Una Ragazza come una città

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Una Ragazza come una città
Una Ragazza come una città
Amanda scosse indietro la lunga chioma bionda con un accento fiero del capo, per un attimo il
profilo del suo viso s’incorniciò come un cammeo nella goccia del portale gotico alle sue spalle; la
sua sagoma era un ricamo di perla contro l’intonaco rosso Tiziano dell’edificio. Amanda si alzò dal
suo sgabello, la gente batteva le mani, qualcuno lanciò una moneta, un inchino breve e la folla si
disperse poco a poco, come le nuvole sfilacciano scoprendo il sole quando la tempesta finisce.
Seduto sul basamento del pozzo di fronte a Palazzo Duodo in campo Sant’Angelo, al sicuro da
dietro il recinto di curiosi, Enea la guardava, la guardava sempre, a tempo pieno, a tempo perso,
mentre lei sedeva su quel suo trespolo di legno a tre piedi e le sue dita brunite spingevano
l’archetto sulle corde del violino. Sembrava persa lontano, chi sa dove, o forse molto vicino, forse
era dentro che andava e non fuori di se stessa, quando quel suo grigio sguardo liquido,
incastonato nel viso di mandorla tostata, perdeva aderenza col mondo. Ma non era quello il
momento che Enea preferiva, la meraviglia esplodeva dopo, dopo che Amanda aveva smesso di
suonare e tutti avevano perso il loro interesse per lei, lì si accendeva il suo. Mentre suonava, sulle
larghe lastre di pietra di campo Sant’Angelo, Amanda era di tutti, e di nessuno, e così valeva per
la sua musica. Ma dopo, quando si alzava, quando gli occhi le tornavano a terra e i piedi le si
gettavano nella trama labirintica della città, dopo era sua, soltanto sua. Enea non si era mai
chiesto se fosse giusto seguirla, lo faceva e basta, lo aveva fatto dalla prima volta, e non gli
importava di raggiungerla, non sapeva che farsene di raggiungerla: non ancora, doveva prima
capire quale fosse il modo giusto per farlo.
Amanda frugò nelle borsa ai piedi del suo sgabello e nella luce avvolgente del tardo pomeriggio
tirò fuori un sacchetto di carta: pieno di mele, Enea lo sapeva, mele rosse. Poi si voltò verso
l’angolo sudest del campo, dove la pietra si tuffava nell’acqua del rio di Sant’Angelo, e lasciò liberi
i suoi piedi, ad imboccare calle Caotorta, rasentando i muri smangiati d’intonaco e mattoni
dell’edificio d’angolo, alle cui spalle si lanciava in alto il campanile della chiesa di Santo Stefano.
Enea le tenne dietro. Era questo, più di tutto il resto, quello che adorava, che lo trascinava a
seguirla: il suo incedere armonico e ritmato, come se danzasse, di quando nessun altro la
guardava più, di quando non stava più suonando, ma continuava ad emettere qualcosa di
melodioso e vibrante nell’andarsene così, piedi e capelli: una corsa limpida e una cascata lucente
a brillarle alle spalle. Amanda primavera, Amanda testa calda di miele al sole. In realtà non lo
sapeva il suo nome, ma per lui era Amanda: una mela, un’amante, una mandorla.
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Era così che faceva lei, si decentrava da se stessa e sguinzagliava i piedi a cercare tracce di
possibilità, e spingendosi tra le strette calli, insinuandosi nei campielli, di corsa ad attraversare
campi e a ginocchia alte, svelta, qua e là tra i ponti, Amanda diventava un melodico crine teso
sugli incroci di canali come su corde di violino. E mentre vagolava in una sua traiettoria
imperscrutabile e ogni volta diversa, Amanda cantava a se stessa, con le piccole labbra rosse
chiuse su scale di note e i piedi a picchiettare le gradinate. Enea lo capiva: quello non era un
semplice passeggiare, Amanda stava suonando, suonava la città.
Anche questa volta Enea si preparò a seguirla da lontano, come sempre, a leggere il misterioso
inestricabile spartito del suo percorso diviso tra pietra e aria, e poi riflesso, distorto e
beccheggiante, che ondeggiava caleidoscopico nelle acque dei canali, specchiato come in mille e
mille murrine. Teneva le mani affondate nelle tasche, le spalle strette per restare meglio solo e
non perderla. Amanda, crine di fili d’oro a incendiarsi nel sole, modulava il suo ritmo a labbra
strette, un cuore asprigno di mela nascosto in una guancia a sciogliersi nella melodia. E Venezia.
Venezia che suonava.
La ragazza come un refolo di vento, dentro e fuori le correnti dei vicoli, sembrava seguire un
disegno antico, intessuto nella storia stessa della città, che attraversava gli anni per riemergere
ora suonando. Enea pensò che forse davvero Amanda corteggiava Venezia con docili carezze di
passi perché questa si lasciasse suonare, ma pensò anche che forse, invece, accadeva il
contrario, forse la ragazza non faceva che scivolare nella melodia che Venezia suonava
attraverso il suo corpo per poter raccontare ancora una volta le sue innumerevoli vite. In
quell’abbraccio che la ragazza e la città si scambiavano, ancora Enea non era riuscito a capire
chi delle due fosse lo strumento e chi la volontà suonatrice.
Amanda si sospese un momento, appena prima di lanciarsi giù per una teoria di gradini, e poi
giunta in fondo allungò un passo morbido per attutire la discesa e rilanciare il cammino con nuova
energia. Ed ecco agli occhi di Enea sorse l’immagine di un veliero che s’impenni e s’immerga, un
veliero che raccontava di una Venezia mercantile e di stive cariche di vetro e sale, di un passato
di donne sedute negli angoli, che poco a poco la salsedine e il sole avrebbero sgretolato in rughe,
mentre le loro dita infilavano perle su perle in lunghe testimonianze di dedizione. Dalla gola della
ragazza saliva una nenia decisa e fiera, mentre avanzava da sola disegnando coi piedi piccoli
semicerchi, che arrampicandosi su per le sue agili gambe si attorcigliavano in un ancheggiamento
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dolce sui fianchi. Una nenia che sussurrava ricordi di vecchie fondamenta di legno a indurirsi
come fossili, bosco sommerso, radici umide di una Venezia nascente, che dal basso forgiava per
se stessa la forza con cui il fuoco della sua indipendenza sarebbe divampato, salendo in alto
insieme al crescere degli edifici.
Il sole stava pian piano calando, Amanda s’involò sul pendio dolce di un ponte e ridiscese
dall’altro lato del canale, si fermò di colpo e si voltò, appoggiandosi al parapetto e sfiorando con
dita lievi le imperfezioni della pietra e le cicatrici del tempo. Si schermò gli occhi dalla luce e,
attorcigliandosi i biondi capelli tra le dita, guardò Enea. Il ragazzo avvertì un brivido corrergli lungo
la schiena, come se le dita di Amanda gli percorressero le vertebre divenute tasti di pianoforte,
invece di levigare di carezze il parapetto di pietra al lato opposto del canale. Enea affondò i suoi
occhi nel grigio vortice di quelli di Amanda, che lo fissavano con una trasparenza senza veli, così
genuina, pura e diretta da essere provocante. Occhi grigi come mulinelli d’acqua e gesti ricamati
che parlavano di maschere e danze, di musiche, salotti e intarsi di storie e anime a nascondersi e
rincorrersi nella penombra.
Dunque sapeva di essere seguita, ma non si lasciava raggiungere. Anche adesso che finalmente
i suoi occhi e la sua sosta erano per lui, Enea si sentiva estromesso. Si mosse piano pensando di
valicare il canale che li divideva, ma, non appena fu giunto sulla sommità del ponte, capì che se si
fosse avvicinato di più Amanda se ne sarebbe andata di nuovo. Si arrestò e si aggrappò con
forza all’orlo dei suoi occhi, promettendo in silenzio di restare dov’era.
Amanda cantava, senza smettere di guardarlo, Enea era confuso, le pupille a fondersi e misurarsi
in quelle di lei, il corpo a fremere nel dubbio della distanza. Si faceva amare come un’isola, da
lontano, e per avvicinarla, come un uccello acquatico, dovevi essere disposto a bagnarti i piedi e
scontrarti contro i suoi scogli. Ma anche allora, nel gioco di specchi di aria e acqua, per quanto si
sforzasse, Enea non riusciva a trovare il punto esatto da cui doveva essere guardata per essere
compresa del tutto. Poi per un attimo lo sguardo gli si appoggiò sulle acque del canale, che
placide scorrevano a lambire il riflesso fulgido di Amanda. Ogni sua sfumatura rimbalzava nella
città in un gioco di echi d’inspiegabile simmetria e i grigi occhi vorticavano come ingorghi di vita
tra i flutti.
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Una ragazza come una città, Enea pensava: si specchiava soltanto in se stessa, e nel rimbalzo di
ogni riflesso sceglieva una nuova forma. E capì: lo strumento era la volontà stessa, il suo nome
non era Amanda, ma Venezia. Amanda era Venezia. Potevi amarla ma non potevi possederla, e
l’esatto punto di fuga da cui avresti dovuto guardarla non era che lei stessa.
Di Maria Fezzardi per Emergenza Scrittura
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