laura barnett tre volte noi

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laura barnett tre volte noi
Laura Barnett TRE VOLTE NOI
LAURA BARNETT
TRE VOLTE NOI
BOMPIANI
NARRATORI STRANIERI
LAURA BARNETT
TRE VOLTE NOI
Traduzione di Veronica Raimo
ROMANZO
BOMPIANI
Four Quartets
by T.S. Eliot. Used herewith by permission of Faber and Faber Ltd
Excerpt from The Amateur Marriage reprinted by the permission of HSG Agency
as agents
For the author. Copyright © 2004 by Anne Tyler Modaressi
Un matrimonio da dilettanti, Guanda, Parma 2004 (traduzione Laura Pignatti)
Excerpt from This is Us reprinted with the kind permission of Mark Knopfler
Tangled up in Blue Words and Music by Bob Dylan © 1975. Reproduced
by permission of Ram’s Horn Music/Sony/ATV Music Publishing Ltd,
London w1f 9ld
Hearts and Bones. Words and Music by Paul Simon
Copyright © 1983 Paul Simon (BMI). All Rights Reserved
Barnett, Laura, The Versions of Us
Copyright © 2015 by Laura Barnett
First published in Great Britain in 2015
by Weidenfeld & Nicolson
An imprint of the The Orion Publishing Group Ltd
Carmelite House, 50 Victoria Embankment
London ec4y 0dz
An Hachette UK Company
© 2016 Bompiani / RCS Libri S.p.A., Milano
ISBN 978-88-452-8152-5
Prima edizione Bompiani maggio 2016
per mia madre, Jan Bild, che ha vissuto molte vite
e per il mio padrino, Bob Williamson, che manca molto
“A volte immaginava che alla fine della sua vita
gli avrebbero fatto vedere un filmino con tutte
le strade che non aveva preso e i luoghi dove
l’avrebbero condotto.”
Anne Tyler, Un matrimonio da dilettanti
“You and me making history.
This is us.”
Mark Knopfler & Emmylou Harris
1938
È cominciata così.
C’è una donna sulla banchina di una stazione, una valigia
nella mano destra, nella sinistra un fazzoletto giallo col quale si
tampona il viso. Ha la pelle intorno agli occhi bluastra e umida,
il fumo le attanaglia la gola.
Non c’è nessuno a salutarla – è stata lei a impedire che venissero, nonostante sua madre fosse in lacrime, proprio come
lei ora – eppure si mette in punta di piedi per scrutare oltre il
turbinio di cappelli e pellicce di volpe. Forse Anton, stufo delle
lacrime di sua madre, ha ceduto, le ha fatto indossare i guanti e
l’ha spinta con la carrozzina lungo l’infinita rampa di scale. Ma
non c’è nessun Anton, nessuna mamma. Nell’atrio soltanto un
mare di sconosciuti.
Miriam sale sul treno, esita sbattendo le palpebre nella tenue luce del corridoio. Un uomo, coi baffi neri e una custodia
di violino, passa lo sguardo dal suo viso all’imponente cupola
della sua pancia.
“Dov’è suo marito?” le chiede.
“In Inghilterra.” L’uomo la osserva, il capo reclinato come
quello di un uccello. Poi si fa avanti, le prende la valigia con la
mano libera. Lei sta per parlare in segno di protesta, ma lui si
è già incamminato.
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“C’è un posto libero nel mio scompartimento.”
Durante tutto il viaggio verso ovest continuano a parlare.
Lui le offre aringhe e sottaceti da una busta di carta umidiccia,
e Miriam li accetta sebbene detesti le aringhe, ma non mangia
da quasi un giorno. Non ha mai esplicitato a parole che non
esiste nessun marito in Inghilterra, ma lui lo sa. Quando il treno sussultando si ferma al confine e salgono le guardie a bordo
ordinando a tutti i passeggeri di scendere, lui la stringe a sé e
i due restano vicini tremanti, con la neve sciolta che attutisce
l’impatto delle suole sfondate.
“Sua moglie?” chiede la guardia a Jakob mentre lui si allunga a prenderle i documenti.
Jakob annuisce. Sei mesi dopo, in una giornata limpida e
luminosa a Margate, il neonato che dorme tra le braccia rotonde e infagottate della moglie del rabbino, ecco cos’è diventata
Miriam.
È cominciata anche così.
Un’altra donna si trova in un giardino, tra le rose, si massaggia i reni con una mano. Indossa un lungo camice blu da pittore, che è del marito. Lui sta dipingendo al momento, dentro
casa, quando lei muove l’altra mano verso l’imponente cupola
della propria pancia.
Un movimento, una spinta, ma è passato. Ai piedi della donna c’è un cestino mezzo pieno di fiori recisi. Lei fa un respiro
profondo, inalando l’aria pungente, che odora di mela, dell’erba appena tagliata. Col fresco del mattino aveva tosato il giardino con un paio di cesoie. Deve tenersi impegnata: è spaventata
all’idea di stare ferma, di lasciarsi ammantare dall’apatia come
fosse un lenzuolo. È così soffice, così confortante. Ha paura di
addormentarsi là sotto, e che il bambino si addormenti con lei.
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Vivian si china per raccogliere il cestino. Nel farlo sente
qualcosa che tira e si lacera. Inciampa, si lascia andare a un
grido. Lewis non la sente: ascolta la musica quando lavora. Perlopiù Chopin, a volte Wagner, quando i colori virano su toni
più cupi. Lei giace a terra, il cestino capovolto accanto, le rose
sparse intorno, rosse e rosa, i petali ammaccati e imbruniti che
esalano il loro profumo dolciastro. Ritorna il dolore e Vivian
ansima, poi si ricorda della sua vicina, Mrs Dawes, e grida il
suo nome.
In un attimo Mrs Dawes afferra Vivian per le spalle con
le sue mani vigorose e la solleva verso la panchina vicino alla
porta, all’ombra. Ordina al ragazzino dell’alimentari, che era
rimasto a bocca aperta di fronte al cancello, di precipitarsi a
chiamare un dottore, mentre lei corre al piano di sopra per avvertire Mr Taylor, un omino così assurdo, col suo pancione e il
naso schiacciato da gnomo, assolutamente niente a che vedere
con la sua idea di artista. Ma dolce. Affascinante.
Vivian riesce solo a sentire le ondate di dolore, l’improvviso
gelo delle lenzuola sulla pelle, l’elasticità dei minuti e delle ore
che si dilatano prima che il dottore dica: “Il suo bambino. Ecco
il suo bambino.” Poi abbassa lo sguardo e lo vede, lo riconosce,
mentre le strizza gli occhi con lo sguardo consapevole di un
uomo maturo.
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PARTE PRIMA