La poetica dell`esilio e la tenzone con Cino
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La poetica dell`esilio e la tenzone con Cino
La poetica dell’esilio e la tenzone con Cino RAFFAELE PINTO Universitat de Barcelona Societat Catalana d’Estudis Dantescos [email protected] RESUMEN: El intercambio de sonetos entre Dante y Cino, durante el exilio de ambos, es interpretado como documento de la polémica que se desencadenó entre los dos amigos cuando Dante abandonó la poética del Eros (cuyo símbolo era el personaje de Beatriz) para dedicarse al estudio de la filosofía (cuyo símbolo era la ‘donna gentile’). Cino, con sus cuestiones sentimentales, parodia el conflicto mental entre mujeres que Dante describe en el Convivio, reprochándole el abandono de los antiguos valores. PALABRAS CLAVE: Polémica, Cino, exilio, Beatriz, donna gentile. ABSTRACT: Dante and Cino’s sonnet exchange during their exile is seen as a document of the polemic which arose between the two friends when Dante abandoned ‘Eros’ poetics (Beatrice’s character being the symbol) to study philosophy (symbolised as ‘donna gentile’. From a more sentimental perspective, Cino parodies the mental conflict between women described by Dante in the Convivio, while reproaching him for abandoning ancient values. KEY WORDS: polemic, Cino, exile, Beatrice, “donna gentile”. 41 Tenzone 10 2009 1. Gli incontri annuali che il gruppo Tenzone realizza discettando amichevolmente sulle canzoni di Dante sono approdati ad un primo importante snodo biografico della carriera del poeta, essendo stato completato il ciclo dell’esilio, con l’analisi delle tre canzoni scritte dopo il 1301, che sono poi anche le ultime del gruppo delle “canzoni distese” (secondo la silloge curata forse dallo stesso Dante e trasmessa da Boccaccio) e verosimilmente le ultime in assoluto composte dal poeta1. I frutti di tali incontri possono essere considerati nel loro insieme grazie alla pubblicazione recentissima dei lavori del terzo incontro, prodottosi a Setcases (Girona) nel luglio del 20082. Tale prospettiva globale sulle canzoni dell’esilio rende opportuna, oltre che plausibile, una conclusione sui risultati raggiunti, sia pur inevitabilmente personale e provvisoria. Il dato che acquista una nuova evidenza, dalle analisi delle tre canzoni, è la percezione di una duplice radicale inversione di rotta, nell’itinerario ideale del poeta: la prima riconoscibile all’altezza della canzone iniziale del ciclo dell’esilio, Tre donne, che testimonia l’irruzione nella poesia di Dante di un evento storico-biografico ovviamente imprevedibile prima del suo verificarsi, e che stabilisce una prima forte cesura fra le opere scritte prima dell’esilio e quelle scritte dopo; la seconda all’altezza della terza canzone, Amor, da che convien, la cui razo (la lettera a Moroello), registra l’irruzione di una nuova esperienza poetico-biografica che, pur non modificando la sua condizione di esiliato, induce però il poeta ad abbandonare il cammino letterario ed ideologico inaugurato da Tre donne e fin lì percorso, e ad intraprendere nuove avventure intellettuali radicalmente innovatrici rispetto alla tappa precedente3. Le spie letterali più esplicite di questa doppia inversione di rotta, sono le considerazioni del poeta sulla propria condizione di esule: in Tre donne Dante invoca dai vincitori un perdono che gli permetterebbe il rientro a Firenze; in Amor da che convien, invece, il poeta esclude qualunque possibilità di rientro (perfino nel caso che il perdono venisse concesso). Sono temi che da sempre hanno suscitato aspri dibattiti fra i critici (quale sarebbe la colpa riconosciuta da Dante in Tre donne? È una donna reale oppure immaginaria quella che in Amor da che convien gli impedirebbe 42 Raffaele PINTO La poetica dell’esilio e la tenzone con Cino di tornare a Firenze?). I tre convegni dedicati successivamente a Tre donne, Doglia mi reca e Amor da che convien hanno avuto il merito, fra l’altro, di sganciare le varie questioni da una dimensione ecessivamente ‘locale’ (cioè legata al singolo testo) e di mostrarle nella loro concatenazione ideale e biografica. Le due fratture, che si presentano ai due estremi del ciclo, permettono infatti di visualizzare un momento ideologicamente molto compatto nella evoluzione di Dante, che propongo di definire come “poetica dell’esilio” e che si distingue dalla fase anteriore (nella quale il tema dell’esilio è ovviamente assente) e dalla fase successiva (che coincide con la stesura della Commedia, nella quale l’esperienza dell’esilio ha il senso di una condizione esistenziale non subita come ingiusto castigo ma positivamente accettata come evento biografico iscritto nel destino poetico di Dante). Tale poetica si riflette innanzitutto nelle prime due canzoni analizzate dal gruppo, cioè Tre donne e Doglia mi reca. Ad esse però bisogna aggiungere, per avere un quadro completo della maturazione intellettuale di Dante in questo periodo, anche i due trattati in prosa, strutturalmente legati alla esperienza dell’esilio. La sintesi teorica del Convivio e quella linguistica del De Vulgari sarebbero infatti impensabili senza gli eventi che marcarono la vita del poeta fra il 1302 e il 1307 (per ovvi motivi che non è il caso qui di ricordare). D’altra parte le due canzoni citate, che trattano, sullo sfondo esistenziale dell’esilio, il tema della giustizia e quello della liberalità, si mostrano ben solidali con gli interessi prevalenti di Dante, che in questi anni sono di natura essenzialmente etico-filosofica. L’epistola di accompagnamento della ‘montanina’, che fa riferimento ad impegni di tipo teorico («meditationes asiduas ... tam celestia quam terrestria») allude, in modo credo abbastanza chiaro, all’impegno filosofico dei due trattati, bruscamente interrotto da una esperienza “folgorante” che induce il poeta a lasciare incompiuti i due testi per dedicarsi ad una nuova impresa letteraria (la Commedia, come anch’io ritengo e come ho cercato di spiegare nel mio intervento di Setcases, Pinto 2009). Il frammento dell’epistola appena citato è estremamente interessante perché delinea due linee di ricerca, una che per semplicità definirò ‘erotica’ e l’altra che 43 Tenzone 10 2009 possiamo senz’altro definire ‘filosofica’. La prima caratterizza la poetica del Dante fiorentino e poi, su un piano diverso, quella successiva alla svolta indicata dalla ‘montanina’; la seconda identifica invece nella sua tematica dominante la poetica dei primi anni dell’esilio (1302-1307). Il contenuto erotico della poesia di Dante a Firenze è evidente e non c’è bisogno di dimostrarlo. Meno evidenti sono forse il carattere erotico della Commedia e, soprattutto, i presupposti erotici della sua ispirazione (sulla questione rinvio, di nuovo, al mio intervento di Setcases, Pinto 2009). Basta però pensare alla ripresa, nel Poema, della tematica trattata nella Vita Nuova, ed in particolare del personaggio di Beatrice, che funge da protagonista (accanto all’autore) sia nel libello che nella Commedia, per capire come Dante proprio a questa ripresa alluda quando scrive, nella epistola, che Amore «tamquam dominus pulsus a patria post longum exilium sola in sua repatrians». La terza linea di ricerca significa quindi, nell’immediato, una ripresa del tema erotico già svolto negli anni fiorentini ed abbandonato, durante la tappa filosofica, in virtù di un «propositum ... laudabile quo a mulieribus suisque cantibus astinebam», proposito in sé lodevole, ma che la nuova esperienza spazza via «empiamente allontanandole come sospette»4. La periodizzazione che qui Dante fornisce della propria traiettoria è luminosamente chiara, e ad essa alludono i rimproveri di Beatrice nel paradiso terrestre, quando accusa il poeta di averla tradito: dietro il velo delle metafore sentimentali e romanzesche non si fa fatica a scorgere l’allusione alla deviazione filosofica di quegli anni (emblematicamente rappresentata dal personaggio della “donna gentile”). Sono consapevole che presento come assiomi elementi esegetici non pacifici ed anzi fortemente dibattuti, oltre che molto complessi5. Ma ciò che qui mi preme mettere in evidenza è lo stacco della tappa filosofica degli anni 1302-1307 sia rispetto a ciò che viene prima, sia rispetto a ciò che viene dopo. In tale prospettiva, le formule che utilizzo di “poetica dell’esilio” e “linea di ricerca filosofica” acquistano un senso interpretativamente utile solo se le intendiamo come consapevole e programmatica negazione di quei principi erotici che presiedono da una parte alla opera di Dante anteriore all’esilio, e dall’altra 44 Raffaele PINTO La poetica dell’esilio e la tenzone con Cino alla Commedia (comunque si voglia intendere il primato che di nuovo viene riconosciuto all’eros nel Poema). Ciò che insomma importa della detta tappa filosofica è il rinnegamento dell’amore in quanto principio di poesia e riflessione (come appunto esplicitamente dichiara Dante nell’Epistola a Moroello). Le domande da porsi sono allora queste: perché i principi dell’eros vengono rinnegati dal poeta a partire dal 1302 e cosa implica tale rinnegamento sul piano della espressione poetica e della ricerca intellettuale? Cercherò di abbordare tali questioni a partire dal dialogo polemico fra Dante e Cino, nel quale i due amici affrontano sì temi squisitamente erotici, ma lo fanno in quanto indicatori di una poetica del desiderio alla quale Cino si mantiene fedele e che Dante invece, durante i primi anni dell’esilio, come s’è visto rinnega. Lo studioso che meglio degli altri ha intuito il significato metaletterario della tenzone (fin dal primo ludoconvegno), e quindi la natura della polemica ideologica soggiacente ai testi, è Michelangelo Picone, che nel suo intervento di Río Pambre descrisse con pochi ma suggestivi tratti le svolte della poetica dantesca, e le reazioni dell’amico Cino. Ecco alcuni dei passaggi più significativi del suo saggio: L’analisi di Tre donne ci ha mostrato come Dante, nella sua produzione lirica dei primi anni dell’esilio, combini la tematica politica con quella amorosa (all’interno del genere della canzonesirventese) e funzionalizzi la retorica amorosa a fini allegoricodidattici (inculcare l‘amore per la giustizia) oltre che pratici (perorare la propria causa di exul immeritus). Significativo, da questo punto di vista, il fatto che Amore compaia nella canzone come una divinità astratta, un’ipostasi al pari delle tre personificazioni della giustizia. Per poter rientrare a Firenze, per convincere i suoi concittadini a togliere il bando posto su di lui, Dante si presenta insomma non più nelle vesti del poeta d’amore (come era stato al tempo della Vita Nuova) ma del poeta delle virtù morali e civili, come cantor rectitudinis (è questa infatti l’immagine che vuole proiettare di sé nel De Vulgari Eliquentia). Di grande interesse, a questo proposito, appare una tenzone scambiata da Dante con Cino da Pistoia, quando ambedue i poeti 45 Tenzone 10 2009 erano esiliati dalle rispettive città. La discussione verte precisamente sulla tematica erotica: mentre Dante cerca di subordinare l’eros all’ethos, Cino continua a privilegiare l’esercizio erotico puro e semplice... La risposta di Cino si pone al servizio della precedente esperienza stilnovistica, senza fare il salto di poetica richiesto da Dante; senza passare cioè a composizioni amorose che fossero di virtù materiate, che avessero un messaggio morale e civile da trasmettere... [Con la ‘montanina’, invece Dante] si viene a trovare... in una situazione analoga a quella già rimproverata a Cino, prigioniero cioè di una passione amorosa esclusiva e tirannica. Come Cino, anche Dante si innamora di una donna incontrata nei luoghi dell’esilio; come per Cino, questa donna ha il potere di riportare il pensiero di Dante alla patria lontana. Con la canzone montanina, dunque, Dante ritorna – sulla scia dell’amico Cino – alla poesia amorosa giovanile... Una simile riabilitazione dell’eros, che nelle canzoni allegoriche e didattiche era stato se non emarginato messo in secondo piano, è naturalmente fondamentale per capire la nuova direzione che la poesia dantesca prenderà negli anni successivi al 1307: l’amore, dalla fol’amor di Francesca all’«amor che move il sole e l’altre stelle», sarà infatti al centro dell’invenzione della Commedia6. La prima acutissima osservazione dello studioso mette in rapporto la richiesta di perdono ai vincitori, in Tre donne, con il distanziamento dalla poesia amorosa e la conseguente adesione alla poesia morale (in linea con l’immagine di “cantor rectitudinis” che Dante propone di sé nel De Vulgari). La nostra prospettiva moderna sui fatti dell’amore ci impedisce di vedere, di esso, il contenuto radicalmente ideologico, indipendente da banali aneddoti sentimentali, e quindi il significato sempre in sé sovversivo che ha il desiderio sessuale nel medioevo. Come in altra occasione ho cercato di spiegare, innamorarsi significa, in quella cultura, sospendere le relazioni di dipendenza dell’individuo all’interno del gruppo sociale al quale ‘naturalmente’ appartiene7. Mentre l’oggetto d’amore è fantasma immaginario più o meno rispecchiato da una donna in carne ed ossa, il rivale dell’innamorato (il gilos, secondo i trovatori), 46 Raffaele PINTO La poetica dell’esilio e la tenzone con Cino rappresenta la concretissima struttura di potere contro la quale l’amante scaglia il proprio desiderio. La tradizione italiana, a partire da Giacomo da Lentini, cancella tale personaggio dal discorso lirico non perché siano in essa venuti meno i valori sovversivi dell’amore, ma, al contrario, perché ne mette perfettamente a fuoco il significato simbolico, che va ben al di là di un marito offeso nell’onore e coinvolge l’intero sistema patriarcale che ha nella cultura clericale il suo baluardo ideologico. Ciò che noi oggi non possiamo capire, perché si tratta di una passione divenuta estranea alla nostra esperienza sentimentale, è che piuttosto che desiderare qualcuna, l’amante desidera contro qualcuno8. È qui che noi cogliamo l’elemento ideologicamente sovversivo del desiderio, di cui il gilos era figura nei trovatori, e che all’altezza di Dante si manifesta nella cultura cui il desiderio si contrappone (cioè nella nobiltà di sangue alla quale si oppone la nobiltà di cuore). Per questo ci sfugge la necessità che Dante aveva, immediatamente dopo la condanna, di ritrattare tutto quello che aveva scritto a Firenze per risultare “gradito” al guelfismo clericale che aveva occupato il potere a Firenze, e poter così essere riammesso nella città. Nel mio intervento di Rio Pambre (Pinto 2007) collegavo tale ritrattazione non solo e non tanto alla Vita Nuova quanto piuttosto al Fiore, la cui redazione (indubbiamente dantesca) va collocata negli anni immediatamente successivi alla elezione al pontificato di Bonifazio VIII (dicembre del 1294). Il poemetto, la cui oscenità è interamente al servizio della ideologia anticlericale che Dante cercava di promuovere a Firenze per frenare l’offensiva filo papale del guelfismo conservatore9, viene implicitamente ritrattato da Dante in Tre donne, attraverso la figura femminile seminuda che retrospettivamente ridefinisce, in senso allegorico, le crude immagini sessuali evocate nel Fiore10. E la ritrattazione è necessaria per convincere i Neri che la sua ammissione di colpa è sincera, e che l’eventuale rientro a Firenze avrebbe come contropartita l’abbandono dell’anticlericalismo di cui il Fiore è scandalosa testimonianza. D’accordo con Picone (2007) (ed è questo il secondo spunto suggerito dallo studioso), ciò che l’epistola a Moroello presenta come (decaduto) 47 Tenzone 10 2009 proposito di abbandonare la poesia d’amore è, nei testi, l’allegorizzazione dei personaggi femminili (la Giustizia in Tre donne, la filosofia nel Convivio), già rappresentati come donne in carne ed ossa a Firenze (nel Fiore e nella Vita Nuova), e destituiti di contenuto reale dopo il 1302. Le meditazioni filosofiche alle quali il poeta si dedica nei primi anni dell’esilio sono documentate non solo dalle riflessioni svolte ex novo nei due trattati, ma anche dalla autoesegesi che a posteriori ridefinisce il significato di una parte sostanziale della propria lirica. In effetti, se il Convivio fosse stato portato a termine, tutte o quasi tutte le canzoni di Dante sarebbero probabilmente state rilette dall’autore in funzione di tale autoesegesi, con la eccezione, logicamente, di quelle che nella Vita Nuova sono dedicate a Beatrice, l’unica, delle donne poeticamente trattate da Dante, che si salva da questa carneficina allegorico-filosofica. Infine (e su questo suggerimento ho intenzione di soffermarmi in questo lavoro) Picone ha intuito che la tenzone con Cino riflette la polemica fra i due poeti sulla necessità, secondo Dante, di abbandonare la poesia d’amore perché l’evento dell’esilio ne distrugge i presupposti ideologici ed esistenziali. In tale prospettiva, i sonetti che si scambiano i due poeti hanno per noi l’incalcolabile, e finora trascurata, funzione di documentare la prima delle svolte della poetica dantesca, nella prospettiva polemica di chi è restato fedele ai presupposti lirici che lo stesso Dante aveva programmaticamente fissato. Una rilettura in tale chiave di tutti questi testi (prospettata da Picone in rapporto solo agli ultimi) è estremamente istruttiva. 2. Relativamente ai primi due sonetti11, e cioè Novellamente Amor (di Cino a Dante) e I’ho veduto già (di Dante a Cino), l’elemento più sorprendente e significativo del sonetto di Cino non è la banale questione se si possa passare da un amore all’altro, ma la sottile trama di citazioni dallo stesso Dante. La provocazione di Cino, che evidentemente è al corrente del voltafaccia poetico di Dante, consiste nel proporre a Dante un dilemma che era stato suo, di Dante, e cioè il conflitto fra l’amore per una 48 Raffaele PINTO La poetica dell’esilio e la tenzone con Cino donna morta e quello per una donna viva, che aveva occupato tutta l’ultima parte della vicenda narrata dalla Vita Nuova, intertestualmente evocata non solo attraverso la parola in rima ‘beatrice’, ma anche attraverso il sintagma S’io levo gli occhi, che nel libello introduce appunto l’episodio della ‘donna gentile’ e l’antagonismo fra le due donne12. Cino parodia l’amico, utilizzando le sue figure caratteristiche, per metterne alla prova la fedeltà all’antica poetica, avendo percepito il suo mutamento di prospettive. L’allusione a Beatrice rivela tutto il suo significato polemico se la mettiamo in rapporto alla palinodia del secondo trattato del Convivio, nel quale Dante teorizza il passaggio da una poetica all’altra. Il sonetto di Cino mette in scena appunto il conflitto, nella mente del poeta, fra una donna dogliosa (vestita di nero) ed una “donna gentil”, come nel Convivio, e verde (cioè giovane, come Dante interpreta nella risposta). La prima è personaggio originariamente ciniano, che appare in una serie di sonetti come “donna oscura”13. Il conflitto, nella mente del poeta, fra questa donna ed un’altra giovane donna appare, però, solamente nei sonetti inviati a Dante; esso è infatti parodia del conflitto fra Beatrice e la “donna gentile” (nella Vita Nuova e nel Convivio)14. L’avvertimento finale: «che peggio che lo scur mi sia il verde», insinua che il rimedio (cioè la filosofia) possa essere peggiore del male (l’amore per una donna morta). Posto che, come vuole Dante, esiste un conflitto fra le due donne, Cino si schiera dalla parte di Beatrice e sottilmente rimprovera a Dante il suo tradimento degli antichi valori comuni, dal momento che Beatrice rappresenta quei valori (cioè il desiderio come esperienza primordiale del fare poetico), mentre la “donna gentil” (v. 2), cioè la filosofia, li nega. Con straordinaria acutezza Cino non solo ha inteso il significato profondo della svolta ideologica dell’amico, ma ne accetta anche la metafora che lo esprime, cioè il conflitto fra donne diverse, e con la scusa di proporgli questioni sentimentali gli rinfaccia le infedeltà a se stesso e alla propria storia. La risposta di Dante allude alle nuove condizioni soggettive ed oggettive che rendono impraticabile una poesia d’amore, sia a lui che a Cino15. L’ampia similitudine dell’ottava significa appunto questo: Cino, 49 Tenzone 10 2009 sradicato dalla sua patria, non può più sinceramente parlare d’amore, perché il desiderio è un’esperienza che ha senso solo in patria, cioè in un contesto sociopolitico nel quale la sua valenza eversiva (se si vuole distruttiva) può dispiegarsi fino in fondo. Contro chi può amare chi è stato sottratto ad ogni legame parentale, e ad ogni rete di dipendenza? Cino ingenuamente crede che l’esperienza del desiderio sia un’esperienza puramente sentimentale, un fatto emozionale indipendente dalla concreta situazione socio-politica del soggetto. Ed è paragonabile allora ad un albero cui siano state sottratte le radici; i suoi umori hanno ancora la forza di produrre foglie, per la residua energia vitale che conserva, ma non può certo dare frutti, cioè avere un contenuto reale, ideologicamente congruente con la situazione concretamente vissuta: I’ ho veduto già senza radice legno ch’è per omor tanto gagliardo che que’ che vide nel fiume lombardo cader suo figlio, fronde fuor n’elice; ma frutto no, però che ‘l contradice natura, ch’al difetto fa riguardo, perché conosce che ·ssaria bugiardo sapor non fatto da vera notrice16. L’accusa di insincerità allusivamente rivolta a Cino («natura ... / conosce che·ssaria bugiardo») ha poi un preciso riscontro intertestuale nel sonetto con cui Cino si difendeva dall’accusa di plagio che gli aveva mosso Cavalcanti (Qua’ son le cose vostre, 6: «se dite il ver, io non sarò bugiadro»)17. Il termine è densamente allusivo, poiché in quel sonetto Cino adduceva proprio la Vita Nuova come argomento teologico contro le insinuazioni averroiste di Guido18. Il che aggiunge, alla polarità erosfilosofia, una ulteriore dicotomia, fra teologia ed aristotelismo radicale. Beatrice non solo rappresenta l’eros nei confronti di una cultura letteraria completamente dominata dal razionalismo filosofico; essa è anche emblema della teologia (intesa come apertura verso la trascendenza) nei confronti dell’immanentismo aristotelico di stampo averroista, propugnato da Guido Cavalcanti e contro il quale Dante aveva composto 50 Raffaele PINTO La poetica dell’esilio e la tenzone con Cino il suo libello giovanile. Il personaggio della ‘donna gentile’, infatti, già nella Vita Nuova alludeva ad una ideologia della immanenza, superata, però, attraverso il trionfo finale di Beatrice e del suo teologismo. La sottile trama delle (auto)citazioni incrociate mostra bene il carattere totalmente metaletterario della polemica insorta fra i due amici, che ruota intorno a questo problema: è possibile una seria ispirazione amorosa, e quindi è possibile, in definitiva, la esperienza lirica tout court, nelle condizioni di esilio nei quali entrambi si sono venuti a trovare? Come Picone ha ben intuito, l’esilio per Dante significa la necessità di riorientare la sua ricerca in senso etico-filosofico (per cui nel De Vulgari si attribuirà il ruolo di “cantor rectitudinis”); per Cino invece l’esilio non implica necessariamente un mutamento di contenuti poetici. Senza risposta da parte dell’amico, invitato a suggerire “novo tormento” all’eccezionale dolore prodotto dal dolore di lei (che sembra di nuovo echeggiare la Vita Nuova, nella sezione dedicata al cordoglio di Beatrice per la morte del padre), il sonetto Dante i’ ho preso insiste nel tentativo di attrarre Dante all’antica poetica19. Ma Dante precisa a sua volta, in questo caso prendendo l’iniziativa, le ragioni che gli impediscono di farlo: Perch’io non truovo chi meco ragioni del signore a cui siete voi ed io, conviemmi sodisfare al gran disio ch’i’ ho di dire i pensamenti boni. Null’altra cosa apo voi m’accagioni del lungo e del noioso tacer mio se non il loco ov’i’ son, ch’è sì rio che ‘l ben non truova chi albergo gli doni. Donna non c’è ch’Amor le venga al volto, né omo ancora che per lui sospiri, e chi ‘l facesse qui sarebbe stolto. Ah, messer Cin, come ‘l tempo è rivolto a nostro danno e de li nostri diri, poscia che ‘l ben è sì poco ricolto20. 51 Tenzone 10 2009 Se l’amore ed il bene che ne deriva sono assenti dal loco in cui il poeta si trova, sarebbe stolto parlarne, poiché mancano sia potenziali oggetti di desiderio («Donna ... ch’amor le venga al volto») sia potenziali interlocutori della parola che li esprime («omo che per lui sospiri»). Il loco deve essere inteso non come luogo materiale in sé refrattario alla poesia d’amore, ma come le condizioni materiali nelle quali Dante è costretto a vivere: è la sua prospettiva di esule che diserotizza i luoghi nei quali è obbligato a vivere, e, più in generale, è la universale decadenza dei tempi che rende anacronistico il culto di eros21. L’ultima terzina è esplicita nell’imputare al «tempo ... rivolto» l’impossibilità di amare, ed anche nel ricordare a Cino che per lui pure valgono tali considerazioni negative (il che sottilmente insinua la stoltezza di una poetica che, in condizioni così avverse, insiste sull’erotismo lirico22). Si osservi in particolare l’espressione «li nostri diri», che allude in modo ostentato ad una poetica condivisa (quella dominata dall’eros) non più praticabile nelle condizioni presenti perché «l tempo è rivolto». A Cino che si ostina nella antica poesia d’amore, Dante spiega di nuovo perché si sbaglia. Cino risponde (in Dante, i’ non odo) negando che le avverse condizioni determinate dall’esilio implichino necessariamene la sospensione del canto d’amore. Al contrario, proprio perché tali condizioni impediscono di trovare il bene nei luoghi in cui il poeta è costretto a peregrinare, Dante dovrebbe restare fedele alla sua ispirazione: Dunque, s’al ben ciascun ostello è tolto nel mondo in ogni parte ove ti giri, vuoli tu ancor far dispiacer molto? Diletto frate mio, di pene involto, mercé per quella donna che tu miri, d’opra non star, se di fe’ non sè sciolto. “Quella donna” è di nuovo Beatrice, come già, dal momento che a lei Cino allude esplicitamente, nei sonetti che abbiamo considerato prima. Le allusioni scritturali (qui «la fe’», ma più clamorosamente nei versi 78, «lo ben sa’ tu che predicava Iddio / e no·l tacea nel regno de’ dimoni»), 52 Raffaele PINTO La poetica dell’esilio e la tenzone con Cino entrano nel merito dell’alternativa ideologica che Dante descrive (prima nella Vita Nuova e poi nel Convivio) come conflitto tra Beatrice e la “donna gentile”, essendo la prima rappresentante del sapere teologico e la seconda del sapere filosofico. Come già contro Guido (in Qua’ son le cose vostre) Cino fa valere nei confronti di Dante il significato religioso che l’amore ha acquisito grazie al mito di Beatrice, e glielo rinfaccia quando l’amico ha deciso di sacrificarlo in nome di una cultura prevalentemente filosofica, nella quale l’amore e la donna possono al massimo figurare come finzioni allegoriche. Ed è certo grazie a questa incrollabile fedeltà ai valori estetici e poetici dell’erotismo che Cino si è guadagnato un primato (quello che il De Vulgari gli concede di poeta d’amore) che Dante, se non a se stesso, per motivi congiunturali, avrebbe forse altrimenti attribuito a Cavalcanti o a Guinizzelli. Con il sonetto Dante, quando per caso s’abandona, Cino insiste nel provocare Dante sulla solita questione del passaggio da un amore all’altro (parodia del conflitto che Dante descrive fra Beatrice e la “donna gentile”), e vuole una opinione da Dante, esperto come nessun altro di queste trasformazioni dell’anima (v. 8). Nel suo sonetto di risposta, Dante afferma sorprendentemente che la passione del desiderio è refrattaria a qualunque consiglio di ragione, e quindi la vittima (Cino, in questo caso) non può fare altro che lasciarsi dominare dall’impulso. Il fatto che Dante smentisca così clamorosamente quanto aveva affermato nella Vita Nuova, e che per di più lo faccia adducendo come esperienza proprio la Vita Nuova, si spiega solo se teniamo conto innanzitutto della nuova poetica che ha abbracciato e del luogo subordinato che in essa occupa l’amore (del quale non ha più alcun interesse a rivendicare la più o meno occulta razionalità, come aveva fatto nel libello), e poi del fatto che Cino proprio alla Vita Nuova allude sistematicamente per rivendicare l’antica comune poetica. Ciò che Cino evidentemente sa è che, con il Convivio, i presupposti teologici della Vita Nuova non valgono più, e non si stanca di rimproverare sotterraneamente all’amico l’abbandono delle antiche convinzioni. Dante, a sua volta, dalla nuova prospettiva filosofica che ha adottato, non ha alcun problema nello sconfessare quanto aveva procla53 Tenzone 10 2009 mato nella Vita Nuova, e nel dichiarare a Cino che, essendo l’amore privazione del libero arbitrio, non può fare altro, se continua a coltivare tale passione, che abbandonarsi alla sua irrazionalità (ripiegando così su posizioni che erano state di Cavalcanti, o, peggio ancora, di Guittone). Il veleno degli argomenti di Cino sta tutto nella parodia dei temi che lo stesso Dante aveva svolto, che lui rivendica come propri per mettere alla prova la nuova poetica dell’amico. Il tema che qui concretamente Cino propone è quello di un desiderio che, disperando di conseguire il proprio oggetto, si proietta su un oggetto diverso. Che Cino stia parodiando di nuovo la situazione che Dante descrive nella Vita Nuova (il suo innamoramento per la “donna gentile” dopo la morte di Beatrice) lo capiamo innanzitutto dalla risposta di Dante, che cita proprio l’inizio del libello, nella sua risposta: Io sono stato con Amore insieme dalla circulazion del sol mia nona... Ma lo vediamo poi, con evidenza ancora maggiore, analizzando nei dettagli la situazione che prospetta Cino: Dante, quando per caso s’abbandona lo disio amoroso della spene che nascer fanno gli occhi del bel seme di quel piacer che dentro si ragiona... Cino pone il problema di un desiderio non più alimentato dagli occhi della donna (indicata con una perifrasi: «del bel seme» etc.), il che allude cripticamente alla morte di lei, o ad una comunque irreversibile separazione da lei, che non può più stimolare con la sua presenza fisica il desiderio di lui. È ben possibile allora che l’anima, se sopravvive al trauma della perdita, può scegliere un nuovo oggetto d’amore: i’ dico, poi se Morte la perdona e Amor tienla più delle due extreme, 54 Raffaele PINTO La poetica dell’esilio e la tenzone con Cino che l’alma sola, la qual più non teme, si può ben trasformar d’altra persona. De Robertis chiarisce bene il senso dei primi tre versi (le “due extreme” sono le opposte passioni dell’amante, speranza e timore, sulle quali l’amore ha però il sopravvento). Relativamente al quarto, proporrei di leggere «l’anima può ben trasformarsi in (cosa) d’altra persona», cioè darsi in pegno o servizio ad un’altra donna, secondo la nota metafora del cuore o dell’anima dei quali l’amata diventa signora e padrona. È insomma la situazione nella quale Dante si è venuto a trovare dopo la morte di Beatrice, con il conseguente dilemma che ne deriva. Il problema, inoltre, Dante se l’era posto anche nel Convivio, e lì la soluzione proposta ricorda molto da vicino il sonetto di Cino, che con ogni probabilità la tiene presente quando scrive il suo testo. In II VIII l’autore pone tale questione: se l’amore è una passione indotta dalle intelligenze celesti (quelle che si trovano nel cielo di Venere), come mai l’amore per Beatrice si è corrotto per dar luogo a quello per la “donna gentile”? Veramente qui nasce un dubio, lo quale non è da trapassare sanza dichiarare. Potrebbe dire alcuno (con ciò sia cosa che amore sia effetto di queste intelligenze a cu’ io parlo, e quello di prima fosse amore così come questo di poi): «Perché la loro vertù corrompe l’uno e l’altro genera?» (con ciò sia cosa che innanzi dovrebbe quello salvare, per la ragione che ciascuna cagione ama lo suo effetto); «e amando quello, salva quell’altro?» A questa questione si può leggiermente rispondere che lo effetto di costoro è amore, com’è detto; e però che salvare nol possono se non in quelli subietti che sono sottoposti alla loro circulazione, esso trasmutano di quella parte che è fuori di loro podestade in quella che v’è dentro, cioè dell’anima partita d’esta vita in quella che è in essa: sì come la natura umana transmuta, nella forma umana, la sua conservazione di padre in figlio, perché non può in esso padre perpetualmente co[ta]l suo effetto conservare. 55 Tenzone 10 2009 Qui Dante giustifica il cambiamento d’oggetto d’amore (da Beatrice alla “donna gentile”) con il fatto che il cielo di Venere esercita la sua influenza sugli oggetti (subietti) terreni e non su quelli ultraterreni. Nel momento in cui Beatrice muore la sua anima si trasferisce nell’Empireo, e lì le intelligenze di Venere non arrivano con le loro influenze (ne sono, semmai, influenzate). Quindi la passione che esse suscitano, pur restando immutata nel soggetto che la sperimenta, cioè Dante, viene dirottata verso un oggetto terreno, in carne ed ossa, cioè la “donna gentile”, sulla quale le intelligenze esercitano a pieno titolo la loro giurisdizione. Si osservi, di passaggio, che tale spiegazione ha senso solo se diamo al personaggio della ‘donna gentile’ un contenuto esistenzialmente pieno; non ne ha alcuno se invece la intendiamo come una astrazione allegorica23. Che Cino stia pensando proprio a questo luogo del Convivio, oltre che alla Vita Nuova, lo deduciamo da alcune riprese verbali molto significative. Innanzitutto trasformar, al verso 8, che riprende il transmutare, due volte, di Dante (ed anzi la seconda: «transmuta nella forma»). E poi il tormentatissimo v. 13: Dante, – in quine – stato dentro ed extra. De Robertis propone «dentro e fuori la corte di Amore», a partire dall’attacco della risposta di Dante: «Io sono stato con amore insieme». Si può però estendere la congettura dello studioso, ipotizzando che Dante citi, nel suo primo verso, l’ultimo di Cino. Questo dovrebbe essere quindi letto come segue: «Da te, insieme stato dentro ed extra». Cino alluderebbe così non alla corte d’Amore, ma al trasmutarsi del desiderio (secondo il Convivio) «di quella parte che è fuori di loro podestade in quella che v’è dentro, cioè dell’anima partita d’esta vita in quella che è in essa». Dante per il fatto di essere stato (con il suo cuore o il suo amore) dentro la natura terrena (amando la Beatrice viva e poi la “donna gentile”) e fuori di essa (amando la Beatrice morta), ha l’esperienza necessaria per risolvere la questione. La sostituzione del sintagma in quine (con due abbreviature) sarebbe dovuta ad incomprensione del copista24. 56 Raffaele PINTO La poetica dell’esilio e la tenzone con Cino Ma, indipendentemente dal problema ecdotico, il fatto che il passo del Convivio contenga la questione dibattuta dai due poeti e ne dia anzi la originaria formulazione, è dimostrato in modo inequivocabile dalla lettera d’accompagnamento del sonetto, l’Epistola III, a Cino, che riprende esattamente la formulazione del Convivio per illustrare sul piano filosofico la questione poeticamente enunciata dai due amici: Redditur, ecce, sermo Calliopeus inferius, quo sentantialiter canitur, quanquam transumptive more poetico signetur intentum, amorem huius posse torpescere atque denique interire, nec non huius, quod corruptio unius generatio sit alterius, in anima reformari. Omnis potentia que post corruptionem unius actus non deperit, naturaliter reservatur in alium: ergo potentie sensitive, manente organo, per corruptionem unius actus non depereunt, et naturaliter reservantur in alium. Cum igitur potentia concupiscibilis, que sedes amoris est, sit potentia sensitiva, manifestum est quod post corruptionem unius passionis qua in actu reducitur, in alium reservatur. In effetti, nell’Epistola, come nel Convivio, si tratta di spiegare come si passi da un amore all’altro. Posto che l’amore sta al suo oggetto come la potenza all’atto, quando un oggetto si corrompe (per esempio, quando la persona amata muore), restando intatta la capacità di amare del soggetto, che è una facoltà concupiscibile, questi trasferisce in modo del tutto naturale il suo desiderio su un nuovo oggetto. La corruzione dell’uno coincide così con la generazione dell’altro. Ciò che nel Convivio viene spiegato a partire dalle influenze (naturali) dei cieli, qui viene spiegato con la teoria aristotelica delle passioni25. Sia il problema che la soluzione sono però gli stessi, ed è abbastanza trasparente il fatto che Cino proprio al Convivio pensa quando provoca Dante su tale questione, posta da lui al fine di parodiare l’amico su un tema che è al centro della riflessione di Dante in questo periodo. E il senso ultimo della parodia è il rimprovero che Cino rivolge a Dante di aver abbandonato Beatrice per il nuovo mito filosofico legato al personaggio della “donna gentile”. Dante, nel sonetto di risposta, non esita a rinnegare ciò che aveva scritto nella Vita Nuova, opera in favore della quale è schierato Cino, mentre 57 Tenzone 10 2009 nella Epistola gli risponde confermando quanto ha scritto nel Convivio, contro il quale Cino polemizza. E si osservi, riguardo a questo ultimo punto, come la teoria allegorica del trattato sia chiaramente riecheggiata nella prosa latina: Redditur ... sermo Calliopeus inferius, quo sententialiter canitur, quanquam transumptive more poetico signetur intentum... La prosa della Epistola si pone nei confronti del sonetto come discorso filosofico che spiega razionalmente ciò che figuralmente (transumptive) dice il sonetto. Dante ribadisce quindi implicitamente che la poesia da sola non basta ad esprimere un contenuto di verità, essendo in sé finzione, e che ha bisogno di una prosa filosofica che lo metta in evidenza. È appunto questa la teoria allegorica del Convivio, sul cui fondamento ha costruito il (nuovo) personaggio della ‘donna gentile’, vuota astrazione che simbolicamente allude alla filosofia. Il senso di questa ripresa dei temi del Convivio è quello di riaffermare come necessario e corretto, all’amico che glielo rinfaccia come erroneo, il cammino filosofico intrapreso e la conseguente sconfessione della poetica della Vita Nuova. Il successivo scambio di sonetti (secondo l’edizione di De Robertis) può essere spiegato, nella sua lettera, solo a partire dalla polemica fra i due amici sul Convivio e sulla poetica antierotica che in esso viene svolta, con il Marchese Malaspina a far da testimone ed arbitro della contesa, svolta scherzosamente nei suoi elementi sentimentali e galanti, ma con estrema serietà di sottintesi ideologici. Cosa dice Cino al Marchese nel sonetto Cercando di trovar minera in oro? Che si è innamorato di una donna che appartiene alla sua famiglia, o della quale, forse, anche il Marchese è innamorato. In entrambi i casi, considerata la differenza gerarchica che esiste fra Cino (borghese e per di più in esilio) e l’aristocratico protettore di Dante, il Marchese assume nel testo la figura del rivale, o, meglio ancora, del provenzale, gilos. Si tratta con ogni evidenza di un triangolo puramente lirico, con il cui esempio Cino vuole dimostare al Marchese, sí, ma soprattutto a Dante, che l’amore, anche nelle condizioni precarie nelle quali lui e l’amico si trovano, conserva intatte le sue potenzialità 58 Raffaele PINTO La poetica dell’esilio e la tenzone con Cino eversive. Dice infatti che è innamorato, ma senza successo, perché, come da copione cortese, la dama lo disdegna. Il Marchese è ovviamente contento di tale insucesso, perché è contro di lui che il poeta desidera la donna che ama. Ma stia attento, il Marchese, perché l’amore a volte fa miracoli ed anche donne che sembrano specchi di virtù matrimoniali possono cedere al fascino del desiderio cortesemente declinato. La provocazione nei confronti di Dante consiste nel proporre lo schema tipico ed originario dell’amor cortese nella sua cruda realtà psicologica: amare davvero significa sfidare il Potere, per questo solo chi ama può dirsi davvero moralmente nobile e vantare, contro i nobili tradizionalmente intesi, una superiorità etica. Se Dante rinuncia all’amore, come centro ispiratore della sua poesia e della sua ricerca intellettuale, sappia che rinuncia anche alla virtù, di cui l’amore è fondamento. Vale la pena di ribadire, contro le letture misticheggianti dell’eros medievale che da sempre tendono a neutralizzarne la violenza ideologica, che l’amore di cui parlano i trovatori è statutariamente adulterino; che contiene implicito, cioè, un contenuto ideologicamente trasgressivo che è anteriore alla pulsione sessuale e che la orienta nelle sue mete. Si osservi la nitida distinzione, in Pietro Abelardo (Scito te ipsum, I, 10, 5-7), fra il desiderio direttamente orientato verso una donna (puramente pulsionale e quindi eticamente irrilevante) e il desiderio obliquamente orientato alla violazione dei diritti maritali (questo sì eticamente perverso): Sepe eciam contingit, ut, cum velimus concumbere cum ea, quam scimus coniugatam, specie illius illecti, nequaquam tamen adulterari cum ea vellemus, quam esse coniugata nollemus. Multi e contrario sunt qui uxores potentum ad gloriam suam eo magis appetunt, quia talium uxores sunt, quam si essent innupte, et magis adulterari quam fornicari appetunt, hoc est magis quam minus excedere26. La dislocazione abelardiana della colpa dall’atto alla intenzione, da una parte libera la sessualità (la fornicatio) dai suoi antichi pregiudizi morali, perché considerata uno stimolo naturale della sensibilità27, dall’altro mette in evidenza il perverso contenuto ideologico del desiderio, nel quale l’im59 Tenzone 10 2009 pulso sessuale è strumentalmente finalizzato alla usurpazione del diritto patriarcale di proprietà. Benché declinata secondo valori etici ovviamente diversi, la riflessione del filosofo è in perfetta sintonia con i trovatori, della cui ideologia egli esplicita l’intenzione socialmente sovversiva. Si osservi, in questi versi di Peire Vidal, quanto lucidamente proteso alla violazione dei diritti maritali sia il desiderio sessuale del trovatore: Quar de bona razitz es bos arbres issitz, e·l frugz es cars e bos e dous e saboros; et ieu torn amoros vas domnas e chauzitz tan qu’enuei’als maritz, de cui sui plus temsutz que fuecs ni fers agutz quar don me vuelh m’en pren, c’us no las mi defen28. Un’altra feroce satira antimaritale, che, in una prospettiva ideologica anticortese, rimprovera ai mariti di non sorvegliare sufficientemente il con delle loro mogli, è quella di Marcabruno. Si veda, per esempio, Dirai vos en mon latí (Riquer 1975: pp. 189-191): «Moillerat, ab sen cabrí: / a tal paratz lo coissi / don lo cons esdven laire» [Mariti dal senno caprino: in tal modo disponete il cuscino, che le vagine diventano ladre]. È all’interno di questo sistema ideologico che vanno interpretate le provocazioni di Cino a Dante, che risponde per il marchese, ovviamente, perché proprio a lui è diretto il sonetto, nel quale il Malaspina funge solo da personaggio fittizio, la figura convenzionale del gilos. Ritenere che il desiderio perda il suo contenuto trasgressivo perché il poeta non è più nella sua città, è un grave errore, dice Cino fra le righe, perché il suo carattere adulterino può manifestarsi in qualunque situazione, anche in quella nella quale Dante attualmente si trova, poiché è sempre contro il potere che il desiderio libera la sua energia, ed in particolare contro quello 60 Raffaele PINTO La poetica dell’esilio e la tenzone con Cino al quale il soggetto dovrebbe obbedienza e dedizione (nel caso di Dante, per esempio, il marchese Malaspina). La risposta dell’amico non è affatto vincente e liquidatoria, come ci aspetteremmo da Dante, ed anzi tradisce una certa difficoltà argomentativa. Nella prima quartina, dopo aver concesso a Cino la indiscutibile abilità di rimatore, gli nega la capacità di amare davvero: Degno fa voi trovare ogni tesoro la voce vostra sì dolce e latina, ma volgibile cor ven disvicina, ove stecco d’amor mai non fe’ foro. Non avendo solidi argomenti teorici contro il primato poetico del desiderio (per condannarlo dovrebbe mettersi dalla parte del gilos, che è personaggio ripugnante, il cui vizio supremo è l’avarizia e che ostenta attraverso il matrimonio un diritto di proprietà sulla donna incompatibile con l’etica del desiderio) Dante nega che Cino sappia amare davvero, il che non solo non confuta il principio che Cino teorizza, ma in certo modo lo conferma: pur ammettendo che Cino non abbia mai sentito l’amore, ciò non vuol dire che l’amore non sia l’esperienza fondazionale della poesia e della cultura. D’altra parte, il motivo per cui Cino non sarebbe sincero è la sua volubilità, argomento che non solo non c’entra niente con la situazione che Cino sta descrivendo, ma semmai chiama in causa la polemica dei sonetti precedenti, nei quali il conflitto fra amori diversi era stato addotto da Cino come parodia della volubilità di Dante! Nella seconda quartina Dante contrappone alla volubilità dell’amico la propria (non del Marchese) sincerità e profondità amorosa, che gli permette, a differenza di Cino, di entrare in contatto con le fonti della bellezza che suscita il desiderio, cioè la filosofia. È infatti proprio alla filosofia che Dante allude scrivendo «la miniera in cui s’affina / quella virtù per cui mi discoloro». La velata allusione alla ‘donna gentile’, allegoria della filosofia, si chiarisce nella prima terzina: 61 Tenzone 10 2009 Non è colpa del sol se l’orba fronte no·l vede quando scende e quando poia, ma della condizion malvagia e croia. Il poeta cita qui il congedo della canzone Amor che ne la mente mi ragiona, che a sua volta citava la ballata Voi che savete ragionar d’amore. La ballata proponeva un’immagine di femminilità cavalcantianamente caratterizzata dal disdegno e dalla crudeltà. La canzone correggeva quella immagine, attribuendola ad una falsa apparenza indotta dalla incapacità soggettiva dell’amante di riconoscere la sostanziale benignità della donna. A sua volta la prosa del Convivio interpreta la canzone e la ballata come espressioni della difficoltà del poeta di intendere le dimostrazioni della filosofia. La rete delle autocitazioni, perfettamente nota all’amico, serve a dire che Cino, che soffre per il disdegno di una dama, non ha capito che l’oggetto dell’amore autentico è la sapienza e non una donna in carne ed ossa. Solo nella seconda terzina Dante adotta la prospettiva del gilos, cioè del marchese, ovviamente non per difenderne i diritti maritali, ma per dire a Cino che nemmeno se lo vedesse piangere a dirotto (il pianto è tema caratteristicamente ciniano) temerebbe per il suo onore, perché la sua incapacità di amare davvero rende impossibile la conquista della dama. Il che di nuovo rappresenta una zeppa argomentativa, perché in questo modo Dante non smentisce il potere eversivo del desiderio, ma semplicemente la capacità di Cino di mettere davvero le corna al Marchese. E non risulta, d’altra parte, concettualmente plausibile l’assioma inverso a quello postulato da Dante, e cioè che l’amante il quale riconosca nella filosofia il vero oggetto di desiderio, e non la donna in carne ed ossa, rappresenti un pericolo per l’onore di un marito, in sé considerato o come rappresentante del patriarcato. L’ultimo scambio di sonetti (Dante: I’mi credea del tutto esser partito; Cino: Poi ch’i fui Dante dal mio natal sito), chiarisce definitivamente i termini della questione. Per Dante la nuova situazione esistenziale, cioè l’esilio, non l’età (poiché «la mia nave più lungi dal lito» è autocitazione 62 Raffaele PINTO La poetica dell’esilio e la tenzone con Cino da Conv. I,229), implica l’abbandono della antica comune poetica («queste nostre rime», 2, come già «li nostri diri», in Perch’io non truovo, 13). La persistenza di Cino nella tematica erotica è senz’altro perniciosa, perché caratterizzata da volubilità («pigliar vi lasciate a ogni uncino», 6) e quindi Dante lo invita a correggere la sua poesia con la virtù («priego che con virtù il correggiate») termine che sinteticamente indica i nuovi valori che in lui hanno soppiantato l’amore come principio di poetica. Cino gli risponde puntualmente ribaltando gli argomenti dell’amico: l’esilio non lo ha indotto a cambiare di poetica, cioè di principio ispiratore, perché le nuove donne che ha amato lontano dalla patria sono state desiderate per somiglianza con la donna che ha dovuto abbandonare, che rappresenta l’archetipo di bellezza al quale tutte le altre si conformano: ch’un piacer sempre mi lega ed involve, il qual convien ch’a simil di beltate in molte donne sparte mi diletti. L’argomento è volto non tanto a difendersi dalla accusa di volubilità, del tutto pretestuosa, quanto a dimostrare la propria fedeltà a se stesso e alla poetica dell’amore un tempo comune ai due amici. È costretto ad assumere un atteggiamento difensivo dalla abilità dialettica dell’amico, la cui consumata astuzia, la straordinaria capacità mistificatrice, consiste nel fatto di accusare esplicitamente Cino di ciò di cui l’amico lo accusa implicitamente, cioè la volubilità, la sua congenita incapacità, dalla Vita Nuova al Convivio, di restare fedele ad una donna sola Documento fondamentale della svolta filosofica di Dante durante i primi anni dell’esilio, la tenzone con Cino ne mette bene in luce il senso antiteologico: abbandonare l’amore ha significato per Dante rinunciare non solo all’unico principio ispiratore della poesia moderna (come il poeta, ravveduto, teorizza nella Commedia, soprattutto nei canti XXIV e XXVI del Purgatorio, che rappresentano una palinodia della palinodia), ma anche imboccare un cammino intellettuale che lo allontana pericolosamente da Beatrice e dal teologismo di cui Beatrice era veicolo nella Vita Nuova. Dietro la facciata della rectitudo, del cui canto il poeta 63 Tenzone 10 2009 si attribuisce il primato, si cela l’abisso intellettuale dell’eresia, nel quale Dante continuamente rischia di cadere nei due trattati, e che il mito di Beatrice scongiurava attraverso la sua proiezione verso la trascendenza. Cino ha aderito a quel mito, rivendicandolo come proprio, contro l’averroismo di Cavalcanti, e l’ha poi anche incorporato nella propria poetica attraverso il mito, caratteristicamente suo, della “donna scura”, nel quale trascriveva il contenuto luttuoso della ‘gentilissima’. E quindi la nuova sperimentazione dell’amico non può non apparirgli come un tradimento a quella poetica che era stata comune, tradimento che sistematicamente e pertinacemente gli rinfaccia. La domanda che forse bisogna cominciare a porsi è allora la seguente: quanto ha influito l’atteggiamento di Cino, cioè il suo fermo rifiuto della filosofia rivendicata da Dante attraverso il mito della ‘donna gentile’, nella decisione di Dante di abbandonare quella poetica e di ritornare a Beatrice e alla poetica dell’amore? Il fatto che la ‘Montanina’ sia indirizzata, attraverso l’Epistola, al marchese Malaspina, il cui servizio Dante dichiara di abbandonare per amore di una donna che l’ha folgorato, non è forse un omaggio all’amico, al quale intende dimostrare di essere ancora capace di sfidare il Potere attraverso la poesia? Come Cino utilizza il Malaspina quale figura esemplare dell’ordine patriarcale contro cui la poesia d’amore rivendica il proprio spazio soggettivo di libertà, così Dante utilizza lo stesso personaggio, nell’Epistola che gli è indirizzata, per mostrare a Cino che ha imparato la lezione, e che il nuovo grandioso progetto di poesia che ha intrapreso può fondarsi esclusivamente sul desiderio come principio etico ed espressivo, e quindi sul ritorno a quella poetica comune dell’amore che lui ha tradito, e alla quale Cino è rimasto, invece, strenuamente fedele. 64 Raffaele PINTO La poetica dell’esilio e la tenzone con Cino NOTE 1. Il quarto convegno, a Sarnes (Bressanone), che verteva sulla prima delle canzoni commentate nel Convivio (Voi che intendendo il terzo ciel movete), inaugura l’analisi delle canzoni scritte prime dell’esilio, ed afferisce quindi ad un periodo e ad una poetica differenti della evoluzione artistica di Dante. 2. Si vedano Grupo Tenzone 2007, 2008, 2009. 3. Sono consapevole del fatto che tali fratture sono state interpretate in modo anche molto diverso dai vari studiosi, sia in rapporto a ciò che ciascuna rinnega, sia in rapporto a ciò che ciascuna introduce. Mi pare, però, che l’idea di due svolte fondamentali sia un dato comunemente accettato; le angolature anche molto diverse secondo le quali tali svolte sono descritte sono un forte argomento in favore di una riscostruzione della storia della poesia dantesca che segua la traiettoria di una linea spezzata, e che eviti il rischio di lasciarsi ingannare dalla illusione ottica, indotta in qualche misura dallo stesso Dante, di una sostanziale continuità. Non è ostacolo a tale coincidenza di vedute la diversa cronologia prospettata relativamente a Tre donne (il 1302, per chi scrive, che segue la datazione tradizionale, o il 1304-1305, per Umberto Carpi): la canzone è comunque il primo documento di quella che possiamo definire come “poetica dell’esilio”. E neppure rappresentano un vero ostacolo le opposte visioni di un Dante ancorato alla cultura e alla ideologia medievale, e di un Dante proiettato verso i valori della modernità, che hanno spesso diviso le opinioni dei convegnisti: ciò che comunque emerge con chiarezza dai testi sono due ritrattazioni, la prima in Tre donne e la seconda in Amor da che convien. 4. Trattandosi della filosofia trattata nel Convivio e nel De Vulgari, il sospetto che le meditazioni del poeta suscitano, secondo l’Epistola («meditationes ... quasi suspectas») è quello di una filosofia sostanzialmente aristotelica, non sufficientemente corretta dalla teologia, come sarà invece la filosofia praticata nella Commedia. Si tratta insomma dell’antagonismo ideologico che Dante ha miticamente rappresentato attraverso il conflitto fra Beatrice e la ‘donna gentile’, emblema la prima dell’erotismo della poesia dantesca (nelle sue due fasi), e la seconda della ricerca filosofica dominante durante i primi anni dell’esilio. 5. Il passaggio dalla fase filosofica (del Convivio) a qualla poetica (della Commedia), per esempio, oltre che un perenterio cambiamento di rotta, implica anche 65 Tenzone 10 2009 la tesaurizzazione di esperienze che verranno messe a frutto nel Poema. Al riguardo sono molto suggestive le osservazioni di Rosario Scrimieri nel suo intervento di Setcases (Scrimieri 2009: 129): «Si potrebbe forse qui azzardare l’ipotesi che ad un tratto il genere prosimetro, che in un certo senso punta verso una poetica della totalità nel sovrapporre prosa e poesia – vale a dire, riflessione dell’anima razionale, nella prosa; e sentimento e sensorialità dell’anima sensitiva, nella poesia – fosse diventato insufficiente per Dante e che mentre lavora con il modello della canzone lunga dottrinale guittoniana, intravvedesse l’idea di una serie di lunghe canzoni, tematicamente concatenate e semplificate dal punto di vista della struttura strofica – i canti versificati in terzine – capaci di assumere in modo simultaneo sia i contenuti della prosa che quelli della poesia, contenuti che nel Convivio apparivano separati, riuniti adesso in una nuova concezione, anche formale, di una poetica della totalità, restando sempre fermo in Dante il punto di partenza della sua identità come poeta d’amore, identità proiettata sul livello letterale della storia di Dante personaggio». 6. 7. Si veda Picone 2007: 42-45. «L‘ipotesi dell’origine feudale della ideologia della fin’amor, così suggestivamente proposta in passato da Erich Köhler, dovrebbe essere riconsiderata a partire dal suo contenuto profondamente antidogmatico, e per tanto socialmente sovversivo: il culto della donna mediante l’amore, più che integrare idealmente l’amante in una struttura di potere dalla quale egli è di fatto escluso, libera interiormente l’uomo dalla rete delle obbligazioni che lo sottomettono al sistema di relazioni maschili e feudali proprie dell’epoca. Queste relazioni, in effetti, perdono la loro giustificazione morale in un soggetto ossessionato dal desiderio di una donna, e che rivendica positivamente questa ossessione come spazio morale nel quale prende forma la propria identità. L’amore è, prima di qualunque altra cosa, il gesto di ribellione dell’individuo nei confronti della autorità e del potere, che nella società antica e medievale sono esclusivamente maschili, cioè patriarcali. L’adulterio come forma particolare di una triangolazione che è intrinseca alla tensione di desiderio (soggetto – mediatore – oggetto, secondo la illuminante proposta teorica di René Girard), per la quale la donna amata non può essere la sposa del trovatore (ma ha, invece, un marito che è vittima potenziale del tradimento di entrambi), indica con evidenza che l’amore è moralmente significativo solo se è, nello stesso tempo, infrazione di un ordine patriarcale, che si basa sul potere economico e politico non meno che sessuale» (Pinto 2003: 25). 66 Raffaele PINTO La poetica dell’esilio e la tenzone con Cino 8. La triangolazione edipica (secondo Freud) è la migliore descrizione possibile, sul piano pulsionale, dell’eros cantato dai trovatori, poiché chiama in causa da una parte le pulsioni sessuali o di vita che hanno come meta la madre, e dall’altra le pulsioni violente o di morte che hanno come meta il padre. 9. Inversamente, il culto religioso di Beatrice svolto nella Vita Nuova, sia pur parodico, che lungi dal ridurre semmai potenzia il contenuto antipatriarcale del desiderio, è tuttavia leggibile come un avvicinamento al guelfismo più ortodosso negli anni in cui Dante intraprende la sua carriera politica. 10. Un ulteriore indizio di smaterializzazione della figura femminile che aveva ispirato la sua poesia è l’ambiguità del «bel segno ... che m’have in foco miso», dei vv. 81-87 della canzone, che allude con terminologia violentemente erotica alla città di Firenze. La odierna contrapposizione, nella critica, fra letture che privilegiano un senso oppure l’altro (io stesso, nel mio intervento propendevo per la lettura erotica) viene meno se si pensa ad una strategia dissimulativa che guarda verso le opere precedenti (il Fiore, in particolare) delle quali Dante vorrebbe qui accreditare un significato allegorico ab origine (come d’altra parte il poeta farà di qui a poco esplicitamente nel Convivio relativamente alla “donna gentile”). 11. Seguo l’ordine della edizione di De Robertis, che riflette in qualche misura l’ordine cronologico dei testi della tenzone, ma soprattutto ha il merito di unificare e contestualizzare una corrispondenza che si svolge interamente durante l’esilio dei due poeti. Il che permette di cogliere le allusioni polemiche di Cino alla svolta che l’esilio significò nella poetica Dante. 12. Cfr. Vita Nuova, XXXV: «Onde io, accorgendomi del mio travagliare, levai li occhi per vedere se altri mi vedesse. Allora vidi una gentile donna giovane e bella molto...». 13. Si veda «’i muoio per quella oscura che pur piange, / la qual velata in un amanto negro» (Amico, s’egualmente, 3-4); «bella donna gentil ... / ... in una scura vesta» (Molte fiate Amor, 4-5); «quella donna piena di corrotto» (Spesso m’avvien, 3); «quella ch’io mirai / dolente sotto un vel tinto di pianto» (Serrato è lo mio cor, 3-4). Il personaggio deriva dalla sezione della Vita Nuova dedicata al dolore di Beatrice per la morte del padre, che immediatamente precede la sua morte. 14. Fa eccezione un altro sonetto di corrispondenza, senza destinatario esplicito, che, per la identità di situazioni proposte, dovrebbe, credo essere inserito nella tenzone con Dante di questi anni: Novelle non di veritade ignude. Oltre il conflitto 67 Tenzone 10 2009 fra le due donne, su cui il destinatario è invitato a pronunciarsi («mandami a dir ... / come si dee mutar lo scuro in verde», 13-14), c’è anche il rimprovero per un silenzio forse dovuto alla barbarie del luogo in cui l’amico si trova: «ma svariato t’ha forse non poco / la nova usanza delle genti crude / sì ch’a me, lasso, il tuo pensier non volte», 8-10. 15. Tutta la tenzone si svolge fra il 1302 (inizio dell’esilio di Dante) e il 1306 (fine dell’esilio di Cino), quindi fa da contrappunto alla fase che qui ci interessa della poetica di Dante, mettendone polemicamente in evidenza gli elementi di rottura rispetto alla fase precedente, rottura che la Epistola a Moroello in astratto enuncia. 16. Sulla similitudine si è ampiamente soffermato Guglielmo Gorni, che avverte in essa una eco virgiliana (Georgiche, II, 28-31). L’interpretazione “umorale” dello studioso mette bene in luce il fatto che la “vera notrice” dell’albero è la terra in cui affondano le sue radici; trascura però il significato politico-biografico che ha la terra nel contesto del sonetto, cioè l’allusione all’esilio. 17. Indipendentemente dalla Commedia, è questa l’unica occorrenza del termine in Dante. In Cino, oltre il sonetto citato, il termine è usato un’unica volta. 18. Sul contenuto della polemica rinvio al mio Pinto 1994: 57-73. Si consideri, inoltre, che questo sonetto è la fonte più ravvicinata dell’episodio del canto X dedicato a Cavalcanti, poiché è qui appunto che un disdegno di matrice averroista (o “artista”, v. 9) viene imputato a Guido come limite poetico-ideologico. 19. Manca nel sonetto, tuttavia, qualunque allusione ad un conflitto di desideri, come negli altri sonetti della tenzone, per cui il testo potrebbe appartenere ad una fase diversa, ed anteriore, del rapporto fra i due amici. Di questo avviso è anche G. Contini (Alighieri 1984-88: I, 1, 419). 20. Con ogni probabilità, questo sonetto di Dante si riferisce al già citato sonetto di Cino Novelle non di veritade ignude. 21. Si tratta del tema ampiamente svolto nella canzone coeva Doglia mi reca ne lo core ardire. 22. Il sonetto viene avvicinato alla «montanina, perché anche lì viene lamentata l’assenza di “donne” e “genti accorte”» (cfr. De Robertis, in Alighieri 2005: 492). C’è però una sostanziale differenza fra i due testi: qui tale assenza impedisce che ci si innamori e che si faccia poesia d’amore, lì, invece, nonostante l’ostilità ambientale, il poeta si è innamorato ed ha ripreso a cantare l’amore. È che con la 68 Raffaele PINTO La poetica dell’esilio e la tenzone con Cino ‘montanina’ Dante è entrato in una nuova fase di ricerca poetica, che ha di nuovo al centro l’amore come motivo di ispirazione, pur persistendo le avverse condizioni determinate dall’esilio. 23. A meno di non ricorrere ad una interpretazione leggermente più contorta (che è, credo, quella che aveva in mente Dante): poiché la “donna gentile” rappresenta un sapere di tipo filosofico, contro Beatrice che rappresenta un sapere di tipo teologico, l’amore che tale sapere suscita appartiene alle passioni naturali (poiché «Tutti li uomini naturalmente desiderano di sapere», come scrive Aristotele e ripete Dante). E quindi la passione filosofica deve essere ascritta all’influsso dei cieli che operano sulla natura sublunare. Il tema della naturalità della conoscenza, e quindi del carattere intramondano del suo oggetto, è uno di quelli più controversi e scottanti trattati da Dante nel Convivio. Ma proprio a questa inversione ‘filosofica’ di rotta intellettuale Cino allude, polemicamente, dietro la apparente banalità delle questioni sentimentali che pone all’amico. 24. La congettura con la quale viene normalmente emendato il testo: «da te che stato sei dentro ed extra» va nella stessa direzione interpretativa qui proposta. 25. C. Calenda (Calenda 1995) ha ben ricostruito le fonti aristotelico-tomiste della argomentazione di Dante. Lo studioso osserva inoltre che la tesi del poeta coincide con una delle proposisizioni averroiste condannate nel 1270 dal vescovo Tempier («Quod liberum arbitrium est potentia passiva, non activa, et quod necessitate movetur ab appetibili»). Il che spiega ulteriormente il senso della polemica di Cino, che sta rimproverando all’amico le sue deviazioni antiteologiche. 26. «Succede spesso anche che, desiderando giacere con una donna che sappiamo sposata, sedotti dalla sua bellezza, non vogliamo tuttavia in alcun modo commettere adulterio con lei, che vorremmo non fosse sposata. Molti, invece, desiderano per vanagloria le spose dei potenti, proprio perché sono spose di essi, molto più che se fossero nubili, e desiderano più commettere adulterio che fornicare, cioè, peccare in ciò che è più grave piuttosto che in ciò che è meno grave». Cito da Petri Abelardi, Opera theologica, V, Scito te ipsum, ed. R. M. Ilgner. Abelardo pensava con ogni probabilità ai trovatori, la frequentazione attiva dei cui testi lirici egli dichiara nella sua Historia calamitatum. 27. Cfr., in particolare, I, 13, 1-2: «Quod si obicias, ut quibusdam videtur, delectacionem carnis in concubitu quoque legittimo peccato imputari –cum David dicat: Ecce enim in iniquitatibus conceptus sum etc., et apostolus, cum dixisset: Iterum revertimini in ipsum, ne temptet vos Sathanas propter incontinenciam ve- 69 Tenzone 10 2009 stram, adiungat: Hoc autem dico secundum indulgentim, non secundem imperium–, magis nos auctoritate quam racione videntur constringere, ut ipsam scilicet carnis delectacionem peccatum fateamur» [Se si obietta che, come molti ritengono, il piacere carnale costituisce un peccato anche nella unione legittima, giacché Davide dice: Fui concepito nella nequizia etc., e l’Apostolo, dopo aver detto (I Corinzi 7,5) «ritornate a stare insieme, perché Satana non vi tenti nei momenti di passione», finalmente aggiunge «Questo però vi dico per concessione, non per comando», sembra che più per un argomento di autorità che per un argomento di ragione siamo obbligati a riconoscere come peccaminoso in se stesso il piacere carnale]. 28. «Perché da una buona radice è uscito un buon albero e il frutto è prezioso e buono e dolce e gustoso, e io torno alle donne pieno d’amore e apprezzato, tanto che dispiace ai mariti, dai quali sono più temuto del fuoco e del ferro tagliente, perché prendo da dove voglio, e nessuno me le interdice». Cito da Vidal 1960: Vol. I, 126 (XIV). Il tema dell’adulterio è svolto anche da Petrarca nella Familiare IX, 4. Benché gli esempi siano quasi tutti di origine classica, e nonostante l’interpretazione in chiave animalesca e pulsionale dell’adulterio, è però evidente la ripresa del tema etico abelardiano (cfr., in particolare, 2-3: «Sicubi vir zelotypus aut mater anxia paterque solicitus insignem noscitur adhibuisse custodiam, sicubi pudor ipse femineus impervia sepe vallatus est, hanc vel muneribus blanditiisque perfringere vel aliquo novo genere fraudis transilire, dulcissimum interque preclara iuvente facinora numerandam. Quibusdam venatoribus mos est sopitum cervum aut iacentem inter vepres leporem non tangere; prede fuga studium insequentum excitat; sic vester amor, ut eleganter ait Flaccus, –Transvolat in medio posita et fugientia captat–. Coniuges vestras abicitis, alienas appetitis, cum illis interim sui et compti et vigiles proci sunt» [Se da qualche parte corre fama di un marito geloso, di una madre preoccupata, di un padre sollecito, noti per la loro vigile attenzione; se ancora sapete di una donna che si trinceri dietro il suo impenetrabile pudore, voi considerate stupenda tra le più belle vittorie della gioventù abbattere queste difese con doni e lusinghe, od oltrepassarle con qualche inganno di nuovo tipo. È usanza di alcuni cacciatori non toccare il cervo che dorme o la lepre che sta accovacciata fra i cespugli: la preda in fuga eccita l’ardore di chi l’insegue; così è la vostra passione, che come dice con finezza Orazio, ‘tira dritto davanti a ciò che è a portata di mano e tenta di raggiungere ciò che fugge’. Disprezzate le vostre mogli e desiderate quelle altrui, mentre intanto alle vostre si fanno attorno i proci attenti e azzimati]. 70 Raffaele PINTO La poetica dell’esilio e la tenzone con Cino 29. «Veramente io sono stato legno sanza vela e sanza governo, portato a diversi porti e foci e liti dal vento secco che vapora la dolorosa povertade...». 71 Tenzone 10 2009 RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI ALIGHIERI, D. (1984-1988): Opere Minori, Milano-Napoli, Ricciardi. ALIGHIERI, D. (2005): Rime, a cura di Domenico De Robertis, Firenze, Edizioni del Galluzzo. ALIGHIERI, D. (2003): Vida Nueva, edición de Raffaele Pinto, Madrid, Cátedra. CALENDA, C. (1995): «Potentia concupiscibilis, Sedes Amoris. Il dibattito Dante-Cino», in Appartenenze metriche ed esegesi. Dante Cavalcanti Guittone, Napoli, Biblipolis, pp. 111-124. CARPI, U. 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