Maledizione
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ottobre 2013 - N. 10 Maledizione Kivu In Congo è guerra infinita per le risorse €4 L eventi Il Papa tra i rifugiati bolivia Violini nella foresta inchiesta Missione formato famiglia editoriale Stefano Femminis Direttore di Popoli - [email protected] - @stefanofemminis Un successo, molte sconfitte La straordinaria mobilitazione delle coscienze innescata da papa Francesco, con la sua proposta di una giornata di digiuno e preghiera per la pace, il 7 settembre, è stata certamente un fattore decisivo nell’allontanare i fantasmi di un conflitto globale. Infatti, mentre scriviamo, sembra rientrata la minaccia di un intervento militare franco-statunitense in Siria, intervento che, motivato dalla volontà di punire l’utilizzo di armi chimiche da parte del regime di Bashar al Assad, avrebbe rischiato di allargare a macchia d’olio il conflitto, con il probabile coinvolgimento di Paesi come Libano, Iran, Israele, forse la stessa Russia. E tutto questo senza sciogliere, se non in modo provvisorio e simbolico, il nodo siriano. Ma non possiamo esultare. Nella vulgata massmediatica il digiuno chiesto dal Papa è stato rappresentato come un’iniziativa «contro la guerra in Siria». In realtà la guerra in Siria c’è da due anni e mezzo e ha provocato oltre 100mila vittime, 4 milioni di sfollati interni e oltre un milione di profughi. Non solo, c’è chi ha celebrato il fragile compromesso (Assad che si impegna, in modi e tempi piuttosto vaghi, a mettere sotto controllo Onu il proprio arsenale chimico) come una vittoria della diplomazia. Come se non si trattasse di un risultato raggiunto con colpevole ritardo. Come se l’accordo non puzzasse di ipocrisia (sono davvero così irrilevanti i morti uccisi da Anche grazie all’iniziativa del Papa è stato armi convenzionali?). allontanato il rischio di un conflitto globale. La verità è che nel disastro Ma il calvario della Siria non è finito e riflette siriano noi possiamo vedere tutti i fallimenti della comunità internazionale riflessi tutti i fallimenti della comunità internazionale negli ultimi 25 anni. Finita l’era dei blocchi contrapposti e dell’«equilibrio del terrore», non sono state costruite vie alternative ai bombardamenti (o al disinteresse) per fronteggiare conflitti locali e stermini di massa. Le Nazioni Unite, i cui meccanismi di funzionamento sono stati concepiti settant’anni fa, sono sempre più paralizzate dai veti incrociati e non si prevedono a breve riforme incisive. Suggestionati dalle teorie sullo «scontro di civiltà», non abbiamo saputo cogliere quanto di promettente si muoveva dentro al mondo musulmano, facendoci cogliere di sorpresa dalle Primavere arabe e lasciando che - in Siria come in Egitto, in Libia come in Yemen - le sincere istanze democratiche rimanessero schiacciate tra i difensori dello status quo e l’estremismo islamico. Ma non possiamo nemmeno arrenderci. Se il bilancio è quello tracciato, esistono però strumenti che, qualora rafforzati, potrebbero aprire nuove prospettive: dal Tribunale penale internazionale al rilancio di un costruttivo multilateralismo, fino al progetto di una zona libera da armi di distruzione di massa in Medio Oriente, promosso nel 2012 dall’Ue e poi accantonato. Lo dobbiamo in primo luogo ai siriani, così come alle vittime di tutti i conflitti presenti e futuri, di cui non possiamo più non sentirci responsabili. E, come Popoli, lo dobbiamo anche al nostro collaboratore Paolo Dall’Oglio, scomparso da fine luglio proprio in Siria. Sulla vicenda ci atteniamo al silenzio che ci è stato suggerito da parenti e autorità. Con il desiderio di vedere presto, insieme a lui e come lui auspica nel suo libro più recente, «il giorno in cui Siria sarà sinonimo di resurrezione». OTTOBRE 2013 POPOLI 1 PICS Quando mangiare fa male foto di Andy Richter/ Aurora CAMMINI DI GIUSTIZIA sommario Un successo, molte sconfitte S. Femminis N. 10 - OTTOBRE 2013 01 EDITORIALE Reportage Maledizione Kivu G. Musumeci, G. Baioni 20 Indonesia La polizia del Corano A. Ursic 23 Riflessioni La Chiesa e la guerra G. Piana 14 35 REPORTAGE 26 Eventi Il Papa tra i rifugiati F. Pistocchini 29 Il profilo Pietro Parolin G. Vecchi IDENTITÀ - DIFFERENZA 30 Bolivia Violini nella foresta M. Bastos 35 Bosnia Ancora poca acqua sotto il ponte E. Gatto 38 Etiopia Estifanos, il Lutero del Tigrai A. Marzi 41 La foto L’islam celebra Abramo In copertina: lavoratori nelle miniere di manganese e coltan del Nord Kivu, nella Repubblica Democratica del Congo (foto G. Musumeci). 30 DIALOGO E ANNUNCIO Inchiesta Missione formato famiglia S. Femminis, L. Moscatelli, E. Casale PICS 08 48 Concilio/5 Il Vaticano II spiegato ai giovani J. Costadoat SJ 50 Chiese L’Africa balla con i pentecostali L. Lado SJ 53 Il fatto, il commento Dal conflitto alla comunione G. Dotti RUBRICHE 04 Lettere e idee 05 Contromano G. Ferrario 06 Multitalia L’accoglienza ha un limite? M. Ambrosini 06 Ogni giorno a Gerusalemme Il pellegrinaggio degli altri S. Bittasi SJ 26 07 Scusate il disagio Come è libera la libertà! G. Poretti 54 Jsn/Magis/Lms/Jrs/Amo 78 Postcard 80 L’ultima Parola Un annuncio per tutti S. Fausti SJ E tra INCHIESTA 42 lettere e idee ANCHE IN SIRIA L’ALBERO DELLA PACE Cari amici di Popoli, vorrei condividere con la redazione e con i lettori un appello che ho inviato a papa Francesco ai primi di settembre. «Santo Padre, in questi giorni in cui non si legge, non si sente altro che parlare di guerra, soprattutto in terra siriana, desidero condividere con Lei un cammino che si sta portando avanti da quasi un anno proprio in Siria. Quello del Kaki Tree, l’Albero della pace, è un cammino cominciato da lontano, precisamente dalla città giapponese di Na- SCRIVETECI Indirizzate le vostre lettere a: [email protected] Redazione Popoli Piazza San Fedele 4 20121 Milano 02.86352802 (fax) www.popoli.info gasaki. Nel 1992 l’artista Tatsuo Miyajima venne a conoscenza, durante una visita alla città vittima della follia atomica, di un albero di caco miracolosamente sopravvissuto al bombardamento del 1945. E di un botanico chiamato Masayuki Ebinuma che da anni si prendeva cura della pianta e ne distribuiva talee ai bambini delle scuole come segno di pace. Ispirato da questo gesto insieme semplice e incredibile, Miyajima ebbe l’intuizione di trasformare il messaggio del botanico nel progetto Kaki Tree (http://kakitreeproject. com) che con la sua attività ormai decennale ha portato talee del Kaki in scuole, parchi, musei e altri luoghi significativi di 20 Paesi in tutto il mondo. Dal 9 giugno 2012 il caco della pace di Nagasaki crescerà anche nel Giardino della Pace e della Speranza a Kabul. Un cammino molto lungo e di certo non semplice né facile, ma il crederci nel profondo e l’unione delle IL NUOVO LIBRO DI SILVANO FAUSTI In omaggio a chi regala uno o più abbonamenti e a chi sottoscrive un abbonamento Sostenitore A 12 euro anziché 14 (compresa spedizione) per gli altri abbonati (nuovi o rinnovi) Info: [email protected] - tel. 02863521 Offerta valida fino a esaurimento scorte. forze di tanti esseri ha reso possibile in una terra, quella afghana da oltre trent’anni teatro di gravi attentati, l’ultimo pochi giorni fa. Noi sappiamo che ci può essere speranza di rinascita e di pace anche dove c’è ancora grande distruzione e solo attraverso un semplice albero, testimone vivente di quel che la Natura stessa può donarci. In Siria, crescerà (speria- mo dalla primavera 2014) al monastero di Deir Mar Musa, realtà fondata da padre Paolo Dall’Oglio. Ora è nel bresciano dove si sta fortificando per crescere ancora più rigoglioso in una terra che avrà bisogno di tutti noi nella sua ricostruzione dopo questi anni di tragedia che Paolo (un carissimo amico) mi indicava a livelli di quelli di Hiroshima e Nagasaki. Come dargli torto in que- Anno di fondazione: 1915 Direttore responsabile Stefano Femminis Redazione Enrico Casale, Davide Magni SJ, Francesco Pistocchini Segreteria di Redazione Cinzia Giovari (02.86352415) Sede Piazza San Fedele 4 - 20121 Milano Contatti tel 02863521 - fax 0286352802 [email protected] - www.popoli.info Editore e proprietario Fondazione Culturale San Fedele - Milano Registrazione del Tribunale di Milano n. 265 del 17/05/1986 Stampa Àncora arti grafiche - Milano Progetto grafico Donatello Occhibianco Realizzazione editoriale LuanaCanedoli.it Promozione e marketing Marco Giorgetti [email protected] Ufficio stampa [email protected] Abbonamenti 2014 (10 numeri) Ordinario € 32, Web € 25 (solo rivista on line), Ridotto € 25 (per giovani con meno di 25 anni), Cumulativo € 59, Sostenitore € 60, Estero € 45 (un numero € 4) Servizio abbonamenti tel. 02.86352424 [email protected] Gruppo di consulenza editoriale Marco Aime, Stefano Allievi, Maurizio Ambrosini, Stefano Bittasi SJ, Anna Casella, Guido Dotti, Miriam Giovanzana, Luca Moscatelli, Gianni Vaggi Opportunità per gli abbonati - Silvano Fausti, Sogni, allergie, benedizioni (San Paolo 2013, euro 14), in omaggio a chi regala uno o più abbonamenti e agli abbona- Issn 0394-4247 ti Sostenitori; a € 12 (compresa spedizione) Nel rispetto del D.Lgs. n. 196/2003, Popoli garantisce per gli altri abbonati (nuovi o rinnovi). che i dati personali relativi agli abbonati sono custoditi - Chiavetta Usb (1Gb) con i pdf 2013 di Popo- nel proprio archivio elettronico con le opportune misure li e Aggiornamenti Sociali: in regalo agli abbo- di sicurezza. 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È solo uno sfogo, anche se credo profondamente che il male avanzi dove non contrastato dal bene. Come cristiano mi sento profondamente contrario all’acquisto da parte del governo italiano degli aerei da guerra F35. Ritengo sia una scelta assolutamente all’opposto del modo evangelico di concepire le scelte e le priorità nel gestire il denaro pubblico. Mi oppongo e chiedo che gli stessi soldi siano destinati a favorire pace, equità e giustizia (non solo in FONDO AMICI Sono numerosi quanti gradirebbero ricevere Popoli, ma devono rinunciarvi per motivi economici. Chi volesse aiutarci a soddisfare queste richieste può inviare un’offerta sul nostro conto corrente postale o con carta di credito, dal sito, indicando come causale: «Fondo amici Popoli». CONTROMANO di Giuseppe Ferrario Italia). La nostra mente è ormai a tal punto ottenebrata da non distinguere il male? Il grido furente di Gesù contro i farisei vale per noi oggi! Giampietro Bologna Schio (Vi) Il suo non è solo uno sfogo, ma la denuncia di una contraddizione percepita come stridente da un numero sempre maggiore di persone, anche in ambito cristiano. Come rivista, a metà settembre siamo stati tra i primi firmatari di un appello promosso dal settimanale Riforma, dal mensile Confronti e dall’agenzia Adista. Il testo, pubblicato sul nostro sito e sottoscrivibile online, richiama anzitutto la beatitudine evangelica: «Beati quelli che si adoperano per la pace, perché saranno chiamati figli di Dio» (Matteo 5,9). E vi si legge: «Noi, cristiani appartenenti a diverse tradizioni confessionali, constatata la determinazione del governo italiano di procedere all’acquisto di 90 cacciabombardieri progettati per trasportare anche bombe atomiche, esprimiamo il nostro sdegno per una scelta che va contro lo spirito dell’articolo 11 della Costituzione (“L’Italia ripudia la guerra”). Una scelta, per noi credenti, in palese contraddizione con il comandamento “non uccidere” e il messaggio di pace del Vangelo di Cristo; uniamo la nostra voce a quella di tanti “operatori di pace”, credenti e non credenti nel chiedere che i parlamentari (in particolare quelli di orientamento cristiano, cattolici e protestanti) e il governo italiano, onorando gli impegni presi durante la campagna elettorale: recedano dal Progetto F35; destinino i miliar- di per esso stanziati a un grande piano per il lavoro che restituisca un futuro alle giovani generazioni creando occupazione nei settori della scuola e della ricerca, della salvaguardia dell’ambiente, delle energie rinnovabili, della valorizzazione del patrimonio artistico del nostro Paese». RACCONTARE LA GUERRA Seguo le notizie che pubblicate sul sito www. popoli.info, con informazioni ulteriori rispetto a quelle che escono sul cartaceo. Devo dire che state facendo un ottimo lavoro sulla Siria. Lo fate sempre, in tante parti del mondo, ma - ripeto - in questo momento così delicato per il Paese mediorientale e per il mondo, voi ci siete e in modo attento. Paolo Gilardoni Milano OTTOBRE 2013 POPOLI 5 lettere e idee L’accoglienza ha un limite? G MULTITALIA Maurizio Ambrosini Università di Milano, direttore della rivista Mondi migranti li sbarchi di migranti e profughi sulle coste italiane hanno rappresentato uno dei principali eventi dell’estate, e la visita di papa Francesco a Lampedusa ha indubbiamente contribuito a guardare con occhi diversi quelli che tanto spesso erano bollati come «clandestini». Qualcuno tuttavia ha sollevato un dubbio: non bisogna porre limiti all’accoglienza? La risposta dipende dalle ragioni degli sbarcati. Se si tratta di persone che richiedono asilo, non il Vangelo ma la nostra Costituzione e le convenzioni internazionali ci obbligano ad ascoltarli, a esaminare le loro motivazioni ed eventualmente ad accoglierli. In nessuno dei testi normativi in materia si prevede che l’obbligo di accoglienza umanitaria cessi una volta superata una certa soglia numerica. In altri termini, i nostri legislatori hanno sancito che i diritti umani hanno una priorità assoluta: vengono prima della preoccupazione di contingentare l’accoglienza. Nel caso di persone che arrivano da Paesi in guerra, spesso renitenti alla leva, come nel caso eritreo, o fuggiaschi da sanguinosi conflitti interni, come nel caso somalo, i tassi di accettazione sono molto alti. Minori e donne incinte non possono essere respinti. Nel 2011, il 40% delle domande d’asilo sono state accolte, ricevendo una qualche forma di protezione umanitaria: in numeri, circa 10mila persone. In ogni caso, non siamo vittime di un’invasione. Nel caso dei migranti economici, non altrettanto tutelati dalle norme, i problemi sono altri. Prima di tutto, le richieste del mercato del lavoro, che hanno prodotto sette sanatorie in 25 anni: solo ora la crisi le ha rallentate, ma anche i nuovi ingressi si sono pressoché arrestati. Poi c’è una questione normativa: 1,3 milioni di immigrati in Italia sono cittadini dell’Unione Europea, con diritto di libera circolazione. Terzo e decisivo aspetto: i costi elevatissimi del trattenimento e della deportazione degli immigrati irregolari. Di fatto gli espulsi sono il 2-3%. Infine, se non si riesce a espellerli, ma non si vuole accoglierli, si rischia di produrre una popolazione sbandata ed esposta a ogni deriva. Meglio allora metterli in regola con adeguati percorsi di accompagnamento. Per concludere: molte volte un’accoglienza saggia e lungimirante è più accorta di una severità gridata e apparente. Il pellegrinaggio degli altri S OGNI GIORNO A GERUSALEMME Stefano Bittasi SJ Gesuita, direttore dei programmi di formazione della Compagnia di Gesù a Gerusalemme ulla stampa araba di Gerusalemme si è sviluppato negli ultimi mesi un feroce dibattito sull’opportunità di organizzare pellegrinaggi in questa città santa. Vi sembra strano? Non lo è se si guarda al problema dal punto di vista islamico. Se, infatti, venire in pellegrinaggio a Gerusalemme è un’esperienza relativamente semplice per moltissimi cristiani ed ebrei (si calcolano circa 3 milioni di pellegrini ogni anno), la cosa è più complicata nel mondo musulmano. Gerusalemme è la terza città santa dell’islam (dopo Mecca e Medina) e i primi discepoli di Maometto pregavano rivolti alla moschea di Al-Aqsa, mentre solo più tardi hanno rivolto i propri tappeti di preghiera verso la Mecca. Gerusalemme è stata da sempre meta di innumerevoli pellegrini musulmani, ma solo fino al 1967. In quell’anno Israele ha conquistato la parte est della città e il controllo della spianata di al-Haram al-Sharif («il nobile santuario»), con la moschea di Al-Aqsa e la Cupola della Roccia, la stessa spianata dove sorgeva il Tempio. Data la situazione di conflitto venutasi a creare con gli Stati arabi confinanti, è diventato impossibile, per i potenziali pellegrini musulmani provenienti da quei Paesi, ottenere visti e permessi di accesso in Israele. D’altro canto, molti leader islamici hanno emesso numerose fatwa (pareri rilasciati da giurisperiti derivanti dall’interpretazione del Corano che danno risposta a quesiti su situazioni di attualità) che fanno divieto ai fedeli di riconoscere autorità a Israele: quindi, di 6 POPOLI OTTOBRE 2013 fatto, impedendo a un devoto musulmano di chiedere un visto per venire a Gerusalemme. La situazione però è cambiata nel corso degli ultimi due anni. Alcune agenzie turistiche hanno cominciato a proporre pacchetti di pellegrinaggio ai luoghi santi di Gerusalemme ai musulmani provenienti da Paesi non arabi che godono di buoni rapporti con Israele: in particolare Albania e altri Stati balcanici, alcuni Paesi dell’ex Unione Sovietica a maggioranza musulmana, Sudafrica, Malaysia. Nel 2012, per la prima volta, circa 2.500 pellegrini sono giunti attraverso questi canali. Quest’anno, poi, il presidente palestinese Mahmoud Abbas ha formalmente invitato i musulmani a venire a Gerusalemme e il ministro del Turismo di Israele ha appoggiato questo invito. In risposta, in aprile un famoso leader religioso egiziano e il principe della Giordania sono venuti in pellegrinaggio insieme alla moschea di Al-Aqsa, suscitando avversione in alcuni ed entusiasmo in altri. Certamente il potenziale economico per tutto il settore turistico palestinese è enorme. Ma non è solo questione di soldi. La coesistenza di pellegrini delle diverse religioni del Dio di Abramo, che vengono da Paesi diversi qui a Gerusalemme e che spesso si incontrano negli stessi luoghi, non può che far crescere la conoscenza tra chi viene in questa città a pregare, favorendo possibili processi di pacificazione e reciproca stima. Aspettando padre Paolo D al 28 luglio Paolo Dall’Oglio è scomparso in Siria e di lui non si hanno notizie certe. Nel rispettare il silenzio stampa suggeritoci dai familiari e dalle autorità italiane, chiediamo ai lettori una preghiera per il nostro collaboratore e amico. In questo spazio, che lui occupa con la sua rubrica dal gennaio 2007, lo ricordiamo con un fiocco giallo, simbolo internazionalmente utilizzato da coloro che attendono il ritorno di una persona cara. LA SETE DI ISMAELE Paolo Dall’Oglio SJ Gesuita, fondatore della Comunità monastica di Deir Mar Musa (Siria) Come è libera la libertà! Da questo numero Giacomo Poretti inizia una serie di articoli sui Dieci comandamenti. N on è cambiato molto rispetto a quel vecchio film di Cecil B. DeMille, I dieci comandamenti, quando Charlton Heston, nei panni di Mosè, scendeva dal Sinai con le tavole della legge e trovava il suo popolo adorante un vitello luccicante artefatto lì per lì dagli artigiani orafi. «Non avremo altro dio all’infuori dei nostri idoli»: così sembra recitare il primo comandamento del nostro vecchio, caro, adorante Occidente. E soprattutto: «Non avrai altro dio all’infuori della libertà». Nessuno tocchi la libertà, nessuno si permetta di giudicare le scelte della mia libertà, la libertà deve essere libera, appunto, altrimenti che libertà sarebbe? Una libertà zimbello? Una libertà che si fa mettere i piedi in testa sarebbe come un padrone che non comanda in casa sua; la libertà deve essere libera di posare il suo sguardo dove vuole, non deve avere limitazioni, perché altrimenti si sentirebbe frustrata, limitata, non incoraggiata nel suo slancio vitale verso l’infinito e oltre, come anela Buzz Lightyear. E quindi, se nessuno deve intromettersi nella mia libertà, allora io sono libero di avere tutti gli iPhone che voglio, quello da 32Gb, quello bianco, quello nero e il modello low cost (meglio averne tanti piuttosto che uno, così se si impianta la batteria del 32Gb puoi usare il modello bianco; se ti cade quello nero puoi usare il low cost; e se fai il bagno in mare col modello nero sei proprio un pirla). Come è bella la libertà! È proprio come cantava Giorgio Gaber: «La libertà è partecipazione», e io voglio partecipare al concorso «Chi mangia più hamburger» e dopo la vittoria, per averne mangiati 15 in 10 minuti, posso anche aver voglia di una lavanda gastrica e nessuno me la può negare. E se supero indenne la lavanda gastrica l’anno prossimo parteciperò al concorso «Chi mangia più scarafaggi» e cercherò di battere il record di quello che ha vinto l’anno scorso mangiandone 32 e poi è morto. Sì, perché uno deve essere libero di morire se ne ha voglia, e anche di scegliere la morte che più gli piace (detto per inciso nessuno avrebbe voglia di morire, ma quella impertinente della morte è l’unica che non si adatta al nostro concetto di libertà, e allora almeno si possa decidere il modo, che sia scarafaggio, hamburger o clinica svizzera!). Come è libera la libertà! La libertà mi può portare a Zurigo in una boutique del centro per comprare una borsetta da 35.000 euro e nessuno mi porterà mai in manicomio; anzi, se ho la pelle nera e la commessa non me la vende, lo Stato dei Grigioni mi porgerà le scuse per l’imbarazzante incidente: com’è giusta la libertà, come non è razzista la libertà! Ma come si fa a desiderare un altro dio all’infuori della libertà? SCUSATE IL DISAGIO Giacomo Poretti del trio Aldo, Giovanni e Giacomo OTTOBRE 2013 POPOLI 7 Quando mangiare fa male Foto Andy Richter/ Aurora Photos-Novus Select L’obesità nel mondo è raddoppiata negli ultimi trent’anni e interessa un numero sempre maggiore di ragazzi, malnutriti nell’abbondanza. Le immagini di Andy Richter, dalla California, raccontano una possibile alternativa OTTOBRE 2013 POPOLI 9 PIANETA CIBO Nel corso del 2013 i Pics sono dedicati al tema del cibo nelle sue molteplici declinazioni: come fondamentale (e spesso carente) sostegno per la vita, come occasione per promuovere o negare i diritti dei lavoratori e dell’ambiente, come espressione di identità culturali, elemento di feste e di riti. «Nutrire il Pianeta. Energia per la vita» è anche il tema della prossima Esposizione Universale di Milano del 2015. In collaborazione con: Con il contributo di: 10 POPOLI OTTOBRE 2013 “ “ Venticinque anni fa solo poche aziende americane indirizzavano il proprio marketing ai bambini: Disney, McDonald’s, produttori di caramelle, di giocattoli, di cereali per la prima colazione. IL FOTOGRAFO Andy Richter (www.andyrichterphoto. com) è nato nel 1977 e vive a Minneapolis (Usa) dove si è laureato in spagnolo e psicologia. Si occupa di fotografia documentaristica, per il settore non-profit e in quello commerciale. Negli ultimi anni si è impegnato in progetti di respiro internazionale come «Hearing Around the World», sul tema della sordità, «Youth Culture Taipei», dedicato a Taiwan, e «Oro Win», sul tema dell’identità indigena in Amazzonia. Ha pubblicato per Unicef, Usaid, Time, Discover e National Geographic Traveler. Il lavoro dedicato all’obesità infantile gli è stato commissionato da Time Magazine. “ “ Oggi i bambini sono bersagliati dalle compagnie telefoniche, petrolifere e automobilistiche quanto dai negozi di abbigliamento e dalle catene di ristoranti. La pubblicità rivolta ai più piccoli esplose negli anni Ottanta. OTTOBRE 2013 POPOLI 11 12 Popoli ottobre 2013 “ “ Molti genitori che lavoravano, sentendosi in colpa per il poco tempo trascorso con i figli, presero a spendere più denaro per loro. [...] Adesso nelle più grosse agenzie pubblicitarie ci sono sezioni che si occupano dell’infanzia. Elisabeth e Freddy erano stanchi di essere grassi. Entrambi sedicenni, cercavano di perdere peso fin dalla scuola elementare, ma le diete non davano risultati. Elizabeth era alta 1 metro e 65 e pesava 132 chili, Freddy 156 chili per 1 metro e 85: in tre anni aveva accumulato quasi 60 chili. I due ragazzi erano innegabilmente obesi e a rischio di ipertensione, malattie cardiache, apnea nel sonno e alcuni tipi di diabete, e ogni anno le cose peggioravano. Ma guardandosi intorno sapevano di non essere soli: dagli anni Ottanta negli Usa i minori obesi sono più che triplicati e solo in Messico le cose vanno peggio. Ma l’aumento dell’obesità è un trend mondiale, dall’India alla Cina, dall’Europa alle isole del Pacifico. Secondo l’Osservatorio globale sulla salute dell’Oms, almeno 2,8 milioni di persone muoiono ogni anno per cause legate al sovrappeso o all’obesità. Il junk food, il cibo spazzatura che comprende certi hamburger, patatine fritte, doughnuts e bevande zuccherate, infesta le diete di tanti ragazzi, fin dai primi anni di vita, mentre nel panorama alimentare degli Usa si presenta anche il problema dei food deserts, sobborghi urbani o centri rurali privi di accesso a cibi freschi: solo fast food o negozi di cibi confezionati. Come raccontano le immagini, Freddy ed Elizabeth hanno affrontato il loro problema in una clinica specializzata a Reedley in California, dove, insieme alle famiglie, hanno ritrovato speranza o, almeno, la forza di affrontare diete ed esercizi, abbandonando abitudini come i pasti davanti alla Tv, per arrivare a prendere decisioni alimentari più consapevoli e, soprattutto, acquisire fiducia in se stessi, perché la trasformazione non può essere solo esteriore. In sei mesi hanno perso 32 e 37 chili, ma è solo l’inizio. «Nessuno è destinato a essere grasso per sempre - dice Elizabeth -. Anche se sei giù, l’importante è risollevarti. Puoi sempre ripartire al prossimo pasto». E il cibo smette di essere il nemico. “ “ Le ricerche di mercato hanno scoperto che spesso i bambini riconoscono un logo ancora prima del proprio nome. (Eric Schlosser, Fast Food Nation. Il lato oscuro del cheeseburger globale, Il Saggiatore, Milano 2008) OTTOBRE 2013 POPOLI 13 reportage Kivu, sfollati fuggono dai combattimenti tra esercito congolese e milizie ribelli. Maledizione Kivu Un esercito debole, milizie sostenute da interessi stranieri e risorse minerarie ambite creano una miscela esplosiva che da anni destabilizza la regione congolese. E i recenti tentativi di dialogo non hanno fermato gli scontri. A farne le spese, come sempre, la popolazione civile Testo e foto: Giampaolo Musumeci GOMA (REP. DEM. CONGO) I l Nord Kivu è un gigantesco Far West con troppi banditi e troppo pochi sceriffi. Situato nell’Est della Repubblica Democratica del Congo, al confine con Uganda e Ruanda, è forse la regione al mondo con più gruppi armati. Quelli riconosciuti e identificati sono «Noi militari una quarantina. congolesi siamo Sono milizie namal pagati, la te per la difesa razione di cibo del territorio e mensile è un villaggi, a mestolo di farina! dei volte create da Ci spostiamo a colonnelli dipiedi e ci fanno sertori, altre combattere dopo volte supportate aver digiunato e controllate da per giorni» Stati vicini a cui fanno gola le ricchezze minerarie della regione. Ci sono i Maj Maj, i quali credono che immergendosi nell’acqua diventano invulnerabili ai proiettili. C’è l’M23 (il nome viene dagli accordi di pace del 23 marzo 2009), erede del vecchio Cndp (Consiglio nazionale per la difesa del popolo), gruppo ribelle la cui leadership è a maggioranza tutsi. C’è l’Fdlr (Fronte democratico per la liberazione del Ruanda) a maggioranza hutu ruandese. E così via. Tutti questi gruppi armati si scontrano 14 POPOLI OTTOBRE 2013 spesso per il controllo del territorio. Con la conseguenza che essere un civile sfollato in Kivu è una condizione assai diffusa, secondo l’Acnur gli sfollati sarebbero 750mila. La maggior parte dei gruppi armati, ma anche l’esercito governativo, sono poi accusati di stupri di massa e violenze sulla popolazione. Le denunce e i rapporti di varie organizzazioni internazionali non si contano. Eppure l’impunità è diffusa. Ma il Kivu ha anche altri «record». È una regione con una delle più alte concentrazioni di risorse minerarie al mondo: oro, coltan, manganese, cassiterite, minerali rari e utili per l’industria ad alta tecnologia. Non solo, registra anche il più alto numero di organizzazioni non governative (circa cento nel solo capoluogo Goma) che alimentano una vera e propria industria dell’emergenza e della cooperazione in un territorio devastato da uno stato di guerra che sembra non avere mai fine. Proprio nel Kivu è presente la più grande missione delle Nazioni Unite: quasi 20mila caschi blu, attivi nell’area a partire dal 2000. Con risultati, in termini di stabilizzazione e sicurezza, quanto meno discutibili. Infine è una delle regioni con la più marcata assenza dello Stato centrale. Un esercito debole, confini troppo porosi, assenza di strade, di energia elettrica e acqua, altissimo livello di corruzione. Questa serie di record rendono il conflitto in Kivu uno dei più difficili da comprendere. Perché l’intreccio tra tutti questi fattori lo rende impenetrabile, almeno tanto quanto le sue foreste. L’ESERCITO DI CARTA Un tragico esempio è la strage avvenuta a Kitchanga, una cittadina a circa due ore di fuoristrada a Nord di Goma. Il 27 febbraio 2013 dalla collina che sovrasta l’abitato iniziano a piovere granate, colpi di mortaio e razzi. Sono le 7 del mattino. Bruciano le capanne, crollano i tetti, anche cammini di giustizia quello della chiesa retta da padre congolesi dopo aver rinunciato a Faustino Mbara. Dopo 10 ore di bat- propositi di ribellione. Secondo il taglia restano sul terreno 134 civili. consolidato costume di Kinshasa i «È stato terribile - racconta padre gruppi armati possono infatti chieFaustino - dall’alba a tramonto a dere di essere «assorbiti» nell’eserKitchanga è stata guerra. È stato col- cito. I Maj Maj erano entrati in città pito anche l’ospedale. Era un “fuggi proprio per ricevere le uniformi. Ma fuggi” generale, nessuno capiva da come si può facilmente immaginare, dove sparassero». i capi di due gruppi In quelle lunghe ore si Il Kivu è il armati diversi non possono fronteggiati un territorio con sono stare sullo stesso battaglione di soldati la più lunga e territorio per troppo governativi e uno di Maj consistente tempo senza scontrarsi. Maj. Le milizie erano lì missione dell’Onu Divergenze di vedute, in attesa di essere inte- al mondo: quasi qualche screzio, ordini grate nelle forze armate 20mila caschi diversi. Ma c’è anche blu, presenti dal 2000. Con risultati quanto meno discutibili PROGETTI Una governance delle risorse A fine giugno a Lubumbashi (capoluogo del Katanga, regione meridionale della Repubblica Democratica del Congo) si è tenuto un seminario della JascNet, la rete dei Centri sociali dei gesuiti africani. L’obiettivo era ambizioso: instaurare una governance delle risorse naturali del continente. Divisi in quattro gruppi, i religiosi hanno lavorato su governance mineraria (decidendo di creare un blog sull’argomento), gestione petrolifera, governance ambientale e gestione terriera. I gesuiti presenti, provenienti da Kenya, Zambia, Madagascar, Ciad e Congo, si ritroveranno a ottobre per proseguire i lavori. OTTOBRE 2013 POPOLI 15 g.b. reportage Un blindato dei caschi blu della missione Monusco. A fianco, le tendopoli di sfollati a Rubaya. CRONOLOGIA > 3 giugno 2004 - Laurent Nkunda, alla testa di una milizia di etnia tutsi, occupa Bukavu (Sud Kivu). La giustificazione ufficiale è la necessità di difendersi dai ribelli hutu. In realtà occupa importanti siti minerari. > 2004-2007 - Il Nord Kivu è sconvolto da continue razzie da parte di tutte le milizie sul campo. > 23 gennaio 2008 - Viene siglato un accordo tra il governo congolese e Nkunda. > 19 gennaio 2009 - Il Ruanda annuncia di non voler sostenere più il movimento di Nkunda, che il 23 gennaio viene arrestato proprio dalle truppe di Kigali. > 4 aprile 2012 - Bosco Ntaganda, tutsi, ex collaboratore di Nkunda, alla testa del movimento M23 prende le armi contro l’esercito congolese. > 20 novembre 2012 - L’M23 occupa Goma, città dalla quale si ritirerà nei primi giorni di dicembre. > 24 febbraio 2013 - I leader di undici nazioni africane firmano un’intesa per riportare la pace nel Congo orientale. L’M23 non ha propri rappresentanti nell’assise e i leader del movimento si dividono su come accogliere questo accordo. > Luglio-agosto 2013 - Le fazioni dell’M23 contrarie all’intesa di febbraio riprendono a combattere. Ai reparti della missione Onu viene data la possibilità di attaccare le posizioni dei ribelli. Opportunità che sfruttano sostenendo le offensive dell’esercito congolese. > 9 settembre 2013 - A Kampala (Uganda) riprendono i colloqui tra esponenti del governo di Kinshasa e i vertici del movimento M23. Sul campo però proseguono gli scontri tra i militari di Kinshasa e i ribelli. 16 POPOLI OTTOBRE 2013 Un anziano a Kitchanga, villaggio che a febbraio è stato al centro di scontri tra esercito e miliziani. chi, alla Croce Rossa locale, sussurra si sia trattato di un regolamento di conti su base etnica. E così la situazione è esplosa. I militari congolesi hanno fatto una strage di civili, bruciando, sempre secondo la Croce Rossa locale, almeno 517 abitazioni. «Hanno colpito i civili sospettati di collaborare con i Maj Maj», riferisce un abitante di Kitchanga che parla sotto anonimato. Kitchanga è emblematica per comprendere la malagestione della sicurezza nell’Est del Paese da parte di Kinshasa. Un Est lontano, su cui Ruanda e Uganda hanno messo gli occhi da tempo e in cui lavorano multinazionali del settore minerario. L’instabilità della regione fa quindi comodo a molti degli attori presenti. Uno dei fattori cruciali è il disastrato esercito congolese: un’armata Brancaleone formata da ex ribelli, da milizie spesso male o per nulla addestrate, poco motivate, con poca disciplina, mandate a combattere in prima linea per un pugno di dollari. Lo stipendio medio di un soldato è 70 dollari al mese. Chi ha famiglia, fatica a sfamare i figli. Solo negli ultimi anni i programmi di formazio- Rutshuru, miliziani dell’M23. Rutshuru contro Laurent Nkunda e a Luberu contro le milizie dell’Fdlr. Masika si è trovata a dover rispondere al fuoco nemico con la figlia legata al petto. «Non sapevo a chi lasciarla - spiega -. Cercavo di tenerla in modo che, in caso di imboscate, non venisse colpita. Marciavo per ore con il mio fucile, una cassa di munizioni e mia figlia». «Non siamo considerati come i militari negli altri Paesi - osserva Gérôme -. Siamo mal pagati, la razione di cibo mensile è un mestolo di farina! Ci spostiamo a piedi, ma ci IN BATTAGLIA CON I FIGLI Gérôme e la moglie, il caporale fanno andare a combattere dopo che Masika Vitimya Jeanette, lavorano abbiamo digiunato per giorni. Noi insieme, entrambi nella ottava Re- congolesi siamo combattenti forti, gione militare guidata dal generale possiamo sconfiggere i ribelli, ma Bahuma. Sono sposati da sei anni. dobbiamo essere nutriti!». Non vedono i figli da otto, né san- Già, i ribelli. Le milizie in Kivu sono se sono ancora vivi. Due figlie no numerose. A volte sono formate da disertori, altre volte dovrebbero essere in Katanga presso la fami- Ruanda e Uganda sono civili che imbracciano le armi, così facili glia di Gérôme, ma non hanno messo gli da reperire in Congo. riescono a riprendere i occhi da tempo contatti con i genitori. I sull’Est del Paese: L’unica ricetta che viene utilizzata per neutralizsuperiori non concedo- a loro e alle zarle è l’integrazione no loro alcuna licenza multinazionali nelle forze armate conper andare a cercarli. I del settore golesi. Il sistema funcellulari sui quali erano minerario che ziona così: un leader, registrati i numeri di te- qui lavorano magari un colonnello lefono dei figli sono an- l’instabilità disertore, raggruppa aldati perduti in battaglia. fa comodo cune decine o centinaia Masika fatica a ricordadi volontari e forma una re persino il volto della milizia. Il gruppo armaterza figlia. Fino a 8 mesi, la piccola è stata al fronte in- to sopravvive sul territorio grazie sieme alla madre che combatteva a all’assenza dei governativi, impone dell’Onu hanno consentito di stilare liste degli effettivi, di verificare che gli ufficiali non si intascassero le paghe dei sottoposti. Kinshasa ha poi chiesto e ottenuto che alcuni battaglioni fossero inquadrati da ufficiali cinesi o americani. Ma, come racconta Gérome Amisi Donge, 45 anni, tenente di stanza a Minova, i militari ben addestrati vengono poi inviati in altri battaglioni meno organizzati, vanificando lo sforzo formativo. nendo tasse ai locali e sfruttando le miniere se ci sono. Se il gruppo è ben strutturato e ha contatti con i Paesi vicini, può infatti Milizie ed esercito trafficare in sono accusati di coltan o cassistupri di massa terite. Poi, doe violenze sulla po aver compopolazione. piuto violenze Le denunce e aver «modi varie strato i muscoorganizzazioni li», chiede la internazionali non pace in cambio si contano, ma de l l’i nteg r al’impunità è diffusa zione. Di solito il comandante dei ribelli ottiene un grado molto alto nelle forze armate (generale, per esempio) e nell’intesa pretende che i suoi uomini siano stanziati negli stessi territori in cui combattevano in precedenza. LA RICCHEZZA SCIPPATA Rubaya, nel Masisi, un ampio massiccio assai ricco di minerali a NordOvest di Goma è una cittadina ricca, in cui più o meno tutti sono coinvolti nell’estrazione di manganese e coltan. La zona è controllata dall’814° Reggimento Maj Maj Niatura sotto il comando del colonnello Habarughira. Mesi fa, le colline circostanti erano controllate dagli uomini del generale Bosco Ntaganda, comandante del gruppo ribelle M23, ora all’Aja in attesa di giudizio. La presenza dei miliziani è molto discreta. La legge vieta la presenza di soldati OTTOBRE 2013 POPOLI 17 reportage o uomini armati nelle miniere, tranne la speciale «Polizia delle miniere». I Maj Maj controllano Rubaya e i suoi siti, nonché gli accessi all’intera area. È lì che, grazie a check point mobili, impongono tasse ai minatori o ai portatori che entrano ed escono dal villaggio. Pochi dollari a testa. Decine o centinaia di dollari, invece, se a passare sono i fuoristrada o i camioncini carichi di coltan diretti a Goma. Il semplice controllo del traffico di persone da e per Rubaya rimpingua le casse dei Maj Maj. Non è cioè necessario occuparsi direttamente del trasporto e della commercializzazione del minerale. Alcuni numeri: un chilo di sabbia mista, minerale grezzo, che esce Le milizie, grazie dalle miniere a check point mobili, impongono di Rubaya vale 10 dollari; una tasse ai minatori volta a Goma il e ai fuoristrada prezzo sale a 70; diretti a Goma. Il semplice controllo passato il confine con il Ruandel traffico di da, 105 dollari. persone da e per Un prezzo che Rubaya rimpingua non ripaga in le casse alcun modo lo sforzo di migliaia di minatori locali. Venant Bahati ha 26 anni, le spalle larghe, il viso imperlato di sudore, un sacco sulla testa. «Mi alzo alle 4 del mattino e ogni giorno vengo a Rubaya - racconta -. Trasporto sacchi da 25 chili e faccio su e giù dalla collina quattro volte al giorno dall’alba fino alle tre del pomeriggio. Guadagno 10 dollari al giorno, se va bene. E riesco appena a sfamare i miei due figli e mia moglie». Faustin Nkomeshwe ha 22 anni e anch’egli fa il minatore. Faustin scava ogni giorno. In media guadagna 5 dollari al giorno. Se un crollo dei tunnel o una caduta accidentale non lo uccideranno o non lo renderanno invalido, potrà a stento garantire un futuro alla sua famiglia. Il futuro del Kivu, invece, è pieno di punti di domanda. 18 POPOLI OTTOBRE 2013 Un gesuita d’oro Giusy Baioni GOMA (REP. DEM. CONGO) È stato tra i primi a studiare in profondità il fenomeno, tanto da pubblicare un’analisi già nel 2001: padre Didier de Failly, gesuita belga da oltre 25 anni a Bukavu, capoluogo del Sud Kivu, ha consacrato gli ultimi lustri ad approfondire le dinamiche dello sfruttamento minerario nella regione e a individuare mezzi efficaci per contrastarne il commercio illegale, tra Padre Didier de Failly. le principali cause della guerra. È il direttore del Bureau d’Etudes Scientifiques et Tecniques (Best) e della ne artigianale dei minerali». Maison des mines du Kivu. Colla- La maggior parte degli studi dibora con vari network internaziona- sponibili oggi partono infatti dal li, come la Public-Private Alliance presupposto che in Congo esista for Responsible Minerals Trade e la una catena mineraria industriale e Extractive Industries Transparency non artigianale, come è in realtà. È Initiative. La sua voce è ascoltata questo uno dei maggiori problemi ovunque e i suoi contributi scrit- evidenziati dal gesuita. «In un conti sono pietre miliari nel percorso testo simile - osserva -, garantire la che sta portando alla certificazione tracciabilità non è affatto semplice, dei minerali provenienti da zone di né è semplice verificare la filiera o conflitto. evitare imbrogli, se il tutto consiLo incontriamo nel suo ufficio nel ste solo nell’apporre un’etichetta sul collegio dei gesuiti Alfajiri a Buka- sacco di coltan, tungsteno o cassitevu. Nel nostro colloquio si addentra rite. Alterare o sostituire un cartelnei meandri delle normative in- lino è un gioco da ragazzi. Inoltre, ternazionali che oggi cercano di non essendoci concorrenza (sono regolare il commercio dei minerali ancora in pochi a etichettare i mi«insanguinati», mettendone in evi- nerali), il prezzo della materia prima denza i limiti. «È necessario - osser- resta basso. A rimetterci sono quindi va - che il denaro proveniente dalla i lavoratori. Lo Stato congolese poi vendita delle risorse minerarie torni non fa il suo lavoro. È incapace di alla gente, per migliorarne le condi- proteggere i cittadini e così regna zioni di vita. La società l’impunità». Per questo civile del Sud Kivu si «È necessario motivo, uno degli obietsta professionalizzando che il denaro tivi per cui padre Didier nei suoi interventi, va proveniente si sta battendo è riuscire sostenuta e incoraggia- dalla vendita a imporre l’etichettatura ta, ma non è semplice dei minerali torni elettronica: «Vorremmo acquisire competenza alla gente, avviare un sistema più nel settore dell’estrazio- per migliorarne sicuro, con un sensore le condizioni di vita. Ma non è un’impresa semplice» Dodd-Frank prevede infatti la possibilità di boicottare le aziende elettroniche che non utilizzano coltan e minerali conflict-free. Il principio in sé è ottimo. Ma siccome la filiera non può essere facilmente garantita, le aziende elettroniche, temendo di UN LAVORO RISCHIOSO Un altro punto su cui de Failly in- perdere clienti, finiscono per rinunsiste riguarda il Dodd-Frank Wall ciare ai minerali congolesi rivolgenStreet Reform Act, legge statuniten- dosi ad altri fornitori. A rimetterci se approvata il 21 luglio 2010. Que- sono quindi i congolesi che vivosta legge, al paragrafo n. 1502, parla no dell’estrazione. Serve dunque, espressamente dei minerali prove- secondo de Failly, una gradualità nienti dalle zone di conflitto nell’Est nell’applicazione della normativa e del Congo e dai Paesi confinan- un lavoro più efficace per garantire ti, imponendo alle compagnie che la filiera. Proprio per sensibilizzare commercializzano uno dei quattro su questi temi i vertici delle orgaminerali strategici provenienti dal nizzazioni internazionali, nel 2011 de Failly ha viaggiato Paese africano (tantalio, molto recandosi a Watungsteno, oro e cassite- «La tracciabilità shington, Bruxelles, Parite) di rendere pubbli- dei minerali rigi, Berlino. che le fonti e le misure è complessa. Padre Didier non lavoprese affinché i mine- Dobbiamo ra però solo a livello rali non alimentino il imporre internazionale, ma ha conflitto. La norma ha l’etichettatura molti progetti anche sul grandi meriti (tra l’altro, elettronica: terreno: «Inizialmente a fine luglio, la Corte di- un sensore volevamo diffondere testrettuale di Washing- in ogni sacco sti in swahili nei quali ton ha rigettato il ricor- per seguirne si parla dei diritti dei so di alcune lobby che l’itinerario» minatori. Purtroppo la volevano limitarne gli maggior parte dei mieffetti) ma, secondo il natori è analfabeta. Così gesuita, rischia di avere sui minatori effetti opposti a quelli abbiamo deciso di selezionare quelli che si era proposto il legislatore. La che avevano un minimo di istruin ogni sacco per seguirne l’itinerario. Questo ovvierebbe alla difficoltà di verificare se le etichette corrispondono davvero ai Paesi di produzione». Una donna congolese setaccia la sabbia alla ricerca del coltan. zione e li abbiamo formati. Adesso sono loro a formare i loro colleghi. La maggioranza degli abusi poi sono commessi dalle autorità pubbliche. È necessario quindi educare la società civile affinché sia in grado A Bukavu (Sud di controllare Kivu) Didier de i funzionari Failly, gesuita statali. Vorbelga studia le remmo anche dinamiche dello realizzare un sfruttamento documentario minerario e cerca per mostrare di individuare ai responsabimezzi efficaci li a Kinshasa per contrastare il e in Europa la commercio illegale vera vita dei minatori e le inimmaginabili difficoltà che incontrano». I progetti si scontrano, purtroppo, con la mancanza di fondi. Attualmente ne arrivano dalla Chiesa battista e da un gruppo ebraico, ma non bastano di fronte al molto lavoro da fare. Le attività di padre de Failly minacciano diversi interessi. «Il mio nome e il mio luogo di lavoro sono stati citati più volte alla radio ruandese, mettendomi così in pericolo». Non solo, è stato accusato di aver passato informazioni all’Onu. Così padre Didier preferisce non entrare più in Ruanda, dove per lui i nemici sarebbero troppo numerosi. MINERALI RARI > Tantalio - È un metallo molto resistente alla corrosione (soprattutto all’attacco degli acidi) ed è un buon conduttore di calore ed elettricità. Si usa per produrre strumenti chirurgici e protesi intracorporee. > Tungsteno - Il tungsteno è un metallo noto per le sue proprietà di conduzione. Trova ampio impiego nelle applicazioni elettriche e nell’industria aerospaziale. > Oro - L’oro è un metallo inattaccabile dalla maggior parte dei composti chimici. Viene utilizzato per coniare monete e viene inoltre impiegato in odontoiatria, gioielleria e nell’industria elettronica. > Cassiterite - È il nome più diffuso del biossido di stagno. Viene utilizzato per produrre il bronzo e altre leghe speciali e per saldare. OTTOBRE 2013 POPOLI 19 AFP indonesia La polizia lasciarono invece una legge islamica - unica in Indonesia - che oggi regola la vita della provincia più occidentale dell’arcipelago, punizioni corporali incluse. Sulla spiaggia di Ulele, devastata in quel tragico Santo Stefano, le coppiette non sposate che si godono un po’ d’intimità al tramonto vengono allontanate. Le relazioni extraconiugali sono anch’esse tabù, Nella provincia autonomista di Sumatra, dove così come il gioco d’azzardo e l’inl’applicazione della shari’a ha effetti insoliti frazione del precetto di non bere per la consueta tolleranza indonesiana, alcolici. Sul corretto ordine islasi gioca il confronto fra tradizione e modernità mico vigila la Wilayatul Hisbah, la con nonchalance, come se gli toc- polizia islamica istituita nel 2003 e Alessandro Ursic casse ricordare un evento banale. di cui Marzuki Ali è il responsabile BANDA ACEH (INDONESIA) Dall’altra parte del frustino c’erano in città. Il corpo è composto da entile nella parlata e capace cittadini di Banda Aceh, la città oltre 1.200 agenti nell’intera provincia di Aceh: uomini di sorridere sotto quei baffi indonesiana sconvolta e donne che perlustraneri quando spiega come dal catastrofico tsu- Gli acehnesi, usare lo scudiscio, Marzuki Ali nami del 26 dicembre discendenti di un no le strade nelle loro divise color oliva, alla ricorda un padre burbero d’altri 2004. Oltre a 170mila fiorente regno ricerca dei trasgressori tempi, di quelli per cui la disciplina persone, quelle onde poi caduto sotto della morale di Allah. può portare a qualche scapaccio- si portarono via anche i colonizzatori Se colgono qualcuno ne. Dal 2006 ha vibrato lui stesso una guerriglia sepa- olandesi, sono dei colpi: «tre-quattro volte», dice ratista decennale. Ma tradizionalmente in flagrante, «il primo del Corano G 20 POPOLI OTTOBRE 2013 orgogliosi della loro diversità dal resto dell’Indonesia Banda Aceh, dicembre 2011: un concerto rock interrotto dalla polizia, che costringe una sessantina di punk a tagliarsi i capelli. obiettivo è di istruirli e di avvertirli che stanno violando la legge. I recidivi li deferiamo ai giudici, che possono condannarli alle fustigate», spiega Marzuki. Nella provincia capita decine di volte all’anno: 50 nel 2011. DOPO LO TSUNAMI Non che Banda Aceh sia un covo di anticonformisti che hanno scordato il Corano. La città è soprannominata «la veranda della Mecca» proiettata come un pollice verso ovest, fu la porta d’entrata dell’islam nell’arcipelago indonesiano fin dal XIII secolo, grazie alle frequenti visite di mercanti arabi. Ancora oggi è di gran lunga la provincia religiosamente più conservatrice dell’Indonesia, Paese dove gli oltre 210 milioni di musulmani seguono per lo più un islam moderato e fortemente influenzato da animismo e induismo. Gli acehnesi, discendenti di un fiorente regno poi caduto sotto i colonizzatori olandesi, sono tradizionalmente orgogliosi della loro diversità dal resto dell’Indonesia. Nove anni dopo l’onda assassina, se si eccettuano il Museo dello tsunami e alcune barche ancora arenate sulla terraferma a chilometri dal litorale, ben poco a Banda Aceh ricorda il disastro. Lontana è anche la guerriglia separatista del Movimento per l’Aceh libero (Gam), che tra gli anni Settanta e il 2005 causò 15mila morti e portò a un’oppressiva presenza militare. In cambio di una maggiore autonomia, alla provincia fu in sostanza concessa la shari’a, la legge islamica. Al visitatore non può sfuggire la pia osservanza islamica degli acehnesi, gente di una gentilezza squisita, fuori dalle rotte turistiche e per questo ancora più accogliente verso lo straniero. La splendida moschea Baiturrahman troneggia nel centro della città. Al contrario del resto dell’Indonesia, donne e ragazze hanno i capelli coperti dal velo. Con l’introduzione della legge islamica, i tre cinema cittadini sono stati chiusi. La vita notturna è praticamente inesistente: il massimo per i giovani è chiacchierare in uno dei tanti caffè. Molti non sono neanche mai stati a Giakarta, la capitale, ma hanno comunque affinato il loro inglese grazie al massiccio arrivo di Ong dopo lo tsunami. L’impressione è quella di una placida città di provincia. Ma le autorità locali avanzano regolarmente proposte di un giro di vite su comportamenti «immorali», specie nei villaggi dell’interno. Definendo l’omosessualità «una malattia sociale da sradicare», il vicegovernatore di Banda Aceh ha recentemente spinto per una legge che punisca i gay con cento fustigate. A Lhokseumawe (170mila abitanti) il sindaco vuole vietare alle donne di sedere a cavalcioni sul sedile dei motorini. Le autorità di Aceh Nord, il territorio circostante, hanno appena proibito al gentil sesso di «ballare in pubblico». I rari casi di istinti ribelli vengono tenuti d’occhio. Nel dicembre 2011 una sessantina di giovani punk - in molti arrivati da fuori Banda Aceh per il primo festival rock locale - furono arrestati e sottoposti a una specie di «naja» forzata per una settimana, con rasatura e «bagno purificatore». Tuttavia, Banda Aceh non è l’Afghanistan dei talebani. Molte ragazze guidano lo scooter, e nei caffè sanno rivolgere occhiate languide ai coetanei. Gli stranieri vengono lasciati in pace dalla polizia islamica e le donne della minoranza cinese vanno in giro a capo scoperto. Lo stesso Marzuki ammette: «L’obiettivo della fustigazione non è fare male, ma umiliaSulla spiaggia re in modo da devastata dallo prevenire nuotsunami del 2004, ve infrazioni. le coppiette non Non a caso, sposate che si lasciamo che godono un po’ la persona pud’intimità vengono nita rimanga allontanate. vestita», spiega Le relazioni mimando il geextraconiugali sto con cui va sono tabù somministrato il colpo corretto: frenando il braccio a metà corsa, facendo arrivare lo scudiscio a destinazione non con ACEH, L’OCCIDENTE INDONESIANO Banda Aceh Lhokseumawe Medan MALAYSIA BRUNEI Kuala Lumpur SINGAPORE MALAYSIA Borneo Oceano Indiano Sumatra I N D O N E S I A Giakarta Giava OTTOBRE 2013 POPOLI 21 indonesia «GENERAZIONE TWITTER» Le generazioni più giovani, per quanto osservanti, hanno però fame di aprirsi al mondo. YouTube e Twitter sono popolarissimi. Le ragazze ascoltano dive pop americane come Taylor Swift e Katy Perry, che cantano amori romantici Preghiera del venerdì in una moschea di Banda Aceh. 22 POPOLI OTTOBRE 2013 con testi decisamente poco consoni rappresentante della sezione locale alla shari’a. «Un controsenso? Non del Fronte dei difensori dell’islam» ci avevo mai pensato», ammette (Fpi). Il gruppo, numericamente Nanda Mariska, una 22enne che si marginale ma dotato di appoggi definisce musulmana convinta e influenti, spinge per l’introduzione che, come gran parte delle sue ami- entro il 2014 di un «nuovo codice» che, non ha mai avuto un ragazzo. islamico che decuplicherebbe il nuUn punk di soprannome André, tra mero di fustigate per ogni reato, e quelli arrestati e rasati due anni non solo. fa, sintetizza il suo disgusto per le «Ai ladri andrebbe tagliata la mano e gli adulteri dovrebberegole oppressive: «La ro essere lapidati!», si gente di Aceh è ipocri- Gli islamici scalda Yusuf. Poi guarta! Noi vogliamo solo radicali sono da la giovane Nanda, liberare la nostra cre- in crescita in indicata dal giornaliatività, che male c’è?», Indonesia e sta straniero, e giudica spiega rollandosi una guardano alla sigaretta ed esibendo provincia di Aceh «non sufficientemente modesto» il suo modo una nuova chioma co- come a un di vestire: velo, maglia lorata. laboratorio di C’è tuttavia chi vorreb- quanto vorrebbero che non lascia intravedere alcuna forma, be punizioni ben più estendere al pantaloni larghi e nesevere. Gli islamici ra- resto del Paese anche una caviglia scodicali sono in crescita perta. La ragazza monel Paese e guardano stra tutto il suo stupore alla provincia di Aceh come a un laboratorio di quan- e, ripensandoci, scuote la testa con to vorrebbero estendere al resto un sorriso. Il futuro della shari’a a dell’Indonesia. «Quella di adesso Banda Aceh (e non solo) passerà da non è una vera shari’a, ma solo un confronti simili tra le due anime primo passo per istruire la popola- dell’islam locale: quella fondamenzione», spiega Yusuf al-Qardhawy, talista e quella più moderata. AFP piena potenza. La lapidazione è in teoria prevista per alcuni reati, ma non è mai stata eseguita. Specie in città, la shari’a e soprattutto le punizioni corporali non sono così popolari. Nel mercato attorno alla moschea Baiturrahman, molti storcono il naso di fronte ai blitz della polizia prima della preghiera del venerdì, che obbligano negozi e ristoranti a chiudere. C’è anche un diffuso fastidio verso le disuguaglianze nell’applicazione della legge: non è un mistero che alcuni hotel e locali di lusso servano alcolici ai più benestanti, che hanno comunque la possibilità di volare a Giakarta per un weekend «proibito». Ma, anche per il timore di mancare di rispetto ad Allah, pochi acehnesi osano confidare la loro contrarietà. riflessioni La Chiesa e la guerra Mentre il mondo si divide sull’opportunità di un intervento militare in Siria, al di là di considerazioni geopolitiche si ripropongono, come in altri casi simili, dilemmi etici che interrogano credenti e non. Abbiamo chiesto a un teologo morale, esperto di dottrina sociale della Chiesa, di aiutarci a fare chiarezza Giannino Piana L e drammatiche vicende che hanno contrassegnato negli ultimi decenni diversi Paesi dell’area mediterranea, dai Balcani (in particolare la Bosnia e il Kosovo), al Nord Africa (la recente guerra in Libia), fino alla tragedia in corso in Siria, pongono con urgenza l’interrogativo sul «che fare» per evitare (o quanto meno per contenere) terribili carneficine, le cui vittime sono popolazioni inermi, donne e bambini in primis, e dove si assiste talora a vere e proprie forme di genocidio. Si tratta, ad esempio nel caso siriano, di «guerre civili» destinate ad abbattere regimi autoritari, che reagiscono con la forza alla pressione di parti consistenti della popolazione, mettendo in atto forme spietate di repressione con decine di migliaia di vittime sacrificate a un potere sanguinario che non accetta alcuna forma ragionevole di trattativa o di mediazione. La dottrina morale, sia laica sia di ispirazione cristiana (in particolare nei secoli più recenti quella cattolica), ha ipotizzato in passato varie forme di intervento - dalla legittimità di procedere all’uccisione dell’«ingiusto tiranno», alla giustificazione della guerra difensiva (me- diante la teoria della «guerra giusta») - che avevano come obiettivo quello di salvaguardare tanto i diritti dei singoli quanto quelli dei popoli di fronte alle prevaricazioni di un tiranno o all’aggressione dall’esterno di un altro popolo. Queste forme di intervento (in particolare la guerra) hanno perso - come vedremo - la loro legittimità, a causa dei profondi cambiamenti culturali e tecnologici verificatisi soprattutto nella seconda metà del Novecento. La gravità delle situazioni ricordate e di molte altre - basti ricordare il genocidio del 1994 in Ruanda, consumatosi nell’indifferenza del mondo occidentale e delle autorità internazionali - ripropone, tuttavia, in termini perentori, la domanda circa le modalità di intervento possibili, stante il fatto che risulterebbe del tutto immorale assistere inermi a massacri di tale consistenza. NON ESISTONO «GUERRE GIUSTE» La teoria della «guerra giusta», che ha origini remote nel pensiero patristico - Agostino è stato il Ribaltando primo a formula prospettiva larla - e che ha del passato avuto il merito Giovanni XXIII storico di fissadefinisce re limiti precisi «irragionevole alla possibilità pensare che la de l l’i nter vento guerra possa bellico, sia riduessere utilizzata cendone l’esercome strumento cizio alla sola di giustizia» difesa (negando perciò diritto di cittadinanza alla guerra offensiva o di conquista), sia dettando con chiarezza le condizioni per l’ingresso in essa (ius ad bellum) e per le modalità della sua esecuzione (ius in bello), ha perso, nel nostro tempo, ogni giustificazione. Il primo ad affermarlo, superando decisamente le posizioni assunte dai precedenti pontefici (non escluso l’immediato predecessore Pio XII), è stato GioOTTOBRE 2013 POPOLI 23 riflessioni vanni XXIII, il quale, nell’enciclica Pacem in terris del 1963 non ha esitato a condannare, in maniera netta e irrevocabile, la guerra (ogni guerra), in quanto «contraria alla ragione». La sconfessione della dottrina della «guerra giusta», considerata acquisita dalla tradizione - si comprende proprio per questo lo scandalo suscitato in alcuni ambienti cattolici conservatori -, si appoggia a motivazioni di ordine strettamente razionale. Ribaltando la prospettiva del passato che considerava la guerra, sia pure difensiva e rispettosa di alcune condizioni, come un atto assolutamente ragionevole, il Papa afferma che è «del tutto irragionevole (alienum a ratione) pensare che nell’era atomica la guerra possa essere utilizzata come strumento di giustizia» (Pacem Come intervenire in terris, n. 67). di fronte Ciò che l’encia situazioni clica intende complesse sottolineare è e conflittuali che la presennelle quali za nel nostro sussiste il dovere tempo di armi morale di agire micidiali - l’eper impedire nergia nucleare forme di violenza è la «cifra» del insensata? salto qualitativo intervenuto nel campo degli armamenti con un potere di annientamento che mette a repentaglio la sopravvivenza stessa dell’umanità - fa sì che la guerra costituisca uno strumento del tutto sproporzionato, perciò inadeguato, ad affrontare qualsiasi causa giusta. Il ricorso a una motivazione razionale, ha trovato largo consenso anche nel mondo laico - non è irrilevante che sia questo il primo documento del magistero della Chiesa universale indirizzato anche «a tutti gli uomini di buona volontà» -, dove la consapevolezza del potenziale bellico di enorme portata distruttiva che la tecnologia ha messo a 24 POPOLI OTTOBRE 2013 disposizione dell’uomo - accanto QUALI ALTERNATIVE? alle armi nucleari non vanno di- Il ripudio della guerra lascia tutmenticate quelle chimiche e batte- tavia aperta la questione su come riologiche - è divenuto l’argomento intervenire di fronte a situazioni fondamentale per il rifiuto della complesse e conflittuali nelle quali guerra. sussiste il dovere morale di agire A confermarne l’illegittimità è, del per impedire (o arrestare) forme di resto, anche la considerazione del- violenza insensata che provocano la inapplicabilità dei criteri che la morte di un enorme numero stanno alla base della teoria della di vittime innocenti. La riflessione «guerra giusta». Lo ius ad bellum, morale ha introdotto in proposicioè il diritto a entrare in guerra, to nuove categorie destinate a far sia pure come estremo rimedio, si fronte a tali situazioni. Esse sono fondava, oltre che sull’esistenza riconducibili alla dottrina della «indella «giusta causa», anche sul fatto gerenza umanitaria» e a quella degli che a dichiararla fosse un’«autorità «interventi (o operazioni) di polizia competente» e che si agisse con internazionale», il cui obiettivo è la «retta intenzione». Il cambiamento prestazione di soccorso alle vittime degli scenari internazionali rende dell’aggressione mediante il coinvoldifficile identificare tale autorità, gimento della comunità internazioessendo divenuto insufficiente, in nale. Va detto che «ingerenza» e «inun mondo globalizzato e interdi- tervento» devono essere nettamente pendente come l’attuale, il riferi- distinti per la sostanziale differenza mento alla sovranità dello Stato; a riguardo dell’uso della forza: l’inmentre appare sempre più arduo gerenza comporta infatti il sostegno il ricorso alla retta intenzione di dato alle popolazioni senza l’uso di fronte al complesso degli interessi mezzi violenti, mentre l’intervento in gioco nelle relazioni tra i popoli. implica l’uso delle armi con la possiDel tutto irrealistica risulta poi bilità pertanto di qualche vittima (è l’applicazione delle regole che fan- questa la ragione per cui non si può no capo allo ius in bello, cioè alle parlare di azione umanitaria). modalità di intervento: il rispetto Questa ultima forma di azione, per degli obiettivi civili e quanto assai delicata, l’adozione del criterio La legittimità non può tuttavia essedella proporzionalità di interventi re equiparata a un insono infatti largamen- di ingerenza tervento bellico. Non te incompatibili con lo umanitaria si tratta infatti - come sviluppo tecnologico o di polizia qualcuno scorrettamenintervenuto nel campo internazionale è te asserisce - di un ridegli armamenti. fuori discussione. torno alla giustificazio- Devono però essere rispettate alcune precise condizioni Giovanni Paolo II durante l’Angelus della Giornata mondiale per la Pace del 2005. ne della guerra (la quale, respinta II, il quale, pur ribadendo in termidalla porta, tornerebbe a far capoli- ni intransigenti il proprio «no» alla no dalla finestra), ma del consenso guerra, non ha esitato a riconoscere dato a interventi che si differenzia- - sollecitato dal moltiplicarsi di no radicalmente dalla guerra, sia sul situazioni in cui i diritti umaversante del «fine perseguito» - l’in- ni venivano gravemente calpestati tenzione è, in questo caso, di arre- (particolare influenza ha avuto a stare un processo di grave violenza tale proposito il caso della Bosnia) - sia sul versante delle «modalità di l’esigenza di intervenire con coragesecuzione», trattandosi di un’azione gio per evitare il dilagare di mali chiaramente circoscritta e destinata maggiori. Di fronte alla tortura di unicamente a disarmare l’aggresso- massa o a veri e propri genocidi re. Non è indifferente, volti all’eliminazione a tale riguardo, che si Il modello etico di interi gruppi etnici faccia riferimento alla al quale tali o, ancora, alle violenze polizia, che ha come interventi si efferate nei confronti fine proprio quello di ispirano è quello di donne e bambini non riportare l’ordine in una di un’«etica della ci si può trincerare diesituazione conflittuale, responsabilità», tro a un pacifismo a e non all’esercito, che ha basata sul ogni costo (senza «se» invece finalità belliche. bilancio degli e senza «ma»); è doLa legittimità di que- effetti positivi veroso ricorrere anche sto ordine di interventi e negativi alla forza, sviluppanè fuori discussione: si delle azioni do - come afferma il tratta di un sostegno Pontefice - «azioni cirche riveste una innegacoscritte nel tempo e bile portata etica, e la precise nei loro obietcui attuazione esige il verificarsi di tivi, condotte nel pieno rispetto del alcune condizioni, quali l’imparzia- diritto internazionale, garantite da lità, la volontà di promuovere una un’autorità riconosciuta a livello vera de-escalation della violenza e sopranazionale e, comunque, mai della guerra e la prudenza nell’uso lasciate alla mera logica delle armi» delle armi. La sua plausibilità è (Giovanni Paolo II, Messaggio per legata alla presenza di situazioni la celebrazione della Giornata monestreme, nelle quali l’uso coerciti- diale della Pace, 1 gennaio 2000, vo della forza è reso necessario sia n. 11). dal fallimento della trattativa po- È qui chiaramente affermata la litica, sia dalla considerazione che legittimità di iniziative limitate, gli effetti negativi della rinuncia a motivate dall’esigenza di dare sointervenire risulterebbero più gravi stegno alla tutela dei diritti umani di quelli prodotti dallo stesso inter- e nelle quali l’uso della forza, che vento; per questo è necessario, quale ha - lo si è già ricordato - carattere garanzia di imparzialità, il controllo di extrema ratio, deve avvenire delle grandi organizzazioni interna- sotto il diretto controllo di un’auzionali (oggi in particolare dell’Onu) torità internazionale che si pone in grado di valutare in maniera come obiettivo il ristabilimento di imparziale (al di là e al di sopra di una convivenza ordinata e pacifiinteressi particolaristici) l’opportu- ca. L’affermarsi, sia a livello etico nità di intervenire. sia politico, di tali concetti è di grande importanza; attraverso di essi, mentre si scongiura il pericolo CONDIZIONI DI LEGITTIMITÀ In questa direzione si è mosso an- del ricorso alla guerra, che tende, che il magistero di Giovanni Paolo di sua natura, alla sconfitta del ne- mico, creando di conseguenza una condizione inevitabilmente squilibrata e conflittuale, ci si mette nel contempo in grado di risanare situazioni altrimenti destinate a provocare ricadute pesantemente negative per la vita di intere popolazioni. UN’ETICA DELLA RESPONSABILITÀ Il modello etico al quale tali interventi si ispirano è quello di un’«etica della responsabilità», basata sulla verifica delle conseguenze, cioè sul bilancio degli effetti positivi e negativi delle azioni. L’uso della forza non è a priori condannato, come sempre e del tutto ingiustificabile; è reso possibile soltanto quando si tratta di «male minore» o di «riduzione del danno». Non è infatti sufficiente, nei casi ricordati, fare appello alle sole buone intenzioni o a un’astratta declamazione dei principi; è necessario perseguire concretamente il «bene possibile» e saper correre anche il rischio, quando si è di fronte a situazioni drammatiche, di sbagliare intervenendo, piuttosto che evitare di intervenire per non sbagliare. Tutto questo vale, ovviamente, nei casi estremi. Altre sono - ce lo ricorda con forza la Pacem in terris (cfr nn. 60, 51 e 67) - le vie ordinarie da percorrere per la promozione della pace: dal disarmo integrato attraverso controlli efficaci, alla messa al bando delle armi nucleari (e aggiungiamo chimiche e batteriologiche), fino alla ricerca di soluzione dei conflitti mediante il negoziato ispirato dalla volontà di un’equa composizione delle parti. Ma, prima ancora, ciò che conta - e a questo è dedicata gran parte dell’enciclica giovannea - è l’impegno a costruire, giorno dopo giorno, un modello di convivenza all’interno delle nazioni e tra le nazioni fondato sul rispetto dei diritti e sull’ampliamento degli spazi della partecipazione pubblica. OTTOBRE 2013 POPOLI 25 eventi Il Papa tra i rifugiati conflitto o da regimi che attuano molteplici forme di repressione. Una berlina senza scorta raggiunge la via, il Papa scende dall’auto, l’emozione sale e la tensione si scioglie: Due mesi dopo la visita a Lampedusa, le mani si allungano, i saluti e gli papa Bergoglio accoglie l’invito del Centro Astalli e incontra a Roma chi ha dovuto fuggire abbracci si moltiplicano. dal proprio Paese. Per ricordare che «solidarietà Così Francesco inizia la sua visita al Centro Astalli, la sede italiana del Jrs è la nostra parola» (Servizio dei gesuiti per i rifugiati), guerre. Per molti africani o medio- che da trent’anni offre aiuto a chi Testo: Francesco Pistocchini Foto: Centro Astalli/Alessia Giuliani rientali l'Italia è il primo luogo dove chiede asilo. Il Jrs è attivo in decine chiedere asilo e Roma è la città dove di Paesi e in Italia opera soprattutto uardiamo il fratello dimora il maggior numero di rifu- a Roma, con decine di operatori e centinaia di volontari, assistenmezzo morto sul ciglio giati nel Paese. della strada, forse pen- Il richiamo alla responsabilità di do oltre ventimila persone all'anno siamo “poverino”, e continuiamo Lampedusa ha avuto un'eco precisa (34mila in tutta Italia). Da sette anni, per la nostra strada, non è compito nel pomeriggio del 10 settembre, ogni mese in una rubrica su Popoli, nostro». Papa Francesco l'8 luglio nel centro di Roma. È il primo po- racconta storie di fuga, difficoltà di a Lampedusa, parlando vicino alla meriggio e in via Astalli, nei pressi integrazione, ma anche l’impegno di piccola barca divenuta altare, de- di piazza Venezia, c’è molta attesa, tanti per una solidarietà concreta. nunciava la globalizzazione dell’in- non solo fra gli stranieri che di Il Papa compie una visita nella forma differenza, l'incapacità di piangere solito attendono in fila il proprio più semplice possibile, recandosi in turno alla porta della un luogo dove l’aiuto si per chi muore in mare. manifesta con l’offerta Negli sbarchi sulle coste meridiona- mensa che ogni giorno Il Servizio dei di un pasto, si intrattieli, additati da politici come «esodi» offre un pasto a circa gesuiti per i ne con alcuni rifugiati. o «invasioni», malamente bloccati 400 persone. Non sono rifugiati è attivo Qualcuno si avvicina dai respingimenti in mare o dalle semplicemente uomini e in decine di e gli parla all’orecchio. polizie nordafricane in cambio di donne immigrati, sono Paesi. L'anno «Noi non sappiamo tutto lauti finanziamenti, arrivano anche fuggiti - soli o con le scorso in Italia, dei loro drammi - racpersone in fuga da persecuzioni e famiglie - da Paesi in come Centro «G 26 POPOLI OTTOBRE 2013 Astalli, ha dato assistenza a più di 34mila persone Roma, 10 settembre: Papa Francesco alla mensa del Centro Astalli. Accanto a lui, Giovanni La Manna, il gesuita, presidente del Centro, che ha invitato il pontefice. Adam è sudanese, ha 33 anni, è sopravvissuto alla guerra in Darfur. Racconta al Papa la sua esperienza: «Può sembrare eccezionale, in realtà è una storia comune a tantissime persone nel mondo - spiega -. È una storia di guerra. Tutto è cominciato quando alcuni militaADAM E CAROL ri hanno dato fuoco al Molti tra i presenti sono «Io sono mio villaggio. Le mie musulmani. Il clima di musulmano due sorelle più piccole familiarità che si crea racconta un non è scontato. «È lui che rifugiato -. Tra noi di 4 e 6 anni sono morte lo crea - aggiunge padre ci sono cristiani e tra le fiamme». Adam è costretto ad arruolarsi Trotta -. Il gesto è since- islamici, ma non con i ribelli, ma quando ro». «Io sono di famiglia conta perché c'è musulmana - racconta la gioia immensa si trova ad affrontare suo fratello arruolato Adam, che poco dopo di incontrarlo e nell'esercito, getta il fuparla a nome di tutti vederlo mentre cile e inizia una fuga davanti al Papa -. Tra ci ascolta» che lo porta in Italia. Da di noi ci sono cristiani allora non ha più visto e islamici, ma non conta la sua famiglia. la religione di appartenenza perché c'è la gioia immensa di Carol è un’insegnante siriana, parla incontrarlo e vederlo davanti a noi al Papa di un conflitto ancora più vicino, che oggi conta più di un mentre ci ascolta». conta Giuseppe Trotta, gesuita e per alcuni anni responsabile della scuola di italiano del Centro -. Anche se conosciamo le persone e cerchiamo di aiutarle nella lingua, nelle questioni legali o per altri servizi». milione di rifugiati. «I nostri ragazzi sono stati tutti arruolati o uccisi in una guerra per noi senza senso. Ce li stanno ammazzando tutti. Siamo un Paese senza futuro». Anche Carol, come Adam, si fa portavoce di una realtà di accoglienza che molto spesso è lontana dagli impegni che i Paesi europei hanno preso, almeno sulla carta. «Sognavamo un'Europa accogliente e aperta. Purtroppo neanche qui le nostre sofferenze trovano pace». UN BIGLIETTO PER MORIRE «Roma dovrebbe essere la città che permette di ritrovare una dimensione umana, di ricominciare a sorridere - risponde il Papa -. Quante volte, invece, qui, come in altre parti, tante persone che portano scritto “protezione internazionale” sul loro permesso di soggiorno, sono costrette a vivere in situazioni disagiate, a volte degradanti». A MILANO Nasce la Fondazione Martini «L a memoria dei padri è un atto di giustizia. E Martini è stato un padre per tutta la Chiesa. Anche noi alla “fine del mondo” facevamo gli esercizi con i suoi testi». Con queste parole, il 30 agosto papa Francesco ha ricevuto in visita privata i membri della Fondazione Carlo Maria Martini nata in coincidenza con il primo anniversario della morte del cardinale (31 agosto 2012). La Fondazione, creata per iniziativa della Provincia d’Italia della Compagnia di Gesù (in partecipazione con l’Arcidiocesi di Milano) intende promuovere la conoscenza e lo studio della vita e delle opere del prelato e per tener vivo lo spirito che le ha animate. Nel discorso rivolto ai rappresentanti della Fondazione, il Papa ha ricordato il ruolo di padre Carlo Maria Martini alla 32a Congregazione Generale dei gesuiti (1974), durante la quale Martini seppe indicare la via per mantenere l’attenzione sulla giustizia favorendo l’unione all’interno della Compagnia stessa e nei rapporti tra i gesuiti e la Santa Sede. Papa Francesco ha ricordato con grande gratitudine e stima la sua figura definendolo «profeta e uomo di discernimento e di pace». «Il cardinale Martini - ha spiegato Carlo Casalone, superiore della Provincia italiana della Compagnia di Gesù -, nel suo testamento ha indicato la Provincia d’Italia quale erede universale del proprio patrimonio, costituito in sostanza dai suoi scritti, e una Fondazione ci è sembrato lo strumento più adatto a proseguire la sua eredità spirituale e intellettuale». La Fondazione avrà sede a Milano presso la Fondazione San Fedele, dove già esistono diverse attività dei gesuiti nel campo sociale e culturale (tra cui la stessa redazione di Popoli). «Costruiremo - continua padre Casalone un archivio che raccolga le opere del cardinale. Vogliamo poi classificare quanto è stato scritto su di lui. Così renderemo disponibile il suo patrimonio intellettuale e spirituale a chi lo voglia studiare». La Fondazione si propone anche di sostenere e alimentare il confronto ecumenico, interreligioso, con la società civile e con i non credenti in continuità con l’opera di dialogo sempre perseguita da Martini. Sempre in coerenza con l’opera del cardinale, promuoverà gli studi biblici e contribuirà a progetti formativi e pastorali che valorizzino la pedagogia ignaziana. Infine, attraverso un sito (www.fondazionecarlomariamartini.it), la Fondazione darà voce alle numerose testimonianze di personalità e gente comune per le quali la figura del cardinale ha rappresentato e rappresenta un punto di riferimento fondamentale. OTTOBRE 2013 POPOLI 27 Casale Enrico eventi Nella vicina chiesa del Gesù, dove prosegue l'incontro, è sepolto padre Pedro Arrupe, il superiore generale dei gesuiti che nel 1980 fondò il Jrs, in risposta al dramma dei boat people delle guerre nel Sud-Est asiatico, gettando le basi per una delle più articolate e importanti opere dei gesuiti nel mondo di oggi. «Hai dovuto lasciare la tua città per nascere, hai dovuto abbandonare il tuo Paese per sopravvivere - recita una preghiera, mentre il Papa e una famiglia egiziana depongono fiori sulla tomba di Arrupe -. Loro possono aiutarci a capirti e a vedere «La misericordia di nuovo il tuo vera - dice il volto, questa volPapa - chiede la ta con lineamengiustizia, chiede che il povero trovi ti africani, slavi, asiatici, diversi la strada per non dai nostri». essere più tale. Per anni il CenChiede a noi che tro Astalli ha nessuno debba più avere bisogno cercato anche di rispondere ai di una mensa» problemi di inserimento, nella ricerca di lavoro, richiamando i politici, locali e nazionali, al rispetto degli impegni presi. «La misericordia vera - aggiunge il Papa -, quella che Dio ci dona e ci insegna, chiede la giustizia, chiede che il povero trovi la strada per non essere più tale. Chiede - e lo chiede a noi Chiesa, a noi città di Roma, alle istituzioni - che nessuno debba più avere bisogno di una mensa, di un alloggio di fortuna, di un servizio di assistenza legale per vedere riconosciuto il proprio diritto a vivere e a lavorare, a essere pienamente persona». Le parole di Adam sono un appello a nome di tanti: «Il viaggio che noi affrontiamo per chiedere asilo in Europa è un crimine contro l’umanità. Eravamo in 170 sulla barca che dalla Libia ci ha portato in Italia. Molti di noi hanno pagato il biglietto per incontrare la morte. Santità, la sua voce è forte. Tutti l’ascoltano. 28 POPOLI OTTOBRE 2013 Ci aiuti. Faccia fermare questo massacro. Chiedere asilo non può essere un tragico modo di perdere la vita». CONVENTI VUOTI Papa Bergoglio riprende alcune parole di Adam: «“Noi rifugiati abbiamo il dovere di fare del nostro meglio per essere integrati in Italia”. E questo è un diritto: l’integrazione! E Carol ha detto: “I siriani in Europa sentono la grande responsabilità di non essere un peso, vogliamo sentirci parte attiva di una nuova società”. Anche questo è un diritto! Ecco, questa responsabilità è la base etica, è la forza per costruire insieme. Mi domando: noi accompagniamo questo cammino?». E a braccio aggiunge: «I conventi vuoti non servono alla Chiesa per trasformarli in alberghi e guadagnare i soldi. I conventi vuoti non sono nostri, sono per la carne di Cristo che sono i rifugiati». Chi ascolta conosce, come gesuita, operatore o volontario, la dura realtà dell’accoglienza in Italia e un applauso accoglie le parole del vescovo di Roma. Ripercorrendo gli elementi centrali della missione del Jrs - accompagnare, servire e difendere i rifugiati in ogni parte del mondo -, il Papa aggiunge: «Ognuno di voi porta soprattutto una ricchezza umana e religiosa, una ricchezza da accogliere, non da temere. Molti di voi siete musulmani, di altre religioni; venite da vari Paesi, da situazioni diverse. Non dobbiamo avere paura delle differenze!» Per questo sottolinea come sia bello che a lavorare per i rifugiati, insieme con i gesuiti, siano uomini e donne cristiani e anche non credenti o di altre religioni, uniti nel nome del bene comune, che per i cristiani è espressione dell’amore del Padre in Cristo Gesù. «Queste persone ci ricordano sofferenze e drammi dell’umanità. Ma quella fila ci dice anche che fare qualcosa, adesso, tutti, è possibile. Basta bussare alla porta, e provare a dire: “Io ci sono. Come posso dare una mano?». È una sintonia di spirito quella che il Centro Astalli ritrova nell'incontro con il Papa gesuita. Non solo per il significato delle parole, ma anche per lo stile familiare, senza protocolli, che accomuna tutti. Adam si scusa per il suo italiano, il Papa sorride, poi scambiando qualche parola in privato gli dice: «Anche il mio italiano è da migliorare». «Sono momenti che non si dimenticano racconta il giovane sudanese -. Credo davvero che le cose cambieranno». il profilo Pietro Parolin A Nato a Schiavon (Vi) il 17 gennaio 1955, Pietro Parolin è stato nominato dal Papa Segretario di Stato della Santa Sede. Entra in carica il 15 ottobre. Roma ci sono condomini dove ancora se lo ricordano, mentre andava a trovare anziani e persone che avevano bisogno di una guida spirituale, senza magari sospettare che quel prete in clergyman lavorasse ai vertici della Santa Sede. Con l’arcivescovo Pietro Parolin, Francesco ha nominato come Segretario di Stato un esempio di ciò che raccomanda spesso: un pastore che abbia l’«odore delle pecore». Ma non solo: ha compiuto una scelta che rappresenta, per così dire, un ritorno alla normalità, alla grande tradizione diplomatica vaticana. Non che le due cose siano in contraddizione. Nel volo di ritorno dal Brasile, il Papa citava a modello il cardinale Agostino Casaroli, che andava a trovare i giovani detenuti di Casal del Marmo e Giovanni XXIII che gli diceva, al ritorno da una missione internazionale: «Non li abbandoni mai». È rimasta celebre la battuta di Domenico Tardini, «ministro degli esteri» di Pio XII e poi Segretario di Stato di Giovanni XXIII, a chi gli diceva che quella vaticana è la prima diplomazia del mondo: «Figuriamoci la seconda». Ma la stessa ironia del grande diplomatico dimostrava, socraticamente, l’eccellenza di una scuola che forma le sue élite nell’Accademia di piazza della Minerva, a Roma. Pietro Parolin viene da lì. Nato a Schiavon, in provincia di Vicenza, il 17 gennaio 1955, a soli 58 anni è il più giovane Segretario di Stato del dopoguerra; per trovarne uno più precoce bisogna risalire al 1930 con la nomina, a neanche 54 anni, del cardinale Eugenio Pacelli, futuro Pio XII. Del resto il ragazzo dimostra ben presto di avere stoffa. Non ha un’infanzia facile: orfano di padre a dieci anni, viene cresciuto con la sorella e il fratello dalla mamma Ada, maestra elementare, dalla quale ogni estate passa tuttora le ferie. Entra in seminario quattordicenne, dopo la maturità classica studia Filosofia e Teologia e per due anni fa il viceparroco a Schio, prima di andare a Roma a studiare Diritto canonico alla Gregoriana. Poiché il giovane ha talento, nel 1983, a 28 anni, entra pure nella pontifi- Il Papa ha nominato come Segretario di Stato un esempio di ciò che raccomanda spesso: un pastore che abbia l’«odore delle pecore». Scelta che è anche un ritorno alla grande tradizione diplomatica vaticana cia Accademia ecclesiastica. Così nell’86 comincia il suo servizio diplomatico, in Nigeria fino all’89, in Messico fino al ’92, finché rientra a Roma ed entra in Segreteria di Stato. Quello di monsignor Parolin è un ritorno a casa: prima di essere inviato come nunzio in Venezuela - dal 2009 a oggi -, alla Terza Loggia ha lavorato per 17 anni, gli ultimi sette come «sottosegretario per i Rapporti con gli Stati» e quindi «numero tre» della Segreteria di Stato. Alieno dall’apparire, con Giovanni Paolo II e Benedetto XVI si è occupato di innumerevoli dossier. In particolare è esperto di Medio Oriente e del continente asiatico in generale, dal Vietnam alla Cina. Il suo stesso profilo, del resto, mostra il nuovo ruolo che il Segretario di Stato è destinato ad avere nella riforma di Francesco, il Papa venuto «dalla fine del mondo»: una figura meno egemone nella Curia e sempre più rivolta all’esterno, oltre l’Italia e l’Europa, per lavorare a fianco del Papa ai problemi della Chiesa universale e alle questioni internazionali. Gian Guido Vecchi Vaticanista del Corriere della Sera OTTOBRE 2013 POPOLI 29 bolivia Violini nella foresta Martina Bastos SANTA CRUZ (BOLIVIA) L à dove si incontrano serpenti, orchidee e manghi grandi come pugni. Là dove la terra è rossa, fertile e piatta finché non scompare nella massa densa e verde della foresta. Là, in mezzo al nulla, tre secoli fa arrivarono uomini che aprirono sentieri, abbatterono alberi, fondarono villaggi dentro le foreste. E a chi viveva lì proposero modi nuovi di pregare, costruire, vivere insieme. Costruirono capan- 30 POPOLI OTTOBRE 2013 Fondate nel Settecento dai gesuiti, le Riduzioni furono poi forzatamente abbandonate. Finché un architetto svizzero ha scoperto migliaia di partiture. E dalla musica sono nati progetti culturali e sociali che hanno rivitalizzato la zona ne di fango e paglia, piazze con una croce al centro. Edificarono chiese in legno, e nel legno intagliarono fiori, frutta, uccelli. Nel loro bagaglio portavano flauti, viole, arpe. E trecento anni dopo, come per un miracolo inesplicabile, là si ascoltano nuovamente Beethoven, Vivaldi, Bach. La Chiquitanía, regione agricola e ricca di legname del dipartimento di Santa Cruz, nel sud-est della Bolivia, è la distesa di pianure tropicali dove i gesuiti fondarono, tra il 1691 e il 1760, le Missioni o Reducciones: villaggi indigeni formati da semplici case intorno a una piazza e alla chiesa. L’idea era di convertire identità - differenza Lezioni di violoncello a Concepción, una delle Riduzioni fondate dai gesuiti e poi riscoperte alcuni anni fa. suita Martin Schmidt, musicista e architetto svizzero, fu il responsabile della maggior parte delle costruzioni, che imitavano quelle della sua patria. In ogni Missione, inoltre, creò laboratori di artigianato, scuole di musica e pittura, coro e orchestra. La musica sembrava ammaliare gli indios. Era un suono che mai avevano ascoltato nella foresta. Del resto, il primo avvicinamento non poté avvenire attraverso il linguaggio parlato, ma solo grazie alla musica. Ben presto gli indios impararono a fabbricare gli strumenti, a suonarli, a comporre partiture. Ma nel 1767 il re di Spagna, Carlo III, ordinò l’espulsione dei gesuiti dal Nuovo Mondo. Iniziò così il lento declino delle Missioni: gli strumenti furono abbandonati, molte chiese andarono in rovina. IL TESORO DI ZIPOLI Tutto cambiò, nuovamente, nel 1972, quando l’architetto svizzero Hans Roth arrivò in Bolivia con un biglietto di ritorno e un incarico: il restauro del tempio di San Rafael. La durata del suo contratto era di sei mesi. Alla fine si fermò 27 anni. Roth si dedicò a restaurare le chiese che si trovavano in cattivo stato. Durante i lavori trovò nelle sacrestie alcune casse abbandonate. Dentro c’erano migliaia di partiture originali del XVII secolo, composte nelle al cristianesimo gli indios, ma an- Missioni da sacerdoti europei o da che di proteggere il territorio dalle indigeni anonimi. La maggior parte invasioni dei coloni portoghesi in erano firmate dal gesuita italiano Domenico Zipoli, uno dei massimi cerca di schiavi. In questo luogo inaccessibile, vici- compositori del Settecento, che fu no al confine brasiliano, si svilup- anche missionario in Sudamerica. pò un’architettura religiosa unica Molte partiture erano marcite, mangiate da topi e insetti, al mondo. Missionari consumate dall’umidie indios beneficiarono In questi luoghi tà. Roth contattò mudella natura generosa inaccessibili si sicologi che iniziarono e con il legname della svilupparono un lungo processo di zona costruirono chie- un’architettura se superbe, un misto religiosa unica al pulizia e conservaziodi cultura autoctona e mondo, laboratori ne. Ripararono, fumigarono (una tecnica nel barocco europeo. Il ge- di artigianato, scuole di musica e pittura. Erano le Reducciones dei gesuiti restauro di libri), catalogarono per genere: messe, salmi, sonate. Oggi sono tutte conservate a Concepción (una delle Missioni). I pezzi recuperati hanno dato vita all’Archivio musicale di Chiquitos: 3.103 spartiti, tutti digitalizzati e protetti in una sala con antifurto, sistema antincendio e aria condizionata. La scoperta di Roth ha portato alla luce un mondo perduto. Si è rivitalizzata la musica barocca. La regione si è risvegliata. Nel 1990, sei delle antiche Missioni sono state dichiarate Patrimonio dell’umanità: San Rafael, San Javier, Concepción, San Miguel, San José e Santa Ana. L’Unesco sottolinea che le Missioni Dopo tre secoli gesuitiche deldi abbandono, nel la Bolivia non 1972 l’architetto sono rovine, svizzero Hans Roth ma villaggi iniziò a restaurare ancora vivi. le chiese delle Forse proprio Missioni. Un giorno grazie al loro scoprì migliaia di isolamento, sopartiture originali no quelle medel XVII secolo. glio conservate Fu un nuovo inizio in Sudamerica. Ancora oggi, vi si pratica la liuteria, eredità del passato missionario. I liutai lavorano in laboratori rustici e fabbricano eccellenti violini che in Europa costerebbero una fortuna. Nel 1996 è nato il Festival internazionale «Missioni di Chiquitos», il maggiore evento culturale della Bolivia. Ogni due anni, i migliori gruppi di musica barocca di tutto il mondo arrivano nella Chiquitanía. In occasione del Festival si è anche vista per la prima volta un’orchestra composta solo da bambini indigeni. Provenivano dal villaggio di Urubichá, nella provincia di Guarayos, e la loro fama si è diffusa in tutto il Paese. Come ricorda Marcelo Araúz, presidente del Festival, «la gente era commossa e tutti si chiedevano: “Da dove arrivano questi bambini?”. Abbiamo dovuto comprare loro scarpe OTTOBRE 2013 POPOLI 31 bolivia e camicie. Quando sono andati a suonare a La Paz gli abbiamo comprato vestiti per il freddo». Questo è stato solo l’inizio. Da allora, anche il villaggio più piccolo ha formato la propria orchestra. ORCHESTRE DI BAMBINI Santa Ana de Chiquitos è un luogo molto tranquillo. Di tutte le Missioni della zona, è quella che ha La regione si conservato meè risvegliata. glio l’aspetto Nel 1990, sei originale. Poco delle antiche è cambiato da Missioni sono allora. A Sanstate dichiarate ta Ana non c’è dall’Unesco polizia, c’è un Patrimonio corregidor, figudell’umanità: ra nata con le non sono rovine, Missioni, incarima villaggi vivi cata di risolvere conflitti nella comunità. Il cacicco continua a presiedere il cabildo, una forma di governo indigeno ereditato dall’epoca missionaria. Le case pavimento di terra, pareti di adobe, tetto di palma intrecciata - sono disposte in fila a partire dalla piazza centrale, un quadrilatero di erba nel quale pascolano maiali, vitelli, galline. Durante l’ora della siesta si vedono in giro più animali che persone. Sotto i toborochi - alberi enormi e dai fiori rosa - i cani cercano ombra, raramente abbaiano. 32 POPOLI OTTOBRE 2013 Ci sono anatre che attraversano in francese che vive da sette anni in fila strade troppo larghe, argillose. Bolivia. Prima ne ha passati 25 in Bambini che passano su biciclette Venezuela. Era il primo fiato solitroppo grandi per loro. Ci sono porte sta nell’orchestra del maestro José aperte, amache, zanzariere. Chi non Antonio Abreu (musicista, attivista dorme compra ghiaccio, beve latte ed educatore venezuelano, ideadi cocco, suona il violino. tore di un metodo di promozione La sera è fatta di afa e luce gial- sociale dei giovani attraverso la lognola. Dentro la chiesa un uomo musica). Gustavo Dudamel è stato grida: «Male, male, male!» e trenta suo alunno. Il metodo utilizzato in bambini tacciono come usignoli Chiquitanía si basa sul cosiddetto muti. E i violini con loro. L’uomo Sistema di orchestra del Venezuela, interrompe e - toccandosi la testa che dà priorità alla pratica rispet- dice: «Bisogna sentire, come un to alla teoria. Secondo Antoine è martello, i colpi del ritmo nella una formula che ben si adatta alla testa». L’uomo vuole un ritmo in- mentalità latinoamericana, dove la fernale. Un uccello volteggia sopra gente non ha molta pazienza. l’altare e i trenta bambini ripren- «Il problema dei conservatori dono in mano il loro strumento. spiega - è che iniziano insegnando L’orchestra infantile di Santa Ana solfeggio, armonia, storia dei comcomincia, di nuovo, la Sonata 18 positori. E il bambino si annoia dell’Archivio di Chiquitos. mortalmente. Invece, con questo Su seicento abitanti, quasi cento sistema, dal primo giorno al bambambini appartengono all’orche- bino danno in mano un violino stra. Trenta di loro stanno per an- e lui inizia a suonare. Senza sadare in Argentina per un concerto. per leggere, già inizia a suonare: Antoine Duhamel è arrivato a San- impara per imitazione. Cammin ta Ana per le ultime prove. «In cre- facendo, migliora la tecnica, finscendo, andiamo, andiamo! Contate ché gli spiegano: “Ciò che hai suobene le battute. Aiutate nato è quello che c’è il violino con il corpo. Nel 1996 nelle scritto qui”. Così l’inseQuello di Buenos Aires Missioni è nato gnamento è molto più è un pubblico colto. Vi un Festival che veloce e immediato. tireranno i pomodori se è il maggiore In Venezuela ci sono non fate bene». evento culturale orchestre con bambini Antoine, 67 anni, è un della Bolivia. di tre anni, e dovreste direttore di orchestra Ogni due anni, i sentire come suonano». migliori gruppi di musica barocca del mondo arrivano qui A sinistra la chiesa di San José de Chiquitos, a destra quella di Concepción. Al centro, alcuni bambini si esercitano al violino a San Ignacio. «La musica è come una donna COME UNA TAZZA DI CAFFÈ Dionisio ha iniziato a suonare il spiega -. Quando uno si innamovioloncello a 12 anni. Oggi ne ha ra, deve avvicinarsi piano piano, 27 ed è uno dei professori. Così in- parlarle, vedere se è consenziente segna ai suoi bambini: «Abbiamo la o meno. Se ci accetta, ce lo farà sapere. Se non è partitura. Ora bisogna dell’idea, anche. Se la interpretarla, sentirla. È Oggi ogni donna non vuole, se la come mettere lo zucche- villaggio musica non ti entra in ro nel caffè. Se pren- ha la propria testa, perché sforzarsi diamo il caffè senza orchestra. tanto? Meglio dedicarzucchero non c’è gusto, Molte sono si a qualcos’altro». non ha senso. La musi- formate da Januario suona ancora ca è uguale. Mettiamole bambini, che durante la messa, nelsempre lo zucchero». imparano a La metafora è una sua suonare secondo le veglie funebri, nelle feste patronali. Gli piainvenzione. Un’abitudi- il metodo del ce vedere che i piccoli ne che ha anche il ve- maestro Abreu imparano, che non si nezuelano Gustavo Duperderà la sua eredità. damel. Raccontano che «Prima che restaurasin un’occasione, mentre la sua orchestra provava la Sesta sero la chiesa, qui non c’era nessun sinfonia di Beethoven, uno dei pas- turista - dice, mentre lega un asino saggi veniva male. Dudamel chiese alla porta di casa -. Nessuno arriagli orchestrali che lo suonassero vava da fuori. Per me è un orgoglio «come due giovani innamorati che il fatto che si sono formate queste orchestre, perché gli anziani sono corrono nudi per il bosco». A Januario Soriocó nessuno ha morti e sono rimasto solo. E se insegnato nulla. Con i suoi 80 anni, muoio io, chi rimane?». è l’ultimo di una generazione di Al di là del paesaggio esotico, al anziani che ha imparato a suonare di là del fatto insolito di ascoltare, il violino a orecchio. Suonavano attraverso questi bambini, i maga memoria, senza saper leggere. giori compositori in un luogo così Januario ha avuto il suo primo vio- remoto, il valore è radicato in ciò lino in cambio di un paio di panta- che tutto questo ha significato per loni e una camicia. Lo portava con loro. Non si tratta solo di una rivosé quando andava a lavorare nel luzione culturale, ma soprattutto sociale. suo campo. E lì si esercitava. Il progetto ha attenuato di molto la povertà nella regione. Offre l’opportunità di un futuro in un luogo in cui le possibilità sono poche. Infatti, che cosa poteva aspettarsi un bambino in questi paesi? Figli di contadini poveri, fin da piccoli erano soliti aiutare nei lavori agricoli. Non si parlava di scuola secondaria. Arrivati a 15-16 anni, di solito mettevano incinta una ragazza e se ne andavano al campo del padre, a vivere di un’agricoltura di sussistenza. Questo era tutto. «La musica li salva dall’alcol, dalla droga - spiega Agapito Rocha, sin- OTTOBRE 2013 POPOLI 33 bolivia daco di Santa Ana -. Richiede molta pratica, molta disciplina. È necessario il talento, ma anche l’impegno. Perché costa fatica stare tre ore a suonare e ti vien fuori il livido qui», dice indicandosi il mento. La musica si è trasformata in un’opportunità di lavoro, in un’occasione di crescita sociale. Permette ai ragazzi di studiare e diventare, per esempio, insegnanti per le generazioni successive. La formazione è gratuita. Gli strumenti sono costosi, ma i ragazzi ricevono l’appoggio delle istituzioni europee, che mandano loro strumenti di seconda mano. La realtà di ogni orchestra, poi, varia a seconda del sindaco di turno. In alcuni casi, i giovani ricevono aiuti alimentari: razioni di farina, riso, zucchero e olio che portano alla famiglia. A volte arrivano donazioni dall’estero, persone che hanno avuto modo di ascoltarli e desiderano collaborare alla manutenzione degli strumenti o 34 POPOLI OTTOBRE 2013 all’abbigliamento. Nei casi migliori, ottengono borse di studio a livello universitario o stage all’estero, il più delle volte in Europa. Jimmy ha otto anni e in piedi non è più alto del suo strumento: suona un violoncello più grande di lui. Quando ha iniziato, due anni fa, i piedi gli pendevano dalla sedia. È il figlio del sindaco. «Prende la cosa molto sul serio - spiega il padre -. Per un bambino dalle umili origini è un passo importante, perché se uno va da Santa Ana alla città senza nessuna base, senza essere musicista, nella città non è niente, solo manodopera. Invece, chi conosce la musica è qualcuno che almeno può entrare in un istituto di arte, può crescere». La musica apre orizzonti impensabili. È passato un mese da quando Wilson, insegnante di flauto, 28 anni, è stato a suonare in Germania. Lì, per la prima volta, ha visto la neve. bosnia-erzegovina Il ponte vecchio di Mostar, distrutto durante la guerra e riaperto nel 2004. Ancora poca acqua sotto il ponte Testo e foto: Elisabetta Gatto SARAJEVO E Il 9 novembre di vent’anni fa, a Mostar crollava sotto 60 colpi di mortaio il simbolo di una storia fatta di incroci, scambi e contaminazioni. Dopo la guerra il ponte è stato ricostruito, ma il Paese balcanico è ancora in cerca di una vera riconciliazione mir respira a fondo, si bagna i capelli e sparge un po’ di acqua sulla muta. Il suo amico Hedin passa con un cappello a raccogliere qualche spicciolo dai to «luna pietrificata» per il colore passanti e dai turisti che si sono chiaro della pietra locale, la teneliradunati sul ponte attorno a lui. È ja, che riflette le luci del tramonto e un «Icaro di Mostar», come vengono di notte quelle dei lampioni. soprannominati i giovani impavidi Il ponte fu voluto da Solimano il che si tuffano nelle acque gelide Magnifico nel 1557 e realizzato della Neretva, badando bene di in circa dieci anni dall’architetto piegare indietro le gambe per ral- Sinan. È rimasto in piedi fino alla lentare la velocità e di distenderle mattina del 9 novembre 1993, quannuovamente prima dell’impatto con do venne distrutto dall’artiglieria l’acqua. Di lì a qualche minuto croato-bosniaca nel corso della guerra che ha insanguitoccherà a lui. Un salto nato il Paese tra il 1992 di 23 metri, ma soprat- Lo Stari Most, e il 1996. Ci vollero più tutto un modo nuovo maestoso arco di 60 colpi di mortaio di vivere quel ponte, lo di pietra che per farlo crollare. Stari Most, un maesto- insiste su due Un portavoce delle forso arco di pietra che si torri medievali, ze croate affermò che il appoggia su due torri fu voluto da ponte era stato distrutmedievali, ribattezza- Solimano il Magnifico nel 1557. È stato ricostruito nel 2004 to perché di importanza strategica. Il valore strategico, in realtà, era di poco conto. Si è trattato di un atto per «uccidere la memoria», come lo definisce lo storico statunitense Andras Riedlmayer: la distruzione deliberata di un patrimonio culturale comune e la cancellazione di secoli di convivenza pacifica. SIMBOLI NEL MIRINO Mostar significa proprio «custode del ponte». La città, dunque, non poteva rimanerne senza. E così, terminata la guerra, sono iniziati i progetti per la ricostruzione: oltre mille pietre sono state lavorate secondo le tecniche medievali e il 22 luglio 2004 lo Stari Most è stato riaperto, OTTOBRE 2013 POPOLI 35 bosnia-erzegovina brindando alla riconciliazione fra le comunità cristiane e musulmane dopo gli orrori del conflitto. Rancore e diffidenza, però, restano evidenti. Il ponte unisce (o divide?) la zona musulmana, attraversata dalla vivace Kujundžiluk, la «via d’oro» affollata di negozi di artigianato, da quella croata a maggioranza cattolica. Tuttavia Nedim, un interprete, non è d’accordo: «Si insiste a chiamare “zona ottomana” quella che da altre parti si chiama semplicemente “centro storico”. È fuorviante, è una forma di propaganda». Certo è che a Mostar, e non solo, le relazioni tra le comunità sono ridotte al minimo, quando non sfociano addirittura in tensioni. E quel colpo al cuore della città ha lasciato il segno. Infatti quando, durante la guerra, i contendenti hanno capito che non sarebbero riusciti a riportare una vittoria in breve tempo, hanno deciso di minare i luoghi simbolo della cultura: a Mostar il Entrando ponte vecchio, a a Sarajevo Sarajevo, tra gli dalla Serbia si altri, la Bibliopercorrono, lungo teca nazionale, un asse spaziale colpita dale cronologico, i periodi ottomano, le granate dei serbo-bosniaci asburgico e nel 1992 (solo socialista. Che un decimo dei cosa si è rotto in libri conservati quell’equilibrio? fu salvato dalle fiamme), e la sede del quotidiano Oslobodenje (Liberazione). Quando il giornale fu fondato, durante la seconda guerra mondiale, la liberazione era quella partigiana dall’occupazione tedesca della Jugoslavia. Mai nome fu più profetico: durante l’assedio della città, lo staff, formato da una settantina di giornalisti bosniaci, serbi e croati, ha continuato a documentare la guerra da una redazione sotterranea, allestita in un rifugio anti-bombardamento, ed è riuscita a pubblicare un’edizione quotidiana, saltando solo un giorno. 36 POPOLI OTTOBRE 2013 L’assedio di Sarajevo, durato quasi quattro anni (dal 5 aprile 1992 al 29 febbraio 1996), è stato il più lungo della storia moderna. Serbi e bosniaci ancora oggi non si mettono d’accordo sulla scintilla che gli diede l’avvio: per i primi l’uccisione di un serbo, Nikola Gardović, durante il corteo nuziale del figlio; per i bosniaci quella di due donne, Suada Dilberović, studentessa bosniaca, e Olga Sučić, funzionaria parlamentare croata, nel corso di una grande manifestazione per la pace. Il ponte Vrbanj, sul quale vennero colpite a morte da un cecchino, oggi porta il loro nome. A quelle morti ne seguirono moltissime altre: le vittime tra i civili in città furono oltre 11mila, di cui 1.600 bambini. La via Zmaja od Bosne, che dalla città conduce all’aeroporto, fu tristemente ribattezzata «viale dei cecchini», perché dall’alto si sparava sulla gente. «Era diventato pericoloso anche fare le cose più semplici e quotidiane, come attraversare una strada o fare il bucato nel fiume», racconta Vedran Jusufbegović, fisioterapista, che aveva vent’anni quando la guerra è cominciata. «Hanno sparato persino durante il funerale di mia nonna. Al cimitero sono accorsi parenti in abiti musulmani. Li hanno presi di mira. A nulla è valsa la presenza di un sacerdote, né la sacralità del luogo e della cerimonia». Nessuno immaginava che la popolazione avrebbe resistito così a lungo a difesa della città. Senza divisa, con armi improvvisate, almeno all’inizio. Se è successo è stato anche grazie al «tunnel della salvezza», un corridoio di 800 metri scavato in quattro mesi e quattro giorni, per la maggior parte sotto l’aeroporto perché sotto il controllo dell’Onu. Era la principale via di rifornimento e di fuga verso la zona del monte Igman, non ancora caduta in mano all’esercito serbo. Ma anche il canale attraverso il quale passava la voglia di evasione, racchiusa in un pacchetto di sigarette o in una videocassetta. E non si può capire quanto siano preziose queste cose quando attorno c’è solo orrore. UNA METAFORA CHE CI PARLA Sarajevo è da sempre un crocevia di popoli e di commerci, uno snodo importante di traffici tra Oriente e Occidente, una culla di civiltà. Terra di ospitalità fin dai tempi delle rotte carovaniere, quando nei caravanserragli i viandanti potevano soggiornare per tre giorni e tre notti gratuitamente. Emblema di tolleranza religiosa, tanto da conquistarsi il nome di «Gerusalemme d’Europa» (coniato da Giovanni Paolo II), perché nello spazio di un centinaio di metri sorgono la moschea, la sinagoga, la cattedrale cattolica e la chiesa ortodossa. «Durante l’assedio si ascoltava musica serba - rivela Vedran senza esitazione -. Perché no? Erano canzoni d’amore». A livello urbanistico si possono «leggere» le diverse epoche storiche negli edifici cittadini, perché chi è venuto dopo ha rispettato le architetture preesistenti e si è posto in una logica di continuità: entrando a Sarajevo dalla Serbia si percorrono, lungo un asse spaziale che Nelle foto: memorie e ferite ancora visibili di un conflitto terminato quasi vent’anni fa. è al tempo stesso cronologico, il diverse varianti linguistiche diffuperiodo ottomano, quello asburgico se nella regione. «A più di vent’anni e quello socialista. di distanza - ammette Vedran -, i E allora cosa si è rotto in quell’e- rapporti tra serbi e bosniaci sono quilibrio? Mauro Montalbetti, pre- dettati da ragioni di convenienza sidente di Ipsia, Ong promossa dalle economica o sono di natura cultuAcli, incontrato in occasione della rale. C’è una tolleranza che si può presentazione del libro di Stefano definire umana, ma lontana da una Tallia, Una volta era un Paese. sincera collaborazione». La ex-Jugoslavia vista dalle scuole Per fortuna, i tentativi di superare le (Scribacchini Editore), suggerisce di barriere non mancano. Non occorre guardare ai Balcani come alla me- fissare lo sguardo sempre e solo sultafora della nostra storia contem- le macerie. C’è una generazione che poranea: dal riemergere dei nazio- non ha vissuto la guerra eppure ne nalismi all’esaltazione del sangue sente il peso: «Non vogliamo essere e delle piccole patrie, ricordati solo per dieci all’incapacità di trova- C’è una anni di follia, abbiamo re una risposta diversa generazione che una storia millenaria», dalla guerra alla sfida non ha vissuto afferma Maya, una studella coesistenza di più la guerra, eppure dentessa bosniaca. etnie e religioni sullo ne sente il peso: E allora si cercano stesso territorio. strade per trovare un «Non vogliamo «I Balcani - spiega essere ricordati cammino comune e coMontalbetti - diventa- solo per dieci struire relazioni nuove. no quasi il paradigma anni di follia, Ad esempio, attraverso di ciò che può accadere abbiamo una il cibo. Con un progetovunque e in qualsiasi storia millenaria» to di promozione dello momento, a testimosviluppo locale ecosonianza che ogni comustenibile nelle valli dei nità può disgregarsi. La fiumi Drina, Neretva e crisi economica e politica che li ha Sava, Oxfam Italia tutela le produinvestiti all’inizio degli anni No- zioni tipiche della Bosnia-Erzegovivanta si è trasformata in qualcosa na: miele, formaggio e vino. Lavora di impensabile e di imprevedibile, la con i produttori locali e appoggia le convivenza plurale e il multicultu- piccole e medie imprese per favorire ralismo sono diventati all’improv- il dialogo tra le comunità e rafviso impraticabili, il frutto della forzare il processo di ricostruzione modernità si è tradotto in un’onda nella regione e in tutto il Paese. È di violenza collettiva senza prece- un’idea per mettere insieme persone denti». che si sono fatte la guerra. Marko, Si è consumata una tragedia di cui un contadino serbo-bosniaco, venresta traccia non solo nei palazzi de il formaggio nel sacco, uno dei sventrati, nei cimiteri gremiti di vit- prodotti più originali della cucina time della guerra, nelle «rose di Sa- della Bosnia-Erzegovina, a cattolici rajevo», cicatrici simboliche di resina e musulmani. Non è solo buono da rossa nei punti in cui sono esplose le mangiare, è strategico per riattivare granate, e nelle targhe commemo- la comunicazione nel Paese. rative al mercato di Markale, teatro Anche lo sport è un mezzo di ridi due terribili massacri. Ma anche conciliazione, in accordo con lo nella quotidianità fatta di divisioni. spirito olimpico che rese celebre Esistono ancora oggi scuole sepa- Sarajevo nell’inverno del 1984. rate per etnia, programmi di studio Infatti sono diversi gli atleti serbi differenziati, insegnamenti nelle o serbo-bosniaci, in particolare calciatori, che giocano in squadre bosniache della massima serie, come Sarajevo o Zeljo. Nelle scuole si tentano esperimenti di interscambio culturale: studenti musulmani e cattolici frequentano classi rigorosamente separate, ma nel cortile comune possono incontrarsi e giocare insieme. Forse non ha senso cercare un senso per ciò che è stato. E ha ragione Stefano Tallia quando, rivisitando Ivo Andrić, scrive: «I Balcani, e non solo la Bosnia, iniziano dove finisce la logica». LA RIVOLUZIONE DEI BEBÈ U n simbolo delle fratture bosniache è la vicenda chiamata «Bebolucija» (un neologismo traducibile come «rivoluzione dei bebè»). All’inizio di giugno genitori con i figli piccoli hanno protestato per giorni davanti al Parlamento di Sarajevo, chiedendo di approvare una legge che istituisca un sistema numerico, unico per tutto il Paese, di identificazione dei cittadini (una sorta di codice fiscale). Dal 12 febbraio non è più in vigore il sistema precedente e il mancato accordo tra i partiti impedisce ai neonati di avere i documenti e uscire dal Paese. Questo vuoto normativo ha un effetto concreto sulle persone: Belmina, una bambina di pochi mesi che doveva recarsi in Germania per cure mediche urgenti, non è potuta partire. La protesta è diventata il massimo movimento civile del dopoguerra bosniaco contro la politica ingessata dalle divisioni etniche e nazionaliste. Solo il 18 luglio il Parlamento ha approvato la nuova legge, ma mantenendo un sistema che distingue le varie appartenenze etniche. OTTOBRE 2013 POPOLI 37 f.p. etiopia Adriano Marzi ADDIS ABEBA Q uando incrociamo il sorriso invitante di Wendemu e Asgede, il sole è già alto e bollente. Fradici di sudore e con le gambe dure, da ore stiamo affrontando l’aspra discesa che porta alla remota valle in cui si nasconde il villaggio di Gunda Gunde, nel Tigrai etiope. I due giovani sono agronomi dell’Università di Macallè, inviati per l’ennesima volta tra queste gole spigolose con il compito di raccogliere campioni di suolo, acqua e piante che poi dovranno esaminare in laboratorio. Da scienziati cercano di venire a capo di un mistero: la straordinaria qualità delle arance prodotte in questo angolo remoto del Nord-Est, a pochi chilometri dal confine con l’Eritrea (cfr box). Una zona ribattezzata «piccolo Tibet» dallo stu38 POPOLI OTTOBRE 2013 Estifanos il Lutero del Tigrai Il villaggio di Gunda Gunde ospitò i seguaci di un monaco che invocava una riforma della Chiesa copta. Secoli dopo, la memoria di quel movimento è custodita in un monastero. Ma la comunità è diventata famosa anche per le arance che coltiva e che possiedono proprietà uniche dioso Paul Henze, in omaggio alla che ci separano dalla meta finale bellezza e al mistero di queste mon- possono essere percorsi soltanto a tagne fiabesche, baluardo dell’alto- piedi. Un cammino che una persopiano etiope che poco più a oriente na ben allenata può affrontare in precipita nella grande depressione cinque ore, ma che può rivelarsi indella Dancalia. terminabile per chi non La spedizione cui ab- Settant’anni ha dimestichezza con biamo la fortuna di prima che il la montagna. Quando unirci è partita da Ge- protestantesimo finalmente raggiungiablen, ultimo villaggio vedesse la luce mo i 300 abitanti di della regione raggiun- in Europa, il Gunda Gunde, il sole è gibile in macchina. I monaco etiope già tramontato. Ad at1200 metri di dislivello Estifanos tenderci troviamo una diede vita a un movimento di riforma radicale del cristianesimo Abba Lemlem di fronte al piccolo monastero degli stefaniti. generosità sconfinata. Un pentolone ripieno d’acqua, spezie e farina di ceci (ingredienti base del tradizionale shiro) viene messo subito a bollire su un fuoco di legna, mentre un ragazzo sistema alcune stuoie lungo la veranda di casa. La volta delle stelle è talmente bella da rendere sopportabile anche la dura pietra su cui abbandoniamo il corpo esausto. LA «RIFORMA» COPTA Per convincere l’amico Paolo ad affrontare questa missione in un luogo così remoto non è bastata la promessa di una spremuta eccezionale. Siamo qui per visitare un antico monastero che nel XV secolo fece da culla al movimento religioso degli stefaniti e che ancora oggi custodisce preziose antichità. Estifanos, fondatore del movimento, trascorse la giovinezza tra queste montagne lavorando come pastore. A 19 anni venne ordinato diacono ma, deluso dal malcostume diffuso tra gli altri monaci ortodossi, decise di fondare un proprio ordine religioso. Così, settant’anni prima che il protestantesimo vedesse la luce in Europa, diede vita a un movimento di riforma radicale del cristianesimo. Estifanos e i suoi seguaci predicavano una vita di austerità e condivisione, in completa indipendenza dal mondo esteriore. Praticavano anche grande tolleranza non solo nei confronti dei cristiani ortodossi, ma anche dei musulmani. Proprio come i riformati europei, non vedevano con favore la venerazione esasperata per la Madonna. La sua interpretazione delle Sacre scritture costò a Estifanos la persecuzione. Ma neppure la prigione e le torture lo convinsero a inginocchiarsi di fronte all’imperatore etiope perché diceva: «La prostrazione è un gesto dovuto soltanto a Dio». Il monaco morì in una prigione nel 1447. Il AGRICOLTURA Le arance studiate all’università A ll’Università di Macallè, città principale della regione del Tigrai etiope, gli esperimenti per trapiantare le straordinarie arance di Gunda Gunde continuano a rivelarsi un fallimento. «Sono anni che lavoriamo per estendere la produzione di questa qualità - racconta Asgede, uno dei ricercatori che cura il progetto - ma in nessun altra zona d’Etiopia le arance crescono così grandi, dolci e succose. Continuiamo a studiare il fenomeno, ma ancora non siamo venuti a capo di questo mistero». Come tutti gli altri prodotti di Gunda Gunde (banane, papaie, pomodori) destinati al mercato di Adigrat (la città più vicina), le arance devono risalire la valle a dorso d’asino fino a Geblen. Da lì proseguono su piccoli camioncini stracarichi, che avanzano traballanti tra le buche e la polvere delle strade sterrate locali. Il succo di queste arance è il frutto di un sistema di coltivazione unico in un ambiente estremo: il terreno arabile viene conservato con cura ed è strappato alle aspre montagne circostanti; l’acqua è razionata grazie a un sistema di canalizzazione basato su piccole cascate; i campi per le coltivazioni sono tutti terrazzati grazie a muretti a secco e recintati con barriere di cactus che li proteggono dal pascolo. I contadini sono costretti a razionare il cibo con cura perché sia sufficiente anche nelle ultime settimane prima del nuovo raccolto e, per poter raggiungere scuole e ospedali pubblici, devono affrontare ore di cammino. La loro è una vita fatta di tanto sacrificio, non troppo dissimile a quella dei santi stefaniti così come è raccontata nei manoscritti custoditi nel monastero di Gunda Gunde. suo corpo venne poi bruciato in pubblico. I monasteri degli stefaniti vennero prima distrutti e poi incendiati dal clero ortodosso, mentre i discepoli che rimasero fedeli agli insegnamenti di Estifanos vennero incarcerati e uccisi. La persecuzione del L’interpretazione movimento conche Estifanos tinuò per tutto il diede delle Sacre XVI secolo, fino scritture gli costò a quando il mola persecuzione. vimento venne Ma neppure riassorbito nella la prigione Chiesa ortodose le torture sa. Le idee di lo convinsero Estifanos però a rinnegare non scomparvele sue idee ro e ancora oggi gli stefaniti hanno un posto di rilievo nella storia religiosa etiope. Gunda Gunde è diventato così un luogo mitico, custode della memoria del movimento. All’interno del monastero sono conservati 219 manoscritti (Vangeli, storie bibliche e vite dei santi stefaniti) oltre a ricche miniature e dipinti, che risalgono a prima del XVI secolo. Li ha fotografati Ewa Balicka dell’Università di Uppsala (Svezia), inviata qui dieci anni fa dall’Hill Museum and Manuscript Library. Antonio Mordini, nella sua spedizione del 1953, aveva contato 800 documenti. IL SEGRETO DEL MONASTERO A differenza delle altre basiliche del Tigrai, scavate nella roccia sui picchi delle montagne, la chiesa di Maryam Gunda Gunde si trova in fondo a una serie di gole. Per raggiungerla occorre seguire fino al termine della sua corsa il letto in secca del torrente che durante la stagione delle piogge alimenta le arance e le altre coltivazioni locali. Prima d’incamminarsi è però necessario il nullaosta degli abitanti del villaggio. A sorpresa, le stesse persone che ci hanno sfamato e ospiOTTOBRE 2013 POPOLI 39 etiopia A sinistra, la strada sterrata che porta a Gunda Gunde. In basso, la piccola comunità di religiosi del villaggio. dopo averci interrogato ci danno Di colpo abba Lemlem c’invita ad alzarci: un capretto è stato sacril’assenso alla visita. L’emozione e la stanchezza, unite al ficato per festeggiare il suo ritorno delizioso tej (un liquore di miele ti- (o il nostro arrivo?) e il resto della comunità dei monaci ci pico dell’altopiano etioattende per dare inizio pe) che ci viene servito Estifanos morì al pasto. La testa dell’asenza pausa in piccole in prigione nimale è conficcata per otri di vetro non ap- nel 1447. pena raggiungiamo il I monasteri degli le corna tra le pietre monastero, ci spingono stefaniti vennero di una parete. Dal collo esce sangue fresco. in una sorta di trance incendiati Il tej, come il sangue mistica. Non possiamo dal clero del capretto, continua a far altro che rimanere e i discepoli scorrere. Il monaco che sospesi di fronte allo furono taglia la carne bollita scorrere degli eventi. incarcerati non smette di offrirci Alcuni monaci ci fanno e uccisi i bocconi migliori. Con accomodare all’ombra lo sguardo cerchiamo di una tettoia di legni gli occhi di abba Lemintrecciati. Ad accompagnare il tej, ci porgono una cesta lem, come fossero l’unica bussola di paglia piena di besso, un impasto rimasta a disposizione. Lui però ci di farina d’orzo e spezie. Seduto guarda solo quando non lo facciaal nostro fianco c’è un vecchio mo noi. monaco sdentato, che non smette Prima di addormentarci abbiamo di ridere davanti ai miei tentativi un ultimo pensiero, quasi un pecmaldestri di mangiare il besso con cato di presunzione: il segreto delle le mani. Paolo intanto studia i gesti arance di Gunda Gunde forse è in di un altro monaco, che sta tostan- questa miscela unica fatta di una do parte del caffè portato con noi religiosità antica, ospitalità, isolamento e natura incontaminata. come omaggio ai monaci. tato il giorno precedente, ora non sembrano disposte ad accordarci il permesso di proseguire. Mentre siamo delusi dall’idea di avere fatto tanta strada senza poter Gunda Gunde nemmeno veè diventato così dere il profilo un luogo custode della basilica, della memoria s’avvicina un del movimento. uomo avvolto All’interno in un manteldel monastero lo. Tra il cosono conservati pricapo piatto manoscritti, e la fitta barba miniature e dipinti bianca spuntadel XVI secolo no due occhi brillanti e affilati: sono quelli di abba Lemlem, leader della congregazione che oggi vive nel monastero di Gunda Gunde. Occhi che 40 POPOLI OTTOBRE 2013 la foto L’islam celebra Abramo Il 15 ottobre il mondo musulmano celebra Id al-Adha, la festa del sacrificio, la seconda più importante ricorrenza islamica. Per l’occasione, i fedeli sgozzano, secondo il rituale della macellazione islamica, un animale (ovino, caprino, bovino o camelide) in ricordo del sacrificio ordinato da Dio ad Abramo per provare la sua fede. La carne viene divisa in tre parti: una rimane in famiglia, una viene data ai parenti e una viene donata ai poveri. Ogni anno, in occasione di Id al-Adha vengono uccisi circa 100 milioni di animali. Nonostante il sacrificio degli animali, è però una festa gioiosa (viene anche chiamata la «festa grande»). Per questo motivo una norma islamica vieta, nei giorni delle celebrazioni, qualsiasi tipo di ascesi o di digiuno (nella foto Ap, un montone in attesa di essere sacrificato a Srinagar, India). OTTOBRE 2013 POPOLI 41 inchiesta Missione formato famiglia Stefano Femminis N é eroi, né santi. Navigatori questo sì, chiamati come sono a esplorare mondi a loro sconosciuti, anche se non con le incognite e i rischi di qualche secolo fa. Sono i coniugi che, seguendo gli itinerari più svariati, decidono di seguire alla lettera l’appello evangelico: «Andate in tutto il mondo e annunciate il Vangelo» Le famiglie missionarie - solitamente nei primi anni di matrimonio e quasi sempre appoggiandosi alla diocesi italiana di appartenenza - preferiscono il basso profilo, ricordano quanto peraltro ripetono tutti i pontefici e i documenti della Chiesa, dal Concilio in avanti, ov42 POPOLI OTTOBRE 2013 A partire come missionari nelle Chiese del Sud del mondo non sono solo sacerdoti e suore, ma anche famiglie, perlopiù inviate dalle diocesi di appartenenza. Ne abbiamo incontrate alcune per capire che cosa c’è all’origine della loro scelta e che cosa succede quando è ora di tornare vero che la missione non è un compito solo per preti o suore e che ogni battezzato può e deve essere missionario, non importa se non sposta mai il proprio domicilio. Eppure la loro scelta incuriosisce e interroga: se non altro perché in tempi di crisi economica galoppante non è una scelta da poco quella di lasciare un lavoro sicuro. Così come non deve essere una passeggiata adattarsi a una cultura spesso totalmente «altra» e chiedere ai propri figli di fare lo stesso. E altrettanto coraggio, probabilmente, è richiesto nel momento del ritorno, normalmente dopo 3-4 anni, quando occhi e cuore si stavano affezionando a nuovi orizzonti. Allora abbiamo provato a conoscere meglio alcune di queste famiglie, concentrando l’attenzione su «categorie» che vivono momenti particolarmente delicati: chi sta per partire o è partito da poco, e chi da poco è rientrato in Italia. dialogo e annuncio Desideri, paure e progetti che si METTERE SU CASA IN PAPUA La prima storia è quella di Diana ritrovano - seppure forgiati dai e Tommaso, che al momento del primi mesi di esperienza - nelle colloquio con Popoli, a fine agosto, parole di altre due coppie che erano alle prese con i preparativi abbiamo interpellato, in Perù e in del matrimonio «Ci sposeremo il Mozambico. 13 settembre - spiega Tommaso - e Nel primo caso, in realtà, siamo di ci concederemo una breve luna di fronte a missionari «di lungo cormiele più qualche mese di vita in- so»: Emanuele e Silvia Crestani sosieme a Milano. Poi partiremo per no stati in Guinea Bissau dal 2006 la Papua Nuova Guinea, sull’isola al 2009. Dopo qualche anno in di Goodenough. Nella missione di Italia, lo scorso 28 giugno la parWatuluma esistono una scuola che tenza per Barranca, 200 chilometri accoglie ragazzi dalle elementari a nord di Lima, dove insieme alle alle superiori, un ospedale e una 4 figlie hanno raggiunto don Alchiesa. Ci occuperemo della ma- berto Bruzzolo, sacerdote fidei donutenzione e dell’amministrazione num della diocesi di Milano. «Per della scuola: Diana dal punto di ora - raccontano - stiamo dando vista educativo-psicologico, io da continuità a progetti già in corso, che prevedono l’accompagnamento quello tecnico-strutturale». Diana e Tommaso sono volontari di ragazzi della parrocchia con dell’Associazione laici Pime (Alp), attività educative e di doposcuola. che ogni anno invia in missione Sosteniamo poi attività di pro- per un’esperienza di qualche mozione femminile attraverso un anno - alcuni laici: nel 2013 laboratorio di taglio e cucito». hanno ricevuto il «mandato» sette Inevitabile chiedere che cosa li ha persone, compresi i due neosposi. convinti a partire una seconda vol«La nostra scelta è maturata pro- ta: «Ciò che ci aveva spinti allora gressivamente - spiega Tommaso era stato il desiderio di condividere -: io ero stato in Bangladesh con il la nostra vita di famiglia cristiana Pime, Diana in Brasile con la sua in queste terre, inviati dalla nostra parrocchia, e poi pellegrinaggi Chiesa di origine a un’altra Chiesa. parrocchiali, Gmg, tanti incontri Volevamo incontrare una realtà che con testimoni significativi». Già, per alcuni tratti ci appariva ingiuviene da ribattere, ma un conto sta, quasi senza futuro, ma nello sono le esperienze estive, da sin- stesso tempo tanto attraente, per la gle o fidanzati, un conto «metter sua semplicità ed essenzialità. C’era su casa» in Papua; non c’è un come un senso di corresponsabilità po’ di timore? «Quando abbiamo nei confronti di queste persone e deciso di sposarci abbiamo anche un’insoddisfazione per il modello di sentito il desiderio di fondare la vita proposto dall’Occidente. Dopo nostra famiglia su un’esperienza il rientro in Italia il desiderio della capace di guidarci per tutta la missione è sempre rimasto vivo in vita. Una vita di sobrietà e di noi e con l’arrivo di due gemelline, condivisione, per conoscere Dio Martina e Camilla, si è rafforzato il desiderio di poter ofsempre più a fondo. frire a tutta la nostra Certo, qualche paura Diana e famiglia alcuni anni di c’è, ad esempio che le Tommaso, sposi crescita in una nuova nostre reazioni emo- il 13 settembre, esperienza». tive di fronte alle no- sono in partenza Ma la presenza, le atvità ci impediscano di per la Papua: tenzioni di cui i figli vivere a pieno questa «Vogliamo occasione». fondare la nostra hanno bisogno, non famiglia su un’esperienza che ci guidi per tutta la vita» rischiano di limitare l’esperienza? «In realtà - proseguono i Crestani - avere dei figli per noi rappresenta un’occasione importante per poter avvicinare realtà dove magari per i consacrati sarebbe più difficile entrare». ESSERE FAMIGLIA, UN LASCIAPASSARE Concetto condiviso da tutte le coppie interpellate, ad esempio Giulia e Fabio Cento, in Mozambico dall’agosto 2012: «Come famiglia - spiegano ci è più facile «Avere dei figli entrare nella spiegano Silvia vita della gened Emanuele te, condivide- rappresenta re con loro le un’occasione preoccupazioimportante per ni e le gioie poter avvicinare dell’essere farealtà dove magari miglia. I tempi per i consacrati delle famiglie sarebbe più difficile sono inevitaentrare» bilmente diversi da quelli dei consacrati. Ma è proprio in questa diversità che la condivisione riesce meglio. È da qui che nasce l’idea di una équipe missionaria, nel nostro caso composta da un’altra famiglia italiana, Luca e Giulia Cresti e i loro tre figli, e da un sacerdote spagnolo, padre Pepe». All’équipe è stata affidata la cura pastorale della parrocchia a Taninga, una comunità rurale al confine tra la provincia di Maputo e quella di Gaza, compito per cui Giulia e Fabio si sono preparati grazie alle esperienze con Mgm (Movimento giovanile missionario, attualmente Missio giovani) e con il sostegno fondamentale del Centro fraternità missionarie (Cfm) di Piombino. «Padre Carlo Uccelli, saveriano, ed Emma Gremmo, laica per tanti anni missionaria in Congo sono per noi come due genitori spirituali: nel 1985 hanno dato vita a questa realtà che aiuta nella formazione e nel sostegno spirituale ed ecoOTTOBRE 2013 POPOLI 43 inchiesta nomico di persone intenzionate a partire per la missione. Anche se poi l’invio viene fatto dalla propria diocesi. Una cosa su cui il Cfm insiste molto è il mantenere uno stretto contatto con la gente del posto. Cerchiamo di vivere in sobrietà, anche se, nonostante gli sforzi, siamo consapevoli che resteremo sempre dei privilegiati. In quest’ottica, poi, ci pesa un «Cerchiamo po’ essere condi vivere in siderati dalle sobrietà, benché persone di qui consapevoli come “portatoche restiamo ri di verità”. C’è dei privilegiati. un rispetto nei Inoltre ci pesa nostri confronti un po’ essere molto forte che considerati li porta a cre“portatori dere e accettadi verità”» re anche quello che non vorrebbero, quindi è difficile per noi capire cosa pensano realmente, solo il tempo li aiuterà a capire che anche i missionari sono semplici cristiani che hanno deciso di condividere una parte della loro vita». Per Fabio e Giulia, così come per le altre coppie intervistate, il contatto con la realtà rimane vivo anche a distanza: «Don Gianni Cesena, già direttore della Fondazione Missio, amava ripetere spesso che “la missione è andata e ritorno”. Crediamo 44 POPOLI OTTOBRE 2013 che la Chiesa mozambicana abbia molto da “raccontare” a quella italiana e proprio in virtù di questo scambio e del fatto che il ritorno non è solo quello fisico e materiale, il legame con la nostra comunità italiana è forte». UNA RICCHEZZA IN VALIGIA Il ritorno, appunto. Un momento delicato, tanto più per chi è stato lontano dall’Italia per parecchi anni. È il caso di Chiara e Giovanni Balestreri: «Come fidei donum inviati dalla diocesi di Milano siamo stati cinque anni in Perù, nella diocesi di Huacho. In precedenza eravamo stati in Sri Lanka con l’associazione Papa Giovanni XXIII. Da fidanzati invece tre mesi in Bolivia. Praticamente sono quasi nove anni che stiamo vivendo una condizione di “pellegrini”. Siamo rientrati in Italia nel gennaio 2013 con la famiglia, che nel frattempo ha visto la nascita di tre bambine. L’Ufficio missionario ha accolto il nostro desiderio di metterci ancora a servizio della diocesi. Nel concreto si è realizzato un nostro inserimento in una parrocchia che rimaneva senza parroco residente: un progetto pilota ancora da definire, ma molto interessante. Quindi il nostro rientro è un po’ anomalo sia per quanto riguarda il lavoro sia per quanto ri- guarda la vita quotidiana. L’aver accettato poi la proposta di abitare in una casa parrocchiale ci aiuta a continuare a vivere con una certa precarietà evangelica che favorisce questa nostra ricerca». Chiediamo a Chiara e Giovanni quale Chiesa hanno trovato al loro rientro in patria, e sembrano avere già le idee chiare: «Forse si ragiona ancora troppo per gruppi e per interessi quando invece il Vangelo comprende tutto. Ad esempio si parla di chiese “etniche” e nelle parrocchie sono ancora pochi i catechisti stranieri, persone che invece potrebbero portare delle ricchezze. Abbiamo però riscontrato che le parrocchie rimangono presenze vive in una società secolarizzata: la vivacità dei gruppi religiosi, dei gruppi missionari e di volontariato è qualcosa che all’estero non è così facile da trovare». La fatica del rientro traspare più forte nelle parole di Lucia ed Emiliano Composta, tornati da poco più di un anno dopo un triennio in Mozambico come fidei donum della diocesi di Verona: «Il rientro è duro, da tanti punti di vista. Prima di tutto, si vive una forte nostalgia per il mondo e le amicizie lasciate. C’è bisogno di ritrovare il proprio equilibrio psico- In apertura e in queste pagine, immagini tratte dagli album delle famiglie Composta (Mozambico), Carrà (Brasile, non intervistati nel servizio), Balestreri (Perú) e Cento (Mozambico). seconda parte del nostro mandato di fidei donum, quella della “restituzione del dono”. La realtà ecclesiale che ci ha preparati e inviati, con un percorso straordinario, ci fisico: l’adattamento è stato difficile ha bene accolti a livello umano, là, il riadattamento non è da meno. ma non è ancora pronta e organizE poi inizia il lavoro di mettere in zata ad accompagnare il rientro, relazione dentro di sé due mondi specialmente dei laici, e fatica a che sembrano così diversi e lontani, trovare canali per rimettere in cirma ugualmente amati e vissuti, che colo la ricchezza straordinaria che devono poter coesistere nella mente un’esperienza missionaria come la e nel cuore per non creare fratture, nostra ci ha regalato. Avendo conosciuto la Chiesa morimorsi, strappi interiozambicana, che è molto ri. L’esperienza va riela- «Abbiamo giovane, “sbilanciata” borata e in qualche mo- ritrovato una a favore dei poveri e do tradotta perché dia Chiesa italiana quasi completamente frutto. Abbiamo trovato che ci sembra affidata alla responsatanto calore e solidarie- più preoccupata bilità dei laici, ci semtà rientrando nel “no- di difendere bra per contrasto che stro” mondo, ma sono i propri confini rientrate due persone che di incontrare la Chiesa italiana sia ancora molto gerarchidiverse da quelle che le persone nelle ca e clericale, preoccuerano partite e questo loro difficoltà pata più di difendere non sempre è compreso quotidiane» i propri confini che di e accettato da amici e incontrare le persone parenti. Il rientro al lanelle loro difficoltà voro, poi, non scontato soprattutto di questi tempi, deve quotidiane, poco aperta alle sfide ritrovare un senso. Non viviamo al- reali dei tempi, con poco spazio lo stesso modo l’impegno lavorativo lasciato all’iniziativa dei laici». e sentiamo l’esigenza che la nostra attività assuma un orizzonte più MISSIONARI O COOPERANTI? «La Chiesa non è una Ong», ha det“sociale”». Lucia ed Emiliano, poi, non esitano to papa Francesco in una delle sue a toccare un punto delicato, ovvero prime esternazioni. Viene dunque ciò che i missionari laici rientrati da chiedere ai coniugi incontrati possono donare alla propria comu- in che cosa si sentono diversi da nità: «Crediamo fortemente nella chi, magari con partner e figli al seguito, lavora nella cooperazione internazionale, anche in organizzazioni di ispirazione cattolica. «Ci abbiamo riflettuto spesso - rispondono Elisa e Daniele Restelli, rientrati in giugno dalla Bolivia, dove erano stati MISSIONE IN MOVIMENTO A nche i movimenti ecclesiali inviano famiglie in missione. I numeri non sono paragonabili a quelli dei laici fidei donum, ma il fenomeno è vivo. «Fin dal 1943, quando Chiara Lubich fondò il movimento dei Focolari - spiega Raimondo Scotto -, le nostre famiglie si sono recate in missione. In settant’anni ne sono partite 220 e, attualmente, nel mondo 840 nuclei hanno offerto la disponibilità a lasciare il loro Paese per trasferirsi all’estero. Ogni partenza è frutto di un discernimento attento che prende in considerazione diversi fattori». In primo luogo il lavoro: chi va all’estero deve poter trovare un lavoro nella località in cui andrà a vivere e deve avere un’occupazione quando rientrerà. «Il lavoro - continua Scotto - è fondamentale perché da esso dipende il mantenimento della famiglia. Ma valutiamo anche che il trasferimento non mini l’unità del nucleo famigliare mettendone in crisi gli equilibri». I focolarini vengono chiamati dai vescovi locali oppure si spostano per dar vita o sostenere una comunità all’estero. Le mete sono le più disparate: dai Paesi del Sud del mondo alle nazioni europee. «Recentemente una famiglia polacca si è trasferita in Islanda chiamata dal vescovo - conclude Scotto -, ma abbiamo nuclei un po’ in tutto il mondo: Turchia, Pakistan, Angola, Zambia, ecc. La durata dei soggiorni va da pochi mesi ad alcuni anni». Anche le famiglie di Comunione e Liberazione fanno esperienze all’estero. Sono pochi nuclei (3-4) all’anno che vanno a seguire progetti di cooperazione. «Sono coppie giovani con bambini piccoli oppure coppie già avanti con l’età con figli grandi - osserva Maria Teresa Gatti dell’Avsi, Ong che si ispira agli ideali di Cl -. Possiedono forti professionalità (ingegneri, medici, infermieri, ecc.) e solitamente non hanno problemi di lavoro quando rientrano». Come nel caso dei focolarini, i ciellini hanno un legame stretto con la comunità religiosa di appartenenza (diocesi e parrocchia), ma non partono in missione come fidei donum laici. Dal 1986 anche il Cammino Neocatecumenale invia famiglie all’estero per aiutare i vescovi locali o per fondare nuclei del movimento nei Paesi del Sud del mondo. «Le famiglie - spiegano i responsabili - danno la loro disponibilità per andare in qualunque parte del mondo, in modo gratuito, nella precarietà e confidando nella Provvidenza. Ricevono la destinazione in appositi convegni. In 27 anni sono partite oltre 800 famiglie». OTTOBRE 2013 POPOLI 45 Casale Enrico inchiesta inviati dalla diocesi di Bergamo -. In origine, infatti, saremmo dovuti partire con una Ong, poi la storia ha voluto che ci fosse rivolto un invito dal Centro missionario diocesano e così la prospettiva è cambiata. Cambia che c’è un invio, il mio lavoro non è a titolo personale, non è solo la mia coscienza che mi muove ma c’è una Chiesa che mi invia a suo nome. Non vado (solo) a svolgere un progetto, la mia presenza ha il sapore della condivisione nella fede. Nel quotidiano questo significa che, più delle opere che costruisco, quel che conta è lo stile con cui condivido il tempo che mi è dato in terra di missione. Le opere hanno valore solo se in esse riesco a far trasparire il volto di quel Dio che si fa compagno di strada». «Rispetto al cooperante laico - fanno eco Emiliano e Lucia - ci distingue il fatto che nella nostra esperienza viene prima la presenza rispetto al “progetto”, cioè al raggiungimento degli obiettivi per i quali è stato chiesto e ottenuto un finanziamento. Pertanto lo “stare” viene prima del “fare”. Molto spesso, poi, la vita del cooperante si svolge nelle grandi città, dove hanno sede le organizzazioni, e quindi lontani dalle realtà più periferiche. Mentre quello che noi abbiamo scelto e amato della nostra esperienza è stata proprio la prossimità». Ma non vi sentite un po’ degli eroi? È la domanda finale rivolta a tutti. E la risposta è unanimemente negativa: «Testimoniamo solo che la chiamata a una vita cristiana è per tutti, che non è necessario essere speciali per fare scelte evangeliche. E per la comunità a cui si viene inviati è il segno che quelli che arrivano non sono “professionisti del Vangelo”, ma persone che cercano di vivere la concretezza della fraternità». @ Leggi le interviste integrali alle famiglie su www.popoli.info 46 POPOLI OTTOBRE 2013 Una sfida per tutta la Chiesa Luca Moscatelli * N el 1957 papa Pio XII con l’enciclica Fidei donum sollecitava le diocesi del mondo ad inviare presbiteri nelle giovani Chiese, soprattutto dell’Africa. Da allora i preti diocesani inviati in missione sono stati chiamati fidei donum, cioè «dono della fede». L’importanza di questa enciclica è grande: essa an- ticipa la convinzione esplicitata poi dal Concilio Vaticano II che soggetto della missione è ogni singola Chiesa locale con il suo vescovo (e non più soltanto la Chiesa di Roma e dunque il Papa) e colloca, sia pure in maniera germinale, l’impegno missionario nell’orizzonte del dono e nella logica dello scambio (di doni). Ci sono voluti però 50 anni, e cioè la ripresa della profezia del Concilio LE CIFRE È la Fondazione Missio, organismo della Cei, a «censire» i fidei donum italiani in missione. Le statistiche disponibili distinguono tra persone consacrate e laici, senza ulteriori suddivisioni tra sposati e single. Sono comunque numeri indicativi: nel 2009 i laici «in servizio missionario con convenzione Cei» erano 295, più o meno come nell’anno successivo (279); nel 2011 si è registrato il picco del quinquennio, con 355 laici in missione; nel 2012 si è scesi a 342, mentre nel 2013 (ma i dati sono aggiornati a fine agosto) i laici missionari all’estero sono 293. I Paesi di destinazione sono numerosi - ben 41 -, con una netta prevalenza dei continenti latinoamericano e africano. Le nazioni con la maggiore presenza di laici fidei donum italiani sono Brasile (42), Bolivia (27), Camerun (23), Madagascar (21) e Perù (20). Dal punto di vista economico, la Cei garantisce a chi firma la convenzione il rimborso di eventuali contributi previdenziali (fino a un massimo di 4.500 euro all’anno) che la persona decide di versare anche in assenza dall’Italia e delle spese per visite mediche. L’organismo di riferimento, ovvero nella maggior parte dei casi il Centro missionario diocesano di residenza del missionario, se ne ha la possibilità paga il viaggio di andata e ritorno, mentre per l’alloggio e il vitto normalmente sono la diocesi di invio e quella di accoglienza ad accordarsi. I laici fidei donum non percepiscono alcun tipo di stipendio. SULLA FRONTIERA P rima missionari e poi inviati. Si potrebbe riassumere così la storia di Roberto, Gabriella e Costanza Ugolini: dal 2000 papà, mamma e figlia vivono in Turchia, nella città di Van, ai confini con l’Iran. «È una scelta di vita - spiega Roberto - maturata parallelamente a un cammino di fede fatto come singoli e come famiglia. Prima della partenza, per cinque anni siamo stati seguiti dal gesuita Paolo Bizzeti. Dopo la partenza abbiamo ricevuto il “mandato” dell’arcivescovo di Smirne e solo successivamente è arrivato quello dell’arcivescovo di Firenze, nostra diocesi di partenza». Quale il senso di una presenza in una regione dove sostanzialmente non esistono cristiani? «Il nostro obiettivo è anzitutto “vivere con”: con profughi afghani e iraniani che, scappando per la guerra o per problemi religiosi o politici, ogni giorno arrivano attraverso le montagne fino a Van. Non hanno niente. Cerchiamo di aiutarli concretamente nei casi più difficili, grazie anche alla rete di sostegno che abbiamo in Italia. Costanza lavora come traduttrice volontaria dal farsi al turco nell’unica associazione che in città si occupa di loro». Roberto spiega anche che «in Turchia, per motivi socio-religiosi, un uomo solo non potrebbe avere la libertà di movimento e di relazione in ambienti dove ci sono donne sole. Essere qui come famiglia è fondamentale». Visti da Van i discorsi su scontri di civiltà e integralismi sembrano lontani anni luce: «La cosa più bella sono le relazioni che viviamo quotidianamente con persone ferite nel profondo. Desiderano mettere al centro l’umanità, il contatto, essere considerate semplicemente esseri umani, reciprocamente uguali». e insieme la presa d’atto di decenni sione alle genti. In questi ultimi di impegno dei laici nella missione anni risulta in effetti significativa delle loro Chiese, affinché anche a la partenza di laici fidei donum, laici inviati dalle loro diocesi in Ita- come singoli e come famiglie, che lia venisse accordato il nome di fidei con un mandato formale del proprio donum. Il documento della Commis- vescovo si recano in altre Chiese per sione episcopale per l’evangelizza- l’annuncio del Vangelo e la testimozione dei popoli e la cooperazione tra nianza della carità». le Chiese della Cei, datato 2007 (50° Il documento si concludeva con anniversario della Fidei donum) e alcuni segnali di allarme: «Non intitolato Dalle feconde memorie alle possiamo ignorare il fatto che in coraggiose prospettive, recita così al questo momento diminuiscono gli numero 7: «Oggi, più che ragionare invii da parte delle Chiese di anin termini di “necessità”, ci sembra tica tradizione. Tra le cause del adeguato parlare dei fidei donum fenomeno, va indubbiamente ancome di una “scelta” legata all’iden- noverata la diminuzione del clero tità stessa della Chiesa, mistero di e il conseguente innalzarsi della comunione e missione. Con il Conci- sua età media, ma vanno considelio Vaticano II, infatti, l’ecclesiologia rate anche altre ragioni legate alla ha messo in evidenza l’integrazione cultura, alla messa in discussione della dimensione missionaria nella dell’idea stessa di missione e a una natura stessa della Chiesa intera: pastorale che privilegia l’erogazione di servizi rispetto non solo ai presbiteri e all’evangelizzazione. ai religiosi, ma anche I fidei donum Inoltre, non deve esseai laici - in quanto pie- laici tornano re sottovalutato il fatnamente partecipi della arricchiti dalla to che un contesto di missione della Chiesa - è frequentazione benessere diffuso può rivolto con sempre mag- di Chiese povere frenare lo slancio misgiore chiarezza l’invito e di poveri. sionario». a considerare la mis- L’ecclesiologia, però, resta angusta e il loro coinvolgimento limitato DAVVERO CORRESPONSABILI? A fronte di un’esperienza liberante e valorizzante fatta dai nostri laici missionari, l’ecclesiologia (più quella inconscia che quella conscia, se così si può dire) resta angusta. I nostri fidei donum laici tornano arricchiti di una visione e di una sapienza evangelica che solo la frequentazione di Chiese povere e di poveri sa offrire. Nonostante la necessità anche qui da noi costringa in molti modi e in molti ruoli ad attribuire responsabilità ai laici, rimangono in auge, sia in Italia come anche in missione, linguaggi e mentalità di supplenza o quando va bene di collaborazione. L’idea invece di una Chiesa dove tutti, Solo 50 anni in nome di un dopo l’enciclica carisma e di un di Pio XII, ministero sono prendendo atto corresponsabili, del loro impegno resta appunto missionario, un’idea. anche a laici Ci sono naturalinviati dalle mente interesdiocesi è stato santi eccezioni, accordato il nome dalle quali però di fidei donum ancora non abbiamo imparato abbastanza. Forse dovremmo prendere, tutti insieme, l’occasione del rientro dei nostri fidei donum laici e preti per farne un laboratorio pastorale e teologico capace di ricentrare le priorità della missione ecclesiale. Nei contenuti, e ancor più nello stile, la missione attesta un’immagine di Dio. Se siamo chiamati e mandati per essere testimoni di un Regno nel quale nessuno è suddito e nessuno è «padre», dove tutti sono figli/e, fratelli/sorelle, principi e principesse, e dunque «di casa», un po’ di cose dovrebbero cominciare a cambiare. Sapendo che su queste cose si giocava il buon nome del Padre nostro, Gesù ci ha messo la vita e ci ha invitato a fare altrettanto. * Teologo, Ufficio missionario della Diocesi di Milano OTTOBRE 2013 POPOLI 47 concilio/5 Jorge Costadoat SJ SANTIAGO DEL CILE S o che alcuni giovani, quando sentono parlare del «Concilio» (1962-1965), pensano che si tratti di qualcosa di antiquato. Al contrario, la mia generazione (sono nato nel 1958) ritiene che al Vaticano II si debba il grande rinnovamento della Chiesa attuale. Mi chiedo: che cosa ho io in comune con le nuove generazioni per poter spiegare loro che il Concilio ha dato impulso a cambiamenti enormi nella Chiesa, che in parte devono ancora compiersi? Ho l’impressione che viviamo in mondi diversi. Però, se guardo i miei nipoti più piccoli, che hanno 50 anni meno di me, mi rendo conto che abbiamo in comune almeno due cose: primo, sia per loro sia per me l’amore è la Il Vaticano II cosa più imporha affrontato tante; secondo, domande simili sia a me che a a quelle odierne. loro piacciono le Ad esempio patatine fritte. sui limiti della Mi perdonerete globalizzazione, il paragone irl’individualismo riverente. Mi è e lo sfaldarsi utile per spiegadi una comunità re che, grazie al di appartenenza Vaticano II, possiamo immaginare che la Chiesa, se si rinnova, ha davanti a sé un grande avvenire. LA SFIDA DEI TEMPI Quando i padri conciliari fissarono lo sguardo sul mondo contemporaneo scoprirono che il principale «segno dei tempi» erano i grandi e rapidi cambiamenti storici, legati allo sviluppo della scienza e della tecnica, all’espansione del capitalismo e alle lotte per i diritti sociali. Oggi queste trasformazioni continuano a essere la grande sfida. I giovani lo sperimentano con maggiore serenità. Sono più preparati degli anziani a cavalcare 48 POPOLI OTTOBRE 2013 Il Vaticano II spiegato ai giovani Come far comprendere ai giovani la straordinaria attualità del Concilio Vaticano II? Come far capire che le sue intuizioni non sono superate, ma anzi ancora da compiere? Un teologo gesuita cileno, che aveva quattro anni quando papa Giovanni XXIII aprì l’assise, prova a rivolgersi alle nuove generazioni le onde agitate della vita. Forse non sentono la stessa angoscia dei loro genitori per il futuro. Tuttavia, anche loro percepiscono che le straordinarie possibilità offerte dalla globalizzazione hanno un lato oscuro: l’individualismo, la spersonalizzazione, la provvisorietà delle relazioni umane, il senso di abbandono, il non poter più contare su una comunità di appartenenza. Ebbene, il Vaticano II affrontò domande molto simili a quelle che affrontiamo oggi, giovani e meno giovani: come vivremo in futuro cambiamenti così grandi e rapidi? Chi saranno le vittime principali delle trasformazioni e chi avrà cura di loro? Quali riforme devono realizzarsi nella Chiesa affinché essa effettivamente riesca a offrire un orientamento a chi cerca un senso per la propria vita e un rifugio a coloro che sono stati esclusi? Cinquant’anni fa la Chiesa ha fatto un enorme sforzo per adattarsi alle preoccupazioni del proprio tempo. Ha voluto aggiornarsi. Lo ha fatto, curiosamente, tornando indietro. È tornata alle fonti originarie, al Vangelo e alla propria storia. Così ha potuto distinguere l’essenziale dal transitorio, la Tradizione dai tradizionalismi asfissianti, per ela- Sulla spiaggia di Rio de Janeiro, nei giorni della recente Gmg. borare poi nuove proposte, nuovi modi di intendere se stessa e di organizzarsi, coerentemente con le necessità che andavano nascendo. Quello che il Concilio Vaticano ha fatto tanti anni fa è ciò che la Chiesa dovrebbe continuare a fare oggi. Su questo hanno insistito gli ultimi pontefici. Il Concilio ci ha lasciato compiti per molto tempo. I compiti sono gli stessi, ma sono gli stessi anche i contributi del Vaticano II che restano validi per i prossimi 50, 100 o 500 anni. Ne segnalo alcuni. un fattore di libertà, di giustizia e di amore tra gli esseri umani, e mai di settarismo, fanatismo e violenza. La Chiesa oggi, come quella di cinquant’anni fa, sa che questa è la sua missione. Sa che la propria vocazione particolare è lottare affinché «tutti» abbiano un posto nel mondo. La diffusione del razzismo o comunque dell’idea che esistano esseri umani superiori è sempre in agguato. L’umanità è capace di retromarce atroci. b) La Chiesa vuole ottenere questo attraverso un annuncio rinnovato di Gesù Cristo. Se l’obiettivo è TRE EREDITÀ a) Un’idea dominante nel Concilio è capire chi è l’uomo e quale orienstata questa: Dio desidera la salvez- tamento può dare agli incredibili za di tutti gli esseri umani. Questo sviluppi raggiunti, le scienze e le è facile da capire per i giovani tecniche saranno sempre un aiuto poiché hanno un concetto più «po- sul piano dei mezzi. Ma non si può sitivo» di Dio e delle altre culture e chiedere loro di più. Sul senso della religioni. Per i cattolici dell’inizio vita ci possono dire qualcosa di imdel XX secolo, inclusa la gerarchia, portante solo le persone autentiche non era così facile ammetterlo. e, soprattutto, le grandi tradizioni Allora si pensava che «fuori dalla filosofiche e religiose. Chiesa non c’è salvezza». Questo Il Concilio ha «reincontrato», grazie oggi sembra, oltre che sbagliato, a uno studio più profondo della Sacra scrittura, il Figlio di Dio incarinsopportabilmente meschino. Il Vaticano II, al contrario, esortò a nato in Gesù di Nazareth, sottolinecredere che l’amore è il principale ando che Cristo è l’uomo che rivela criterio di salvezza. Fu straordina- all’uomo la propria umanità. Inoltre riamente audace. Affermando che ha operato una distinzione tra Scriti fedeli di altre religioni o gli atei tura e Parola di Dio, per mostrare possono salvarsi se amano e, al che Dio, che ha parlato nella Bibbia, contrario, i cattolici «condannarsi» continua a parlare nella storia attrase non lo fanno, i padri conciliari verso lo Spirito di Cristo resuscitato. relativizzavano la necessità stessa Pertanto Gesù può orientarci con il della Chiesa. Ne erano consapevoli suo esempio evangelico, ma anche e, nonostante ciò, decisero di corre- facendoci capire interiormente dove dobbiamo andare, qual è il senso re il rischio. La coscienza dell’importanza di della nostra vita. «tutti» agli occhi di Dio, promos- c) Il terzo contributo teologico del sa dal Concilio, continua a essere Concilio deve ancora perlopiù traun fattore chiave e tremendamente dursi in pratica. Il Vaticano II chiede alla Chiesa di essere un attuale. Sarà decisivo, sacramento di unione e anche in futuro, che Per aggiornarsi di comunione fra tutti vi sia un’autorità mo- la Chiesa è gli uomini e con Dio; rale come la Chiesa che tornata indietro. un fattore decisivo, per dichiari che tutti gli È tornata alle usare le parole di Paolo esseri umani hanno la fonti originarie, VI, della «civiltà dell’astessa dignità e che la al Vangelo e alla more». Quanto abbiamo religione deve essere propria storia. Così ha potuto distinguere l’essenziale dal transitorio bisogno oggi di comunità che ci riconoscano come propri membri! Abbiamo bisogno di una comunità che ci dia un nome quando nasciamo e ci protegga fino alla morte. E colui che riconosce e riunisce in una comunità è Cristo, Dio amore. Nelle comunità della Chiesa conciliare è diventata decisiva l’uguale dignità delle persone. La Chiesa latinoamericana è arrivata alla conclusione che questo si raggiunge quando i cristiani optano per i Nelle comunità poveri e quando della Chiesa essa diventa la conciliare è «Chiesa dei podiventata decisiva veri», quando i l’uguale dignità poveri si sentodelle persone. no nella Chiesa E questo come nella prosi raggiunge pria casa. quando i cristiani La Chiesa che il optano Concilio ha imper i poveri maginato deve essere umile. In essa il battesimo deve considerarsi il sacramento principale, così che i sacerdoti siano al servizio di tutti i battezzati. Questa orizzontalità desiderata dal Vaticano II deve realizzarsi anche in relazione agli altri popoli e fedi della terra. Insomma, mi sembra che possiamo capirci tra generazioni diverse. Perché tutti possiamo vedere come le principali intuizioni del Vaticano II sono ancora attuali. Perché se le patatine fritte uniscono giovani e adulti, ci unisce molto di più il riconoscimento che l’amore è la cosa più grande, e ciò che la Chiesa del Concilio ha chiesto è di amare l’umanità in un modo più coerente con il Vangelo. LA SERIE G li articoli precedenti della nostra serie dedicata al cinquantesimo anniversario del Concilio Vaticano II (iniziato nell’ottobre 1962 e terminato nel dicembre 1965) sono stati pubblicati nei numeri di novembre 2012 e gennaio, febbraio e maggio 2013. Tutti sono leggibili sul sito www.popoli.info nella sezione «Speciali». OTTOBRE 2013 POPOLI 49 chiese L’Africa balla con i pentecostali Ludovic Lado SJ * ABIDJAN (COSTA D’AVORIO) P rima di cercare di comprendere il fenomeno del pentecostalismo, va detto fin dall’inizio che questo movimento, che ha riabilitato la pneumatologia (la scienza che studia le sostanze spirituali e il loro principio vitale) in seno al cristianesimo, ha sì una radice afroamericana, che risale a William J. Seymour (18701922), ma nella I neopentecostali sua espressione sostengono l’idea africana non è dell’efficacia una semplice della fede che fa replica di quello miracoli come risposta ai bisogni americano. concreti della vita L’Africa non ha quotidiana (lavoro, aspettato il pente c o s t a l i s mo, matrimonio, e nemmeno il figli, soldi, c r i st ia ne si mo salute, ecc.) in generale, per parlare il linguaggio degli spiriti. L’universo delle rappresentazioni collettive e religiose di parecchi popoli africani è abitato da spiriti di diversa natura che interagiscono con gli umani. Ci sono spiriti dell’acqua, della foresta, delle montagne o, ancora, degli antenati. Il cristianesimo ha portato in Africa i concetti dello Spirito Santo e del «malvagio». Dall’incontro tra pneumatologia africana e pneumatologia cristiana sono nate diverse forme di sincretismo sia all’interno delle Chiese missionarie sia all’esterno. Di ciò esistono numerosi esempi. Quasi in concomitanza con il risveglio pentecostale negli Stati Uniti agli ini50 POPOLI OTTOBRE 2013 Il pentecostalismo si sta diffondendo a macchia d’olio proponendo una religiosità semplice che fa del miracolismo una risposta ai bisogni concreti della vita quotidiana. Una fede che insiste su balli, canti e preghiere scenografiche. Ma che spesso nasconde interessi economici e politici zi del Ventesimo secolo, sono emerse, le Chiese Aladura in Nigeria (1930), ai margini delle Chiese missionarie, la Chiesa Lumpa in Zambia (1953). numerose Chiese indipendenti africa- Questi movimenti hanno conosciuto ne. Una buona parte di esse metteva un certo successo che alcuni hanno già in evidenza lo Spirito Santo come attribuito al loro radicamento nell’uun’arma di lotta contro stregoneria, niverso delle rappresentazioni colletfeticci e ogni genere di tive africane e alla loro spiriti malefici. Si pos- L’Africa sensibilità per i problemi sono citare, tra gli al- ha sempre esistenziali dei fedeli. tri, il Movimento dello parlato Quanto al pentecostaliSpirito Santo in Kenya il linguaggio smo nella sua versione (1912), il Kibanghismo degli spiriti. Le americana, esso è giunnella Repubblica Demo- rappresentazioni to in Africa nel 1908 cratica del Congo (1951), religiose africane attraverso il Sudafrica, sono popolate da spiriti che interagiscono con gli umani dove ha conosciuto un certo slancio attraverso le Chiese sioniste che si rivolgevano alle fasce meno abbienti delle comunità nere. Nell’Africa occidentale, le Assemblee di Dio, la Chiesa pentecostale più numerosa al mondo, sono arrivate nel 1921 tramite l’attività di missionari americani convinti di essere stati scelti e inviati dallo Spirito Santo per evangelizzare le popolazioni locali. Il Burkina Faso, il primo Paese africano interessato dalla missione pentecostale, diventerà molto rapidamente il trampolino di lancio per l’espansione del movimento nei Paesi dell’Africa Occidentale. sociale, soprattutto nell’educazione e nei media. IL NEOPENTECOSTALISMO Siccome il movimento pentecostale è una successione di risvegli (cioè di annunci effettuati da predicatori illuminati), altre ondate di risvegli hanno fatto seguito alle prime che hanno caratterizzato il pentecostalismo classico, dando così vita a quello che oggi viene chiamato neopentecostalismo. Esso arriva in Africa negli anni Ottanta del Novecento dall’America del Nord. È una versione del pentecostalismo che, pur mante- LE STATISTICHE Mezzo miliardo di fedeli I l pentecostalismo è un movimento cristiano nato negli Stati Uniti tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento in seno all’Evangelicismo protestante. L’aggettivo «pentecostale» è riferito alla particolare enfasi che i predicatori pongono sull’effusione dello Spirito Santo nel giorno della Pentecoste. Secondo uno studio del World Christian Database, pubblicato all’inizio del 2013, nel mondo i fedeli delle Chiese pentecostali sono circa 500 milioni e crescono rapidamente. Tanto è vero che, sempre secondo lo stesso studio, entro il 2025 potrebbero essere circa un miliardo. Oltre al Nord America, il pentecostalismo è diffuso in Asia (Corea del Sud, Singapore, Filippine, India e Cina), Africa (soprattutto nei Paesi anglofoni) e America Latina (in particolar modo in Brasile). In Europa il fenomeno è meno presente, ma si sta gradualmente diffondendo. Secondo uno studio dell’Università cattolica di Lublino (Polonia), nel 2010 i pentecostali europei erano circa 20 milioni. Anche in Italia, il movimento (vietato sotto il fascismo e rinato negli anni Cinquanta e Sessanta) si sta diffondendo sulla scia dell’immigrazione nigeriana e ghanese. Attualmente sono censite sul territorio italiano 600 Chiese pentecostali con circa 400mila fedeli. e.c. Il messaggio di cui si fanno portatori i pentecostali pone l’accento sulla rinascita religiosa, tramite il battesimo nello Spirito, e la santificazione, attraverso la qualità della testimonianza di vita. Da questo punto di vista essi sono portatori di una tendenza ascetica e vedono nella conversione una rottura radicale con i costumi e le religioni tradizionali, che considerano «opere diaboliche». Oltre che nel campo religioso, queste Chiese investono molte risorse umane ed economiche anche nel settore nendo l’accento sull’esperienza dello Spirito Santo e dei suoi molteplici doni, esalta anche il progresso in tutte le sue forme come una manifestazione della vera rinascita. Questo movimento si distingue per un uso ottimale dei media e delle nuove tecnologie dell’informatica e della comunicazione, settori in cui eccelle e nei quali ha dimostrato di essere molto più avanti rispetto alle Chiese missionarie classiche. I neopentecostali sostengono l’idea dell’efficacia della fede che fa mira- coli come risposta ai bisogni concreti della vita quotidiana (lavoro, matrimonio, figli, carriera, soldi, salute, ecc.). I loro canti più popolari esaltano l’azione miracolosa di Dio Padre o di Gesù Cristo nella vita di alcune figure bibliche. Consacrandosi a Cristo si diventa «vincenti». La rinascita è incompatibile con l’insuccesso e la sofferenza che bisogna, al contrario, continuamente esorcizzare. Essa Per il è sinonimo della cristianesimo vittoria del conafricano vertito su tutte i canti e i balli le forze ostili, del sono forme suo progresso e di preghiera della sua riuscita. che offrono Non si deve più un naturale voltare le spalle sbocco alla ricchezza, al alla propria comfort, al prespiritualità stigio, ecc. La ricchezza dei pastori pentecostali, però, non cade dal cielo, essa è frutto delle donazioni dei fedeli o, in alcuni casi, di un vero e proprio tariffario delle benedizioni e delle preghiere (il cui «prezzo» varia a seconda della natura del male che devono sconfiggere). In Nigeria come in Ghana, per esempio, negli ultimi tre decenni è emersa una nuova generazione di predicatori molto popolari, che si sono trasformati in figure sociali di spicco (grazie alle ricchezze accumulate) e che incarnano il potere religioso. I più conosciuti sono spesso corteggiati dagli uomini politici in cerca di voti in occasione delle elezioni. A volte sono gli stessi pastori a sfruttare la notorietà per scendere in politica. Il pentecostalismo conta ormai adepti e predicatori anche nelle classi dirigenti, il che favorisce a volte slanci di messianismo politico tinto di millenarismo. In Africa, il pentecostalismo è un fenomeno plurale che fa proprie espressioni culturali locali, ma anche importate da fuori continente (Nord America, America Latina, Asia). Per esempio, la Chiesa Universale del OTTOBRE 2013 POPOLI 51 chiese Regno di Dio, una grande Chiesa pentecostale di origine brasiliana, ha costruito un edificio ultramoderno in stile occidentale nel bel mezzo di un quartiere popolare di Abidjan. Per quanto riguarda l’espressione liturgica, il pentecostalismo è caratterizzato dall’intensità delle manifestazioni corporee ed emozionali, accompagnate, spesso, da canti popolari e danze. Il cristianesimo africano, che si esprime molto attraverso la danza, trova in queste forme di preghiera un naturale sbocco alla propria spiritualità. In merito all’aspetto verbale, i predicatori pentecostali scommettono molto sull’oralità e sulla narrazione incentrati sul vissuto e sull’esperienza del quotidiano, presentando testimonianze pubbliche della benevolenza di Dio o sui «tranelli di Satana sventati». Le predicazioni pentecostali possiedono l’arte di nutrire la speranza. La disoccupazione, l’insuccesso, la sterilità, il celibato involontario, la povertà e tutti gli insuccessi della vita sono interpretati come il risultato di blocchi causati dalla stregoneria o dal diavolo. Blocchi che bisogna vincere attraverso preghiere liberatorie ed esorcismi. L’INFLUENZA SUL CATTOLICESIMO L’influenza del pentecostalismo sulla Chiesa cattolica passa principalmente attraverso il rinnovamento carismatico. L’esplosione del movimento carismatico cattolico in Africa risale agli anni Ottanta. La cultura e la liturgia dei carismatici cattolici prendono a prestito molti elementi dal movimento pentecostale, ferme restando le divergenze dottrinali. Questo prestito assume la forma di una diffusione negli ambienti cattolici sia dei canti popolari pentecostali sia degli stili e dei contenuti scanditi dagli «Alleluja-Amen». L’insistenza sul concetto di successo economico e sociale è tuttavia mantenuta entro i limiti dell’accettabile. La diffusione del movimento carismatico nella Chiesa cattolica ha portato anche a una rivitalizzazione del ministero dei malati che, negli ultimi anni, ha conosciuto una domanda crescente. IL PERSONAGGIO Milingo, il vescovo che si fece pentecostale Q uella di Emmanuel Milingo è una storia singolare in cui si intrecciano clamore mediatico, devozione popolare e strumentalizzazioni. Zambiano, brillante studente dei seminari cattolici di Kasina e Kachebere, Milingo è stato ordinato vescovo nel 1969. Nominato arcivescovo di Lusaka, diventa famoso come esorcista e guaritore. I suoi metodi vengono però giudicati «non convenzionali» dalla Santa Sede. Il 6 agosto 1983 rinuncia alla diocesi di Lusaka e si trasferisce a Roma, dove presta la sua opera presso il Pontificio consiglio della pastorale per i migranti e gli immigrati. In Italia continua a fare esorcismi e organizza meeting di preghiera in stadi, teatri, palazzetti che attirano migliaia di persone. Partecipa anche a trasmissioni televisive e radiofoniche facendo suo il modello di predicazione 52 POPOLI OTTOBRE 2013 dei pastori pentecostali. Il 2001 segna il primo strappo con la Chiesa cattolica. Milingo entra a far parte della setta di Sun Myung Moon e si sposa (nella foto). La Chiesa lo allontana dal suo incarico. Negli anni successivi il vescovo alternerà fasi di ripensamento, con prolungati ritiri in luoghi segreti e promesse di rientrare nella Chiesa cattolica, a fasi in cui tornerà a professare la sua adesione alla setta di Moon. La stampa internazionale segue con attenzione la crisi. Un’attenzione alla quale non è estranea la potenza mediatica delle sette pentecostali. La crisi culmina il 17 dicembre 2009 con la riduzione allo stato laicale del monsignore in seguito all’ordinazione episcopale di quattro preti sposati. Oggi l’ex arcivescovo di Lusaka, 83 anni, vive a Seul insieme alla moglie e fa sempre parte della setta di Moon. e.c. Questa influenza del pentecostalismo non è esente da rischi di eccessi e devianze. E non sono solo i laici a «deragliare» in questa ricerca spirituale o mistica. Il caso più conosciuto nell’Africa subsahariana è quello di Emmanuel Milingo, l’ex arcivescovo di Lusaka, che da fervente carismatico quale era, si è ritrovato nella setta di Moon (cfr box). Uno dei casi più recenti è quello di Mathias Vigan, prete diocesano del Benin, ex parroco ed esorcista, che ostinandosi a esercitare pratiche poco ortodosse è stato scomunicato. Da allora si è autoproclamato papa Cristoforo XVIII e attira folle assetate di miracoli. Bisogna sottolineare che, malgrado la diffusione della cultura pentecostale, la Chiesa cattolica ha pochi rapporti con il pentecostalismo. Anche se le autorità vaticane mantengono un dialogo con alcune realtà del pentecostalismo storico (come le Assemblee di Dio), sul territorio, almeno in Africa, i rapporti sono ancora improntati al sospetto e alle invettive reciproche. Sono le famiglie a vivere le tensioni più forti. Al loro interno i membri rimasti nella Chiesa cattolica si devono quotidianamente confrontare con i loro parenti che sono entrati nelle sette pentecostali. E gli attriti non mancano. Nell’aprile scorso, la Conferenza episcopale tedesca ha organizzato a Roma una conferenza sul movimento pentecostale e sulle sfide che esso pone alla Chiesa cattolica. I partecipanti, ricercatori e operatori pastorali, venivano da tutti i continenti. Oltre agli scambi di vedute sulla natura del pentecostalismo in quanto tale, si è dibattuta molto la questione della «conversione pastorale», cioè del rinnovamento pastorale da parte della Chiesa cattolica, come risposta a questa sfida. Ma quali contorni dovrà avere questa «conversione»? Nessuno, per ora, ha dato una risposta. * Gesuita, antropologo delle religioni del Centro ricerche e azione per la pace il fatto, il commento Dal conflitto alla comunione C Guido Dotti Monaco di Bose, esperto di questioni ecumeniche. ome ogni anno, il 31 ottobre le Chiese luterane festeggiano l’anniversario dell’evento che simbolicamente ha dato inizio alla Riforma protestante: l’affissione delle 95 tesi di Lutero a Wittemberg, nel 1517. Una festa per celebrare una lacerazione della Chiesa? Forse nei secoli è stato così, ma non più oggi: il cammino ecumenico percorso in questi decenni, a partire in particolare dal Concilio Vaticano II, ha ottenuto risultati inimmaginabili solo mezzo secolo prima. Così le Chiese si sono incamminate per giungere a commemorare in modo congiunto il 500° anniversario della Riforma, che cadrà nel 2017. Ma come è stata possibile questa guarigione - o, per lo meno, questa cura efficace - delle memorie? Il 17 giugno scorso è stato reso pubblico un documento, Dal conflitto alla comunione. La commemorazione comune luterana-cattolica della Riforma nel 2017, messo a punto dalla Commissione teologica bilaterale. Un testo che ripercorre la vicenda di quell’istanza evangelica che si tramutò ben presto in divisione nella Chiesa d’Occidente. È un racconto condiviso delle vicende del passato che non si nasconde dietro luoghi comuni e non evita interrogativi cruciali, ma che affronta le questioni più scottanti di allora e di oggi con l’intento di ricostruire una storia comune, di riconoscere gli errori commessi e le intenzioni stravolte, così come le ricadute positive nella vita di fede quotidiana di tanti cristiani. È un testo denso, frutto non solo dell’ottimo lavoro di teologi e storici della Chiesa, ma più ancora del vissuto quotidiano di tante comunità cristiane. Si coglie anche un clima più propenso a ricercare non solo «ciò che ci unisce che è più grande di ciò che ci divide» (per citare Giovanni XXIII), ma soprattutto Colui che unisce i cristiani, Cristo stesso, più grande e più forte di colui che divide, il diavolo il cui nome è «divisore», appunto. Questa riflessione teologica accompagna per mano anche chi della Riforma e della Controriforma conosce solo qualche episodio, perlopiù negativo: scomuniche, condanne reciproche, persecuzioni, cedimenti al potere temporale. Il testo termina con un’affermazione decisiva - «il conflitto del XVI secolo è finito» - e pone cinque «im- Il 31 ottobre le Chiese luterane festeggiano l’anniversario dell’affissione delle 95 tesi di Lutero a Wittemberg. Una festa per celebrare una lacerazione della Chiesa? Forse nei secoli è stato così, ma non più oggi perativi» da assumere come compiti ineludibili da qui al 2017: istanze evangeliche che proiettano le Chiese verso la testimonianza resa a Cristo in mezzo agli uomini e alle donne del nostro tempo e che offrono l’unico criterio decisivo per una celebrazione autenticamente cristiana: «Gli inizi della Riforma saranno ricordati in maniera adeguata quando luterani e cattolici ascolteranno insieme il Vangelo di Gesù Cristo e si lasceranno di nuovo chiamare a fare comunità insieme al Signore». Ecco la perenne vocazione cristiana: fare comunità con il Signore Gesù. Con lui e attorno a lui le nostre infedeltà sono avvolte dal suo perdono e le nostre differenze diventano carismi complementari a beneficio della corsa della Parola nella storia. Davvero i teologi hanno fatto la loro parte, ora tocca ai cristiani convertirsi all’unico Signore, riscoprire i sentieri che la Parola di Dio traccia nelle loro vite, rinnovare quel desiderio di essere portatori di una buona notizia che è messaggio di speranza per l’umanità intera: la vita è più forte della morte, il Signore ha vinto la morte, per tutti e per sempre. Un’antica moneta con un ritratto di Martin Lutero. Un bambino non è mai irregolare C eleste seria seria con il suo to il pronto soccorso, rischiando di elegantissimo impermeabile, intasarne gli accessi, per patologie di Jimmi con il gel nei capelli lieve entità per cui basterebbe il pee gli occhi neri affascinanti, le ter- diatra di base. Figura prevista dalla ribili sorelline Ivana e Rudina, Me- legge ma che in Lombardia non viene lanie con i codini allegri e colorati, riconosciuta ai figli di extracomuFranco Derek e la mamma attenta e nitari senza permesso di soggiorno. coscienziosa, Valeria nata a Natale da Una mozione presentata in giugno da Umberto Ambrosoli una mamma bambina e e dal Pd, che chiedeva senza casa, Giosuè, Ales- L’Assistenza l’accesso ai servizi di pesia, Jessica, gli splendidi sanitaria San gemellini ivoriani... Tut- Fedele, a Milano, diatria anche per questi soggetti, è stata respinta ti ormai sono diventati svolge visite dal Consiglio regionale nostri amici, affezionati pediatriche per della Lombardia. «clienti», parte della no- i figli di stranieri stra famiglia. senza permesso Grazie a una convenzione con Asl Milano, Il martedì pomeriggio di soggiorno. da gennaio possiamo i locali dell’Assistenza Garantendo cure però chiedere per il picsanitaria San Fedele, a negate da una colo senza permesso di Milano, si trasformano: normativa miope soggiorno il codice Stp nell’atrio ci sono gio(straniero temporanechi e libri, risuonano le amente presente), che voci, talvolta i pianti, dei piccoli pazienti in attesa della offre la possibilità di prescrivere vivisita. Ritornano per i controlli ma site specialistiche, analisi mediche ed anche per passare un pomeriggio in esami strumentali. Tale possibilità un ambiente sereno, dove le mamme non sostituisce comunque il pediatra possono chiacchierare, fare amicizia, di base, il quale garantirebbe invece scambiarsi informazioni e ricevere assistenza continua. Più della metà dei piccoli pazienti ha rassicurazioni. Nel settembre 2009 l’Assistenza de- un’età compresa tra 0 e 3 anni, così cide, dopo aver effettuato un attento come succede in quasi tutti gli ambumonitoraggio sul territorio milanese, latori pediatrici, e accede allo studio di aprire, un pomeriggio alla setti- medico per i controlli di routine. mana, un ambulatorio di pediatria La prevenzione è importante (anche gratuito per bambini bisognosi e economicamente!): tutti i bambini senza permesso di soggiorno, for- vanno seguiti dalla nascita, e almeno mando una équipe di tre pediatre, fino al terzo anno, per verificare che un farmacista, un responsabile e due la crescita sia regolare, sia nel peso che in altezza, che non ci siano o pedagogiste. Tutti volontari. Da allora abbiamo visto 253 bambini insorgano malformazioni o disturbi ed effettuato 604 visite, bambini che di vista, udito, parola e postura, altrimenti non sarebbero stati visitati controllare la dentizione e la relativa da nessuno o che avrebbero utilizza- igiene, e tanto altro. 54 POPOLI OTTOBRE 2013 G. BIANCOFIORE www.jsn.it L’ Assistenza sanitaria San Fedele nasce a Milano nel 1948 per opera del gesuita Lodovico Maino. Ha sede nello stessa struttura in cui si trova anche la redazione di Popoli. Alla pediatria dell’Assistenza possono accedere persone non in possesso del permesso di soggiorno o che pur avendolo, ma essendo disoccupate o per altri impedimenti, non hanno pieno accesso all’assistenza sanitaria di base. Il servizio di pediatria è aperto il martedì, dalle ore 15, su appuntamento (gli appuntamenti si fissano telefonando allo 0286352251 il lunedì e mercoledì mattina e il giovedì pomeriggio). Nella foto, due volontarie dell’Assistenza San Fedele visitano una piccola utente. Per ora non abbiamo riscontrato patologie diverse da quelle dei coetanei italiani; i genitori vogliono soprattutto essere rassicurati in presenza di febbre, tosse, mal di gola, gastroenteriti. La dottoressa si preoccupa soprattutto che le vaccinazioni e le profilassi di legge vengano effettuate. La bocciatura della mozione Ambrosoli porterà un aggravio di costi per il servizio sanitario; e noi ci aspettiamo un maggiore carico di lavoro, pur rimanendo più che disponibili a collaborare in un’ottica di sussidiarietà. Elena Morandi Responsabile pediatria Assistenza sanitaria San Fedele www.magisitalia.org Più formazione meno mattoni Il neo presidente del Magis, padre Gay: «I tempi cambiano e dobbiamo ripensare il nostro ruolo e il nostro modo di agire» D opo una serie di cambiamenti interni, il Magis ha un nuovo presidente. Padre Nicola Gay, Viceprovinciale dei gesuiti per il Nord Italia, assume l’incarico di traghettare il movimento missionario verso una nuova fisionomia. «In questi anni - spiega padre Gay - ci siamo resi conto che una serie di situazioni stanno mutando e quindi si rende necessario cambiare anche il Magis». Ed esemplifica: «I missionari italiani ed europei sono in diminuzione. Le Chiese africane sono più forti rispetto a 30-40 anni fa, anche per merito dei tanti missionari che ci hanno lavorato. Sembra dunque arrivato il momento di fare più attenzione alle esigenze che nascono da gruppi, religiosi e anche gesuiti che sono in loco. Prima erano i missionari che dovevano leggere le esigenze e provvedervi. Adesso sono le stesse realtà locali che indicano quali esigenze sentono essenziali per far crescere le loro Chiese. Un altro aspetto importante è quello della sostenibilità finanziaria. Progetti che hanno bisogno sempre di un appoggio esterno sembrano non funzionare più. Inoltre si sente l’esigenza di avere “più formazione e meno mattoni”, per dirla con uno slogan. Tutto questo ha portato a un ripensamento anche da parte di molte Ong europee, alcune delle quali stanno riflettendo su come riposizionarsi. A livello interno poi va detto che il Magis è stato pensato come una fondazione di partecipazione. Ma la relazione con gli enti aderenti non è mai stata approfondita e sembra il momento di provare a farlo. Il servizio di detrazione fiscale che la fondazione fa agli enti è importante ma non può essere l’unico legame. Bisogna rifletterci. Una campagna significativa in questo senso è stata quella della raccolta dei cellulari, che in qualche modo ha fatto conoscere il Magis anche fuori dei propri aderenti. È infine arrivato il momento di una maggiore unitarietà. Ci sono caratteristiche diverse, al Nord, al Centro e al Sud, ma una maggiore collaborazione è indispensabile». Qual è oggi l’identikit del Magis? Il Magis ha sedi storiche a Gallarate, INTENZIONI DI PREGHIERA Le intenzioni sono proposte ogni mese dall’Apostolato della preghiera (www.adp.it), associazione della Compagnia di Gesù diffusa in tutto il mondo. OTTOBRE GENERALE - Perché quanti si sentono schiacciati dal peso della vita, sino a desiderarne la fine, possano avvertire la vicinanza dell’amore di Dio. MISSIONARIA - Perché la celebrazione della Giornata Missionaria Mondiale renda tutti i cristiani coscienti di essere non solo destinatari, ma anche annunciatori della Parola di Dio. Roma e Palermo, che svolgono ancora qualche servizio tipico delle Procure delle missioni. Di fatto le Procure erano luoghi dove c’erano volontari e si facevano attività. Si sono evolute, hanno preso forma di Ong, ma c’è bisogno di maggiore conoscenza, stima e collaborazione, per essere più efficaci nei finanziamenti e sui progetti. Quale collaborazione ci potrà essere con le altre realtà che nella Provincia si occupano di missione? Su alcune linee di integrazione si sta riflettendo. Si era, per esempio, proposta una collaborazione tra le riviste del Magis e della Lega missionaria studenti con Popoli, ma non si è ancora trovato il modo di coniugare esigenze diverse: quella di aggregare le persone raccontando quanto si fa, con quella di offrire una riflessione aggiornata e seria come fa Popoli. Ancora, il Magis già collabora con il Jsn, con i gesuiti in Albania, ma si avverte l’esigenza di rendere più strutturate tali collaborazioni per evitare situazioni in cui proprio le difficoltà di collaborazione hanno reso meno efficace l’azione di ciascuno. © GesuitiNews OTTOBRE 2013 POPOLI 55 www.legamissionaria.it Lega Missionaria Studenti «Ho lasciato il mio cuore a Sighet» Le impressioni di un volontario che questa estate ha vissuto un’esperienza in un campo estivo in Transilvania (Romania) A volte non si viaggia in modo «sincronizzato»: il corpo e il cuore hanno tempi diversi, quando uno arriva l’altro parte e quando uno parte l’altro resta. Accade così che la città di Sighet, nella bella Transilvania, appaia all’improvviso il centro del mondo, o quanto meno il centro di molte vite, traguardo e partenza di corpi e di cuori. Solo poche settimane, poche ma abbastanza per realizzare qualcosa di miracoloso. Sembra un periodo di luce nel buio, come quello ben rappresentato nel film Risvegli da interpreti di eccezione quali Robert De Niro e Robin Williams. L’arrivo è nella giornata di domenica mattina. Una mattina assonnata, come coloro i quali scendono dal l’autobus che li ha portati in città da un vicino aeroporto. Tutti a riposare, per caricare gli archi del proprio cuore con frecce d’amore e tutti impazienti di vedere l’America, perché Sighet, anche per chi la conosce da tempo, è e resta sempre una nuova scoperta. Incontro di tutti i volontari con il responsabile, per definire il servizio al quale dedicare il proprio tempo, e poi si parte! Scuola, ospedale psichiatrico, camin de batrani (ospizio-ospedale per anziani e ragazzi con particolari patologie): non sono luoghi, non sono posti, sono persone, sentimenti, emozioni, tante volte bisogni che ci interpellano direttamente e individualmente. Centrato l’obiettivo bisogna coordinare le forze: i 56 POPOLI OTTOBRE 2013 momenti comunitari, di preghiera e di condivisione sono importanti; la compagnia, la condivisione del tempo, il vivere in amicizia sono indispensabili. Nelle famiglie che ci ospitano sperimentiamo il desiderio di pareggiare un debito con il mondo che ci accoglie. È presso queste famiglie che saldiamo legami imprevisti e imprevedibili, fatti di comunicazioni stentate, di rapidi incontri, della loro deliziosa e instancabile ospitalità. Non lo credevamo, persone estranee riescono davvero a entrare nel nostro mondo e noi nel loro. Al punto che qualcuno arriva a pensare che la sintonia raggiunta con i «genitori» di Sighet (padre e madre della casa che ospita) può apparire maggiore di quella esistente con i propri. Giorno dopo giorno ci sentiamo alleggeriti del fardello delle nostre debolezze e arricchiti da qualcosa che in modo forse banale possiamo chiamare «amore». Non è tutto oro quel che luccica: le difficoltà, le incomprensioni e la complessità di rendere testimonianza di una vita che ci ha reso liberi dal bisogno e dalla paura sono ben presenti. Per molti di noi la vita di tutti i giorni è faticosa e impervia. Le opportunità legate al benessere sono occasione per sterilizzare la coscienza. È così: ci vuol tempo per dismettere i panni della cultura occidentale, fatta spesso di perbenismo e convenzioni sociali, alimentata da formalismi che tutto sono tranne che espressione dello spirito che abita in ciascuno di noi. Il cuore ne paga il prezzo, tiranneggiato da lacci e lacciuoli che impediscono di volare con il bambino romeno, con il malato, con il disabile; ci prendiamo per mano, e prendiamo loro la mano, ma siamo pesanti, pesanti dentro; tutto quello che vogliamo dare non è abbastanza… E spesso rimane intrappolato tra le nostre mani, talvolta si ferma come un nodo in gola, che può sfociare in un silenzioso e un doloroso pianto. Siamo arrivati al capolinea: il turno è finito e si torna a casa. I nostri cuori sono in Romania, mentre i nostri corpi prendono la via del ritorno, un ritorno, ahimè, al passato. Non lasciamo il buio, non lasciamo la desolazione; confidiamo che il dono d’amore che abbiamo desiderato, e che abbiamo vissuto, faccia compagnia a tanti amici romeni, e viva ancora in tanti piccoli segni di presenza e di vicinanza, custodito in quella parte di noi che resta lì, fino a quando non raggiungeremo nuovamente i nostri cuori. Sarà l’inizio del prossimo campo. Gianluca Denora CAMPI DI SOLIDARIETÀ, 250 VOLONTARI IN QUATTRO PAESI S ono circa 250 i volontari, provenienti da diverse città italiane, che nel 2013 hanno preso parte ai campi di solidarietà organizzati dalla Lega Missionaria Studenti. Nel periodo invernale hanno avuto luogo i campi in Kenya (25 partecipanti) e in Romania, dove circa 40 persone hanno festeggiato il capodanno a Sighet, la citta- dina transilvana dove la Lms è presente dal 1998. A Sighet si è poi svolto anche il campo estivo, su tre turni, che ha visto la partecipazione di 120 volontari. Gruppi più ridotti, ma altrettanto motivati, per il Perù (25 persone) e per il campo di evangelizzazione di Cuba (35 persone). Info: www.legamissionaria.it www.centroastalli.it La cultura non è un monolite D a oltre 10 anni il Centro volta c’è un’interazione tra gli inAstalli incontra gli studenti dividui, ciascuno con il proprio delle scuole italiane in un bagaglio culturale e di esperienze. impegno educativo e di sensibiliz- L’obiettivo del progetto «Incontri» zazione ai temi del diritto d’asilo e - rivolto anche alle scuole elementari - è, invece, di far del dialogo interreliconoscere agli studenti gioso. Nel 2012 i pro- Il Centro Astalli le diverse religioni che getti «Finestre - Storie torna nelle compongono la società di rifugiati» e «Incon- scuole per far italiana. Basta comintri» hanno coinvolto conoscere ciare chiedendo loro oltre 13mila alunni tra agli studenti di alzare la mano se gli otto e i diciotto i rifugiati, le loro storie che hanno mai incontrato anni. almeno una persona Attraverso il progetto raccontano di religione diversa da «Finestre», molti stu- l’ingiustizia, quella cattolica, magdenti di scuole medie e la bellezza gioritaria in Italia. Più superiori hanno avuto delle differenze o meno numerose, le l’occasione di conoscealzate di mano sono re un rifugiato e di ascoltare la sua storia, maturando sempre presenti e i ragazzi iniziano una maggiore consapevolezza di a riflettere su quanto questa temaciò che accade in altri contesti del tica sia loro vicina. mondo, oltre la «finestra» della loro Fatima, testimone algerina di fede islamica, spiega: «Mi piace far aula. Solitamente l’incontro si svolge in conoscere agli studenti chi è un classe, ma i docenti possono sce- musulmano partendo dalle loro dogliere anche di far visitare agli mande e dalle loro critiche. Cerco studenti una delle strutture del di costruire un dialogo attraverso Centro Astalli, come la mensa o i il quale si possano cogliere divercentri di accoglienza. «Dal 2007 sità e punti di contatto tra la mia partecipo agli incontri nelle scuole cultura e religione e la loro. Deve e ciò che colpisce sempre i ragazzi esserci una conoscenza reciproca è come sia riuscita a superare le per un’accettazione dell’altro più avversità, sopravvivere al seque- rispettosa e libera da pregiudizi». stro e ricominciare, poi, la mia vita Anche Florica - di fede ortodossa da zero», racconta Isabel, rifugiata e originaria della Romania - dà spazio alle curiosità degli alunni. dalla Colombia. Frank, rifugiato dal Camerun, spie- Le capita, a volte, di incontrare stuga le difficoltà che ha dovuto su- denti ortodossi che conoscono poco perare in Italia per il solo fatto di la propria religione: «Sono felice essere straniero. Quello che vuole di spiegare loro il senso di alcune trasmettere è che la cultura non gestualità, riti e festività che spesso è un monolite, bensì qualcosa di seguono per tradizione senza commolto fluido, che evolve ogni qual prenderne a pieno il significato». Entrambi i progetti cercano di coinvolgere i giovani nell’apertura verso una società multiculturale e multireligiosa, mediante l’incontro diretto con un testimone. Questa metodologia favorisce la conoscenza reciproca e il dialogo, in una prospettiva di arricchimento e di scambio nella quale si può guardare all’altro senza le lenti distorte del pregiudizio e dei luoghi comuni. Fondazione Astalli ESILIO: UN CONCORSO LETTERARIO A nche per l’anno scolastico 20132014, il Centro Astalli propone agli studenti di scuole medie e superiori il concorso letterario «La scrittura non va in esilio». Gli alunni delle classi che aderiranno ai progetti «Finestre» e «Incontri» potranno cimentarsi in un esercizio di scrittura, redigendo un racconto sui temi del diritto d’asilo e dell’immigrazione, del dialogo interreligioso e della società interculturale. Una giuria - composta da rifugiati, giornalisti, insegnanti, scrittori e membri di organizzazioni umanitarie - valuterà gli elaborati e selezionerà i dieci racconti vincitori. Gli autori verranno premiati in ottobre in un evento pubblico organizzato dal Centro Astalli. OTTOBRE 2013 POPOLI 57 www.amo-fme.org In cammino con Paolo Un itinerario di trekking lungo le strade dell’Anatolia percorse da Paolo e Barnaba nel loro primo viaggio missionario. E la Parola risuona insieme ai passi S aint Paul Trail: l’avete mai sentito nominare? È un percorso di trekking in Turchia, terra biblica spesso trascurata. Lungo circa 500 chilometri, ripercorre il primo viaggio apostolico di Paolo e Barnaba (Atti degli Apostoli, capitoli 13-14). Ce ne parla Paolo Bizzeti, gesuita alla guida di un recente e pionieristico pellegrinaggio con un gruppo di giovani italiani in quelle terre. Un’esperienza affascinante per rivivere e assaporare alcune pagine bibliche. Di cosa che si tratta? Il Saint Paul Trail (Spt) è il cammino percorso dall’apostolo Paolo durante la sua predicazione tra le genti in Turchia. Da Antalya, sulla costa sud, a Yalvaç, nella regione dei grandi laghi, passando per villaggi di pastori, laghetti incontaminati, panorami mozzafiato, su e giù per dislivelli che possono sfiorare i 2.800 metri. Se ne inizia a parlare soltanto nel 2003, quando due giovani inglesi, Kate Clow e Terry Richardson, con una équipe di volontari internazionali, percorrono e tracciano il sentiero. Una route importante nel Paese, seconda per lunghezza alla Lycian Way, altro lungo itinerario a piedi tracciato in precedenza dagli stessi giovani e che si è fatto conoscere nel mondo anglosassone attraverso i reportage del Times. Risale al 2004 la pubblicazione del primo libro-guida sul tracciato, St Paul Trail. Turkey’s Second Long Distance 58 POPOLI OTTOBRE 2013 Walking Route. A new European Cultural Route (Ed. Upcountry [Turkey] Ltd). Da allora in molti da varie parti del mondo hanno cominciato a percorrerlo, salendo dalla Panfilia in Pisidia per usare i nomi romani di queste regioni. Un trekking, ma dal valore spirituale molto forte. Qual è il significato del percorso? Il tragitto porta il nome di Paolo perché ripercorre alcuni dei tratti su cui camminò l’Apostolo delle genti in compagnia di Barnaba durante il loro primo viaggio missionario: partiti da Cipro sbarcarono a Perge (allora c’era un porto) e salirono fino ad Antiochia di Pisidia, Konya, Listra e Derbe in Licaonia, per poi ridiscendere dall’altipiano anatolico fino al porto di Antalya (vedi Atti 13,13ss) e da qui tornare al porto di Seleucia di Pieria e quindi ad Antiochia sull’Oronte, dalla cui comunità cristiana erano partiti. In realtà il percorso segnato segue solo alcuni tratti della strada romana che percorsero gli apostoli in quel tempo. Il messaggio forte emerge dalle pagine... e dal contesto... I luoghi che si percorrono sono quelli di una Turchia rurale e dedita alla pastorizia che non si discostano molto dal modo di vivere delle genti di allora. Un contesto che, unito agli sconfinati panorami, aiuta molto la contemplazione, la preghiera, il ritorno all’essenziale. Come lo ha scoperto? In Italia mi sembra che nessuna agenzia di pellegrinaggi o viaggi proponga questo itinerario. È stato per caso, l’anno scorso, mentre ero ad Antalya, per organizzare un pellegrinaggio nei luoghi degli Atti degli Apostoli. Incuriosito, l’ho percorso nel luglio 2012 insieme a Maurizio Confalonieri, un giovane atleta milanese, scoprendo un itinerario davvero affascinante. Spesso nei luoghi di fortuna dove alloggiavamo o nelle piccole pensioni ci dicevano che eravamo i primi italiani che si vedevano sul Spt. In effetti in Italia il percorso è ancora sconosciuto: perciò quest’anno abbiamo deciso di portare un gruppo di giovani ed educatori: Maurizio ha seguito la l’aspetto del trekking (circa 4-5 ore di cammino al giorno) e io la parte delle letture bibliche sul libro degli Atti. E il risultato? Tutti entusiasti, direi. Sia della bellezza del tracciato, sia dei panorami e dello spessore che acquista la Parola di Dio quando è letta nel suo contesto. Uno degli scopi principali era, infatti, capire a fondo le parole di Paolo sulle fatiche dei viaggi che si leggono al capitolo 11 della seconda lettera ai Corinzi. Elisa Costanzo A cura della Redazione e di Anna Casanova @casanovanna Per segnalazioni scrivi a [email protected] Sul comodino di... Mauro Magatti Cinema Il passato 61 69 65 Strumenti Baglama Habitat Green concept, l’architettura che rispetta l’ambiente 66 71 Osservatorio Da dimenticate a invisibili: le crisi umanitarie nei Tg Sapori&saperi La cucina europea «ladra» di ingredienti 72 Inter@gire Se il codice non è più segreto Mediterraneo a fumetti Carino! 74 60 62 76 60 61 65 Leggere Segnalazioni Novità in libreria La libreria Set’ (Roma) Sul comodino di... Mauro Magatti Carta canta Babel Ouejdane Mejri, Afef Hagi Guardare Cinema Il passato Documentari Missioni Osservatorio Da dimenticate a invisibili: le crisi umanitarie nei Tg Festival Tutti nello stesso piatto Tre domande a... Pippo Delbono Ascoltare Musica Se la cover è meglio dell’originale On air Radio Onda d’Urto Strumenti Baglama Benvivere Unaltrostile Hai poco tempo? Fai volontariato! Solidee «Amici di Lazzaro» in strada contro la tratta Habitat Green concept, l’architettura che rispetta l’ambiente Il colore dei soldi Gustare Sapori&saperi La cucina europea «ladra» di ingredienti Retrogusto Oficina de Sabor (Milano) Sorseggi Kinnie Inter@gire Se il codice non è più segreto Decode Note di speranza dal Medio Oriente Mediterraneo a fumetti Carino! 68 63 66 67 70 73 74 68 69 71 73 72 66 70 71 74 76 65 Leggere novità in libreria Marco Aime Le radici nella sabbia A 14 anni dalla sua prima uscita, viene riproposto in versione aggiornata questo viaggio nella regione africana del Sahel: è il mondo degli ultimi, sempre in fondo a statistiche impietose che mettono in evidenza il distacco tra il ricco mondo occidentale e la desolante situazione di questi Paesi attanagliati da una povertà priva di ogni prospettiva. Eppure, dalle decine di incontri avuti nel corso dei suoi viaggi, Aime, antropologo e scrittore, è riuscito cogliere una ricchezza umana straordinaria. Un patrimonio che oggi rischia di andare perduto con lo scatenarsi della guerra maliana e il diffondersi dell’estremismo religioso. Questo testo ha quindi un grande valore come testimonianza di una ricchezza dei popoli saheliani che non può e non deve andare perduta. [Edi, 2013, pp. 182, euro 12] Andrea Bouchard Il pianeta senza baci (e senza bici) semplici, ma ineludibili. Nella breve storia della permanenza di Mattia sul pianeta Blu, l’autore, un maestro elementare, affronta con rara sensibilità i temi del razzismo, del totalitarismo, dell’ossessione per la salute e per la sicurezza di una società, come la nostra, disorientata, in cui perdono cittadinanza la natura, il corpo, le emozioni e le relazioni umane più vere e profonde. [Salani, 2013, pp. 160, euro 15] Antonio Ferrari Sgretolamento. Voci senza filtro Prima che il Muro di Berlino crollasse nel 1989, era già iniziata una lunga fase di sgretolamento di quel mondo caratterizzato dalla contrapposizione tra il blocco occidentale e quello sovietico. Antonio Ferrari, inviato del Corriere della Sera, è stato un attento osservatore della transizione. In questo libro, a più di 25 anni di distanza da quegli eventi, ha raccolto le interviste ai protagonisti di quell’epoca. Da esse traspare la progressiva fine delle grandi ideologie e la lenta ricerca di nuovi equilibri politici, economici e sociali, equilibri in parte ancora tutti da raggiungere. [Jaka Book, 2013, pp. 160, euro 15] LA LIBRERIA L a libreria-bistrot Set’, a Roma, è un mix di influenze. Da una parte si ispira alle librerie del Nord Europa: lo si nota ad esempio nell’arredamento, tutto rigorosamente in legno e nell’impostazione del locale, dove l’idea è di creare un luogo d’aggregazione in cui al piacere della lettura si unisca il piacere di ritrovarsi, degustare vino, mangiare. Dall’altra parte questa libreria offre una cucina esotica dai sapori e dalle tecniche di cottura orientali. La libreria punta sulla qualità anche nell’offerta dei libri: rifugge tendenzialmente dai best-seller del momento per proporre invece libri di piccole e medie case editrici. Grande attenzione inoltre all’attualità: ogni mese partendo dalla cronaca si sceglie un tema a cui la libreria dedica un focus con libri e incontri, trasformandosi così in «libreria tematica». Tra i temi affrontati ultimamente: democrazia, paura, potere globale, emancipazione della donna, schiavitù. SET’ P.zza Martiri di Belfiore, ang. Via Settembrini - Roma Luigi Geninazzi Se a prima vista può apparire come un libro di fantascienza per bambini, Il pianeta senza baci è, in realtà, una denuncia della deriva della società tecnologica. Una denuncia indirizzata non solo ai più piccoli, ma a chiunque abbia voglia di lasciarsi interrogare da domande 60 POPOLI OTTOBRE 2013 L’Atlantide rossa. La fine del comunismo in Europa Giornalista di Avvenire, esperto dell’Europa centro-orientale dove è stato per anni inviato, l’autore ripercorre la storia di quella parte del continente sfociata nella caduta del Muro di Berlino nel 1989. Questo spartiacque ebbe negli anni Ottanta una ricca e complessa preparazione. A partire da figure di primo piano come Lech Wałęsa, leader di Solidarnosc (e autore della Prefazione), il libro descrive protagonisti politici o persone comuni, molti dei quali accomunati nella svolta da un’identità religiosa forte. I fermenti del cristianesimo (non solo in Polonia) furono, infatti, determinanti, stimolati dal pontificato di Giovanni Paolo II. E sulla dimensione - quasi ovunque non violenta - di quel risveglio democratico può essere utile rif lettere ancora oggi. [Lindau, 2013, pp. 286, euro 19] Gustavo Gutiérrez, Gerhard Ludwig Müller Dalla parte dei poveri. Teologia della liberazione, teologia della chiesa Una coppia di autori spiazzante - almeno per gli schematismi con cui molti valutano le cose di Chiesa - firma un libro che sta facendo discutere: si tratta di Gustavo Gutiérrez, teologo domenicano peruviano, «padre» della teologia della liberazione, e di Gerhard Ludwig Müller, prefetto della Congregazione per la dottrina della fede del Vaticano, scelto per questo delicato incarico da Benedetto XVI, che non fu certo morbido con alcune derive di questa corrente teologica. Nel momento in cui Müller scrive che «la teologia della liberazione svolge un’opera indispensabile per il servizio della Chiesa di Cristo a favore dell’umanità» e la definisce «irrinunciabile», e dal canto suo Gutiérrez non esita ad ancorare il messaggio della teologia della SUL COMODINO DI... Mauro Magatti Quella lezione di Havel sul totalitarismo V Sociologo ed economista, Mauro Magatti è professore ordinario di Sociologia generale all’Università Cattolica di Milano. Autore di svariate monografie e saggi su riviste italiane e straniere, è editorialista del Corriere della Sera. aclav Havel è un dissidente cecoslovacco che ebbe un ruolo importante, non solo nel suo Paese ma anche sul piano internazionale, nel quadro della grande transizione storica che ha portato al dissolvimento del regime sovietico. Drammaturgo, Havel viene coinvolto nella vita politica suo malgrado, trascinato dalla indignazione morale che gli nasceva dal constatare la condizione inaccettabile nella quale lui stesso, al pari di molti concittadini, si trovava a vivere. Uscito nel 1978, Il potere dei senza potere è il primo libro scritto da Havel ed è stato ristampato nel 2013 da Itaca Libri (introduzione di Marta Cartabia, pp. 208, euro 15). Il volume comincia introducendo la nozione di sistema post-totalitario per qualificare il mondo sovietico. Un sistema nel quale la violenza esplicita viene limitata a casi straordinari, ma dove è all’opera la costruzione forzosa di una rappresentazione sotto la quale si vuole far rientrare l’intera realtà. A partire da questa lucida intuizione, Havel ricostruisce con precisione i meccanismi che sono all’opera e che consentono a un potere chiuso e ottuso di stabilizzare la situazione. Un potere che Havel denuncia come inaccettabile. Per far questo, Havel si appella a un termine che è diventato estraneo a noi post-moderni occidentali che è quello di verità. L’unica via per opporsi a un regime che si nasconde fino a sembrare invisibile è fare appello alla verità che emerge dal contrasto evidente tra la vita quotidiana delle persone e le dichiarazioni, stracolme di ideologia, del regime. È facendo leva su questo iato che Havel costruisce la forza del suo discorso e della sua azione. Leggere Il potere dei senza potere, a 35 anni dalla sua prima uscita nella Cecoslovacchia sovietica degli anni Settanta, è un’esperienza impressionante. Perché leggendo queste pagine si ha la netta sensazione che Havel stia parlando non di un mondo che non c’e più, ma esattamente di quello che stiamo vivendo in Italia e in Occidente in questi anni. Da questo punto di vista, la lettura d Havel è davvero preziosa. Per almeno tre motivi. Il primo è che, anche se non sempre ce ne rendiamo conto, anche noi siamo in un regime posttotalitario. Certo molto diverso da quello sovietico. Formalmente viviamo in un contesto di libertà. Ma anche la nostra esperienza è plasmata da sistemi di potere che investono enormi risorse a legittimare quello che non è legittimabile. Basti citare il caso della finanziarizzazione e di tutto quello che si è portato dietro. Il secondo motivo è che Havel ci indica la via della dissidenza. Oltre a un certo punto, esiste il dovere di non accettare ciò che non è accettabile e di assumere una posizione di responsabilità. La dissidenza non è ancora una proposta compiuta, ma è l’inizio di una presa di consapevolezza che le cose devono cambiare. Il terzo motivo è che Havel mette al centro della scena non i sistemi che organizzano la nostra società, ma la vita delle persone, le loro speranze, le loro paure. Cambiare il punto di vista è decisivo: è da qui che può partire il cambiamento. OTTOBRE 2013 POPOLI 61 Leggere CARTA CANTA L’«altro» nella stampa periodica italiana Sì, viaggiare I n estate lo sguardo punta lontano e le pagine dedicate a possibili mete di spedizioni più o meno esotiche aumentano. Proponiamo qui tre servizi che dicono la varietà di interazioni possibili tra il «nostro» Occidente e i più diversi angoli del mondo. In «Là dove c’era la foresta ora c’è l’olio da snack» (Sette, 26 luglio 2013), Sara Gandolfi ci dice quanto i meccanismi economici e culturali siano interconnessi su scala globale, raccontando come una merendina in Occidente possa deforestare l’Oriente e allargare il buco dell’ozono. Il servizio dà voce alle denunce di Greenpeace: in Indonesia «si bruciano le torbiere (e si distrugge l’ecosistema) per far posto alle piantagioni di palma, da cui si ricavano i grassi delle merendine», con l’effetto che 42 milioni di ettari di foresta rischiano di sparire e che ogni anno vengono rilasciati nell’atmosfera 1,8 miliardi di tonnellate di Co2. Ma non è solo la domanda di materie prime a generare flussi su scala planetaria e non sempre la direzione del flusso è quella che ci aspettiamo. Così la domanda di competenze professionali e know how ha più che raddoppiato il numero degli italiani emigrati a Dubai, a un ritmo di cento nuovi arrivi al mese. «Bye bye, vado a Dubai» (D la Repubblica, 20 luglio 2013) è costruito sulle interviste di Paola Santoro ad alcuni di questi professionisti: gli elevati stipendi sembrano facilitare l’incontro con una monarchia che si ispira all’Occidente per molti aspetti, dalla gestione economica allo skyline cittadino, ma non nel riconoscimento dei diritti civili (niente diritto di voto, pena di morte, scarsissime tutele per i tanti immigrati asiatici che svolgono i lavori più umili). Gli ottimi compensi possono far accettare più di un compromesso, ma non possono essere tutto. Come dice uno degli intervistati: «Qui l’italiano medio è felice. Non manca nulla della sua cultura [?!] dell’ultimo ventennio: locali, soldi, donne, macchinoni. Se sei superficiale, va bene. Altrimenti c’è da lavorare su se stessi. Nessuno ne parla, ma la solitudine è devastante, e il tasso di suicidi tra gli expat è alto». Con «L’inferno sotto il sole dei Caraibi» (Io donna, 20 luglio 2013) ci spostiamo dal «paradiso» degli emirati a Hispaniola, isola caraibica condivisa tra Haiti e la Repubblica Dominicana. Giulia Calligaro incrocia elementi di carattere storico, economico, politico, di costume, tratteggiando il drammatico profilo dei due Paesi. Santo Domingo (Pil pro capite 4.440 dollari/anno, 34% della popolazione sotto la soglia di povertà), dove grattacieli e centri commerciali svettano sopra veri e propri slum, «ospita ogni anno più di 4 milioni di turisti tra palme e spiagge candide, ignari di essere a pochi chilometri da uno dei Paesi più poveri del globo». Haiti, periodicamente devastata da cicloni e terremoti ed esportatrice di manodopera verso Santo Domingo, ha un Pil pro capite di 660 dollari/ anno e ha il 70% della popolazione sotto la soglia di povertà. Entrambi i Paesi sono dipendenti economicamente dall’Occidente: export di materie prime, import alimentare e un terziario che, turismo a parte, vive in relazione al numero impressionante di Ong (12mila solo ad Haiti). Ma l’Occidente entra in profondità anche nell’immaginario locale: Santo Domingo è il Paese al mondo con il più elevato numero di saloni di bellezza per abitante: perché «la grande ossessione qui sono i capelli crespi (pelo malo), che rivelano percentuali di sangue nero, e vengono stirati (pelo bueno) dalle donne fino a bruciarli, nei quartieri più ricchi come in quelli popolari, dove ci si indebita per una messa in piega». Elvio Schiocchet e Maria Grazia Tanara 62 POPOLI OTTOBRE 2013 liberazione al magistero sociale della Chiesa e degli ultimi pontefici e prende le distanze dal marxismo nell’approccio al problema della povertà, sembra davvero giunta l’ora di una definitiva riconciliazione. O forse, semplicemente, cresce nella comunità cristiana la consapevolezza che il cristiano può essere da una sola parte, quella appunto dei poveri. [Coed. Messaggero Padova-Emi, 2013, pp. 192, euro 15] Pietro Kuciukian Dispersi. Viaggio fra le comunità armene nel mondo «Kuciukian ci fa percepire che cosa vuol dire oggi essere armeni e mette subito in chiaro che il problema della memoria non è una questione di ieri, una pura diatriba storica, ma riguarda la condizione esistenziale delle nuove generazioni». Così scrive Gabriele Nissim, ebreo, nell’Introduzione a questo lavoro di esplorazione delle comunità armene della diaspora nel mondo e di scavo della memoria. L’intento dell’autore - parzialmente realizzato perché i Paesi con presenza armene sono numerosi - è di riunire i dispersi dell’altro grande genocidio europeo del Novecento, avvenuto nell’impero ottomano in disfacimento (1915-1917) e che la Turchia moderna non ha mai riconosciuto. Kuciukian viaggia per raccogliere le tracce e i volti di un popolo dalla forte identità, che si trova solo in parte (3 milioni su 11) a vivere nell’Armenia indipendente. [Guerini e associati, 2013, pp. 228, euro 16] Daniela Sangalli, Aldo Corradi In cammino con i miei poveri Un libro per conoscere la storia sofferta e la complessa attualità del Guatemala, attraverso gli occhi di uno dei vescovi centroamericani più noti e amati. Monsignor Álvaro Ramazzini, presule di Huehuetenango, è conosciuto anche come il vescovo dei «senza terra», ed è particolarmente impegnato su temi scottanti dell’attualità centroamericana: i diritti umani, la condizione dei migranti, la salvaguardia dell’ambiente. Per questo suo impegno Ramazzini ha ricevuto minacce di morte negli ultimi anni e ha vissuto quasi un anno sotto scorta. Ritratto di una figura che, come scrive don Alberto Vitali nella Prefazione, si pone in continuità con vescovi del calibro di Samuel Ruiz, Hélder Câmara, Óscar Romero: «Sono questi i pastori che hanno incarnato nei decenni successivi alla Conferenza di Medellín l’opzione preferenziale per i poveri. Sono quelli che hanno saputo rivelare a tutti noi il volto solidale e materno della Chiesa». [Paoline, 2013, pp. 176, euro 12,50] Nello Scavo La lista di Bergoglio. I salvati da papa Francesco All’indomani dell’elezione di Jorge Mario Bergoglio al soglio pontificio vi fu chi, in Argentina, sollevò dubbi sul ruolo del futuro Papa durante gli anni della dittatura, insinuando una sua connivenza con i militari o quantomeno un’eccessiva prudenza nella difesa dei diritti umani. Dopo le immediate e decise smentite, arriva ora questo volume a rendere definitivamente giustizia alla verità. Frutto di un’accurata ricerca giornalistica, Nello Scavo, giornalista di Avvenire, ricostruisce le vicende di quanti - dissidenti, sindacalisti, preti, studenti, intellettuali, credenti e non - l’allora superiore provinciale dei gesuiti riuscì a mettere in salvo dalla persecuzione politica della giunta militare. E non si trattò di episodi sporadici: Bergoglio aveva costruito una vera e propria rete clandestina per salvaguardare i perseguitati (a cui offriva anche preziosi consigli su come depistare la polizia e la censura) e organizzare le fughe all’estero. [Emi, 2013, pp. 192, euro 11,90] Gianluca Solera Riscatto Mediterraneo La Primavera araba, aprendo una fase epocale di cambiamento, ha portato al centro delle cronache la sponda meridionale del Mediterraneo. Ma chi sono i protagonisti di questa rivolta? Come si muovono e come si organizzano? E quali prospettive di reale cambiamento offrono alla regione? Secondo l’autore, che vive in Egitto e che ha compiuto un lungo viaggio in Medio Oriente e in Nord Africa, è in atto un profondo rivolgimento sociale che sta portando a un graduale (e non privo di contraddizioni) superamento degli assetti politici ereditati dalle vecchie dittature. Quale sarà il punto di arrivo della rivolta? Solera è ottimista e crede che il naturale sbocco di questi rivolgimenti non potrà che BABEL Radici straniere, parole italiane «S iamo cresciute in un mondo in cui il nostro stesso respiro ci soffocava, confinate nelle regole irremovibili della repressione». È una frase che da sola dà il tono del libro La rivolta dei dittatoriati (Mesogea 2013), scritto da Ouejdane Mejri e Afef Hagi. Le due donne tunisine raccontano con passione e lucidità la loro Rivoluzione dei gelsomini, vissuta dall’Italia, attraverso i media e i social network, ma sapendo che le loro famiglie erano in prima linea a manifestare in Tunisia. C’è dunque un doppio, meritevole sforzo dietro a questa storia. Da una parte, per scrivere il libro Mejri e Hagi hanno dovuto attingere alla propria biografia, a quello che stavano vivendo, hanno dovuto scavare dentro, interrogarsi e mettersi in discussione. Dall’altra le autrici hanno deciso di scrivere il libro in italiano e di pensarlo dunque per un pubblico non direttamente coinvolto nelle vicende tunisine. Ouejdane insegna Informatica al Politecnico di Milano, fa ricerca nell’ambito dell’uso delle tecnologie in contesti di crisi, è blogger e presidente dell’Associazione dei tunisini in Italia Pontes. Afef, anche lei esponente dell’associazione Pontes, è invece laureata in Psicologia a Parigi e svolge attualmente un dottorato di ricerca sui processi culturali e formativi presso l’Università di Firenze. OUEJDANE MEJRI, AFEF HAGI La rivolta dei dittatoriati Mesogea 2013 pp. 144, euro 15 OTTOBRE 2013 POPOLI 63 Leggere essere l’adozione di nuove istituzioni democratiche che assicurino una maggiore partecipazione popolare alla vita politica. [Nuovadimensione, 2013, pp. 256, euro 17] Paolo Trianni e Marco Vannini, (a cura di) Nella caverna del cuore. L’itinerario mistico di Henri Le Saux in India Forse Henri Le Saux (1910-1973) è stato l’unico, ma almeno lui ci è riuscito, a divenire hindu e rimanere fedele a Cristo. Abhishiktananda fu il nome indiano che si scelse e che significa: «Colui che trova la sua gioia nel Cristo, l’Unto del Signore». A lui è stato dedicato un convegno a Camaldoli (22-24 ottobre 2010) nel centenario della nascita. Ora, con lodevole iniziativa, la Rivista di ascetica e mistica ne pubblica gli atti. Si tratta di un prezioso con- tributo per la conoscenza di questo monaco benedettino, ancora poco noto, che ha raggiunto l’esperienza mistica della unione con il divino, l’advaita. In essa ha potuto svelare il mistero della Trinità cristiana al mondo hindu in modalità a esso comprensibili ed entrare nel mistero di Dio come un hindu lo percepisce. Scriveva sul suo diario spirituale: «Nella mia guha (caverna) è la guha di Cristo. Nella guha di Cristo è la guha del Padre, nella guha del Padre, io sono». [Rivista di ascetica e mistica, n. 2/aprile-giugno 2013, pp. 103, euro 15] Edoardo Zin Robert Schuman. Un padre dell’Europa unita aiuta a comprendere la figura di uno degli ideatori politici dell’Europa integrata, lo statista artefice della Dichiarazione del 9 maggio 1950, a mezzo secolo dalla morte. Quel documento, firmato da Schuman in qualità di ministro degli Esteri della Francia, è convenzionalmente considerato l’atto di nascita del processo di integrazione europea. Le origini culturali dello statista legate al mondo renano, la fede cristiana e il coraggio politico proprio di una generazione uscita dalla guerra mondiale sono elementi tratteggiati in questa breve biografia di un uomo che, come osserva Romano Prodi nella Prefazione, sapeva mettere a fuoco la Germania e le relazioni tra Stati europei in un modo che aiuterebbe nel contesto di oggi. [Editrice Ave, 2013, pp. 126, euro 12] Mentre l’Unione europea vive una fase di lacerazioni non solo economiche, questo saggio su Schuman Puoi leggere Popoli anche su tablet e smartphone 8 ottobre Milano Scarica gratuitamente l’applicazione su Apple Store e Ultima Kiosk Abbonamento annuale € 20,99 Un singolo numero € 2,69 64 POPOLI OTTOBRE 2013 Presentazione di La lista di Bergoglio. I salvati di papa Francesco, di Nello Scavo. Nella sede di Popoli, P.za S. Fedele 4, ore 18.30 ottobre-novembre Varese-Como Frontiere letterarie, festival per abbattere le frontiere territoriali e mentali. Tra gli ospiti il «nostro» Giacomo Poretti www.frontiere-letterarie.it Guardare Il passato Il film più «europeo» di Farhadi, conferma la grandezza del cineasta iraniano, che racconta le fratture di una famiglia complessa «T utto ciò di cui siamo sicuri è il dubbio», dice uno dei protagonisti di Il passato, primo film «francese» del regista iraniano Asghar Farhadi. E l’incertezza della verità era anche il tema centrale del suo precedente capolavoro, Una separazione. Farhadi prende ancora spunto da una situazione comune: una gita, una rottura, un divorzio. Apre ogni film su un dettaglio quotidiano conosciuto e ordinario, per poi indagare le sfumature, la complessità degli uomini e del mondo. In Una separazione, una fotocopiatrice in movimento, volti indistinti, identità fuori fuoco. Il passato - premio della giuria ecumenica all’ultimo Festival di Cannes e in uscita a dicembre nelle sale italiane - inizia invece con l’arrivo di un uomo durante un temporale. Tergicristalli in movimento tentano di ripulire il parabrezza dalla pioggia, ma anche di cancellare il titolo che emerge dal buio: Le passé. I tergicristalli sembrano quasi ottenere un risultato, ma il titolo resiste, ritorna. Come a dire, fin dai primi fotogrammi, che «il passato» non può essere rimosso in nessun modo. Non basta non pensarci. Metafora chiara: e tutto il film è costruito sugli sguardi dei personaggi, sui movimenti nervosi dei loro corpi. Mani si sfiorano dicendo qualcosa che non può essere afferrato del tutto, nemmeno nello straordinario finale in una stanza d’ospedale. I dialoghi aggiungono frammenti su frammenti al puzzle delle relazioni umane. Chi pensava che il primo film realizzato in Europa da Farhadi potesse coincidere con una occidentalizzazione o con un possibile snaturamento dello sguardo personale e profondo del regista, si deve ricredere. La potenza del suo cinema, infatti, è racchiusa ancora una volta proprio nella capacità di inquadrare rapporti infranti, persone e silenzio, forse come nessun’altro oggi. Parla con i volti dei propri attori, co- DOCUMENTARI a cura di BiblioLavoro - Cisl Lombardia Nel mese missionario, presentiamo alcuni documentari sul tema CHIQUITANÍA - LA MUSICA DEGLI INDIOS Regia di Daniel Baldotto. Italia, 2002, 55’ La musica nelle missioni dei gesuiti del Sud America fu un importante strumento di diffusione della fede cristiana, come racconta anche il reportage a p. 30. MFUMU MATENSI, L’ONCLE MISSIONNAIRE Regia di Samuel Tilman e Nicolas de Borman. Belgio, 2003, 54’ Victor Mertens, conosciuto anche come Mfumu Matensi, è stato un missionario gesuita belga attivo in Congo dove visse per oltre sessant’anni guidando la Compagnia di Gesù negli anni che portarono il Paese all’indipendenza. La sua lunga vita è raccontata al pronipote arrivato in Congo per incontrarlo. VERBA MANENT A cura di Nova-T Produzioni televisive e multimediali. Italia, 2013 Serie di web documentari in cinquanta episodi con testimonianze di missionari in terre «estreme» raccolte dal Centro di produzioni televisive e multimediali dei frati cappuccini, fondato a Torino da padre Ottavio Fasano. Per il prestito dei video: BiblioLavoro (libri - video - archivi storici) tel. 02.24426244 - [email protected] lori della pelle e Paesi di provenienza diversi, culture contrastanti e forse inconciliabili. Farhadi è un osservatore unico e straordinario della bellezza, della multiformità e del dolore dell’uomo. Del suo inestirpabile male quotidiano. Tra incomprensioni, tensioni, confessioni mai dette e traumi, il film racconta un’altra separazione, tra l’iraniano Ahmad (Ali Mosaffa) e Marie (Bérénice Bejo, migliore attrice a Cannes), che vive da diversi anni a Parigi con Samir (Tahar Rahim), francese beur (di origine nordafricana), e tre ragazzini. Il regista si concentra soprattutto sui propri magnifici attori, soffre con loro, con grazia, onestà e pudore. Si limita a osservare, a mettere a fuoco il dolore che ogni rottura trascina con sé, negli anni. Lascia sottintesa - ma evidente come i titoli - l’importanza di un dialogo vero, sincero e profondo tra le persone. Sa dare un contorno cinematografico, nitido e spiazzante, all’inafferrabile animo umano. Luca Barnabé OTTOBRE 2013 POPOLI 65 Guardare A cura dell’Osservatorio Media Research di Pavia Da dimenticate a invisibili: le crisi umanitarie nei Tg Nel 2012 solo 4 notizie su 100 nei telegiornali italiani della sera sono state dedicate alle guerre e alle emergenze umanitarie nel mondo L e crisi umanitarie stanno scomparendo dall’agenda dei telegiornali nella fascia di massimo ascolto. Il 9° Rapporto di Medici senza frontiere (Msf) su Le crisi dimenticate dai media nel 2012, realizzato in collaborazione con l’Osservatorio di Pavia, ha preso in esame la copertura delle crisi umanitarie nei sette notiziari italiani di prima serata (tre pubblici e quattro privati): nel corso del 2012 i notiziari hanno de- dicato solo il 4% a contesti di crisi, conflitti, emergenze sanitarie e umanitarie. Si tratta del dato più basso dal 2006 a oggi, da quando Msf ha avviato un monitoraggio dei Tg. Distribuzione per eventi e/o scenari di crisi umanitarie internazionali. Quando si parla di crisi, in quasi due terzi dei casi ci si riferisce a scenari di guerra e di conflitto (67%). La parte più significativa è occupata da due contesti: la Siria, con il 26% (pari a 506 notizie) e l’Afghanistan con il 15% (a 292 notizie). Segue lo spazio attribuito a singoli eventi critici, seconda voce dell’agenda delle crisi con il 35%, in particolare ai rapimenti e alle proteste. La «notiziabilità» (la visibilità di alcune aree) è collegata a singoli eventi, che vedono il coinvolgimento di cittadini occidentali, italiani nella maggior parte dei casi. Notizie su epidemie (13, Festival A Trento, tutti nello stesso piatto È giunto alla 5ª edizione un appuntamento molto atteso a Trento: il festival cinematografico Tutti nello stesso piatto (5-27 novembre, www.tuttinellostessopiatto.it), organizzato da Mandacarù Onlus, cooperativa di commercio equo, e Consorzio Ctm-Altromercato, che declina a 360º il tema del cibo, affrontando questioni che spaziano dalla filiera di produzione ai cambiamenti climatici all’accaparramento energetico. «Se negli scorsi anni al Festival arrivavano molte produzioni legate agli aspetti più glamour del cibo - spiega la direttrice del Festival, Beatrice De Blasi - quest’anno prevale nettamente un taglio di giornalismo investigativo, con grande attenzione alla violazione dei diritti umani». E infatti i temi dominanti tra i 45 documentari e film, sono gli effetti nefasti, su popolazioni e ambiente, delle perforazioni per l’approvvigionamento del petrolio e gli spostamenti forzati di popolazioni intere causate da land grabbing o costruzioni di dighe. Il Festival aprirà con il documentario Glacial Balance, dedicato a Roberto Filippi, glaciologo trentino scomparso nel 2011, un viaggio di cinque anni dall’Argentina alla Colombia per conoscere lo scioglimento dei ghiacciai e capire che impatto hanno sulla nostra tavola. Ogni proiezione serale sarà preceduta da una degustazione di piatti che i cuochi del circuito Slow food hanno creato, con prodotti locali e del commercio equo-solidale. Ai film che saranno proiettati presso il Museo di Scienze di Trento (Muse) seguirà un dibattito con ricercatori. Il Festival presenta un Focus sulla Cina con De Regenakers, dell’olandese Floris-Jan van Luyn, indagine su quattro attivisti che non accettano il degrado ecologico della loro terra, e Waking the Green Tiger del canadese Gary Marcuse, straordinaria lotta di giornalisti e agricoltori contro la costruzione di una diga sullo Yangtze che forzerebbe 100mila persone ad abbandonare le proprie terre. Infine, il pluripremiato Solar Mamas: due giordane rischiano di essere cacciate di casa perché hanno osato partecipare a un corso di formazione rivolto a donne analfabete. In sei mesi hanno imparato a costruire pannelli solari, garantendosi così un mestiere e indipendenza economica. Il film fa parte della campagna «Why Poverty», e l’organizzazione del Festival, che ha ottenuto i diritti dalla produzione sudafricana, lo distribuisce gratuitamente a tutte le organizzazioni che lo chiedono. pari allo 0,6%) riguardano in metà dei casi Hiv/Aids, alla malnutrizione sono dedicate 11 notizie, mentre alle calamità naturali sono dedicati 26 servizi (1,3%). Come nei Rapporti precedenti realizzati dall’Osservatorio di Pavia per Msf, si rileva la visibilità continua di alcune crisi particolarmente gravi (come la Siria), la visibilità «ciclica» di altre (come il Sudan, di cui si è parlato in occasione dell’arresto di George Clooney durante un sit-in di protesta davanti all’ambasciata sudanese negli Usa) alternata a lunghi silenzi; e, infine, l’invisibilità cronica di alcune crisi che non hanno ricevuto, nel 2012, alcuna copertura mediatica (è il caso della Repubblica Centrafricana dov’è in corso una grave crisi sanitaria e umanitaria a seguito della guerra civile). Anche le malattie tropicali neglette, tra cui malattia del sonno, malattia di Chagas o la stessa tubercolosi sono state sostanzialmente ignorate. Prossimità e decontestualizzazione delle crisi risultano essere due elementi specifici della notiziabilità delle crisi umanitarie internazionali nei Tg italiani. Nel corso del 2012 non è mancata una copertura vasta e appropriata di situazioni di crisi gravi, drammatiche e prossime (come Siria e Medio Oriente). Si è verificata, però, una sottorappresentazione di crisi umanitarie meno eclatanti, ma dalle conseguenze non meno gravi. Quando le crisi umanitarie nel mondo non sono vicine (il caso, nel 2012, della Nigeria), lo diventano perché vi sono coinvolti nostri connazionali. Per questo si può parlare di decontestualiz- zazione: l’area o il Paese in cui è in corso una crisi umanitaria non sono raccontati in ragione di quella crisi, ma per eventi relativi a vicende che toccano da vicino l’Italia. Così si parla di Mali quando viene liberata la cooperante Rossella Urru, o di Nigeria, di cui si è ampiamente parlato in occasione dell’uccisione di un ostaggio italiano, Franco Lamolinara. I Tg nel 2012 si sono sempre più dedicati alla crisi economica in Italia e in Europa e di conseguenza alla politica, tanto da ridimensionare anche le soft news (curiosità, gossip, costume). Tuttavia, la pagina di «Curiosità e costume», pur in diminuzione, occupa il 6% del totale. Qualche confronto. Se le «crisi umanitarie» trovano sempre meno spazio, la «fine del mondo» profetizzata dai maya ha invece conquistato 30 notizie. La classica «emergenza fred- do», con l’arrivo dei malanni di stagione, 39 notizie. Ancor più grande l’attenzione al mondo animale: 70 notizie in un anno di informazione serale, con racconti di formichieri rimasti orfani e di gatti obesi abbandonati dai padroni. Come ha scritto José Saramago nel romanzo Cecità: «Perché siamo diventati ciechi, Non lo so, forse un giorno si arriverà a conoscerne la ragione, Vuoi che ti dica cosa penso, Parla, Secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo, Ciechi che vedono, Ciechi che, pur vedendo, non vedono». Paola Barretta Pippo Delbono «Il mio incontro con l’Africa che sa ridere» R egista, attore teatrale e cinematografico, in ottobre al Piccolo Teatro di Milano con il suo ultimo spettacolo, Pippo Delbono è una tra le più significative voci del nostro panorama culturale, molto conosciuto anche all’estero. Spesso veemente nello svelare ipocrisie e derive morali della società contemporanea, ha sempre considerato il confronto con la diversità un momento cruciale della sua ricerca. Un’inquieta curiosità che lo ha spinto, nel corso della sua trentennale attività, in decine di Paesi. Risale ad appena qualche mese fa l’incontro con il Senegal e il potente battesimo dell’Africa Nera. Cosa l’ha indotta ad approdare in Africa subsahariana? L’Africa è uno di quei luoghi che appartengono alla nostra comune storia di uomini, e non potevo esimermi, come artista, da un contatto diretto. Era importante stare, esserci in questo luogo della Terra dove si soffre e si muore, ma che è al tempo stesso il più ricco di vitali contraddizioni, tanto da costituire la verosimile prospettiva futura del pianeta. È inoltre il luogo in cui ritrovi l’origine di moltissime cose, di quasi tutte le musiche ad esempio, e all’origine bisogna avere il coraggio di tornare. Che cosa le ha lasciato di più prezioso questo viaggio? Qualcosa che ha a che fare con lo stomaco, la carne, la pesantezza ma anche la leggerezza. Una pesantezza che senti nel modo di confrontarsi retrivo, perfino fascista, con la religione, le donne, l’omosessualità o l’Aids, alla quale si associa una leggerezza straordinaria nel rapporto con la gioia, la sensazione di essere parte di un tutto e la capacità di essere poveri senza lasciare che la povertà spezzi la relazione con la felicità. Prima di riprendere l’aereo sono capitato in mezzo a un gruppo di donne che ho filmato per più di un’ora mentre ridevano e manifestavano con intensità sorprendente la propria gioia, pur non possedendo quasi nulla. Quando sono arrivato a Parigi, ho riascoltato la gente parlare di crisi, con tristezza e nostalgia per qualcosa di perduto. Noi abbiamo perduto ciò che l’Africa conserva: il rapporto con la felicità, la natura, l’energia presente. Ci sono molte signore, in Europa, cui occorrerebbe una vita intera per ridere quanto quelle donne in un’ora e mezza. Pensiamo sempre a come eravamo o a come vorremmo essere e viviamo poco nel presente. Siamo fuori ritmo. Abbiamo un serio problema con il ritmo. E a livello professionale quali tracce ha lasciato l’Africa? Nell’ultimo spettacolo, Orchidee, ci sono immagini che ho ripreso da queste donne in festa e alcune parole del poeta Senghor. Ma si tratta solo di un primo passo cui dovrebbe seguire un progetto da realizzare in Senegal tra il 2014 e il 2015. Sarebbe arrogante, dopo una permanenza di due settimane, pretendere di raccontare l’Africa nella sua complessità. È una terra su cui abbondano idee retoriche, banali, da cui occorre prendere le distanze con una conoscenza approfondita. Mi considero un uomo che è entrato da una piccola porta e ha appena sbirciato. OTTOBRE 2013 POPOLI 67 Vincenzo Maria Oreggia Ascoltare Se la cover è meglio dell’originale Autori arabi e israeliani hanno riproposto vecchi successi con risultati ottimi sia dal punto di vista sonoro sia da quello dell’interpretazione A volte le «copie» sono migliori degli originali. Non succede molto spesso, ma accade che in campo musicale le cover (ovvero i rifacimenti) possano superare in originalità e complessità le versioni originali. Spesso si tratta di classici e, a volte, persino di hit, che vengono ripensati e riproposti in modo inconsueto o alternativo, al punto da arricchire di nuove sonorità la traccia storica. Qui parleremo di quello che possiamo definire «East meets West», ovvero l’Oriente che incontra l’Occidente. Iniziamo da Israele, dove il patrimonio culturale degli ebrei mizrahi (provenienti dal Nordafrica e dal Medio Oriente, o meglio, da tutti quei Paesi a maggioranza musulmana tra Mediterraneo e Asia Centrale) ha portato numerosi artisti di questo ceppo a cercare di connettersi con le radici della cultura araba in cui i loro genitori e nonni hanno vissuto per generazioni. Ciò si nota in particolare in campo musicale. I Mashrou’ Leila Paradossalmente, alcuni artisti ebrei israeliani di origine mizrahi hanno un significativo seguito nei Paesi confinanti, proprio perché cantano anche in arabo. Come, ad esempio, Zehava Ben e Eyal Golan, di stirpe marocchina: stessa cosa per la star Sa- rit Hadad, metà tunisina e metà caucasica. Ben e Hadad hanno incluso nel loro repertorio dal vivo alcuni grandi classici di Umm Kulthum, leggendaria cantante egiziana che ha segnato per sempre la storia musicale dei Paesi arabi. Accomuna le folle D 68 POPOLI GIUGNO-LUGLIO 2013 al 1997 (ogni sabato, ore 20,30-22,30) va in onda su Radio Onda d’Urto (Bs) Vivara, programma della comunità srilankese. Vivara in cingalese significa «guardare nella profondità delle cose» ed è questo lo spirito del programma condotto da Vigit, cingalese da oltre vent’anni in Italia. Il programma inizia con una sintesi in italiano delle notizie che riguardano lo Sri Lanka e la comunità srilankese in Italia, poi prosegue in lingua cingalese. Dopo una canzone scelta in base alla puntata, Vigit apre uno spazio dedicato ai più piccoli. «Ci seguono molte famiglie - spiega -. Inoltre la nostra associazione Solidarietà Sri Lanka-Italia (300 famiglie iscritte su 5mila cingalesi residenti a Brescia) ha creato una scuola, che i bambini frequentano la domenica, per imparare cultura, lingua e storia del nostro Paese. Questi bambini vengono quindi coinvolti in registrazioni di fiabe per loro». Dopo lo spazio dedicato all’infanzia segue uno spazio dedicato ai temi legati all’immigrazione. Non manca poi un Gr di notizie nazionali e internazionali. La trasmissione si chiude con un approfondimento sulla politica cingalese. 10-13 ottobre Roma Al Parco della Musica, si tiene il Festival del flamenco con i migliori interpreti del genere. www.auditorium.com 13 ottobre - 2 marzo Milano XXIX Stagione di «Aperitivo in concerto» dedicata alla musica afroamericana. aperitivoinconcerto.com israeliane, così come i fan di fede islamica, la commovente Enta omri (Sei la mia vita), cavallo di battaglia proprio di Umm Kulthum (che la incise nel 1965), eseguita dalla Hadad anche nel corso di tour europei. Il giovane rocker Dudu Tassa è diventato famoso nel 2005 per una versione moderna del classico iracheno Fog el nakhal (Sopra le palme), che affonda le ZEHAVA BEN radici nella tra- ENTA OMRI dizione anti- 2008 ca del maqam. Questo motivo fu portato al successo da Nazem Al-Ghazali, uno tra i più famosi autori e interpreti popolari iracheni del XX secolo. E se Tassa, in onore alle ascendenze irachene della sua famiglia, riprese questa canzone in arabo, farcendola di sonorità moderne, c’è chi in Italia ha scelto la stessa per una versione mistica. Ci riferiamo a Franco Battiato, che nel 1992, eseguì la sua personale versione di Fog el nakhal proprio a Baghdad. Le traiettorie della musica si beffano dei conflitti, dei muri e degli «scontri tra culture». Il pezzo è stato poi inserito anche nell’album-omaggio a Giuni Russo Cercati in me (uscito postumo nel 2008). Per tornare invece a cover di pezzi più recenti e mainstream, rimaniamo ancora tra Israele e Europa, con l’israeliana di origine franco-tunisina Yael Naim, balzata all’onore delle cronache qualche anno fa per suoi due accattivanti pezzi scelti rispettivamente per YAEL NAIM una pubblicità YAEL NAIM di una gran- 2008 de compagnia americana di computer e di un’azienda italiana del settore alimentare. Detto questo, nel 2008 la Naim ha utilizzato la sua superba voce per rivoltare come un calzino la patinata e osé Toxic di Britney Spears. Regalandoci una versione cover di gran lunga più bella della hit originaria. Ci spostiamo di pochi chilometri e andiamo in Libano, turbolento Paese arabo confinante. Qui la giovane e talentuosa band dei Mashrou’ Leila sta crescendo in popolarità in modo vertiginoso in tutto il bacino mediorientale, sia grazie a ottime produzioni originali, che a cover intriganti. Come Ghadam Yawmon Afdal (Domani sarà un giorno migliore, 2011), riproposizione delle hit dell’album Clint Eastwood dei Gorillaz, e Ma tetrekni heik (2013), versione levantina di Ne me quitte pas del chansonnier Jacques Brel. Alessandra Abbona STRUMENTI Baglama I l baglama, detto anche saz (da noi è noto come chitarra saracena), è uno strumento a corde simile al liuto, diffuso principalmente in Turchia, nella regione balcanica e nell’Asia Centrale. Di origine antica, è considerato il simbolo della musica folk turca. Ne fa accenno la saga di Dede Korkut, risalente al XV secolo, ma strumenti cordofoni simili (come il kopuz) fanno parte del patrimonio sonoro delle tribù turche dell’Anatolia e dell’Asia Centrale da almeno due millenni. Come il liuto, il baglama ha una cassa armonica panciuta e un manico piuttosto lungo. Possiede due coppie di corde più un terzetto (sette corde in totale): può essere regolato su varie sonorità e prendere diversi nomi a seconda della zona in cui viene utilizzato. Il cura è lo strumento più piccolo della famiglia dei baglama, mentre il divan sazı è il più voluminoso. Lo strumento si divide in tre parti: il guscio (che può essere prodotto in legno di gelso, ginepro, faggio, abete, noce), quindi la tavola armonica (in abete) e il manico (che dev’essere di abete o di faggio). Viene suonato pizzicandone le corde con un plettro (detto tezene) in corteccia di ciliegio o anche plastica oppure con le dita, nel classico stile noto come selpe. Questo strumento viene impiegato nella musica popolare e classica di tradizione ottomana, con estensioni anche nelle regioni curde, Siria e Iraq. Anche nella vicina Grecia il baglama è piuttosto usato, in particolare nel rebetiko, genere musicale popolare come lo sono il blues negli Stati Uniti e il tango in Argentina. Tra i musicisti contemporanei di una certa notorietà che si sono cimentati con il baglama vi è il turco Zülfü Livanelioglu, classe 1946, artista poliedrico (cantautore, scrittore giornalista e regista). Livanelioglu viene definito «il Bob Dylan turco», per la sua felice fusione tra musica folk e musica moderna. Molto ampia è la sua discografia, che testimonia una carriera quarantennale. Tra i tanti riconoscimenti anche il Premio Tenco in Italia, ovvero l’Oscar della musica d’autore e di qualità. a.a. OTTOBRE 2013 POPOLI 69 Benvivere Hai poco tempo? Fai volontariato! A Milano, un sito rende possibile, anche per brevi periodi, trovare forme di impegno sociale Q uando si tratta di fare del volontariato, la maggior parte di noi sente una spinta emotiva, ma incontra spesso il freno del tempo. «Ho solo due ore libere! Mi piacerebbe, ma proprio non riesco». Sono queste le frasi che si sentono dire. Ma è stato proprio questo vincolo a solleticare Odile Robotti, manager milanese, docente universitaria, che nel 2008 ha creato il primo network in Italia di volontariato flessibile, a portata di click (www. milanoaltruista.org). È sufficiente andare sul sito, visionare il calendario con l’elenco di tutte le attività divise per tipologia e luogo (si va dal lavoro con i senza fissa dimora alla tinteggiatura delle scuole, dalla creazione di murales all’accudimento di anziani), scegliere quella per cui si è disponibili - anche solo per due ore al mese - e iscriversi. «Nel 2008 volevo fare volontariato, ma scoprii che non era così facile. Anzitutto su Internet non esisteva un sito che aggregasse le varie possibilità. Una volta superato il primo ostacolo e recuperati i recapiti ho scoperto che le associazioni richiedevano un 70 POPOLI OTTOBRE 2013 colloquio, un corso di formazione e una garanzia di continuità. Ma chi ha poco tempo in questo modo viene disincentivato. Questo approccio mi ha intimidito». Odile non si è rassegnata e ha iniziato a documentarsi per trovare una formula che permettesse a chiunque di poter fare volontariato. E così è volata negli Usa per conoscere la realtà dell’associazione Hands Zone, che l’ha fatta entrare in contatto con alcune realtà di New York e Washington. Odile ha importato il modello in Italia e ha fatto nascere l’associazione, che si è affiliata a Hands Zone. «Il nostro sito - spiega - non solo aiuta gli aspiranti volontari a trovare l’attività a loro più adatta, ma dà una mano anche alle Onlus a trovare i volontari con le carat- teristiche giuste per raggiungere i loro obiettivi e, se possibile, ampliarli». Finora hanno partecipato circa un migliaio di persone, soprattutto donne di età compresa tra 30 e 40 anni. SOLIDEE «Amici di Lazzaro» in strada contro la tratta A Torino il numero di prostitute nigeriane è sensibilmente aumentato dal 2011. Molte di queste donne sono arrivate dalla Libia, ottenendo il permesso di soggiorno per motivi umanitari. Di queste, 310 (il 78%) risultano sfruttate da maman o bros (protettori). Portate in Italia con l’inganno, si trovano costrette a prostituirsi dietro il ricatto e le minacce di ripercussioni sulle loro famiglie. Avvicinarle e aiutarle non è facile. Da quindi- ci anni l’associazione «Amici di Lazzaro» se ne occupa ed è riuscita a liberare centinaia di ragazze da questa schiavitù. L’Associazione sta cercando dieci volontari tra i 18 e 30 anni che svolgano attività di strada contro lo sfruttamento. Una volta formati, accompagnati da esperti, cercheranno di parlare con le ragazze, dando loro informazioni sulla possibilità di scappare e trovare un rifugio sicuro, una nuova identità. Un’attività che richiede tempo in quanto incontra un’iniziale resistenza. Le ragazze infatti sanno che possono esporre le loro famiglie a ritorsioni e sono quindi restie a ribellarsi. Una volta trovato il coraggio per affrancarsi, però, difficilmente tornano indietro. Info: www.amicidilazzaro.it HABITAT Green concept, l’architettura che rispetta l’ambiente L e istanze ambientali rappresentano per architetti e ingegneri uno stimolo a progettare costruzioni sempre più speciali sul piano tecnologico e su quello della creatività. L’inserire elementi innovativi è diventato ordinaria amministrazione e, pur in un panorama generale non incoraggiante, spiccano alcuni esempi virtuosi di architettura ecosostenibile. Come il Correctional Institution di Hong Kong, prigione femminile nel quartiere di Lo Wu che non solo ha tutte le caratteristiche per ospitare e riabilitare i detenuti, ma è stato costruito e progettato per essere ecosostenibile: dai tetti ecologici all’impianto solare termico che fornisce acqua calda, dall’illuminazione naturale al sistema di ventilazione potenziato. La sfida è stata raccolta e amplificata dalla Germania. Ad Amburgo, città che quest’anno ospita l’International Building Exibition, centinaia di nuove costruzioni sono state realizzate ispirandosi al green concept. Tra esse la Soft House progettata dal Massachusetts Institute of Technology di Boston. Questa presenta, oltre a tutte le dotazioni dei normali edifici, un’innovativa «facciata dinamica» che, tramite elementi tessili e moduli a inseguimento solare, cattura energia con un’altissima efficienza su tutta la superficie verticale esterna dell’edificio. Un altro esempio attento alle esigenze ambientali è rappresentato dalle due torri di Francoforte, sedi della Deutsche Bank. Inizialmente chiamate scherzo- samente «Debito e Credito», ora sono state ribattezzate dai media Green Towers. Mario Bellini, architetto italiano, ha curato la ristrutturazione dei due grattacieli riuscendo non solo a riciclare il 98% dei materiali risultanti dalle demolizioni, ma anche a ottenere il Leed Platinum, massima certificazione per le costruzioni sostenibili. Per finire, il Vietnam fa da modello per il costruire consapevole attraverso le nuove leve della bioarchitettura: come Vo Trong Nghia, che con opere quali la Casa di Pietra e la Stacking House dimostra che si può scegliere tra un passato fatto di sprechi e il futuro che armonizza uomo e natura. Roberto Desiderati IL COLORE DEI SOLDI I numeri dell’inclusione finanziaria degli immigrati 620. 000 C irca 620mila immigrati possiedono un conto corrente presso istituti di credito italiani e appartiengono a un profilo finanziariamente evoluto. Si tratta di individui che si relazionano con il sistema finanziario non solo per la semplice custodia del risparmio e la concessione del credito, ma chiedono servizi più complessi che vanno dalla gestione dei pagamenti alla gestione del proprio patrimonio. Si tratta in prevalenza di uomini fra i 35 e i 55 anni, con un profilo di istruzione medioalto. Da un punto di vista lavorativo hanno un lavoro dipendente stabile o sono piccoli imprenditori, quasi la metà di essi possiede un’abitazione propria. Da dove vengono? In questo gruppo sono rappresentate tutte le principali nazionalità a conferma che la nazionalità in sé non è un indicatore di inclusione finanziaria. Daniele Frigeri Direttore scientifico Osservatorio CeSPI (www.cespi.it) 4-6 ottobre Ferrara «Tuttaunaltracosa», fiera nazionale del commercio equo e solidale. www.tuttaunaltracosa.it 4-6 ottobre Tione (Tn) «Ecofiera», rassegna dedicata allo sviluppo sostenibile nelle aree di montagna www.ecofiera.net Gustare La cucina europea «ladra» di ingredienti Che cosa rimarrebbe della nostra tradizione culinaria senza mais, pomodori, peperoncino, patate, maiale e pesche? Un cavolo A La ricetta •••••••••••••••••••••••••••••••••••••••••••••••••••••••• •••••••••••••••••••••••••••••••••••••••••••••••••••••••• insistere sull’identità in cucina si rischiano sorprese. Noi europei, ad esempio, volendo riandare alle origini, dovremmo fare a meno di pomodori e polenta, di cacao e peperoncino, dei tacchini che ci vengono dalle Americhe. Dovremmo fare a meno anche di pesche e maiale, dei cetrioli arrivati dall’Asia, del caffè africano, delle spezie, ecc. Ci rimane il cavolo. Più europeo del cavolo non c’è proprio GRÜNKOHL UND PINKEL Prendere un cavolo cappuccio, tagliarlo sottilmente, scottarlo in acqua bollente e scolarlo. In una padella far rosolare della pancetta con una mezza cipolla tagliata sottile. Aggiungere il cavolo e far cuocere a fuoco vivace per pochi minuti poi aggiungere acqua, coprire e continuare la cottura a fuoco lento per mezz’ora con del brodo di carne. Salare e pepare, aggiungere senape, salsiccie, carne o una fetta di prosciutto e continuare la cottura per altri trenta minuti. Servire con patate bollite o rosolate in burro e zucchero. 72 POPOLI OTTOBRE 2013 nulla. I suoi antenati crescono ancora nell’isola di Helgoland, nel Mare del Nord e da lì si sono diffusi ovunque. Ma ci volle la fantasia dei contadini germanici per moltiplicare il cavolo selvatico (Brassica Oleracea) nelle centinaia di varietà oggi conosciute. Dapprima ci fu il cavolo a foglia (come il nero toscano), poi si diffusero i cavoli «a testa», cioè il cavolo cappuccio e la verza derivati dalla trasformazione della gemma principale (Brassica oleracea var. capitata). Dalla mutazione della infiorescenza vennero prima il broccolo e poi il cavolfiore (Brassica oleracea var. botrytis), dall’ingrossamento del fusto derivò il cavolo rapa (Brassica oleracea var. gongylodes), dallo sviluppo delle gemme laterali il cavoletto di Bruxelles (Brassica oleracea var. gemmifera). E ci sono le varianti regionali, come il Vinschger Kobis della Val Venosta, il cavolo cinese, la cima di rapa del Mediterraneo (Brassica rapa sp.) e il cavolo palma, l’Ostfriesische Palme della Frisia Orientale. Una mutazione incessante. Barili di crauti accompa- gnarono Cristoforo Colombo e tutti i navigatori europei lungo le rotte degli oceani: con i loro minerali e le vitamine permisero agli equipaggi di mantenersi in salute e di approdare, appunto, in ogni angolo del mondo. I popoli del mare del Nord non dimenticano le origini autoctone del cavolo. Nei gelidi pomeriggi invernali quando vogliono fare festa radunano gli amici e, in corteo, tirando carretti pieni di cibo e di bottiglie, si dirigono verso la campagna, fermandosi a ogni angolo per brindare e giocare. È il Kohlfahrt, il «viaggio del cavolo», inventato nei secoli scorsi dai ricchi delle città che finivano la scampagnata nelle osterie a mangiare cavolo riccio e salsiccie (pinkel). Con il tempo il Kohlfahrt si è arricchito di usanze, ad esempio quella di eleggere il re e la regina del cavolo e di offrire doni ai mangiatori più robusti. Anche le trattorie di campagna si adeguano cucinando enormi quantità di cavolo riccio. Perché, come dice il proverbio: «meglio far scoppiare la pancia che far avariare i cavoli» (M. Krause, G. Falschlunger, V. Danese, Vivere il sapere. Cavoli, Provincia di Bolzano, 2010). Anna Casella Paltrinieri RETROGUSTO Locali etnici con una storia dietro Oficina de Sabor H a trascorso la sua vita lavorativa nel mondo della comunicazione di impresa, prima come portavoce della Olivetti di Carlo De Benedetti, poi con una propria società. L’incontro umano e professionale con la cuoca brasiliana Natalia Costa lo ha proiettato in un mondo completamente diverso, quello della cucina sudamericana. Così, dopo 35 anni, Lucio Filisdeo si è trovato impegnato nella promozione non più di prodotti high tech, ma di piatti prelibati. «Il titolare di un ristoratore di Milano - spiega Filisdeo - aveva deciso di trasformare il suo locale di cucina toscana in un ristorante brasiliano. Così si era recato in Brasile e si era accordato con la Porcão, una rete di churrascarias in franchising. Tornato in Italia allestisce così il primo ristorante brasiliano. Natalia, che aveva una grande esperienza ai fornelli e aveva lavorato per Porcão, lo aveva seguito, iniziando a lavorare nella sua cucina. Quando ho conosciuto Natalia. Io la conobbi quando era appena arrivata in Italia. Era il 1993». Nel 1999 il locale si trasforma e prende il nome di Oficina de Sabor. Natalia, che nel frattempo si è sposata con Lucio, è sempre alla guida della cucina. Nel menù, oltre al churrasco (carne cotta alla brace su spiedoni) tipico delle regioni meridionali del Brasile, vengono affiancati anche piatti di pesce, secondo le ricette tradizionali del Nord-Est del Paese. «Il proporre piatti di pesce - continua Filisdeo - fa di noi una churrascaria speciale. Tradizionalmente infatti in una churrascaria vengono serviti solo piatti di carne. Noi invece uniamo due tradizioni culinarie diverse e questo ci rende unici». I clienti di Oficina de Sabor sono in maggioranza italiani, ma i brasiliani non mancano. A Milano c’è infatti una piccola comunità carioca anche se, negli ultimi tempi, complice la crisi, si è assottigliata un po’. II ristorante ha cambiato la vita di Lucio. «Una volta in pensione - conclude - mi sono dedicato anima e corpo al locale. Non ho ruoli operativi, ma coordino i lavori e mi occupo della promozione della nostra attività. In questo ho fatto tesoro della mia passata esperienza». OFICINA DE SABOR Via Agnesi 17, Milano SORSEGGI Kinnie L 12 ottobre Torreano di Martignacco (Ud) «Good», rassegna nazionale dei prodotti alimentari tipici. www.udinegoriziafiere.it 31 ottobre Longarone (Bl) «Sapori italiani», fiera dei prodotti tipici delle aree montane. www.longaronefiere.it a ricetta è segreta come quella della Coca Cola. Del Kinnie però si sa che è una miscela di ingredienti provenienti dal bacino del Mediterraneo. Su tutti il chinotto, agrume tipico della fascia meridionale dell’Europa. Il Kinnie nasce a Malta nel 1952 come risposta alla Coca Cola, portata nel Vecchio continente dalle truppe statunitensi durante la seconda guerra mondiale. Fin dall’inizio viene prodotta dalla Simonds Farsons Cisk, un birrificio nato a Malta nel 1928 e famoso per aver lanciato sul mercato la prima birra maltese, la Cisk Pilsner. La ricetta del Kinnie è custodita gelosamente dai produttori che però negli anni rivelano gli ingredienti. Oltre al chinotto, elemento base della bevanda, sono presenti essenze di anice, gingseng, vaniglia, rabarbaro e liquirizia. Il Kinnie tradizionale è stato affiancato da una versione diet (introdotta a partire dal 1984) e da una senza zucchero (2007), ribattezzata Kinnie Zest (che ha un colore più scuro e un sapore di agrumi più forte). Solitamente il Kinnie si beve liscio, ma sempre più spesso viene utilizzato per preparare long drink mescolato con vino bianco, champagne, cognac o rum. Inter@gire Se il codice non è più segreto L’abilità di sviluppare software riguarda ormai ogni Stato così come ogni bambino. Perché il software ha a che fare con ogni aspetto della vita. E c’è chi ne promuove l’apprendimento C odice, la materia prima di ogni software. Dal sistema di controllo dell’ascensore di casa a Facebook, dal cuore elettronico dell’auto ai sistemi di regolazione del traffico metropolitano, dal conto in banca ai mercati finanziari globali, tutto è governato dal codice. Che si parli di agricoltura, industria, servizi, scienze della vita, biotecnologie, ingegneria, in ogni ambito dipendiamo della tecnologia. È a tutti gli effetti una nuova lingua, un linguaggio giovane. E per pochi. Se il codice è dietro ogni aspetto del nostro vivere quotidiano, e se è ancor più vero che è dentro l’essenza stessa del nostro futuro, perché non lo stiamo insegnando ai nostri figli? Se lo sono domandato i promotori di Code.org, e la risposta è stata che ogni studente in ogni scuola deve avere l’opportunità di imparare a sviluppare. Per realizzare questo innovativo proposito, si sono mobilitati alcuni personaggi molto in vista del mondo politico, imprenditoriale e civile, tra cui alcuni dell’industria della tecnologia. Tra loro, Peter Denning, ex pre- sidente della Association of Computing Machinery, che dice: «Imparare a parlare il linguaggio dell’informazione ti dà il potere di trasformare il mondo». Impressionante la prossimità di questo concetto con uno attribuibile a Galileo Galilei, di cui parlò papa Benedetto XVI nel novembre 2009 in occasione di un convegno. Non era forse Galileo, scriveva in sostanza Ratzinger, a sostenere che Dio ha scritto il libro della natura nella forma del linguaggio matematico? E che indagando la ma- tematica ci si avvicina a Dio? Ecco, semplificando: se la matematica è il linguaggio che Dio ha usato per creare il mondo, l’informatica, che usa una sequenza di «zero» e «uno», è il linguaggio che l’uomo usa per trasformare il mondo. Non dotare ogni bambino della capacità di sviluppare codice significa creare squilibri tra chi saprà e chi non saprà «trasformare il mondo» in futuro: i primi lo creeranno, i secondi si adegueranno. Ecco perché Code.org ne fa una questione politica DECODE Note di speranza dal Medio Oriente N el 2006 una giovanissima attivista del Bahrein, Esra’a Al Shafei, iniziò a rendersi conto che, nonostante i ragazzi mediorientali stessero utilizzando sempre più spesso Internet, non erano ancora realmente in grado di riconoscersi nel profondo cambiamento che esso portava. Si affacciavano in rete moltissime comunità: curdi, arabi, iraniani… Erano, però, tutte iniziative chiuse in se stesse e sembrava che queste divisioni finissero per frenare la potenziale forza dirompente delle nuove tecnologie sull’evoluzione politica e sociale di quei Paesi. Giovani, attivismo online, superamento delle frontiere territoriali, culturali e religiose, creatività: la soluzione dell’equazione è fin troppo semplice. La musica, dopo molti altri progetti, nel 2010 è diventata la nuova sfida. Con i suoi 1.093 artisti e 5.070 brani, oggi Mideast Tunes è una piattaforma per musicisti underground in Medio Oriente e Nord Africa, artisti che usano la musica come strumento per il cambiamento sociale. Il progetto vuole oltrepassare le barriere religiose e geografiche per unire i giovani impegnati a promuovere un 74 POPOLI OTTOBRE 2013 discorso costruttivo in Medio Oriente attraverso la musica. L’idea è quella di promuovere band e musicisti che altrimenti non riuscirebbero a emergere autonomamente sulla scena internazionale, proprio perché provenienti da un’area poco considerata dal mercato mondiale della musica. Mideast Tunes (www.mideastunes.com) in sostanza è un servizio non profit di distribuzione digitale di musica: gli artisti collaborano mettendo a disposizione una selezione dei propri brani che possono essere ascoltati gratuitamente in streaming. Come dice Esra’a Al Shafei, «crediamo che la musica possa cambiare il mondo e che i musicisti del Medio Oriente e del Nord Africa segneranno la via». Va sottolineato che Mideast Tunes è solo uno dei tanti progetti di Mideast Youth, che dal 2006 ha dato una scossa alla percezione che la gioventù del Medio Oriente ha di se stessa e al modo in cui viene percepita dai media occidentali, con una serie di iniziative di grande impatto politico e culturale. Antonio Sonzini [email protected] oltre che di istruzione. Tra i testimonial ci sono imprenditori come Bill Gates, fondatore di Microsoft, e Mark Zuckerberg, fondatore di Facebook, che di certo hanno un interesse diretto: se la scuola fosse in grado di formare più programmatori, le loro aziende avrebbero opportunità di scelta migliori. Ma oltre a questo ci sono buoni motivi di interesse pubblico per appoggiare la causa. In un mondo iperconnesso e globalizzato l’abilità nello sviluppo di coding, inclusa la capacità di trasformare questa abilità in impresa, è una leva strategica. Gran Bretagna e Stati Uniti ne sono consapevoli e hanno già programmi per rendere competitive le prossime generazioni. Altri Paesi puntano all’alfabetizzazione informatica per favorire la crescita di capacità interne di computing con l’obiettivo a medio-lungo termine di essere più forti economicamente e indipendenti politicamente. Tra i Paesi più all’avanguardia e quelli meno c’è una zona grigia dove le iniziative legate allo sviluppo di capacità di coding sono lasciate a gruppi, enti, imprenditori, persino singole scuole. In Italia si è puntato recentemente su una forte accelerazione nell’uso di strumenti digitali nella scuola, ma siamo ancora lontani dal colmare la distanza tra la pervasività dell’esperienza quotidiana dell’interazione con software e la capacità di «scriverli». In termini politici, poi, lo sviluppo della capacità di coding tocca allo stesso modo la dimensione dell’individuo e quella del sistema Paese. I software raccolgono, organizzano e distribuiscono dati, e quindi informazioni. E se le informazioni sono reddito, conti correnti, stato di salute, catasto, licenze alimentari, sistemi di sicurezza, progetti industriali, brevetti, allora chi ha in mano il software ha in mano le «forme digitali» che le informazioni assumono. Oltre che un tema di competitività diventa anche una questione di sicurezza e, in fondo, di libertà. Code.org auspica che tutti abbiano una possibilità di imparare, obiettivo che si può estendere almeno a quanti sono connessi e hanno un Pc o un tablet. È per questo che Code.org non opera solo nella direzione della sensibilizzazione, ma punta a offrire opportunità di imparare il coding, accogliendo e dando visibilità a corsi in rete e non solo. Collegandosi a Code.org e cliccando su learn si può scegliere di cominciare subito a imparare gratuitamente con Scratch, Codecademy, Khan Academy, Code Hs. Così, il prossimo Steve Jobs potrebbe essere un autodidatta brasiliano. Giovanni Vannini [email protected] @giovvan SIRIA T U O K C A BL Una vera e propria guerra di informazione e disinform azione si combatte in Siria fin dal l’inizio degli scontri nel 201 1: una stretta mortale sul contro llo dell’informazione e dei media. Giornalisti, blogger e informatori in rete: 75 UCCISI 40% dei giornalisti uccisi in tutto il mondo S.E.A. 44 DETENUTI RAPITI DIGITAL 06.2011 WAR Cresce l’offensiva militare e il Governo chiude la rete internet del Paese per un giorno 10.2011 La Syrian Electronic Army è un gruppo di cyberattivisti pro-Assad che ha messo in atto diverse violazioni della sicurezza ad alto profilo, tra cui l’attacco ai server di New York Times, Washington Post e CNN e agli account Twitter di AP, Reuters, BBC e Al Jazeera. In settembre gli Anonymous hanno attaccato i server SEA. 15 I server di Blue Coat Systems, società per la sicurezza dei contenuti online, vengono violati per censurare l’attività web USA 05.2013 Il quarto blackout della Rete dura 19 ore. Anche i cellulari vengono tagliati fuori. Le autorità danno la colpa ai cyberterroristi 07.2011 Viene censurato The-Syrian.com. Il sito consente a chiunque di esprimere in rete la propria opinione 06.2012 Un file con un virus viene diramato via Skype agli attivisti. Il virus installa di nascosto un software che spia e ruba dati personali e accessi alla rete 07.2013 Assad lancia un account su Instagram: 70 foto lo ritraggono sorridente con la moglie, in diversi luoghi, tra folle adoranti Fonti: Rsf.org, Wikipedia.org, Doha Center for Media Freedom, Refworld.org, Crowdvoice.org | Design by Oogo (www.oogo.com) OTTOBRE 2013 POPOLI 75 Mediterraneo a fumetti In collaborazione con Anche sul canale 142 di Sky TV2000 Più di quello che vedi Digitale terrestre canale 28 Streaming video www.tv2000.it TV2000 è la tv possibile, l’altra tv, che sa intrattenere e fa riflettere. È la tv che ti ascolta e ti tiene compagnia. La tv dei pensieri e delle emozioni, dei volti e delle storie, di chi ha trovato e di chi cerca. TV2000 è più tua. E lo vedi. Più di quello che vedi In quale Paese si trova questa città? 1. Dall’indipendenza, 31 dei suoi 48 governi sono stati retti da militari 2. Vi abita la «monaca bianca» 3. Un cereale è patrimonio culturale Invia la risposta entro il 31 ottobre a [email protected]. Alla quinta risposta esatta vinci una Guida per viaggiare Polaris (www.polaris-ed.it) a tua scelta (regolamento su www.popoli.info) La risposta di giugno-luglio: Kosovo Silvano Fausti S.I. Biblista e scrittore Un annuncio per tutti «Manda degli uomini a Giaffa e traduci qui un certo Simone Pietro» (leggi Atti 10,1-8) D io agisce sempre, anche qui e ora, nella storia. La sua iniziativa però non parte dalla Chiesa, ma da coloro che essa esclude. Infatti manda il suo angelo non a Pietro, ma a un pagano, con l’ordine di pescare il pescatore di uomini alla sua pesca. Nell’annuncio a Maria il Verbo si è fatto carne in Gesù. Nell’annuncio al pagano Cornelio il Verbo vuol farsi carne in ogni uomo, «perché Dio sia tutto in tutti» (1Cor 15,28). Questo è il desiderio del Padre, che in vista del Figlio ha fatto il mondo. Gesù ha annullato la separazione tra cielo e terra: sulla croce si è addirittura fatto peccato e maledizione perché ogni atomo di creazione sia pienezza di Gloria. Il Vangelo continua la sua corsa: da Gerusalemme alla Giudea, alla Samaria e oltre, fino a Damasco. Con Cornelio attinge il suo fine, che apre orizzonti senza fine. Cade ogni divisione tra gli uomini: la benedizione di Abramo si estende anche ai «pagani». L’umanità diventa un’unica famiglia. Nel Figlio siamo tutti liberi, figli di Dio e fratelli tra noi, nella nostra diversità. È il mistero eterno di Dio e dell’uomo, svelato ora. A salvezza di tutti, Dio compreso! Non si tratta di omologazione sotto un unico potere, ma di «globalizzazione» nel segno dell’amore. Le differenze culturali e religiose rimangono; ma non come luogo di lotta, bensì di comunione. Le diversità non sono più barriere, ma aperture reciproche. I con-fini diventano incontro con altre finitudini, contatto con l’altro, sacramento dell’Altro. L’amore è innanzitutto libertà dal proprio egoismo e rispetto del cammino altrui, anche se errato o incompleto (1Cor 7,1ss). Infatti c’è «un solo Dio», Padre di tutti, «e un solo Signore, Gesù Cristo, in virtù del quale esistono tutte le cose e noi esistiamo per lui» (1Cor 8,6). Saltano tutti i tabù culturali e religiosi. Le cose sono tutte buone. Il male non sta in esse: sta nell’intenzione e nell’azione dell’uomo che le usa per demolire invece di edificare comunione con l’altro. L’amore 80 POPOLI OTTOBRE 2013 rende Paolo libero di farsi giudeo con i giudei e senza legge con i pagani. Essendo nella legge di Cristo, si fa «tutto a tutti» (1Cor 9,19-23). La legge di Cristo infatti è portare gli uni i pesi degli altri (Gal 6,2). Questa è la vera libertà dei figli: servirsi a vicenda nel reciproco amore (Gal 5,13). Principi semplici che esigono soluzioni intelligenti. Per esempio: come vivere e mangiare insieme, rispettando le diversità culturali? Il primo «Concilio» di Gerusalemme (At 15,1ss) darà regole pratiche, che aiutano giudei e pagani a vivere da fratelli tra loro. I Concili successivi invece devieranno in scomuniche di chi non la pensa come noi. Ma identificare Dio con le proprie idee su di lui, è idolatria che distrugge la Chiesa: ci rende incapaci di accogliere l’altro nella sua alterità. Pensiamo ai riti cinesi e a certe idiosincrasie attuali verso la contemporaneità. Che dire poi quando cerchiamo il potere per imporre le nostre idee o per ottenere privilegi? Dio farà poi capire a Pietro che quelli che lui considera «cani», sono i suoi figli privilegiati. Devono sedere alla mensa comune, senza troppi contorni di circoncisioni, divieti e prescrizioni. Temi di bruciante attualità. Dio non vuol mandare il mondo in chiesa, ma la Chiesa nel mondo, perché, nella fraternità verso tutti, riveli a ciascuno il volto del Padre. Anche nei Vangeli Dio si cela ai vicini e si svela ai lontani (cfr. la samaritana di Gv 4,1ss, la sirofenicia di Mc 7,27ss, il centurione di Lc 7,1ss e il centurione di Mc 15,39). La Chiesa è sollecitata a essere se stessa dal di fuori. La nostra identità ci viene sempre dall’esterno: è l’altro che ci «converte» di continuo alla fraternità che ci rende figli. L’ultimo a sedere alla mensa sarà il Figlio dell’uomo, che torna nella sua gloria. PER RIFLETTERE E CONDIVIDERE > Dove agisce Dio? > Perché si serve di un pagano per convertire Pietro al Vangelo? > Qual è il privilegio dei lontani?