Teatro e follia - Dipartimento di Arti e Scienze dello Spettacolo

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Teatro e follia - Dipartimento di Arti e Scienze dello Spettacolo
Figure e luoghi della follia
Dispense 2007-2008
a cura della cattedra di Psicoterapia teatrale
Parte II
Teatro e follia
nel Medioevo
Non possiamo confondere la pazzia con la libertà,
ma certo molto bisogno di libertà si realizza attraverso la pazzia.
E tale libertà comprende anche la fuga dalle definizioni.1
La follia [...] lungi dall'essere per la libertà un insulto,
ne è la più fedele compagna, ne segue il movimento come un'ombra.
E l'essere dell'uomo non solo non può essere compreso senza la follia,
ma non sarebbe l'essere dell'uomo se non portasse in sé
la follia come limite della sua libertà.2
Marginalità e follia nel Medioevo
Il Medioevo è popolato da una enorme massa di persone ai confini della vita
sociale, rispettabile, produttiva: sono gli emarginati, gli esclusi. Di questa vasta
schiera fanno parte categorie molto diverse: eretici, lebbrosi, folli, ebrei, streghe,
sodomiti, prostitute, ammalati, stranieri, poveri, declassati, mendicanti, detenuti.
Sono i dannosi o gli inutili al mondo.
I folli sono a loro volta una categoria frastagliata: insani di mente, beoni,
sempliciotti, furiosi, folli di Dio, malinconici, frenetici, indiavolati (posseduti),
buffoni…
In ogni caso è necessario accostarsi al problema dell’emarginazione, e in
particolare alla follia medievale, attraverso uno studio storico e dinamico,
individuando dei processi piuttosto che degli stati. Processi di costruzione e di
trasformazione di identità (culturale e soggettiva), piuttosto che di stati di cose
fissati dalla natura o da un ordine immutabile. L’emarginazione è un processo che
cambia le sue rappresentazioni e le sue modalità di trattamento: chi è escluso oggi
potrebbe non esserlo più domani e viceversa; l’emarginato che ora è allontanato e
disprezzato poi sarà pietisticamente assistito e incluso nelle mura della città
seppur in ghetti o recinti di vario genere.
Inoltre è fondamentale valutare cosa cambia in questo processo: gli emarginati
stessi oppure la considerazione, la rappresentazione che la società ha di essi?
Segre C., Fuori del mondo, Einaudi, Torino, 1990, p.100.
Lacan J., “Discorso sulla causalità psichica”, Scritti, Einaudi, Torino, 1974, p. 170. La citazione prosegue:
«È proprio vero che […] “Non diventa pazzo chi vuole”. Ma anche che non arriva chi vuole ai rischi che
avviluppa la follia» (ibidem).
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Probabilmente tutti e due. Ad esempio, a cambiare nei secoli non è solo il folle
ma anche, e soprattutto, l’ambiente che gli è intorno. Il mondo che lo circonda è
diverso e appare diverso anche il folle, è diversamente trattato.
Quale è la giustificazione ideologica dell’emarginazione del folle nel Medioevo?
La società ideale nel Medioevo è pensata come “sacra”, “pura”, “regolata”. A
partire da questo ideale prende corpo la paura del diverso, del fuori norma; paura
che alimenta il sospetto, il rifiuto e determina le conseguenti pratiche di
esclusione. Così, l’ideale di “comunità sacra” dell’Occidente medievale che
comprende sia chierici che laici, esclude ogni non-conformismo come eresia.
L’ideale di “purezza” è radicato nella credenza dell’unione indissolubile di corpo
e anima, quindi il corpo viene ad assumere un ruolo rivelatore in quanto
espressione dell’anima: una malattia o una deformazione del corpo rivela una
impurità dell’anima (la lebbra è segno di peccato, e così le deformazioni fisiche o
la bruttezza). L’ideale di “normalità” è costruito intorno all’assimilazione della
natura a Dio e al rifiuto manicheo del misto, del non regolato, del deviante (come
si può essere metà uomini e metà animali – nel caso delle mostruosità genetiche,
metà donna e metà uomo – nel caso delle aberrazioni sessuali e della sodomia?).
Si tratta allora di tenere sotto controllo o di escludere quelli che rappresentano un
pericolo per la comunità sacra, pura, normale. È un equilibrio fragile che tocca
preservare. Bisogna vigilare e sospettare. In tale clima di insicurezza non c’è
spazio per le sfumature, per i grigi, per le posizioni intermedie né per le posizioni
estreme. Ogni diversità è minacciosa. Nei difformi è all’opera il nemico del
genere umano, il Diavolo. A partire dal XIII secolo il lavoro, dopo essere stato
disprezzato come conseguenza del peccato originale, viene riabilitato diventando
uno dei valori portanti di una società che si sta lanciando nella crescita economica
e commerciale. Ora chi non lavora è considerato un pericolo, l’ozio diventa un
peccato capitale e condizione di emarginazione. Fino a poco tempo prima la
condizione di mendicante, questuante, di eremita, o di inabile al lavoro (per
motivi fisici o mentali) era tollerata e a volte nobilitata.
Con l’invenzione del purgatorio nel XIII secolo agli emarginati si dà la loro
“naturale” destinazione.
Sarebbe interessante approfondire le etichette, i segni, i simboli che venivano
attribuiti ai folli per identificarli e qualificarli. Ad esempio i nomi di animali
associati ai folli, i comportamenti ritenuti caratteristici (ad esempio,
l’imprevedibilità, l’irruenza, il ritiro, la stramberia), le loro espressioni somatiche e
linguistiche (anatomia, fisionomia, gestualità, movimenti, linguaggio verbale),
l’abbigliamento, i segni distintivi (la raganella per i lebbrosi, la rotella per gli ebrei,
le due croci per gli eretici pentiti), i rituali di esposizione e di punizione.
Attraverso questa semiologia si potevano individuare, controllare e isolare i folli.
In generale la società medioevale ha bisogno di mettere al margine questi
“diversi” (minacciano la comunità sacra, pura, normale). Ha bisogno di
emarginarli in quanto esponendoli, rendendoli visibili, può assisterli, prendersene
cura e in questo modo formarsi una “buona coscienza”, può proiettare e fissare
in loro, magicamente, tutti i mali che essa allontana da sé. In tal modo,
individuando, condannando e poi caritatevolmente assistendo ciò che di impuro,
di brutto, di sporco, di insensato si produce nel suo seno, si purifica, si sacralizza,
si normalizza.
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La nave dei folli
Hieronymus Bosch, realizza il dipinto la Nave dei Folli nel 1489. Nel 1494
compare in occasione del Carnevale altorenano, il libro di cui molti parlano, ma
che ben pochi conoscono, “La Nave dei folli” (Das Narrenschiff) dell’umanista
Sebastian Brant. L’opera è un grottesco e disastroso viaggio dei matti, che sono
tutt’uno con i peccatori, verso il naufragio finale che precede la quaresima, metafora
dell’eterna punizione se non interviene il pentimento. Clamorosa satira, coloratissima
“festa dei pazzi”, orrenda e al tempo stesso allegra kermesse che nella sua straordinaria
giocosa allegoria è fonte di divertimento ed inquietudine.3
L’immagine letteraria e figurativa della “nave dei folli” diventa la più ricorrente
allegoria della instabilità, della precarietà e della insensatezza della condizione
umana. La deriva dalla razionalità può essere provocata dalla magia, dalla malattia
d’amore, dall’influenza demoniaca, dalla accidia nichilistica, dalla malinconia
indotta dalla stanchezza di vivere e dal rimpianto di ciò che non si può più avere
per l’irreversibilità del tempo mortale.
Parallelamente fiorisce un'altra immagine che sempre a partire dalla constatazione
della fragilità dell’esistenza, cresce come l’altra faccia della nave dei folli, si tratta
dell’isola della beatitudine e di tutte le sue varianti (l’isola dei pazzi, il paradiso dei
pazzi, il paese della cuccagna, l’isola magica, utòpia), nella quale vigono altre
regole rispetto al mondo normale, rappresenta il luogo dell’evasione e del
rovesciamento. Un’isola che diventa il simbolo della mente stanca della
razionalità, dell’ordine costituito, della fissità sociale. Nella tradizione figurativa i
poli di interesse sono di volta in volta l’isola dei folli gaudenti o la nave dei folli
alla deriva. Ma spesso troviamo un’inversione: l’isola dell’evasione diventa l’isola
dei morti, della paura, della distruzione; la nave della disperazione diventa
l’imbarcazione bizzarra, strampalata, grottesca e allegra, conviviale o anche la
nave della giovinezza e della bellezza eterna.
Folle come privo di...
Quale senso attribuire al generico termine di “folle”? Sembra indicare cose molto
diverse e spesso è sinonimo di: non-razionale, in-sensato, non-savio, nonequilibrato, sconsiderato, imprevedibile, alienato, deviante, ma anche diverso,
anormale, geniale, bizzarro, strano, incompreso. In ogni caso la follia sembra
definirsi in opposizione a : ragionevolezza, sensatezza, positività, coerenza, unità,
pienezza…
L’etimologia della parola “folle” rinvia al latino follis che significa “soffietto,
vescica, sacca, pallone, borsa, sacco gonfio d’aria”4. Intorno al VI secolo si
verifica uno spostamento di significato per cui il termine passa ad indicare una
Il paese dei Balocchi di Pinocchio e Lucignolo, dove è sempre festa.
“Folle” si dice anche di un congegno che gira a vuoto, senza produrre un lavoro utile, ad
esempio un motore che gira in folle.
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persona priva di senno, assimilabile alla vacuità di una sacca o pallone pieno
d’aria, testa vuota. Per i padri della Chiesa vacuus follis è l’uomo privo di anima. La
caratteristica semantica di vuoto, assenza, mancanza, difetto, costituirà una
costante della concezione medievale della follia. Il folle è sempre il privo di
“senno” o di “buon senso”, il “senza identità”, il “senza memoria”, il privo di
“coscienza”, di “appartenenza”, di “sede fissa”, di “dimora”, di habitus (da cui
abitudine), e per questo è l’alienus, appunto il senza abitudine, senza dimora,
l’estraneo, il diverso rispetto all’ordine consensuale della società. Nei Padri della
Chiesa alienus è l’angelo caduto, il primo essere alienato… da Dio, dall’ordine
divino, dalla dimora divina. L’alienazione è il marchio della mancanza di amore
per Dio e quindi un rifiuto di aderire all’ordine dell’universo, alla sua legge.
A partire da qui, nel corso dei secoli si assiste a una trasformazione dei modi di
concepire e rappresentare la follia, così come a una varietà di risposte sociali a
questo enigma. Ovviamente rappresentazione e trattamento dei folli sono in
stretto rapporto. A questo nesso Michel Foucault ha dedicato la sua Storia della
follia nell'età classica. Studio inaugurale e tuttora esemplare sulla questione.
Nel testo Foucault traccia una genealogia della follia a partire dal Medioevo fino
alla nascita della psichiatria e delle istituzioni totali.
Le rappresentazioni della follia nel Medioevo
Pur non seguendo alla lettera il percorso tracciato da Foucault, proponiamo una
scansione che può, sinteticamente, darne conto.
Nel Medioevo troviamo diverse manifestazioni e rappresentazioni della follia:
1.
La “stultifera navis”: è la condizione di cui maggiormente parla Foucault.
Sono i reietti, gli esclusi, coloro che la società vuole separare da sé per varie
ragioni (malattia, pericolo sociale, imprevedibilità, oppositori all’ordine
costituito…). Sono gli “altri” che si contrappongono al “noi”. Abbiamo
approfondito nel primo capitolo questo aspetto.
2.
La follia carnevalesca, o “festa stultorum”. Pazzia collettiva
temporalmente circoscritta, sregolatezza riconosciuta ma controllata. In un testo
apologico del 1444 si definisce la Festa stultorum come indispensabile
[…] perché la follia che è la nostra seconda natura e sembra innata nell’uomo, possa,
almeno una volta l’anno, manifestarsi liberamente. Le botti di vino scoppiano se di tanto
in tanto non si aprono dei fori e non vi si fa penetrare dell’aria. Gente, noi uomini
siamo botti inchiodate male, che scoppiano dal vino della saggezza, se questo vino si
troverà nell’incessante fermentazione della devozione e della paura di Dio.
Bisogna fargli prendere aria affinché non vada a male.5
Cifra della festa della follia è il fatto che in tale occasione
5
In Segre C., Fuori del mondo, Einaudi, Torino, 1990, p. 93.
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[…] tutte le istituzioni sociali, linguistiche, familiari erano capovolte e rimesse in
questione. In Chiesa, celebrava una messa un profano; dopo di ché, conduceva un
asino il cui raglio era percepito come una derisione delle litanie da messa.6
In breve, la “festa stultorum” o carnevalesca è il rovesciamento dell’ordine e della
logica consensuale, con la elezione del basso corporeo, dell’interno del corpo,
con il capovolgimento delle gerarchie sociali e il ribaltamento del sacro/blasfemo.
Trasgressioni autorizzate poiché delimitate in un tempo dato.
Dalla festa stultorum deriva la funzione del fool, il buffone che ha licenza di pazzia.
Licenza che da collettiva e limitata a un paio di giorni l’anno (come nella “festa
stultorum”) diviene personalizzata e permanente. Il gioco e la trasgressione non
sono più partecipate, collettive ma delegate a uno solo. Il fool è figura
istituzionalizzata e deposito di una verità che in ogni società rimane a lato come
scarto, verità che solo un pazzo può testimoniare.
Si può dire che il buffone era, in qualche modo, l’istituzionalizzazione della parola
della follia. Senza rapporto con la morale e la politica e, inoltre, sotto la protezione
dell’irresponsabilità, raccontava in forma simbolica la verità che gli uomini comuni
non potevano enunciare.7
Troviamo dunque in questa figura il sovrapporsi, la connessione tra follia e verità.
3.
La follia amorosa, cortese o cavalleresca. Espressa nella letteratura dai
personaggi di Tristano, Amadigi, Lancillotto, Orlando, la pazzia sembra seguire
un preciso cerimoniale: denudamento, fuga nella foresta, regressione bestiale,
furore, aggressività-pericolosità, perdita del linguaggio articolato. Anche qui,
come nella follia carnevalesca, c’è un rovesciamento. Ma ciò che in un caso è
denudamento nell’altro è travestimento, ciò che qui è ricerca dell’isolamento lì è
orgia festiva collettiva, ciò che qui è privazione e digiuno lì è eccesso e
ubriacatura. Spesso gli episodi di follia cortese (come quelli di Lancillotto) sono
da porre in rapporto con l’estasi, nella quale il cavaliere (come un mistico) viene
rapito dall’oggetto del proprio desiderio e in esso annulla se stesso e il mondo
circostante.
4.
La follia santa. La sofferenza può rappresentare una via di purificazione,
uno strumento di espiazione. Il semplice, l’idiota, lo stolto, il diverso, nella sua
innocenza e umiltà partecipa alla grazia divina. Prende consistenza la figura del
“folle di Dio” che spesso confina con il fool. Indovino, profeta, inviato da Dio,
l’unico al quale sia concessa la completa libertà di parola e l’impunità giuridica.
Per queste sue caratteristiche sempre in bilico tra santo e demoniaco.
Così i “folli di Dio” erano all’origine eremiti emarginati. Apparsi in Oriente verso
il IV secolo avevano fatto della imitatio Christi, una via di purificazione e di santità.
Identificarsi con la passione-sofferenza, l’umiliazione, la nudità, l’isolamento, la
povertà, significa automaticamente mettersi fuori dall’ordine sociale ed eleggere
6
7
Foucault, Follia e psichiatria, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2005, pp. 54-55.
Foucault, ivi, p. 53.
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Cristo come unico ordine. Ma una possibilità di conciliazione dei due ordini è
data dalla “recita” della follia, in cui il folle di Dio, accetta di vestirsi dei panni del
fool per avere un posto nell’ordine sociale e poter dire la verità di Cristo.
Divenendo una sorta di buffone, rimane nella realtà condivisa e al tempo stesso
ne proclama la sua irrealtà, alla luce dell’ordine divino. Attraverso i suoi “atti
esteriori di follia” il “santo folle” riesce, come il fool, ad insegnare agli altri la
verità. I “santi folli” sono degli asceti: il loro ascetismo consiste in una apatheia
portata all’estremo. Essi vogliono diventare gli ultimi, i dimenticati, per vincere
l’orgoglio e rinunciare a se stessi. La follia per loro è l’ultimo e il più alto grado di
umiltà: la totale perdita della reputazione, della stima, dell’identità stessa.
È soprattutto nell’Oriente Cristiano e Islamico che il “folle di Dio” viene
considerato un profeta, mentre nell’Occidente Cristiano, sempre di più si ritiene
che con la sua regressione e animalità il “folle di Dio” offuschi l’immagine
dell’uomo e che, nel vestire i panni della follia, sia troppo vicino al buffone e
all’uomo di teatro, che sono condannati dalla Chiesa. In Occidente si sarebbe
quindi percepito soprattutto l’aspetto teatrale del “folle di Dio”, motivo per cui
tale carattere di simulazione dovette subire una profonda moralizzazione:
l’Occidente non consente di sviluppare la follia se non all’interno del quadro
penitenziale, all’interno di occasioni ritualizzate di penitenza ed espiazione.8
Quindi la follia si giustifica solo come penitenza, percorso sacrificale finalizzato
alla conquista del perdono.9
La nuova follia
Il momento di passaggio verso un radicale cambiamento della concezione della
follia si ha tra il XVI e il XVII sec., quando nella letteratura Cervantes e
Shakespeare mostrano l’essere umano alle prese con nuovi ordini sociali, politici,
simbolici. Laddove i confini dell’ordine consensuale diventano incerti, frastagliati
e cangianti,10 l’eccedenza non è più facilmente identificabile e classificabile, quindi
non è più ritualizzabile e dominabile. L’eccesso della passione cortese avviene in
un mondo dove non c’è più il codice cortese. L’eccesso religioso avviene in un
mondo dove non c’è più un ordine sacro condiviso. L’eccesso della ragione
avviene in un mondo dove la ragione è slegata dall’ordine etico.11 Ora un folle è
Tale quadro esisteva ma era solo accessorio in Oriente.
Dimensione alla quale si può accedere solo a costo della perdita di se stessi. Tale perdita di sé
prelude al recupero di una superiore integrità, inscrivendo la follia nell’ambito delle esperienze
mistiche che attraverso il superamento dei limiti umani, permettono all’uomo di accostarsi al
mistero divino.
10 Le cose perdono i loro contorni e non sono più chiaramente identificabili, si entra nell’era delle
“somiglianze” (Don Chisciotte), del “sembra” (Amleto), della “simulazione” e dell’inganno (Riccardo
III, Lear, Macbeth, Otello); forma e sostanza si staccano generando un paesaggio di illusioni, realtà
mimetiche. Il medesimo, l’identico viene sospeso dalla ossessiva domanda: sembra o è?
11 Una cesura importante tra la follia medioevale e la follia shakespeariana è costituita dal fatto
che la prima si pone sempre come “semplice” eccedenza, dal lato del soggetto che deborda i
confini, l’ordine, le convenzioni; mentre la seconda è sì un’eccedenza ma che mostra
l’inconsistenza stessa di tali confini, di tale ordine, mettendoli in questione. Ora la follia mina gli
stessi fondamenti dell’ordine condiviso. Si intuisce allora in che senso la follia ci interroga e ci ri8
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chiamato a restaurare un ordine ormai dissolto: Don Chisciotte quello della
cavalleria, Amleto quello della condizione umana stessa: «Il mondo è fuori
squadra: che maledetta sorte esser nato per rimetterlo in sesto»12.
Ed è anche questo il momento in cui con l’avvento della scienza moderna si inaugura
un diverso statuto della soggettività. Sarà proprio la scienza a ridurre la follia a
malattia e a creare pratiche di internamento e di esclusione di tutte le forme di
eccedenza. Nasce un diverso modo di vedere la follia, una nuova “sensibilità” che la
rigetta e la rinchiude. Nascono le istituzioni totali, che la escludono dalla vita
quotidiana e condivisa, la riducono al silenzio, e medicalizzandola cercano di
sbarazzarsi di quell’interrogativo enigmatico e inquietante, di quella verità inudibile
che la follia sembra porre sulla condizione umana. Come ha lapidariamente
evidenziato Foucault:
La follia non la si può trovare allo stato selvaggio. La follia esiste solo all’interno della
società, non esiste al di fuori delle forme della sensibilità che la isolano e delle forme di
repulsione che la escludono o la catturano. Così, si può dire che nel Medioevo, poi
durante il Rinascimento, la follia è presente nell’orizzonte sociale come un fatto
estetico o quotidiano; poi nel XVII sec., a partire dall’internamento, la follia attraversa
un periodo di silenzio, di esclusione. Essa ha perduto quella funzione di
manifestazione, di rivelazione che aveva all’epoca di Shakespeare e di Cervantes (per
esempio, Lady Macbeth comincia a dire la verità quando diventa folle), e diventa
derisoria, menzognera. Infine, il XX sec. mette mano alla follia, la riduce a un
fenomeno naturale, legato alla verità del mondo [mondo nel senso di naturalebiologico e non umano]. Da questa presa di possesso positivista dovevano derivare, da
una parte, la filantropia sprezzante che ogni psichiatria manifesta nei confronti del
folle, dall’altra, la grande lirica che troviamo nella poesia di Nerval fino ad Artaud, e
che è uno sforzo per restituire all’esperienza della follia una profondità e un potere di
rivelazione che erano stati annientati dall’internamento.13
Queste parole di Foucault ci permettono di mettere in evidenza come la follia oggi
sia sdoppiata in due diverse rappresentazioni: da una parte una concezione classica e
letteraria; dall’altra una concezione moderna e scientifica.
La follia tra clinica e letteratura
C'è la follia della lunga storia della psichiatria, che dal XVII sec. si è impegnata a
studiare e a trattare i pazzi. La follia dei grandi quadri nosografici, dei manuali di
psicopatologia, delle scuole di pensiero clinico. Abbiamo la follia nelle istituzioni
totali.
guarda: ci mostra come ciò di cui ci lamentiamo, cioè l’Altro che ci sovrasta e limita il nostro
desiderio, è privo di fondamenti, è relativizzabile. Spesso la “catarsi” che avvertiamo grazie
all’immagine del folle può essere ricondotta proprio all’effetto di alleggerimento della presa
dell’Altro, della sua istanza censoria e incombente. Ciò che ne trae la psicoanalisi è il fatto che è il
soggetto stesso a dare consistenza e fondamento all’Altro. Operazione inconscia e necessaria alla
costituzione della soggettività.
12 Amleto, I, V, vv. 188-89.
13 Foucault, op. cit., pp. 46-47.
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E poi c'è qualcos'altro. Come un'altra follia. La follia dei grandi testi letterari e
drammaturgici. La follia di Amleto, di Re Lear, di Don Chisciotte. Prima ancora
la follia di Orlando. Molto dopo la pazzia del pirandelliano Enrico IV. Tra loro
molto diverse, ma in ogni caso dalla stessa parte. Dalla parte della scrittura che
non cessa mai di interrogarci.
La follia presa tra due, dunque. Tra la clinica e il campo dell'arte.
Potremmo dire, la follia come la si incontra nelle istituzioni deputate alla cura e al
trattamento e lo sfavillio della follia raccontata dal genio artistico.
Abbiamo quindi uno stesso oggetto ma su due registri differenti. Ora la
questione è cercare di indicare a cosa risponde tale differenza.
Foucault ci dà una prima indicazione a proposito della letteratura. La follia nella
letteratura ha una funzione di rivelazione, di verità. Quando i personaggi della
letteratura sono folli, lo sono per dire o indicare una verità. Una verità che
possono incarnare solo a partire da quella posizione e che gli altri personaggi non
possono occupare.
Eppure qualcosa non torna. La follia non ci dice soltanto una verità, ci mostra
anche una sofferenza.
Quello che emerge sul versante della clinica e della pratica istituzionale non è
sicuramente la follia nel suo versante artistico, filosofico, esistenziale, la follia in
grado di aprire alle verità fondamentali dell’esistenza. Più spesso nella pratica
clinica ci si trova di fronte a persone che patiscono la loro condizione con effetti
devastanti nel corpo e nella gestione della vita quotidiana.
Sembra allora che la letteratura e l’arte in genere abbiano a che fare con la verità
che la follia riesce a mostrare, mentre la clinica abbia a che fare con le
conseguenze di tale condizione. Conseguenze che si iscrivono nel reale del corpo,
della sofferenza e a cui occorre dare una risposta.
La clinica può essere considerata la pratica che prende in conto la necessità di
trattare gli effetti insopportabili di tale condizione dell’essere indicata con il
termine di psicosi.14
La letteratura e la clinica sembrano guardare a due aspetti diversi della follia. La
nostra ipotesi e che si possa tentare di avere un approccio sinottico e portare nel
campo clinico la questione della verità che la letteratura e l’arte in genere
esplorano, e d’altro canto tentare di riconoscere ed approfondire la parte di
sofferenza e il prezzo che il folle paga per la sua “scelta” di libertà; un prezzo che
spesso fa di quella “libertà” una prigione.
Forse vale la pena approfondire la posta in gioco del rapporto tra queste due
dimensioni: clinica e letteratura. E tentare di rispondere alle domande: perchè
cercare un rapporto tra le due cose? Cosa spinge a farlo? A cosa risponde la
necessità posta dalla clinica psicoanalitica di mettere in rapporto le due follie?
14 Il
rapporto psicosi-clinica/follia-letteratura può essere ricondotto alle diverse posizioni di chi da una
parte “incarna” la follia pagando il prezzo dell’isolamento, della sofferenza e della patologia, e di
chi dall’altra la “fa parlare” rimanendo in rapporto con l’altro, con i giochi di verità e di senso.
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Bibliografia
Allegri L., Teatro e spettacolo nel Medioevo, Roma-Bari, laterza, 1988.
Ciavolella M., La “malattia d’amore” dall’Antichità al Medioevo, Bulzoni, Roma, 1976.
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Foucault M., Storia della follia nell’età classica, BUR, Milano, 1988.
Lacan J., “Discorso sulla causalità psichica”, Scritti, Einaudi, Torino, 1974.
Segre C., Fuori del mondo, Einaudi, Torino, 1990.
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