A che ora si mangia?,Pranzo o cena?,Mancia sì mancia no

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A che ora si mangia?,Pranzo o cena?,Mancia sì mancia no
A che ora si mangia?
Qualcuno potrebbe giustamente chiedersi “chi ha fissato gli
orari dei pasti?”. Fin dall’antichità la regolarità dei pasti
rappresenta un ideale, non solo dietetico, ma anche morale,
espressione di una condotta civile che si oppone ai
comportamenti sfrenati e selvaggi: controllare l’appetito
significava anche controllare gli istinti, che distinguono gli
animali dall’uomo.
Anche se i nostri antenati mangiavano quando avevano fame,
fino a un secolo fa per molti lavoratori, mancando una
regolamentazione dell’orario di lavoro, i pasti principali
erano una merenda al mattino e una più sostanziosa all’ora del
tramonto. Nella tradizione è rimasta l’espressione “pasto di
mezzogiorno”, perché all’ora dell’Angelus le campane delle
chiese suonavano a stormo (come ancora oggi), era un segnale
per i contadini per raccogliersi in preghiera e con
l’occasione in pausa di lavoro, approfittando di sfamarsi. Ciò
non toglie che nel mezzo della giornata non sbocconcellassero
pane e qualche frutto o ortaggio crudo.
I memorabili lauti banchetti del passato non erano regolarità
quotidiana, bensì eventi eccezionali, e iniziavano
generalmente al tramonto.
Nel ‘500 alla corte spagnola iniziò l’abitudine di stabilire
orari per i pasti, e ciò rientrava nelle prerogative del re.
Sulle «etiquetas» che venivano affisse fuori delle sue stanze
(cartelli – molto decorati – che descrivevano minutamente
tutte le regole della giornata) era stabilito anche l’orario
del pasto, che generalmente era uno, e sontuoso.
Nel Seicento e Settecento in Francia e in Italia per i Signori
dell’alta società i pasti principali erano già due ad orari
più o meno fissi e, poiché trascorrevano il pomeriggio tra
concerti e passeggiate mentre dopo il tramonto si recavano a
teatro e alle feste, cenavano tra le 21 e Mezzanotte. La
mattina si alzavano tardi e quindi pranzavano intorno alle 14.
Nell’epoca moderna, ogni Paese ha le sue consuetudini, e
l’orario è variabile secondo le stagioni e lo stile di vita,
anche tra nord e sud della stessa nazione.
Non tenendo conto delle differenze geografiche e climatiche,
il Galateo dice che, volendo organizzare un pranzo in forma
ufficiale, è opportuno fissarlo alle ore 13; per un incontro
informale è concesso spostarlo alle 13.30.
Un pranzo di lavoro non ha orari rigidi, perché dipende da
eventuali impegni pressanti dei partecipanti, però un lasso di
tempo è pur sempre cortesia proporlo: tra le ore 13 e le
14.30.
In caso la pausa pranzo sia nel mezzo di una manifestazione o
convegno che riprenda in sessione pomeridiana, è lecito
organizzare il banchetto in orario 12:30-14:00.
Sono fissati i tempi anche per la cena. Normalmente, invitando
a casa, il classico orario da Galateo è alle 20.30 ma
prenotando in ristorante l’appuntamento può essere anche
anticipato alle 20. Se si tratta di un pranzo molto formale
l’ora può essere spostata alle 21 ma non oltre.
donna Maura
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Pranzo o cena?
Prima di invitare persone a mangiare da noi è necessario
stabilire il tipo di trattenimento che vogliamo offrire e,
secondo l’occasione che si vuole festeggiare, il numero degli
ospiti, senza trascurare l’ampiezza della casa nonché la
quantità di posti disponibili.
Lo sappiamo tutti che non è la stessa cosa invitare a pranzare
o a cenare. Sono due momenti diversi della giornata che
necessitano anche di menu differenti e implicano pure
abbigliamenti distinti, cosa non trascurabile secondo il bon
ton.
Condividere il cibo con qualcuno ha in sé un significato
profondo, carico di simbolismo. Il pasto è un rito, anche se
oramai quasi nessuno lo percepisce in questo modo.
Tutti i conviti dell’antichità iniziavano al tramonto. I
Romani più abbienti dell’epoca imperiale trasformarono le
antiche solennità, speciali e rare nel corso dell’anno, in
avvenimenti più frequenti, indotti dal desiderio di
manifestare la loro opulenza. Tale consuetudine fu ripresa
dopo i secoli bui dalla società cortigiana del Rinascimento e
il convito diventò una rappresentazione
magnificenza dell’anfitrione.
teatrale
della
Così ancora nel ‘700, quando il pasto principale dei ceti
abbienti era ancora solo quello serale, frequentemente con
invitati.
Io personalmente tra pranzo e cena faccio un distinguo fondato
sulla tipologia di persone che penso di invitare alla mia
tavola.
A parte il piacere dell’improvvisata ossia dell’invito a caldo
in tutta amicizia all’ora di pranzo, se intendo organizzare
qualcosa di molto easy invito a pranzo preferibilmente persone
che siano amici intimi o anche stretti parenti, sia nella
quotidianità settimanale sia nelle festività.
Questo orario induce a sentirsi più sciolti, meno formali,
consente maggiore famigliarità. È sostanzialmente meno
impegnativo soprattutto per l’ospitato, quindi è orario
perfetto quando non si vuole dare un tono troppo convenzionale
all’invito.
Tale orario potrebbe andare bene se si abbia occasione di
invitare capi o colleghi, o persone singole, che possono
presentarsi anche in abbigliamento informale.
Trovo molto più convenzionale convocare persone per una cena.
L’apparato è diverso, il menu è diverso e altrettanto il tempo
e la cura impiegati. Alla sera è diversa anche l’atmosfera per
quanto si voglia improntare la riunione su un tono di
intimità, al di là della qualifica degli invitati.
L’orario serale, inoltre, rappresenta occasione di maggiore
relax, di piena libertà da altri impegni, invoglia a una sorta
di confidenzialità negli argomenti della conversazione,
specialmente se dopocena ci si indugia a gustare un liquorino
o un calice di vino prezioso che in gergo enologico viene
detto “di meditazione”.
È a cena, comunque, che vanno invitate le persone di riguardo.
donna Maura
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Mancia sì mancia no
Fino a non molto tempo fa la mancia era considerato quasi un
obbligo a cui sottostare, in aggiunta al “grazie”, velata da
una frase di circostanza. Per certi versi era un modo per
dimostrare la gratitudine ogni volta che si riceveva un
prestazione onerosa o un favore. Il vocabolario Treccani la
definisce: «Piccolo regalo in denaro che si usa dare a chi ha
reso un servizio o una cortesia, in aggiunta al compenso
dovuto».
Il termine deriva dal francese antico «manche» e risale al
tempo dei tornei trecenteschi, quando le dame presero la
consuetudine di donare una manica (che era “aggiunta”, non
cucita come oggi) del proprio abito al cavaliere preferito
come augurio di vittoria, e si collega al concetto di
«favorire qualcuno» ma anche «essere nella manica di qualcuno»
ossia «godere dei suoi favori».
Da più parti si ritiene malcostume elargire compensi per la
prestazione di servizi forniti da persone regolarmente
stipendiate, tuttavia ci sono alcune categorie di lavoratori a
cui la mancia è utile come arrotondamento della retribuzione
che percepiscono, senza che vi sia nulla di illecito.
Poiché la mancia non è un’elemosina, ma un gesto di
riconoscenza per le attenzioni ricevute, il nostro galateo
considera doveroso offrire una adeguata «ricompensa a chiunque
abbia fatto per noi qualcosa che non era tenuto» ma chi la
concede non la deve sentire come segno di superiorità verso un
subalterno. Questo “premio” va solitamente donato allorché
otteniamo un servizio con particolare solerzia e gentilezza,
pertanto se non siamo soddisfatti non ci dobbiamo sentire
obbligati.
Michael Lynn, esperto di comportamenti del consumatore e
autore del volume «Psicologia delle mance», sottolinea che la
mancia è più che altro un modo per avere la coscienza a posto,
riducendo l’imbarazzo di “essere serviti”.
Caduta in disuso, o quasi, la mancia al bar, rimane un punto
fermo la mancia in ristorante.
Non occorre calcolare una rigorosa percentuale sul conto
finale e nemmeno ci si sbarazza degli spiccioli svuotando le
tasche dalle monetine. La parola ‘mancia’ non va pronunciata.
Non si avverte il cameriere “Guardi, le ho lasciato la mancia
sul tavolo” né si lancia la proposta ad alta voce tra i
commensali “Lasciamo una mancia?”, discutendo se 50 cent a
testa o un euro.
Se in tavola viene effettuato il pagamento, non è bon ton
iniziare la colletta in presenza del cameriere. E tantomeno
abbandonare le monete sparse sulla tovaglia, meglio
trasformarle in una banconota, mettendola sul piattino del
conto.
Ogni gesto deve risultare, spontaneo, discreto e signorile.
All’estero, in uno qualunque dei Paesi Europei o negli Usa o
in Asia o nei Paesi Arabi, le regole italiane non valgono più.
Dobbiamo informarci bene sulle abitudini locali prima di
partire e, quando siamo ormai sul posto, leggere attentamente
lo scontrino del conto e i vari cartelli affissi nei locali.
Si può correre il rischio concreto di essere insultati, e
anche peggio, se non diamo una mancia o se la moneta che
lasciamo è inadeguata e persino se offriamo denaro a chi e
dove ciò non è gradito.
Infatti, se lasciare la mancia in alcuni paesi è consuetudine
sociale, in altri è un dovere ed in altri ancora risulta
un’offesa e un’umiliazione. Viaggiatori avvisati: paese che
vai usanze che trovi.
donna Maura
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Crostacei, molluschi e dita
L’aragosta era rinomata per la squisitezza della sua polpa fin
dalla remota antichità e ancora oggi assieme alle ostriche
rappresenta il sogno di ogni palato, e di sicuro non ci si
sente pienamente in vacanza se in villeggiatura marina non si
gustano pietanze di pesce. Sono rare le persone che ne hanno
tale familiarità da non porsi mai il problema del “come si
pulisce e come mangia”, mentre affidabili maestri sono i
pescatori e la gente di mare.
Pesci, molluschi, crostacei esigono le loro specifiche posate.
Però fate attenzione, nello schieramento delle posate lo
riconoscete subito il coltello da pesce ma lo trovate
sistemato più all’interno, verso il piatto, mentre all’esterno
c’è un coltello normale. Allora osservate le forchette e
contate le coppie, le posate più esterne sono quelle da
antipasto, che si usano per prime. Spesso il piatto
dell’antipasto di mare viene affrontato con il coltello
sbagliato.
Gli antipasti freddi o gratinati si possono mangiare
utilizzando la sola forchetta (come il primo, la verdura e il
dolce), e con l’eventuale ausilio di un pezzetto di pane. Non
è un errore non adoperare il coltello pur presente, per
l’estetica della mise en place le posate vengono messe a
coppie (privilegiato il solitario cucchiaio).
Per i primi ‘allo scoglio’ non sia mai che venga in mente di
usare il coltello, benché sia stato apparecchiato, e non per
niente i camerieri portano le salviettine detergenti o la più
chic ciotolina d’acqua con lo spicchio di limone e un altro
tovagliolino.
Si usa la sola forchetta, trattenendo conchiglie e gusci … con
un pezzo di pane, dice qualcuno che ha redatto nuovi paragrafi
del Galateo della tavola, io ci ho provato ma il pane si
rammolliva prima che riuscissi a liberare il mollusco o
sgusciare il gambero.
Una blasonata d.o.c. nel suo blog di bon ton scrive
testualmente: «Un trucco per mangiare cozze e vongole, fa
impazzire tutti quando lo faccio, l’ho imparato da una mia
amica Russa: prendete una conchiglia vuota, e a mo di
nacchera, sgusciate le altre conchiglie, e portate il mollusco
con la vostra finta nacchera alla bocca». Se lo dice lei
guardando l’amica russa, noi gente comune da chi abbiamo
imparato a sgusciare le valve con un’altra valva?
Ad ogni modo le dita non vanno demonizzate. Se non si
adoperassero anche le mani a cosa servirebbero le speciali
posate che vengono servite con piatti di gamberi, gamberoni,
astice, ossia: pinze, scavini, schiaccianoci?
Le ostriche, che devono essere freschissime, aperte poco prima
del pasto, si tengono con la mano sinistra, mentre con
l’apposita forchettina si stacca il mollusco dal guscio e lo
si porta in bocca. Fa molto “alla russa”, ma anche “alla
pescatora”, strizzarvi sopra una goccia di limone, staccare il
mollusco e portare alla bocca il guscio stesso con il liquido
in essa contenuto, inghiottendo, senza masticare.
In mancanza di proprie sicurezze, un valido consiglio è di
essere sciolti nei movimenti, non farsi prendere né
dall’imbarazzo né da un eccesso di disinvoltura, esordendo con
la frase «scusate, ma io lo mangio con le mani». Troverete che
gli altri hanno già cominciato ad adoperare le mani.
D’estate al mare se ne vedono di tutti i sistemi, e nel locale
più “in” i veri vip si distinguono dai finti snob, perché sono
questi ultimi a mangiare in punta di forchetta e coltello.
donna Maura
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Precedenza ai Prelati o alle
Donne?
Tutti voi ormai sapete che quel complesso di norme di
comportamento oggi conosciuto con il termine “galateo” ha
origini remote, appartiene ai primi consorzi umani, e tutti i
Cerimoniali del mondo antico e moderno sono sempre stati
scanditi da regole fisse, non solo per lo svolgimento dei riti
ma specie per le “precedenze” che vengono assegnate in
corrispondenza dei ruoli sociali dei partecipanti.
Proprio in virtù della sua efficace funzione per lo
svolgimento del rito, all’inizio dei tempi solo religioso
perché i Grandi Sacerdoti erano la massima autorità presso un
popolo, poi anche civile quando i popoli si sono date forme di
governo (monarchico e/o democratico), il Protocollo delle
Precedenze ebbe un valore basilare, ancora oggi rispettato, a
volte rigidamente.
Ebbene,
nell’odierno
Protocollo
delle
Precedenze
universalmente valido, almeno per le culture che derivano dal
mondo europeo, la figura del Prelato ha la precedenza
assoluta, dopo il massimo rappresentante della società civile.
Ossia, come a dire in una cerimonia indetta dalla Repubblica
Italiana, la persona più importante è il Capo dello Stato e
poi segue il Papa, se è ospite, in assenza del Papa il
Cardinale più anziano invitato, solo dopo vengono gli altri
massimi gradi delle istituzioni. Calo l’esempio in ambito
locale: se ad una manifestazione promossa dal Comune partecipa
il Vescovo, il Primo Cittadino è la persona più importante,
poi viene il Vescovo, il Prefetto segue.
In un consesso a tavola, voi sapete che le Signore hanno
diritto di precedenza sugli uomini, ma un Prelato deve venir
servito prima di qualunque Signora.
Ora, dopo aver sentito ciò che, riguardo alle donne, Papa
Francesco ha detto ai giornalisti nella conferenza stampa,
anzi meglio chiamarla chiacchierata amichevole, sull’aereo che
lo riportava a Roma dopo la Giornata Mondiale della Gioventù
svoltasi a Rio de Janeiro nei giorni scorsi, sono convinta che
il Protocollo ufficiale delle Precedenze e il Galateo della
nostra quotidianità dovranno essere rivisti.
Il Papa ha detto «bisogna ricordare che Maria è più importante
degli Apostoli, vescovi, così la donna nella Chiesa è più
importante dei Vescovi e dei preti», i quali spesso si
atteggiano a “Prìncipi”. Bene, se la donna ha questa funzione
e questo ruolo nella Chiesa, figuriamoci a tavola!
Non voglio essere intesa male, lungi da me fare un discorso
grossolano o antireligioso, ma “rivoluzionario” sì, anche
perché Papa Francesco ha invitato i giovani prima di tutto e
poi ognuno di noi ad essere rivoluzionari, nel senso di
sperare in cambiamenti positivi, nell’avere la fermezza di
proporli e di perseguirli, oltre che principalmente di non
aver paura di professarsi credenti.
Certo le parole del Papa saranno esse stesse rivoluzionarie,
perché andranno a intaccare un pilastro con millenni di
storia. Dunque, il mio auspicio è che davvero il Galateo
adegui ai tempi moderni almeno questo principio: a tavola le
signore vanno servite per prime in assoluto, qualunque prelato
presente dovrà essere trattato come un qualsiasi altro uomo, e
tra costoro in funzione del suo grado ecclesiale.
Va da sé che un Prelato invitato quale ospite d’onore avrà la
precedenza assoluta.
donna Maura
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Cenare in terrazza
Estate, tempo di cene all’aperto, auspicando di godere un po’
di benevola brezza e non essere infastiditi dagli insetti
notturni; per i fortunati possessori di terrazze, verande,
balconi, cortili e giardini è un’aspirazione invitare amici a
condividere un’allegra serata all’insegna dell’informalità,
sia in città sia in vacanza.
Preparare un menù che soddisfi i gusti di tutti a volte è
laborioso anche per questo tipo di ritrovi e non sempre può
essere imbastito sul momento, anche volendo servire solamente
un antipasto di prosciutto e melone, una pasta o riso freddi,
verdure fresche o grigliate, gelato o frutta per dessert.
Richiede programmazione e cura dei particolari.
Per esempio, la frutta, dal melone all’uva, dai fichi d’India
all’anguria sempre molto gradita per gran finale, deve avere
la giusta temperatura da frigo. Ovviamente si deve avere
adeguato spazio nel frigidaire anche per le bottiglie d’acqua
(da calcolare circa un litro per ognuno dei presenti) e idem
per il vino, specie se offrite del bianco e delle bollicine.
Non devono mancare birre, chinotti e bibite analcoliche.
Dovrete munirvi di contenitori termici da tavola per
preservare le temperature e di ciotole per i cubetti di
ghiaccio. Un consiglio, sgomberate dalla vista tutte le
bottiglie consumate, anche se non sono del tutto vuote per
rimpiazzarle tempestivamente con altre fresche.
Nelle giornate molto calde, fate attenzione a non tenere
esposte lungo tempo prima dell’ora fissata, alla alta
temperatura ambientale, le pietanze, specie con maionese,
uova, formaggi freschi, pesce, esse potrebbero venir intaccate
da microrganismi con la conseguenza che il giorno dopo qualche
ospite vi potrebbe telefonare chiedendo “Ma cosa hai messo
nella pasta/riso?”.
A fronte di un menù semplice, la fantasia di chi invita può
sbizzarrirsi nell’arredo della tavolata, in questo caso viene
creata un’atmosfera che gli invitati potranno ricordare con
piacere anche da un anno all’altro: si può giocare con colori,
contrasti e fantasie. Non si tira fuor il servizio migliore e
neanche quello da cucina, nemmeno piatti e forchette di
plastica. L’ideale sarebbe uno ad hoc come nella foto (tratta
da “lacucinaitaliana”). A me piacciono molto bicchieri di
fogge e colori diversi, rigorosamente di vetro per favore.
Le sedie, delle più varie, raccattate dall’arredamento interno
se non se ne hanno a sufficienza da “esterno”, potrebbero
essere rivestite di teli o cuscini dalle tinte più vivaci, per
creare una sorta di omogeneità e sicuramente un minimo di
sollievo a chi sta seduto.
Completano l’atmosfera, e sono molto utili sia per illuminare
sia per scacciare zanzare e falene, candele di tutti i tipi
intorno all’area di ritrovo (attenzione se le appoggiate sui
parapetti). Bandite, però, quegli zampironi dall’odore
sgradevole, a meno che non abbiate un giardino e li
posizionate lontano dai commensali, sotto le piante per
esempio.
Beh, ho parlato di “informalità” che è tale fino ad un certo
punto, ossia non è che non valgono le buone maniere. La regola
in assoluto è che non si deve violare è il rispetto dei
diritti dei condomini, dei vicini. Pertanto, sono da bandire
grigliate open air se fumi e odori salgono verso i piani
superiori e infastidiscono. Quante liti condominiali per
questo motivo! Perlomeno avvisate preventivamente.
Abbassate i toni delle voci e delle risate, e ovviamente della
musica se pensate questa serva da corollario alla vostra
festicciola. Rispettate il Regolamento condominiale sui rumori
molesti e non avrete grane, anche perché molte persone sono
invidiose di chi si diverte e potrebbero telefonare ai
Carabinieri.
donna Maura
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La tentazione del tovagliolo
Siamo in piena estate, fa caldo, mangiando e bevendo
accumuliamo calore ed eccoci ricoperti di perline trasparenti
a volte anche gocciolanti, che fare? Non è elegante
trasformarsi in fontane proprio nel mezzo di un ottimo pasto,
di una cena elegante, di una conversazione interessante con i
vicini di sedia. Eppure capita anche alle signore.
Abbiamo a portata di mano un tovagliolo, salvietta di stoffa o
di carta, a seconda di dove ci troviamo, e la tentazione è
grande.
Fin nell’antichità pezze di lino o di cotone erano usate,
espletato il lavacro purificatore, sia dai celebranti prima di
qualunque rito sia dai commensali all’inizio dei banchetti. E,
siccome si adoperavano le dita per mangiare, non essendo
ancora state inventate le posate individuali, i servitori
all’occorrenza e tra una portata e l’altra erano sempre pronti
con bacinelle d’acqua e pannicelli lindi per ogni ospite.
C’erano diversi tipi di panni, tovagliette, tovaglioli,
fazzoletti, a seconda dello scopo: asciugarsi le mani,
strofinare l’orlo della coppa prima di passarla al vicino,
pulire la bocca dai sughi prima di bere, e anche per tergere
il sudore della fronte o soffiare il naso (benché molti,
ancora nel 1700 usassero le maniche per queste ultime
operazioni).
Perché, dunque, oggi qualcuno scambia il tovagliolo come uno
strofinaccio multiuso?
A parte coloro che, appena seduti, lo adoperano per lucidare
le posate e l’orlo del bicchiere palesando la scarsa fiducia
nell’igiene del locale, o coloro che per contro si dimenticano
di passarlo sulle labbra prima di bere e subito dopo, e pure
nel corso del pasto qualora la pietanza sia particolarmente
sugosa, tenendosi appiccicate briciole di pane o sbaffature di
crema agli spigoli mentre amabilmente conversano, c’è un bel
po’ di persone che si strofina per bene le dita lasciando
vistose macchie e su quelle stesse si pulisce poi la bocca,
spesso altrettanto strofinata avanti e indietro più volte.
E ci sono quelli e quelle che lo trasformano in un ventaglio,
sventolandoselo davanti alla faccia o al décolté, esibendo a
tutti le untuosità impresse.
Purtroppo, ci sono altri che, in mancanza d’altro, scambiano
il tovagliolo per una salvietta detergente e se la passano sul
viso, sul collo, alla radice dei capelli, specie nelle
giornate afose.
Ma il peggiore spettacolo che mi è capitato di vedere è stato
offerto da un signore danaroso, che dopo aver svolto col
tovagliolo tutte, ma veramente tutte, le funzioni che ho
descritto, prima di alzarsi da tavola si è concessa una sonora
soffiata al naso! Il cameriere per fortuna lo ha notato e
sparecchiando ha sollevato la salvietta per un lembo.
È bene ricordare che il tovagliolo, così spesso strapazzato,
mortificato, surclassato, persino ignorato, ha una unica
funzione, secondo il Galateo: forbire delicatamente gli angoli
delle labbra prima di accostarvi il bicchiere.
Per ogni altro fine ci sono altri rimedi.
donna Maura
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Un
bel
piatto
di
verdure,
toccasana d’estate
Nella stagione calda, oltre a nutrirsi di frutta e di pietanze
leggere, in particolare liquide, per non appesantire la
digestione e favorire il ricambio metabolico, molte persone si
scoprono attratte dalle insalatone, che con la varietà di
colori e forme di cui Madre natura ha dotato le verdure sono
un alimento ricco di sali minerali, vitamine, fibre e povero
di grassi, purché non si esageri nel condirle.
Per “verdura” comunemente si intende la gamma di prodotti
commestibili della terra, che non siano frutta, quindi non
solo quella in foglia meglio denominata “insalata” o “salata”
(per il fatto che i nostri predecessori Romani gradivano
insaporire le foglie crude con molto sale), ma anche gli
ortaggi in genere, i “prodotti dell’orto”, dalla patata al
pomodoro, dal peperone alla carota, dal cavolo ai fagiolini,
dalle verze alle zucchine, e così via, con tutte le varietà
locali.
Nelle cene con ospiti importanti è sconsigliato presentare
verdure crude e in foglia per una serie di motivi, sia
organizzativi per l’apparato che implicano spesso stridente
con una mensa raffinata e sia perché non gradite da tutti i
commensali, con il conseguente scompenso dell’armonia della
tavolata.
Solo
nei
pranzi
meno
formali
può
arrivare
in
tavola
l’insalatiera, munita di apposite posate, assolutamente non di
metallo, meglio di materiale naturale come osso o legno o di
policarbonato, che non è plastica.
Volendo osare offrire un “super misto”, nella presentazione va
curata l’alternanza dei colori e ognuno è tenuto ad attingere
le verdure più gradite senza scomporre l’insieme.
L’ideale dell’eleganza è fare arrivare tanti contenitori
quante sono le verdure proposte, crude, calde, lessate,
grigliate, arrostite.
Le crude non vanno mai presentate condite, altrimenti si
bruciano. Per stare all’etichetta, si dovrebbe proporre ad
ognuno olio, aceto, sale, pepe al momento e in appositi
contenitori armonizzati al servizio della tavola, per poi far
sparire il tutto.
È preferibile che le non crude siano “al naturale” o al
massimo condite d’olio quanto basta per adattarsi a ogni
gusto, evitando di utilizzare burro, cipolla e aglio, sapori
non da tutti accettati.
In alternativa saranno apprezzate varie salsine preparate
fresche e presentate in ciotole munite di cucchiaino, senza
dimenticare piattini con spicchi di limone di fresco taglio.
Il Galateo immancabilmente offre consigli su “come si mangia”.
Si eviti di mescolare sottosopra tutta la verdura per
amalgamarla con il condimento, di pestare rumorosamente e
ripetutamente la posata, giacché più di tanto i rebbi non
riescono a infilzare, e di spalancare smodatamente la bocca
per infilarci ampie quantità. Qualora i pezzi fossero
eccessivamente grandi (ad es. foglie di rucola o di altra
insalata o fette di pomodoro), si possono tagliare con la
forchetta, aiutandosi con un pezzo di pane, e mai utilizzare
il coltello per sminuzzarle prima, cosa che a volte verrebbe
spontanea e ho spessissimo visto fare, né per agevolare
l’inforchettamento.
Non si beve vino mentre si gusta l’insalata, è sconsigliata
anche l’acqua per evitare gonfiori addominali.
donna Maura
[email protected]
Attento che scotta!
D’estate tutti sentiamo il bisogno di mangiare leggero, almeno
a pranzo, ma nella nostra mentalità e tradizione culinaria
italiana nemmeno nelle giornate più afose rinunciamo al
“piatto caldo” ossia pretendiamo che tutto ciò ci viene
servito sia “fumante”, alla temperatura di cottura, salvo poi
a scottarci la lingua e finire il pasto in un bagno di sudore.
Brodami e polentine più o meno liquide di legumi e di cereali
un tempo erano il pasto principale dell’uomo nella
quotidianità, non c’era altra pietanza che quella per ottenere
un senso di sazietà, ma anche perché sono un concentrato di
vitamine e fibre assai utili all’organismo. Proprio per questi
motivi le minestre sono state rivalutate dai nutrizionisti
moderni, in tutte le stagioni e specialmente d’estate per
sopperire al ricambio dei liquidi che disperdiamo col caldo.
Ma che dice il Galateo in proposito alla pietanza liquida
bollente? Dice che non si soffia sopra e non si gira il
cucchiaio nel piatto per raffreddare, e non si fanno assaggini
per dosarne la temperatura.
Il cucchiaio non si porta alla bocca colmo, anzi, va riempito
solo a metà, giacché non si deve sorseggiare più di una volta
dalla medesima cucchiaiata.
Inoltre, non si piega la testa sopra il piatto per avvicinare
la bocca alla posata, si eleva questa alla bocca, e attenzione
agli “sbrodolamenti”…
La minestra si mangia con un movimento della posata che parte
dal bordo e va verso il centro del piatto, non si comincia dal
centro verso il bordo. Per le ultime cucchiaiate si solleva
leggermente la fondina verso l’interno della tavola, non verso
sé stessi.
Quando la minestra contenga qualcosa di solido (pasta o riso o
tortellini o comunque pezzetti di verdure), si introduce in
bocca poco più della punta del cucchiaio (senza aspirazioni
rumorose e senza leccarlo dopo). Se è liquida il cucchiaio va
alla bocca di taglio, sempre evitando risucchi. Aspirazioni e
risucchi che spesso sono indotti dalla percezione che il
liquido scotti.
Abbiate pazienza, chiacchierate nel frattempo, farete un
piacere anche ai vostri compagni commensali, evitando che
cadano nel comportamento non idoneo.
Anche il risotto è un’insidia a rischio ustioni.
Ci si comporta come per le minestre liquide: non si rigira la
pietanza con l’intento di raffreddarla, anzi, si ottiene solo
di portare in superficie la base che ha la maggiore
temperatura, non si spargono mucchietti di chicchi su tutto
l’orlo del piatto, magari facendo una specie di fossato
intorno alla montagnetta.
Non si riempie la forchetta di una porzione abbondante per poi
rigirarla per la bocca se ancora scotta!
Il risotto si inizia a mangiare dai
bordi
a
piccole
forchettate, solo la punta della posata, e pescando dalla
superficie, non affondando i rebbi nella massa.
In merito allo svuotare il piatto, si arriva fin che si può
raccogliere, senza ostinarsi a tirare su tutto fino all’ultima
goccia di liquido o chicco di riso. Il galateo in effetti
ritiene non disdicevole lasciare qualcosa, ma solo per il
discorso che il piatto non va spazzolato come se fossimo
affamati!
donna Maura
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Anguria e cocomero o melone e
popone a tavola?
Piuttosto che parlare di carne, con questo caldo è meglio
pensare ai frutti che più si associano all’idea del
dissetarsi, con la dolce polpa ricca di acqua (90%), vitamine
specie A e C, zuccheri naturali, sali minerali, diuretica
quanto basta per la reidratazione, però ci accorgiamo che ove
andiamo in giro per l’Italia non capiamo se mangiamo anguria o
cocomero, melone o popone.
È vero, i nomi sono varianti regionali, ma quello che molti
non sanno è che i termini cocomero, dal latino «cocumiscocumeris», e anguria, dal tardo greco «angurion», significano
“cetriolo” e lo stesso cetriolo in Grecia veniva chiamato
cocomero, come tale citato da Virgilio.
È risaputo che nelle regioni del centro-sud è conosciuto il
cocomero e nel nord l’anguria, dove – a complicar le cose – il
termine cocomero o meglio “cocumer(o)” è riservato al
cetriolo, “cucumis sativus” (anche in francese cetriolo si
dice «concombre»).
Ma la confusione non finisce qui: nel meridione il cocomero è
anche chiamato “melone” o meglio melone d’acqua (in inglese
«Watermelon»), mentre al nord “melone” è il melone (in inglese
«Melon» o «Muskmelon»), ossia il “Cucumis melo”, alias il
toscano “popone” alias meridionale “baciro” se non anche
“melone da pane”.
Inoltre tutti questi non sarebbero propriamente dei frutti,
perché in botanica sono considerati ortaggi, della famiglia
delle Cucurbitacee, piante a fusto strisciante, stretti
parenti del cetriolo e anche della zucca e delle zucchine.
Al di là di tutte le nomenclature che fanno girar la testa,
come si mangiano anguria-cocomero-melone?
Normalmente viene servita sul piatto una fetta con la scorza e
sono necessari forchetta e coltello, posate da dessert, con i
quali si ricavano frazioni di polpa da portare alla bocca uno
alla volta.
Di regola, le fette servite dell’anguria dovrebbero essere già
sufficientemente liberate dai semi, quelli rimasti vanno tolti
con la punta del coltello ma senza fare prima scempio della
polpa. Se ce li trovassimo in bocca, in linea di massima
dovremmo seguire la regola che impone che qualunque cosa
portata alla bocca con la forchetta e non deglutibile si
deposita sulla forchetta stessa e poi da questa nel piatto, ma
io ho visto qualcuno avvicinare addirittura il coltello alle
labbra e trasferirvi i semi. Forse perché sarebbero sfuggiti
tra i rebbi della forchetta? Tuttavia pare lecito raccoglierli
nell’incavo del pugno (come i semi dell’uva), senza emettere
certi suoni tipici del soffio, per poi depositarli nel piatto
con movimento semplice e naturale.
Le fette del melone, invece, devono essere servite già
ripulite dai semi e quasi interamente già staccate dalla
scorza, e assaporate anch’esse con coltello e forchetta.
Non è prudente cimentarsi a tagliare la scorza per accorciare
la fetta, ne va dell’equilibrio del resto e poi non ha senso.
Non è salutare raschiare la polpa residua aderente alla scorza
perché lo strato bianco non è digeribile.
Alla fine, le posate vanno lasciate allineate a destra delle
scorze.
donna Maura
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