Viaggio sentimentale #3. I Vignai da Duline fanno proprio vini

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Viaggio sentimentale #3. I Vignai da Duline fanno proprio vini
Viaggio sentimentale #3. I Vignai da Duline fanno proprio vini significativi
Se non vi siete mai curati di rivalutare il rapporto tra
progresso tecnologico ed emancipazione umana alla
luce del principio di prestazione, né tampoco di
imparare il testo di Andare, Camminare, Lavorare…,
lasciate perdere: è tardi, siamo fuori tempo massimo.
Posso però raccontarvi di due persone che se ne sono
curate, quanto meno idealmente: Federica Magrini e
Lorenzo Mocchiutti. Lette queste premesse, nulla più
che due pensieri scaturiti dalla prima visita, spero che
concedano a me e alle mie divagazioni una seconda.
Pensieri scaturiti durante la visita al Ronco Pitotti, sei
ettari tra le colline a Nord di Manzano. Guardi una vigna e vedi una cavea. Al tempo del mio passaggio il
palcoscenico era ancora vuoto. Dopo qualche settimana avrebbe ospitato l’altare profano: un’installazione
dell’artista Massimo Poldemengo, voluta perché «… mancava un luogo di sosta e presentazione, una sorta
di tavolo, un altare profano per gustare un bicchiere del vino prodotto nel Ronco […], una sorta di umbilicus
loci che, trattandosi di vino, non poteva che assumere forma e funzione di mensa emergente dalla vigna,
per un consumo da condividere… ». Sedici cifre incise sul basamento, una per ciascuno dei filari di pinot
nero, parte minore di un vero patchwork viticolo che comprende vecchi cloni di merlot – un biotipo a bacca
piccola e grappolo spargolo – e sauvignon – di nuovo importato nel ‘700 dalla Francia e oramai introvabile
anche oltralpe.
Le gradinate del Ronco sono memoria storica: fu infatti tra il ‘400 e il ‘500 che comparve anche in
quest’areale, grazie alla Serenissima e soprattutto alle sue squadre di prigionieri turchi, la sistemazione a
balze. Funzionava, funzionò a lungo grazie a mani e attrezzi d’altri tempi, finché passò di moda con
l’avvento della viticoltura meccanizzata che in zona portò gioiosi sbancamenti, vie pervie per i mezzi
meccanici, il grande piccolo chimico. La vecchia maniera, che funzionava su solide basi empiriche a rischio
e pericolo del contadino e dei fisiocratici, resse fino agli anni ’60 e ’70, quando la voce tradizionale venne
ridotta ad arcaismo o calibrata a slogan; quando la turbo-imprenditoria, per dare più verve al business plan,
estrapolò dai migliori testi d’economia industriale il mantra della distruzione creativa. Della distruzione, in
effetti, aveva un concetto chiaro e lo applicò bene e subito; poi entrò in pausa creativa. E dalla pausa non
uscì più. A Ronco Pitotti, per fortuna, toccò sorte migliore: fu rilevato da Anna Pitotti e suo marito,
Francesco Valori, nel 1979 attraverso una transazione familiare, da zia a nipote. Conservando l’originaria
sistemazione a balze, essendo inoltre bio di fatto e senza bisogno di riconversioni, oggi è al contempo
felice retaggio del passato e futuribile veronelliano, perché «…Agricoltura e biologia sono consustanziali,
l’agricoltura non può non essere biologica…». Dal 2001 lo gestiscono Federica e Lorenzo. È stato lui a
curarne le viti una ad una, senza manomissioni. È lui che presenta questa vigna e l’altra come i suoi unici
consulenti. L’altra è la Duline, a Villanova, acquistata e vitata dal bisavolo di Lorenzo nel 1920. Anche in
questa, varietà e biotipi non si contano. Le due insieme danno non più di ventimila bottiglie.
Per quanti non guardano oltre il calice, i Vignai da Duline hanno vini considerevoli. Per chi traguarda
attraverso la lente del calice, loro due possono aggiungere una lettura libertaria, originale e intimista,
coerente alla lezione di un loro conterraneo: come se questi l’avesse scritta anche per loro, lettori della
terra e per lei prestatori d’opera: “Tuttavia, per quanto privo di illusioni, continuo sempre a credere
nell’esistenza almeno ideale di un lettore ingenuo, disposto a prendere come fatti obbiettivi e di consumo
non ignobile anche le cose più intime…”. Lettori solo in questo senso ingenui, dicono di trarre solo dalla
terra che è loro intima la sensazione di libertà. Ne traggono ovviamente anche il senso e l’oggetto di un
consumo non ignobile. Da condividere. Come quel giorno, e qui sotto.
Appunti di degustazione.
(Tocai) Friulano “La Duline” 2012. Da vecchie viti (’20, ’36) della Duline. Mentre con Federica e Lorenzo si
parla di Tocai citeriore, citeriore rispetto a calor giallo e vigore del Collio, arriva il calice e chiarisce il
concetto: finezza, dote acida diversa per luce e qualità. Sensazione sapida che percorre e sostiene l’intera
dinamica. I dettagli sono agrumi e fiori, vari e svariati di spezie bianche e radici. Progressione gustativa in
crescendo: primo movimento in dirittura e freschezza (pesca bianca e di nuovo gli agrumi), centro-bocca in
eleganza e crescente larghezza, finale in equilibrio, con il calore retto senza sforzo dal supporto acido.
Lunga e intensa persistenza sapida, con cenni d’erbe aromatiche.
Pinot Grigio 2012. La traccia minerale si fa più tagliente e sapida. Ed è un bene perché, parallelamente,
cresce la sensazione calorica. Naso che allude ad acqua di fiori, camemoro, pesca bianca e salvia. Al
palato si tinge di giallo, quello di un frutto che in progressione acquista dolcezza e freschezza in gradazioni
coerenti. Altra fattura, insomma, ma stessa cifra rispetto al primo. E stesso sale, un landmark (non
un trademark). Da impianti d’età già ragguardevole (’58, ’84) a Ronco Pitotti.
Chardonnay 2010. Ancora Ronco Pitotti, viti di vent’anni. Pare che una giovane di Volnay, buona famiglia –
anzi ottima, nobili origini e grandi vini, per di più diplomata bianchista – l’abbia scambiato una volta per un
Meursault. Nella successione scelta da Federica e Lorenzo, è una svolta: qui erompe la quota di frutto
(ananas, pesca, agrumi) pavesata di delicate note dolci (creme), di pain grillé ed erbacee, con una
freschezza citrina a slanciare impressioni più polpose e grasse. In seconda battuta, spunti fungini e terrosiminerali a conferire profondità e complessità. Al palato si dispiega in una trama serrata di rimandi all’olfatto,
veicolati dal solito sale e da un’acidità strenua, naturale, non distale. Bella l’espressione del frutto, calibrate
ed eleganti le variazioni più dolci (pasticceria, marzapane) e le sensazioni caloriche, rettilineo e teso
l’andamento. Finale terso, con grande freschezza a chiudere.
Morus Alba 2010. Uvaggio di malvasia istriana dalla Duline e sauvignon dal Ronco Pitotti. Altro cambio di
scena: un vino ricercato – in senso proprio, è frutto di empiria, studio e ricerca. La componente aromatica è
resa, senza esuberanze o forzature, in un assieme cospicuo e risolto, che segnala e non ostenta: erba
tagliata, salvia, anice, agrumi, acqua di fiori. Non vi pesano barrique e tonneaux, che piuttosto si intuiscono
nei caratteri di fondo al naso (speziatura, frutta da guscio), già ben amalgamati; e nella lentezza, nella
lunghezza della progressione al palato. Vino colto in piena fase mimetica, raccolto, quasi ritroso ma
chiaramente unitario nell’espressione. È equilibrio in itinere, sarà un lungo itinerario e vario.
Merlot 2009. Ha vinto. Lo ridurrei alla berlina varietale, se fossi tanto incauto da chiamarlo il mio migliore
Merlot dell’anno e dell’annata (ex aequo con un altro, che però è un 2006). Vince perché è buono senza
bisogno di confronti e classificazioni, per la finezza degli aromi e l’autenticità del frutto, per la facilità della
beva congiunta alla ricchezza della trama, per compostezza e definizione. Dinamica esemplare per
continuità e coerenza tra le parti, tensione gustativa sostenuta dall’attacco fino alla chiusura, che è una
coda invitante di frutta rossa e tannini minuti, un vero invito alla replica.
Morus Nigra 2008. Refosco dal Peduncolo Rosso. Da impianti del ’96 (Duline) e del ’05 (R.Pitotti). Colore e
stratificazione aromatica rendono fin dall’inizio l’idea di densità e concentrazione. Frutto nero esemplare e
in grande varietà, dal gelso (la morus nigra) al mirtillo, dalla mora di rovo fino alle bacche più acide e
astringenti (aronia). Ulteriore slancio e complessità vengono dalle note balsamiche, fresche e misurate,
dalle fragranze di rosa nera e muschio. Al palato è sostanza, energia e ricchezza di trama vivacizzate dalla
grande freschezza e da tannini infiltranti. Persistenza misurabile in minuti. Un vino di corpo e tessitura
simili, eppure tanto vibrante e flessuoso da portarle con eleganza, resta nella memoria.