lettera del parroco
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LETTERA DEL PARROCO Cari fratelli e care sorelle nel Signore, nel porta lettere e cartoline della mia scrivania sta, davanti a tutto, un’immaginetta del Santo Curato d’Ars, a ricordo del pellegrinaggio che feci più di 25 anni fa quando ancora ero in seminario. Dopo aver fatto tappa a Annecy, dove riposano in una chiesa in cima a una collina San Francesco di Sales e Santa Giovanna Francesca di Chantal, ci avventurammo – è il caso di dirlo – alla ricerca di Ars sur Formans: paesino sperduto di circa 1200 abitanti in mezzo alla campagna nella regione del Rodano Alpi. Quando Giovanni Maria Vianney vi arrivò nel 1818, Ars – dicono gli studiosi contava poco più di 230 abitanti, suddivisi in 40 case basse, nascoste tra gli alberi dei frutteti; alcune sparse qua e là, altre strette attorno a una chiesetta sormontata da quattro travi di legno che sostenevano una campana. Il campanile mancava e si capisce, perché Ars era solo una cappellanìa ovvero non era nemmeno una parrocchia. [Nota di inevitabile di commento. Il campanile che non c’è mi perseguita: anche nella originaria Parrocchia milanese di Sant’Ilario al Gallaratese, dove andavo il sabato e la domenica durante l’anno della grande nevicata (era il 1985), non c’era il campanile. Ma questa è un’altra storia e sarà per un’altra volta] Alla vista di Ars l’impressione di desolazione fu forte: sembrava una terra abbandonata dagli uomini e da Dio. Un luogo dove o ti frantumi o diventi santo, così pensai. All’ingresso del paese c’è un monumento che ricorda cosa rispose il nuovo curato a un bimbo, cui aveva chiesto qual era la strada per Ars: “Mi hai insegnato la via di Ars e io ti insegnerò la via del cielo”. Già…la via del cielo. Per poi scoprire, conoscendo la vita del Santo Curato, che la via del cielo passa attraverso il dire Messa, la preghiera, il confessare, il fare catechismo, la visita ai malati, l’aiutare i poveri e tutti gli uomini di un paesino qualsiasi: questo basta e avanza. Almeno fu così per lui. Oggi, nella nostra diocesi e nella chiesa in generale, si dice: i tempi e la gente sono cambiati, ci sono nuovi contesti, nuove esigenze, nuovi poveri; è cambiato, cambia e deve cambiare il modo di fare il prete, il volto della parrocchia; bisogna trovare nuove strategie e tattiche pastorali, nuovi mezzi e modi per annunciare il Vangelo a tutti, ai vicini, ma soprattutto ai lontani; la chiesa o è missionaria o non lo è…e via di seguito. Intendiamoci bene: questi e anche altri, sono discorsi veri, sofferti e pertinenti, che confessano una passione per il Vangelo, per la chiesa e per gli uomini. Annunciare (e vivere) oggi il Vangelo nel nostro quartiere non è come essere a Ars nella prima metà dell’Ottocento. A noi, che ci diciamo credenti e che frequentiamo la chiesa, tocca trascrivere la Parola eterna di Dio con le nostre vite per la salvezza del mondo: questo è il compito e la missione, sempre la stessa e sempre nuova, di ogni generazione di credenti. Ma la figura di Giovanni Maria Vianney, santo patrono di tutti i parroci, ricorda alla Chiesa di ogni tempo quegli elementi essenziali e indispensabili che rendono possibile e cristiana (soprattutto) la missione del parroco e della parrocchia: l’amore e la cura per la celebrazione dell’Eucaristia; il primato quotidiano della preghiera, colloquio del Padre coi suoi figli; la confessione, sacramento della pace e della misericordia di Dio; la dedizione mite e convinta alla catechesi, gioia per i genitori innanzitutto; lo stare accanto ai malati e non di fronte; e i poveri…tutti i poveri, tutte le povertà da aiutare con intelligenza e con cuore (diceva san Vincenzo de Paoli che i poveri sono i nostri signori e padroni) senza pretendere di risolvere una volta per tutti i problemi o di salvare il mondo, perché i poveri – ce lo ricordava l’unico nostro Salvatore – li avrete sempre con voi (Giovanni 12, 8). Desidero, infine, ricordare, a me e a tutti, che a Ars il Santo Curato ha fatto tanto e tutto incominciando da poco o nulla: da una chiesa che non aveva neanche il campanile. Ecco, certamente molte cose nella chiesa dei prossimi anni e decenni cambieranno e dovranno cambiare, ma ciò che è brillato nella vita umile e splendida del Santo Curato d’Ars, no. Quello non cambierà mai. don Guido RITROVARE LEONARDO Leonardo di ser Piero da Vinci (Vinci , 15 aprile 1452 – Amboise 2 maggio 1919) uomo d’ingegno e talento universale del Rinascimento italiano, incarnò in pieno lo spirito universalista della sua epoca, portandolo alle maggiori forme di espressione nei più disparati campi dell'arte e della conoscenza. Fu pittore, scultore, architetto, ingegnere, anatomista letterato, musicista e inventore, ed è considerato uno dei più grandi geni dell'umanità. Cosi possiamo leggere su un qualsiasi libro, di storia e non solo, che vuole presentare con poche parole la grande figura di Leonardo. Per noi milanesi Leonardo è uno dei nostri, un milanese quasi doc. Infatti visse e lavorò a Milano per quasi vent’anni; dalla primavera del 1482 fino a dicembre del 1499. Milano, in preparazione dell’EXPO’ del 2015, vuole far sentire il grande pittore e scienziato quasi il “nostro vicino di casa”, il nostro “amico più caro” che ci permette di leggere il suo più segreto diario. Dal settembre di quest’anno fino al 2015 verrà esposta in ventiquattro mostre della durata di tre mesi ciascuna tutta la raccolta di scritti, appunti e disegni, custodita presso la Biblioteca Ambrosiana, del Codice Atlantico (Codex Atlanticus così chiamato in quanto le pagine hanno la dimensione di 64,5 x 43,5 cm che era la dimensione delle pagine usate per il disegno degli atlanti) che è la più importante e celebre raccolta di scritti e disegni, ben 1.119 fogli, tutti manoscritti da Leonardo; gemma tra le gemme della Biblioteca Ambrosiana. La mostra che è allestita presso la Sala Federiciana della stessa Biblioteca Ambrosiana e presso la Sacrestia del Bramante in Santa Maria delle Grazie (accanto al Cenacolo) si articola in una esposizione di quarantacinque fogli alla volta, distribuiti nelle due sedi, esposti per tre mesi e proposti secondo un criterio tematico: inizia con gli studi sulle architettare militari, poi con le rassegne dedicate al volo, all’idraulica (non dimenticare di andare a vedere le chiuse leonardesche ancora in funzione lungo il Naviglio Pavese), alla meccanica e all’anatomia. Il Codice Atlantico è una raccolta di dodici grandi volumi scritti durante l’intera carriera di Leonardo, da quando aveva circa ventisei anni fino alla morte, raccolti e catalogati nella seconda metà del Cinquecento da Pompeo Leoni (figlio dello scultore Leone Leoni, autore della facciata della Casa degli Omenoni in Via Omenoni, tra palazzo Marino e il Teatro alla Scala). In La casa degli Omenoni di Ugo Nebbia, edizione Ceschina, viene così descritta la storia del Codice Atlantico: "Gli Omenoni furono i primi custodi di quella famosa serie dei Disegni di Machine et delle Arti Secrete et altre cose di Leonardo da Vinci, raccolti da Pompeo Leoni nel decennio 1580-90”; serie in origine posseduta, com'è noto, dal Melzi, fedelissimo discepolo e amico dello stesso Leonardo. Si tratta di quella raccolta che, dopo una breve trasmigrazione in Spagna, tornava a Milano nel 1604, per diventare nel 1610, alla morte di Pompeo Leoni, assieme a questa casa, eredità di Polidoro Calchi (marito di Vittoria, figlia di Pompeo Leoni). Passata in seguito per la somma di trecento scudi al marchese Galeazzo Arconati, veniva nel 1637 donata all'Ambrosiana, per esservi definitivamente custodita, con il nome di Codice Atlantico, come una delle più preziose testimonianze del multiforme genio leonardesco. Napoleone portò il tutto a Parigi; alla caduta dei Buonaparte, il Canova riuscì a far restituire all’Ambrosiana il Codice, ma altri quaderni e carte di Leonardo rimasero a Parigi. Ora questa preziosa raccolta è stata sfascicolata dalle esperte mani delle Suore Benedettine di Viboldone, con la consulenza dell’Istituto per la Conservazione del Patrimonio Archivistico e Librario. Dopo la sfascicolatura, i singoli fogli sono stati misurati, catalogati e racchiusi in appositi passepartout che serviranno a proteggerli e conservarli meglio; la Biblioteca Ambrosiana ha contestualmente avviato un progetto di archiviazione in digitale ad alta definizione, per future iniziative editoriali. Con questa lodevole iniziativa Leonardo sarà ancora più milanese e il Codice sarà veramente patrimonio di tutti e non solo di quei pochi che hanno accesso alle sale riservate della Biblioteca Ambrosiana. La mostra è visitabile dal martedì a domenica dalle 9 alle 19 all’Ambrosiana e dalle 8.30 alle 19 alla Sacrestia del Bramante alle Grazie. Per informazione e prenotazioni www.ambrosiana.it, call center 051.5881589, oppure presso le filiali di Ubi Banca. Carlo Favero IL SAPORE DELLA VITA Sulle nostre tavole il pane vecchio compare raramente e quando accade è causa di brontolamenti, sempre che sulla tavola si usi ancora il pane; sulle nostre tavole il vino è spesso sostituito dalle bevande light americane; in cucina girano prodotti surgelati o cucinati dal gastronomo sotto casa ed è raro trovarsi a tavola in famiglia a parlarsi e godere del sapore della festa con il televisore spento. I tempi hanno le loro esigenze: non rimpiangiamo quelli in cui “i mulini erano bianchi” (ma quali?) e vivere in campagna era una fatica oggi insostenibile da chiunque. Perché allora Enzo Bianchi, priore della comunità ecumenica monastica di Bose e apprezzato commentatore dei grandi accadimenti di oggi, scrive un libro per raccontarci come ha vissuto da ragazzo nelle campagne del Monferrato nei primi anni dopo la guerra? Perché a quegli anni, a quelle esperienze si sente ancora debitore per tanti aspetti della sua vita e della sua spiritualità di monaco. La lettura è un invito anche per noi a valorizzare tanti momenti del quotidiano, il piacere dello stare insieme e la fatica fatta da altri e di cui godiamo senza pensarci. Con Il pane di ieri, Einaudi 2008, pp.116, 16,50 €, Enzo Bianchi ci fa riscoprire il gusto del cibo preparato in casa con prodotti locali che significa pazienza nell’allevamento e nella coltivazione e sapienza nella cucina: l’intingolo e il vino che consumiamo e offriamo all’ospite avranno il sapore pieno di una cultura che viene da lontano e di una fatica a cui si deve riconoscenza. Una lettura semplice e coinvolgente per gli anziani che vi si riconoscono e per i giovani che non avrebbero immaginato: in queste pagine sentiamo il timore di fronte a una natura non sempre benevola; vediamo la solenne autorità dal parroco che, con i paramenti sacri e l’aspersorio, affronta la tempesta per allontanare la grandine che in pochi minuti renderebbe vani mesi di fatica; vediamo la festa della messa domenicale in latino, dove i fedeli vedono solo le spalle del celebrante e assistono senza capire, ma dalla quale escono rasserenati, con la persuasione di avere fatto il proprio dovere. Chi conosce il priore di Bose per essere stato al monastero o avere letto qualche suo scritto, avrà anche altre sorprese: scoprirà una componente importante della sua spiritualità, ancora precedente allo studio, e scoprirà il suo gusto all’ospitalità a tavola e talvolta perfino a cucinare con le sue mani per sé e per gli ospiti; stupirà a leggere che si mantiene tutt’oggi un orticello privato di piante aromatiche accanto alla cella, perché “non riuscirei a vivere senza quest’orto che non solo dà gusto ai cibi, ma mi insaporisce l’anima”. E scoprirà anche debiti di riconoscenza di questo monaco studioso -che ha conosciuto papi e uomini di cultura, che partecipa a congressi internazionali- per personaggi umilissimi, emarginati dalla vita, incontrati magari per caso. Anche questo è un invito a guardare e giudicare con un occhio diverso le persone che possono entrare anche nella nostra vita: quello che, senza nessuna presunzione di superiorità, il priore chiama la differenza cristiana, la capacità cioè di guardare uomini e situazioni al di là della superficie. E infine l’ultimo capitolo: un invito a chi, come lui, ha varcato la soglia dei sessanta a contare i propri giorni, valendosi anche delle osservazioni offerte dalla Bibbia, che presenta come bene supremo “il vivere a lungo, fino alla sazietà dei giorni”, un’esperienza che però non ci pare sempre di condividere “nelle società industriali e urbanizzate che hanno smarrito la naturalezza dell’alternarsi delle stagioni e dei cicli vitali”. Occorre non illudersi, non fingere, accettare la riduzione delle forze, prendere atto che le decisioni sono prese da altri, che tante persone che hanno fatto parte della nostra vita non ci sono più. “Troverò ispirazione nella speranza cristiana?” si chiede Bianchi. “Il compito di ciascuno di fronte alla vecchiaia che incalza non è prevederla, bensì prepararla, colmando la vita di quanto può sostenerci fino alla morte”. Proviamoci ora, proviamo a pensare e a cercare una vita piena, come è possibile a tutti, in qualunque situazione ci troviamo, qualunque posizione sociale abbiamo, qualunque professione svolgiamo. Impegniamoci per una vita piena, sia che la soglia dei sessanta sia ancora in un futuro lontano, oppure che sia già un ricordo. Proviamoci, grati anche a Enzo Bianchi, un monaco, che aiuta anche noi a vivere più intensamente. Ugo Basso ALLA SCOPERTA DELL’AMERICA TRA L’OCEANO PACIFICO E I GRANDI PARCHI Il 13 agosto sono partita alla volta dell’America, nello specifico alla volta di Los Angeles, per scoprire le bellezze e le diversità americane. Siamo partiti in otto, tutti contenti di scoprire nuove culture, nuovi panorami e nuove avventure. Il viaggio in aereo è stato lungo e stancante: abbiamo viaggiato per una giornata intera facendo scalo a Philadelphia dove ci hanno schedato dalla testa ai piedi facendoci compilare mille formulari prendendoci le impronte digitali, ci sentivamo un po’ come degli schedati che hanno commesso un reato grave… passato questo siamo risaliti su un altro aereo alla volta finalmente della nostra tappa finale, Los Angeles. Beh, il volo sembra breve ma in realtà non arrivavamo più eravamo cotti. La città di Los Angeles è proprio come la si vede nei film con viali giganti e molto filmeschi, le case americane hanno ognuna il proprio stile si è liberi di fare quello che si vuole di casa propria colorarla in maniera diversa, fare un giardino pieno di cavolate e quant’altro. L’esperienza più divertente è stata la visita agli Universal Studios, il complesso degli studi dove si gira la gran parte dei film delle grandi produzioni americane. Lì è stato davvero interessante e divertente, abbiamo provato persino l’ebbrezza di un disastro metropolitano e non è mancata la foto sotto la mitica scritta Hollywood! E, ovviamente, non potevamo non fare un giro nelle più famose spiagge di Santa Monica: non illudetevi i baywatch non sono assolutamente come quelli del telefilm… Finita la visita di Los Angeles, siamo partiti alla volta di Las Vegas passando per Calico una città fantasma, una cittadina rimasta vecchio stile con saloon ed empori molto caratteristica da visitare. Una volta arrivati a Las Vegas ci sembrava di essere nel paese dell’assurdo: è una città nata in mezzo al deserto dove l’assurdo regna sovrano. È la città del gioco d’azzardo, ma anche degli alberghi sfarzosi: pensare che qui hanno ricostruito per intero alberghi che riprendono le città di Parigi con Tour Eifell visitabile, Venezia con i suoi canali e le gondole, Bellaggio con lago annesso davanti all’albergo e, perché no?, pure Roma con il famoso Ceasar Palace, per tutti gli amanti di Ocean’s Eleven, per non parlare poi del New York New York con un’ottovolante che gli gira intorno, una cosa da non credere. Oppure sentirsi all’improvviso in Egitto grazie al Luxor albergo in pieno stile Egiziano con sfinge e piramide. Las Vegas è anche la città degli outlet ce ne sono due molto famosi e conosciuti dove anche noi ci siamo fatti prendere la mano e abbiamo comprato un sacco di cose a prezzi convenientissimi, e pensate abbiamo pure trovato due negozi molto particolari: il negozio degli m&m’s e della coca cola, quattro piani di negozio ciascuno dove dentro si può trovare qualsiasi cosa. Dopo Las Vegas siamo partiti per il vero e proprio tour americano abbiamo iniziato la visita dei canyon: le parole da trovare per descriverli sono difficili talmente sono affascinanti e belli. Quando arrivi in questi posti trovi davanti a te una distesa immensa di rocce che il tempo, il vento e anche l’acqua hanno creato e modificato: uno spettacolo per gli occhi e una sensazione di pienezza che ti riempie l’anima. Ogni canyon è diverso dall’altro, ha una sua particolarità: abbiamo visitato Bryce canyon, una distesa di stalagmiti di roccia che, viste dall’alto, non sembrano così grosse quanto in realtà sono viste dal basso e di un colore rosso/arancione che, con il solo cambio di luce, varia terribilmente. Un altro canyon particolare è Arch con i suoi archi naturali creati sempre dalla natura che a vederli ci si chiede come fanno a resistere così piccoli e sottili senza cedere. Due parole in più per la Monument Valley, il paesaggio reso celebre da celebri film western, fra cui i maggiori film di Jhon Wayne: si tratta di una distesa infinita di rocce giganti con varie forme strane c’è quella che assomiglia a un’elefante, a delle gobbe di cammello e, c’è la possibilità di fare una bella passeggiata a cavallo. Il panorama davvero ti riempie in tutto. Un canyon molto particolare è Antilope, un canyon sotterraneo aperto in alcuni punti in alto da cui filtra la luce e fa un effetto davvero fantastico: si vedono solo il raggio o il fascio di luce che entra dentro e che illumina le pareti di color arancione. Abbiamo quindi raggiunto Page, famosa per il Lake Powell e per la diga, seconda più famosa dopo la diga Hoower, che ferma il corso del fiume Colorado e che, grazie alla forza, velocità e quantità di acqua trasportata, produce energia elettrica per diversi stati americani, Il fiume Colorado lo abbiamo visto più e più volte attraversare il nostro percorso e abbiamo pure visto le stranezze che compie quali una seri di giri a serpentone e un vero e proprio giro di quasi trecentosessanta gradi: un’emozione alla vista da non credere! Il fiume Colorado poi percorre anche il canyon più famoso e conosciuto il Grand Canyon, che esso stesso ha formato: ancora una volta le parole non sono abbastanza per descrivere la spettacolarità del posto in tutti i belvedere creati appositamente per visitarlo. Sembra di trovarsi sempre in posto diverso talmente è vario in ogni punto con colori che vanno dal marrone al rosso all’azzurro del fiume. Lungo il nostro percorso abbiamo trovato un sacco di scoiattoli, con i quali qualcuno di noi ha avuto un’esperienza negativa, ha tentato di dargli da mangiare e si è beccato una morsicata; antilopi e cervi, e pensare che un’antilope ci è pure saltata davanti agli occhi. In una sola giornata poi siamo passati dal paesaggio montano di Flagstaff (2100 mt di altezza) fino alla città di San Diego passando per Phoenix e il parco nazionale dei cactus che sono veramente giganti e di ogni forma e misura davvero originali. L’ultima tappa è stata San Diego, la città di mare per eccellenza con viali con palme a destra e sinistra e dalla sua spiaggia più famosa, Coronado, la vista sullo skyline di San Diego è davvero mozzafiato e meravigliosa. San Diego si specchia nel mare ed è città di mare, ma anche militare: infatti qui è ormeggiata la famosa nave militare Midway (la sua ultima battaglia è stata nella guerra del golfo) ora visitabile in tutti i suoi particolari dalle stanze, alla prigione per finire con il curiosare sugli aerei da caccia. Chi si ricorda del cartone animato Madagascar??? Penso quasi tutti e dove dovevano andare i nostri animali? Ma certo al famoso zoo di San Diego, uno zoo immerso nel verde e dove gli habitat degli animali sono stati ricreati fedelmente e pure quelli in gabbia possono muoversi tranquillamente quasi come se fossero in libertà. Un’altra attrazione di questa città è l’acquario, molto carino e vario: ogni animale ha una sua abitazione ricreata appositamente. Non vi dico il freddo che abbiamo provato andando a vedere i pinguini dell’Antartico…..!!! Qua invece del solito spettacolo con i delfini lo abbiamo visto con un’animale particolare: l’orca che poi è diventato il simbolo della città. In tutti questi giri siamo anche riusciti a rilassarci un pochino sulla spiaggia: il bagno in quel mare, che è l’oceano Pacifico, era proibitivo l’acqua era particolarmente fredda e solo i nostri ometti coraggiosi si sono buttati dentro… che coraggio!!! E sulla spiaggia di San Diego il nostro viaggio, ahinoi, si è concluso: breve tappa e sosta al ritorno per Philadelphia dove avevamo nove ore di attesa prima del rientro in Italia e, per non sostare in aeroporto, abbiamo curiosato qua e là per la città andando a visitare il suo monumento più famoso: la scalinata di Rocky! Che dire? Si dice che esiste il mal d’Africa, ma noi vi assicuriamo che abbiamo il mal d’America!!!! Non vediamo l’ora di tornare per rifarci gli occhi con le bellezza naturali che abbiamo visitato. Ilaria Sambi