Massimo Mastrorillo
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Massimo Mastrorillo
Professione Massimo Mastrorillo Massimo Mastrorillo ha imboccato la via del fotogiornalismo d’autore. Una svolta che gli ha permesso di vincere alcuni prestigiosi premi, come il World Press Photo 2006 e, in Italia, la quinta edizione di Attenzione Talento Fotografico Fnac. Dal Mozambico dell’Aids e della povertà alla diaspora Curda, dall’Indonesia del dopo-tsunami alle metropoli-icona del Terzo millennio, Massimo Mastrorillo ha all’attivo numerose pubblicazioni sulle maggiori testate italiane e internazionali e ha ormai intrapreso la strada del fotogiornalismo d’autore. Una svolta che gli ha permesso di conquistare alcuni prestigiosi premi, come il World Press Photo 2006 e, in Italia, la quinta edizione di Attenzione Talento Fotografico Fnac. Lo abbiamo incontrato in occasione del Lucca Digital Photo Fest, dove Mastrorillo ha esposto il suo lavoro Indonesia-Just another Day. Il reportage geografico e sociale è uno dei settori della fotografia attualmente più ardui con cui misurarsi. Ci racconti “in pratica” la realtà che affronti come fotogiornalista? Ho sempre un rapporto un po’ conflittuale con i giornali. La mia impressione è che ci sia un appiattimento generale nella produzione, soprattutto in campo fotogiornalistico, con foto che si somigliano un po’ tutte. Per esempio, si pubblica pochissimo il bianconero e non si capisce per quale motivo, si usano molto il ritratto e il paesaggio e sembra che non ci sia mai spazio per un certo tipo di fotografia, a meno che non si tratti di nomi altisonanti (per esempio Sebastião Salgado). Con tutto il rispetto per questi autori, non c’è 114 una via di mezzo, non c’è un equilibrio: basta essere un nome molto famoso e ti pubblicano magari anche cose discutibili, mentre lavori di altissimo valore, ma firmati da fotografi di fama inferiore, spesso passano in secondo piano. In editoria, poi, si va molto dietro alle news, cosa che io non faccio, perché mi interessa raccontare la vita quotidiana ovunque essa sia, sia in contesti assolutamente normali, per esempio in Italia, sia all’estero e in situazioni particolari, come nel caso di questa mostra sull’Indonesia tre mesi dopo lo tsunami, prodotta dal Festival Internazionale di Fotografia di Roma, in cui cerco di raccontare l’impatto che ha avuto questo evento catastrofico, e quindi non l’evento in sé. Si tratta di un racconto che punta molto, oltre che sulla vita quotidiana, anche sull’aspetto ambientale dell’Indonesia, Paese pieno di contrasti e di contraddizioni, stretto tra contrasti etnici, sfruttamento ambientale impressionante e disastri naturali a catena. In questo lavoro porto avanti anche il parallelismo tra gli eventi catastrofici prodotti dalla natura, che sembra voler anticipare la mano dell’uomo con terremoti e smottamenti, e i disastri causati direttamente dalle attività umane. Alla fine, questo lavoro è sostanzialmente un racconto dell’umanità in chiave ambientale, e vorrei continuarlo in altre zone dell’Indonesia sempre con lo stesso taglio narrativo. Di quali altre tematiche ti stai occupando? Un altro progetto che sto portando avanti già dal 2005 si chiama The Lives of the Cities, “le vite delle città”, un racconto per immagini ispirato al libro di Italo Calvino “Le Città invisibili”, che per me è stato particolarmente illuminante. Erano anni che mi interessava trasporre in immagini un libro che mi intrigava molto, ma non mi ero mai sentito abbastanza maturo per farlo davvero. Per ora sono stato in nove città, l’ultima delle quali è Shanghai. Nel 2007, tra l’altro, c’è stata anche una svolta epocale: per la prima volta nella storia dell’umanità, la popolazione delle città ha superato quella delle aree rurali. La tendenza per il futuro è dunque questa: ci saranno sempre più grandi aree urbane, e già adesso ci sono oltre 400 città nel mondo con più di un milione di abitanti, molte superano i 10 milioni. L’umanità quindi è destinata a vivere sempre più in questi contenitori di acciaio, cemento e vetro. Quando si descrivono le città, però, si tende a parlarne in termini tecnici: come rendere più vivibili le metropoli, che tipo di energia utilizzare e così via… mentre io porto avanti un tipo di racconto molto diverso, incentrato sulle città come contenitori di emozioni, di sentimenti, di umanità appunto. Sto cercando di realizzare un affresco che cominci da una città in un punto del mondo per finire in un’altra città in un City Models. Un giovane turista a passeggio su un cammello lungo le spiagge del New Dubai Waterfront. Città di confine tra due deserti (il deserto di sabbia e l’oceano); Dubai è un caleidoscopio di contrasti, tra città moderna e deserto senza tempo, tra vecchio e nuovo in cui oriente ed occidente si mischiano continuamente. altro punto del mondo, senza che sia fondamentale capire dove esattamente queste città si trovino: è quindi un racconto fotografico sull’umanità, per affermare che siamo tutti uguali ovunque ci troviamo. Cosa che non è tanto scontata, visto che certe parti del mondo sembrano essere considerate “inferiori” rispetto al tipico modello occidentale. Questo progetto in bianconero si affianca a City Models, progetto a colori vincitore del premio Talento Fotografico Fnac 2007 che prende a modello quattro città che hanno avuto (ed hanno tuttora) uno sviluppo incredibile negli ultimi 40 anni. Si tratta di Dubai, che 40 anni fa era un 115 semplice villaggio di beduini e adesso sta diventando un impressionante hub internazionale; Tokyo, che dopo la II guerra mondiale ha avuto uno sviluppo continuo e progressivo tanto che oggi, con i suoi 35 milioni di abitanti, è l’esempio tipico della megalopoli; Shanghai, città di contraddizioni dove il capitalismo sfrenato coesiste con il comunismo, città in evoluzione dall’impressionante sviluppo architettonico verso l’alto. E infine Berlino, unica città europea di questo progetto, simbolica e interessante perché nell’arco di mezzo secolo è stata ricostruita due volte e perché, con l’unificazione delle due Germanie, è diventata un po’ il centro d’Europa; ha subito modificazioni urbanistiche e architettoniche incredibili, ma al tempo stesso si porta dietro tutta una serie di segni legati The Lives of the Cities. Tokyo è la più popolosa area metropolitana del mondo con oltre 35 milioni di abitanti. E’ composta da diverse piccole città ed i sobborghi sono caratteristici ed unici; è un evidente esempio di “arcipelago urbano”, termine più adatto di “megalopoli” per descrivere questa realtà. 116 The Lives of the Cities. Sullo sfondo della futuristica città di Dubai, gli allenatori conducono i cammelli lungo la pista di Nad al Sheba. Una volta gli abitanti del Dubai erano pastori che vivevano del latte e della carne dei cammelli; ora li allevano per le gare, un solo animale può valere oltre un milione di dollari. alle follie del Ventesimo secolo che né le nuove architetture, né le nuove urbanistiche, riescono a cancellare. Si tratta indubbiamente di lavori di taglio molto particolare: a chi li proponi per la pubblicazione? Premettendo che sono comunque poche le testate adatte a pubblicare questo genere di lavori; parti di City Models sono state pubblicate da vari giornali, per esempio Panorama First, e ci sono altre riviste interessate. Comunque, in genere le mie immagini sono pubblicate dai newsmagazine, tipicamente i settimanali. Devo precisare che lavoro idealmente su progetti a lungo termine, spesso auto-finanziandomi e soprattutto con l’intenzione di pubblicare libri e di esporre. Il rientro richiede quindi 117 The Lives of the Cities. Un giovane canta un rock trasgressivo nel quartiere di Shinjuku a Tokyo; la crisi della fine del XX secolo ha profondamente cambiato la mentalità delle giovani generazioni, che non sono più in sintonia con la devozione al capitalismo dei loro padri. 118 un certo arco del tempo, accompagnandosi anche a premi ed a mostre che aggiungono prestigio al lavoro. Come ti poni nei confronti di lavori più “commerciali”? All’inizio ne facevo molti, adesso sempre di meno perché vorrei fare il salto definitivo verso la fotografia fine-art. Da quando mi sono messo a lavorare a progetti a lungo termine ho vinto premi importanti: il più recente è il Lucie Awards, come miglior fotografo internazionale del- l’anno, che è giunto subito dopo il Premio Fnac Attenzione Talento Fotografico 2007. Sono premi prestigiosi e sono certo che prima o poi tutto questo darà i suoi frutti. Molti fotografi che lavorano continuativamente con i giornali hanno sicuramente entrate superiori, ma dal mio punto di vista hanno poco “in mano” perché i giornali tendono a farti produrre lavori poco significativi. La figura del fotografo stile Time o Newsweek, inviato magari per un mese, praticamente non esiste. The Lives of the Cities: Shanghai. Un vecchio senza casa si avvicina alla stazione centrale, luogo di ritrovo per i poveri della città. Shanghai ha più di 13 milioni di abitanti, ma oltre 5 milioni non sono registrati; attratti dal “sogno di Shanghai”, sono arrivati dalle campagne e per vivere fanno lavori occasionali. La tendenza è mandarti sul posto al massimo per una settimana a scattare foto di scarso valore. E quando torni hai sì i soldi, ma come fotografo non hai costruito niente. Come mai un professionista già affermato decide di partecipare a un concorso come quello di Fnac, tipicamente visto come una eccellente vetrina, ma soprattutto per nuovi talenti? In effetti inizialmente lo vedevo come una buona opportunità soprattutto per fotografi molto giovani, ma in realtà non c’è un limite di età. Quindi mi sono detto “perché no?”, visto il prestigio del premio. Si tratta poi di un concorso che non subisce l’influenza delle agenzie fotografiche e permette di avere visibilità grazie alla mostra che gira per l’Italia. E’ andata bene, e la soddisfazione è ancora maggiore sia perché è l’unico premio italiano che ho vinto, sia perché nel 2007 per la prima volta i lavori sono stati valutati dalla giuria in modo anonimo, senza quindi sapere chi fosse il fotografo. Parlaci dell’immagine con cui ti sei aggiudicato il primo premio Natura foto singole, al World Press Photo 2006. Premiando quell’immagine la giuria del World Press Photo ha fatto sicuramente una scelta coraggiosa, perché è una sezione nella quale in genere prevalgono le foto in puro stile National Geographic, mentre la mia è una immagine di distruzione della natura. Si tratta certamente di uno scatto particolarmente significativo che resta a lungo impresso nella memoria malgrado, a differenza di altre foto dello stesso progetto, non mostri in modo evidente la distruzione tipica dello tsunami, quella in stile Hiroshima per intenderci. Si tratta però di una immagine più “sottile”, che ti porta a riflettere e ad andare oltre. Ti domandi perché e come sia possibile The Lives of the Cities: Shanghai. 119 Mozambico: Maputo, distretto Chamanculo. John (con la pistola) e Tchaka sono membri della gang Panga, responsabile di molti crimini. Una rapina a mano armata è il modo più facile per fare denaro in una società che non offre molte possibilità di trovare un lavoro. L’apertura delle frontiere con il Sud Africa ha accresciuto l’importazione illegale di armi, e quindi i casi di violenza. Indonesia: Just another Day. Baraccopoli di Jembatan Gambang (North Jakarta). Il frequente passaggio dei treni regola i ritmi delle attività degli abitanti nell’arco dell’intera giornata. Jakarta è una megalopoli di 12 milioni di abitanti in continuo sviluppo: edifici avveniristici, abitazioni di lusso ed enormi centri commerciali, si affiancano ad un numero sempre maggiore di baraccopoli dove la gente vive in condizioni di estrema povertà e senza alcuna speranza. Negli ultimi dodici anni l’eccessivo sfruttamento delle falde acquifere e la sfrenata speculazione edilizia hanno fatto sprofondare la città più di un metro. che un mare, che nella foto è così calmo, abbia potuto portare tanta devastazione e dolore; ti accorgi che quei monconi sono palme e ti chiedi come possano essere state mozzate a metà, e alla fine rifletti sul dramma della distruzione più di quanto non avvenga di fronte ad un’immagine più evidente e cruda. Legato a questo scatto c’è anche un aneddoto, molto toccante. Quella spiaggia si trovava vicino a una strada dove due navi avevano addirittura bloccato l’accesso alle macchine. Una scena che, malgrado avessi provato più volte, non riuscivo a fotografare come avrei voluto, nel senso che era una situazione talmente “forte” che andava oltre le mie capacità di rappresentarla. Guardandomi attorno ho notato la spiaggia e ho cominciato ad avvicinarmi; con me c’era una guida locale di Banda Aceh, una ragazza molto allegra e vitale, c’era un bel feeling tra di noi. Inizio a scattare, ma ad un tratto mi accorgo che la ragazza è rimasta indietro di almeno 100 metri e piange: aveva paura dell’acqua, nonostante il mare 120 fosse calmissimo. Era il trauma dello tsunami. Quella spiaggia era il luogo dove la gente del posto passava il fine settimana in allegria con gli amici, sotto le palme e facendo il bagno in un mare stupendo. Che tipo di attrezzatura utilizzi? Uso ancora moltissimo la fotografia analogica e lavoro prevalentemente in bianconero; sto passando al digitale molto lentamente, nel senso che sto provando diverse macchine per esplorarne le possibilità. Dal mio punto di vista, non è importante il mezzo tecnico che uso, ma quello che voglio raccontare, tuttavia occorre saper sfruttare al massimo le caratteristiche del mezzo. Non ho assolutamente nulla contro il digitale, ho fatto su commissione un lavoro con una macchina digitale e mi sono trovato benissimo, malgrado tutti i limiti del caso; per esempio l’ottica da 50 millimetri, che io non uso mai, e gli scatti in verticale che dovevo fare e ai quali non sono abituato. Ne è venuto fuori un lavoro che unisce il mio modo di vedere al mezzo tecnico e alla situazione. Tendo comunque a utilizzare una attrezzatura molto varia; ad esempio, per il lavoro delle città in bianconero sto usando la Holga, una macchina in plastica che utilizza pellicola medio formato, e la Hasselblad Xpan, una macchina che si presta alle riprese panoramiche; il progetto City Models è anch’esso in medio formato, ma è realizzato con una macchina 6x6 classica, una Mamiya. E’ quindi facile capire come per me non sia tanto importante l’attrezzatura in sé, ma come la uso ai fini di quel che voglio raccontare. Hai una focale che preferisci? Escludendo le riprese panoramiche e quelle con la Holga, perché si tratta di una macchina con moltissimi limiti, amo il 28 e il 35 millimetri, che sono poi le focali tipiche del fotogiornalismo. Lavorando in analogico, come ti poni Indonesia: Just another Day. Banda Aceh, Lhoknga: spiaggia con palme dopo lo Tsunami che il 26 dicembre 2005 ha causato la morte di circa 160.000 persone. L’atmosfera tra le rovine era surreale; la bellezza della natura era in contrasto con le dimensioni incredibili della tragedia e della distruzione. Foto premiata al World Press Photo nella sezione Natura, foto singole. Indonesia: Just another Day. Banda Aceh. Ancora tre mesi dopo, molti dei sopravvissuti faticavano ad accettare la realtà e l’entità della tragedia; avevano la sensazione di essere abbandonati dal governo e dai media e non riuscivano ad immaginarsi un possibile futuro. nei confronti della post-produzione? È fondamentale. Mi appoggio al Laboratorio dell’Immagine di Daniele Coralli, a Roma, con il quale ho costruito nel tempo un ottimo rapporto. Per quanto riguarda il bianconero, ho una buona preparazione di base e faccio sempre un primo screening del lavoro per spiegare al laboratorio come voglio le immagini: Daniele però mi conosce perfettamente e le lavora secondo le mie precise esigenze. Per quanto riguarda il colore l’apporto del laboratorio è fondamentale; è proprio nel confronto con Daniele che abbiamo deciso di utilizzare per City Models una tecnica di sovra-esposizione. Lui conosce molto bene questa tecnica e sa come sfruttarla al massimo; mi ha spiegato come eseguire le riprese in modo che poi, in post-produzione, lui potesse lavorare al meglio le immagini. In pratica, ho utilizzato pellico- le Fuji Nph 400 sovra-esponendo di oltre due stop; poi Daniele ha lavorato gli scatti cercando di mantenere il tono molto alto, ma preservando contemporaneamente il dettaglio grazie ad un controllo assoluto sia della scansione che dell’elaborazione in fotoritocco. Ormai la post-produzione digitale è fondamentale anche per chi continua a lavorare in pellicola perché i lavori si presentano in digitale: è quindi importante disporre di file perfetti, che ormai hanno preso il posto delle stampe di alta qualità che si presentavano un tempo. Al di là di queste lavorazioni particolari, quali sono gli interventi che fai normalmente? Sono abbastanza contrario a qualunque tipo di intervento che non siano quelli che si facevano in camera oscura. Mi limito a scurire alcune parti, a schiarirne altre, a stampare in un tono più o meno scuro. Penso che nel fotogiornalismo certi limiti non vadano superati, anche se spesso si vedono interventi piuttosto pesanti. Oggi il fotoritocco ha assunto il ruolo che una volta aveva la camera oscura ed è importante conoscerlo bene, o affidarsi ad un esperto che ti permetta di esprimerti ai massimi livelli. Fondamentale è anche la fase di stampa digitale, che è in continua evoluzione: ho verificato anche di recente, stampando questo lavoro per la mostra di Lucca, quanto siano importanti la carta, gli inchiostri e gli altri parametri della stampa digitale. Una volta si diceva che la tecnologia digitale avrebbe permesso di abbassare i costi della stampa, ma paradossalmente oggi nell’ambito fine-art costa meno la stampa analogica manuale; me lo conferma Davide Di Gianni, che 121 Indonesia: Just another Day. Bandung. Nelle vicinanze di un’enorme discarica di circa 17 ettari si trovavano centinaia di baracche abitate per lo più da persone che ogni giorno lavoravano tra i rifiuti alla ricerca di cibo e materiali di riciclo. Il 22 febbraio 2005 il gas metano accumulatosi nella discarica dopo vari giorni di pioggia ha causato un’esplosione che ha sommerso d’immondizia le povere case: 140 persone sono morte seppellite vive. stampa anche per fotografi come Paolo Pellegrin della Magnum. Un tempo la stampa in bianconero a mano costava un patrimonio, ma Di Gianni mi conferma che attualmente deve chiedere di più per la stampa digitale perché ci sono carte che costano talmente tanto che parti già da una base di 30-40 euro. Io ormai non stampo più da parecchio, anche perché il tempo è sempre meno; quindi, o hai assistenti validissimi su cui contare, o ti rassegni al fatto che sono molte di più le ore che passi al computer, al telefono, all’editing rispetto a quelle che dedichi alla fotografia vera e propria. Cosa ritieni fondamentale nel tuo lavoro, a parte gli aspetti strettamente fotografici? Sicuramente la costruzione del racconto, perché la storia acquista più o meno forza a seconda del modo in cui viene editata; tuttavia richiede moltissimo tempo. Questo lavoro sull’Indonesia è stato editato in due modi: la prima esposizione era completamente diversa, ma adesso preferisco questa nuova sequenza, che è piaciuta molto perché suggerisce l’idea di un film. Importanti sono anche le didascalie, che devono essere accurate e scritte bene, sia per inquadrare ogni singolo scatto all’interno di un lavoro più ampio, sia perché oggi le agenzie richiedono tantissime informazioni per ogni immagine. Infine, anche le keywords sono fondamen- 122 tali, perché è grazie alle parole-chiave che i photo-editor trovano la tua foto invece di quella di un altro. Sei presente sul web? Sto preparando il mio sito internet (www.massimomastrorillo.com); non è facile realizzare un sito che sia bello, interessante, e che nello stesso tempo dia una idea corretta e complessiva del proprio lavoro. Tuttavia ritengo che sia una vetrina molto importante, un portfolio on-line ormai è richiesto da tutti; persino nell’ambiente delle gallerie e della fine-art, è necessario essere presenti sul web con una qualità dello stesso livello del proprio portfolio, e non è così semplice. E poi, una volta realizzato il sito, è importante gestirlo e aggiornarlo. Come gestisci il tuo archivio? Sono un po’ disordinato, soprattutto perché ho sempre molto materiale da archiviare, che poi si accumula. Non faccio niente di particolare, al contrario di uno dei miei maestri, il fotografo Tomasz Tomaszewski del National Geographic che ha una casa bellissima con uno studio perfetto, gestito all’americana con armadietti appositi e la temperatura mantenuta costante. Io cerco soprattutto di evitare che i negativi si rovinino, quindi faccio in modo che non siano esposti alla polvere o che l’ambiente sia umido. La gestione dell’archivio digitale invece la trovo assai più complicata, anche per il peso dei miei file che arrivano a superare i 100 megabyte l’uno. Dal punto di vista della sicurezza, il negativo mi dà più certezze perché per ora non esiste un modo di archiviare digitalmente le immagini che sia davvero sicuro; quindi cerco di avere diversi hard-disk e CD sui quali salvare più volte lo stesso file. Ci sono due fotografie che ritieni particolarmente significative, o legate ad esperienze particolari? Una è sicuramente lo “tsunami di immondizia” avvenuto in Indonesia tre mesi dopo lo tsunami vero e proprio mentre stavo lavorando al mio progetto. E’ stato un evento terrificante di cui nessuno ha dato notizia, con almeno 140 vittime; persone che ogni giorno si aggiravano nella discarica per raccogliere oggetti riciclabili e cibo e che sono state letteralmente sepolte da una ondata di spazzatura. Sempre in questo lavoro, Indonesia-Just another Day, vi sono gli scatti dedicati ad una popolazione indigena che vive in palafitte lungo il fiume; questi abitanti, profondamente e irrimediabilmente danneggiati dalla deforestazione (in teoria illegale) e dall’oleodotto, sono diventati essi stessi la mano della devastazione: per sopravvivere, infatti, lavorano per le compagnie petrolifere e raccolgono la legna degli alberi abbattuti. Donata Fassio