanti il cosmo diventano lo scarto rispetto alla norma. Da allora in poi l’eccezione è da espungere, disordine in un mondo codificato. Il transito dei pianeti si trasforma in costellazioni fisse; la scrittura esce dal sacro ed entra negli uffici, l’aritmetica suppone di trascrivere e numerare i misteri dell’esistenza. Nasce la coscienza progressiva, che sceglie, taglia, procede in linea retta escludendo l’eccentrico, lo scarto, mettendolo in ghetti fuori le mura e riempiendo l’ambiente di rifiuti. I sogni ancora oggi sono ricchi di tracce di tanta storia (e come potrebbe essere altrimenti) che precede l’instaurarsi degli Dèi della forza. Più di 30.000 anni di storia rispetto agli ultimi 5000: uno zoccolo profondissimo. Jung ha dedicato la sua vita a ritrovare quel tempo e i suoi lacerti, nella gnosi, nell’alchimia, negli arcaismi della psiche e nelle voci che abitano la follia e le guarigioni, materia viva dell’inconscio collettivo. “Se viene sperimentato realmente, l’inconscio collettivo è l’esperienza fatidica di tutta una vita, è un’esperienza tremenda”.14 Meta di ogni processo individuativo è per lui il Mistero della conciliazione degli opposti, che possono divenire complementari e intrecciarsi in un fluire sincretistico e sincronico, ripristinando una coscienza che procede secondo i moti della psiche, per vuoti e pieni, che sa contenere l’eccentrico e lo scarto. Anzi, che fonda ogni costruzione sulla pietra rifiutata perché imperfetta, come quella portata dalle correnti del lago sulle rive di Bollingen. Egli è ben consapevole della difficoltà dell’impresa: “La coppia di opposti è per noi nemmeno immaginabile: l’archetipo della coniunctio trascende la capacità di immaginazione umana; quando è oscurato, la vita perde senso e l’individuo ha perduto e tradito la 15 sua anima”. Jung dedica tutta la sua vita a riparare questo scenario, e con piccole colate d’oro come nella tecnica Haiku rimette insieme i cocci di tanto scempio, che ha visitato alle soglie della prima guerra mondiale con l’esperimento del Libro Rosso, a cui ha dedicato la sua intera esistenza. Si tratta di realtà che ci fondano, sostrati profondissimi e vibranti, che J. Servier, L’homme et l’invisible, Laffont, Paris 1964, pp. 322-325. C.G. Jung, Analisi dei sogni (Seminario tenuto nel 1928-30), Bollati Boringhieri, Torino 217. C. G. Jung, Mysterium Coniunctionis, tomo I, op. cit., p. 159. rendono ogni nostra parola ‘grondante sangue’ e ogni nostro gesto ricco di impliciti: “…perché noi, uomini bianchi, non ci rendiamo conto di quanto siamo discendenti, i figli, di una lunga serie di antenati. Ci piace comportarci come se fossimo freschi freschi, appena fatti dalla mano di Dio, senza alcun pregiudizio storico… Questo voler essere liberi, non limitati da alcun antefatto, è una singolare proiezione delle nostre menti: è una sorta di illusione della nostra coscienza per poter provare un sentimento di completa libertà, come se il passato storico ci fosse di intralcio…”.16 Per mutuare i termini di formazione di una lingua, non si tratta solo di sostrato, ma anche di adstrato. Dal nostro mare arrivano donne e uomini che testimoniano questo modo di vivere e di concepire l’esistenza: molte civiltà sono ancora permeate dal rapporto con la trascendenza, con gli invisibili proprietari che intenzionano le nostre azioni. Per dirla a nostro modo, i migranti che approdano da noi sanno perfettamente di non essere padroni in casa propria, e che esistono forze ed energie, correnti e stelle, anime animanti la natura con cui si deve restare in contatto, altrimenti non si è più ‘una persona’, altrimenti ‘siamo tutti morti’. Si tratta di prestare orecchio, di ascoltare, di riscoprire vivente quello che cerchiamo nei reperti del passato. Di non uccidere l’altro con le nostre semplificanti riduzioni, di non pensare di ‘conoscerlo già’. Di sospendere le categorie di sottosviluppo, di analfabetismo per definire la cultura orale di Omero, e di proiettare su chi non conosciamo le nostre ombre più pesanti. “I tempi non sono maturi, ma devono maturare attraverso questo sacrificio cruento. I tempi non saranno 17 maturi fin quando sarà possibile uccidere il fratello invece di se stessi”, scriveva Jung nel Libro Rosso. Questo ci abita: sentirci (consapevolmente o inconsapevolmente), migliori, ‘più evoluti’, figli dell’unica Storia, quella che continuiamo a studiare, l’unica che legittima il nostro modo di agire. Ci sentiamo parte della società più avanzata, quella che inaugura e tutela i diritti umani rispetto a stati che supponiamo privi di diritti, dai climi ‘medioevali’ per citare una nostra gaffe storica, noi che abbiamo vissuto le più crudeli dittature, commesso (e commettiamo) atroci genocidi. Non solo: siamo spesso convinti che chiunque entri in contatto con noi diventi come noi, come se potessimo corrompere tutto ciò che tocchiamo, in un delirio di onnipotenza degno di re Mida. Desideriamo non essere ‘turisti’ e poter viaggiare negli altri mondi dominandoli, trovandoli puri, senza complicazioni. Cito solo alcune ombre, ma ne proliferano di costantemente inquietanti, in ogni nostro ‘innocente’ discorso. Ogni volta che ci sentiamo superiori al nostro prossimo (o inferiori, perché questo cela il desiderio di poterlo prevaricare come ben asseriva von Franz) siamo complici con gli dèi della forza dentro di noi, così come ogni volta che prendiamo parte, che unilateralmente ci schieriamo. Ogni volta che siamo convinti di aver ragione abbiamo sempre torto: perché facciamo fuori le ragioni degli altri, ma soprattutto perché lasciamo che questo DNA di C.G. Jung, Analisi dei sogni, op. cit., p. 111. C. G. Jung, Il libro Rosso. Liber novus, op. cit., pp. 239-240. dominatori riprenda possesso di noi e prosegua logiche di guerra che interrompono i nostri legami profondi con la terra e i suoi spiriti viventi, con la trascendenza e i suoi misteri. È fondamentale che ognuno si ancori alle proprie tradizioni, ai propri miti d’origine, alle proprie divinità (che personalmente amo moltissimo), perché altrimenti siamo lapsi, sparsi, smembrati e disorientati, ma a patto che sempre ci si possa sedere in uno spazio protetto a dialogare con altre divinità e altri proprietari, all’ombra dell’albero degli antenati, nelle piazze dei mercati protette dagli Hermes locali, nei cerchi concertanti delle consultazioni, in questi luoghi di reciprocità e scambio di leve terapeutiche, invitati da Arpa. Giulia Valerio, Firenze, La Colombaria, Biblioteca delle oblate, 11 giugno 2016