Maledizione

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Maledizione
ottobre 2013 - N. 10
Maledizione
Kivu
In Congo è guerra infinita
per le risorse
€4
L
eventi
Il Papa
tra i rifugiati
bolivia
Violini
nella foresta
inchiesta
Missione formato
famiglia
editoriale
Stefano Femminis
Direttore di Popoli - [email protected] -
@stefanofemminis
Un successo,
molte sconfitte
La straordinaria mobilitazione delle coscienze innescata da papa Francesco,
con la sua proposta di una giornata di digiuno e preghiera per la pace, il 7
settembre, è stata certamente un fattore decisivo nell’allontanare i fantasmi di
un conflitto globale. Infatti, mentre scriviamo, sembra rientrata la minaccia di
un intervento militare franco-statunitense in Siria, intervento che, motivato
dalla volontà di punire l’utilizzo di armi chimiche da parte del regime di
Bashar al Assad, avrebbe rischiato di allargare a macchia d’olio il conflitto,
con il probabile coinvolgimento di Paesi come Libano, Iran, Israele, forse la
stessa Russia. E tutto questo senza sciogliere, se non in modo provvisorio e
simbolico, il nodo siriano.
Ma non possiamo esultare. Nella vulgata massmediatica il digiuno chiesto dal
Papa è stato rappresentato come un’iniziativa «contro la guerra in Siria». In
realtà la guerra in Siria c’è da due anni e mezzo e ha provocato oltre 100mila
vittime, 4 milioni di sfollati interni e oltre un milione di profughi. Non solo,
c’è chi ha celebrato il fragile compromesso (Assad che si impegna, in modi
e tempi piuttosto vaghi, a mettere sotto controllo Onu il proprio arsenale
chimico) come una vittoria della diplomazia. Come se non si trattasse di un
risultato raggiunto con colpevole ritardo. Come se l’accordo non puzzasse di
ipocrisia (sono davvero così
irrilevanti i morti uccisi da
Anche grazie all’iniziativa del Papa è stato
armi convenzionali?).
allontanato il rischio di un conflitto globale.
La verità è che nel disastro
Ma il calvario della Siria non è finito e riflette
siriano noi possiamo vedere
tutti i fallimenti della comunità internazionale
riflessi tutti i fallimenti della
comunità internazionale negli ultimi 25 anni. Finita l’era dei blocchi
contrapposti e dell’«equilibrio del terrore», non sono state costruite vie
alternative ai bombardamenti (o al disinteresse) per fronteggiare conflitti locali
e stermini di massa. Le Nazioni Unite, i cui meccanismi di funzionamento
sono stati concepiti settant’anni fa, sono sempre più paralizzate dai veti
incrociati e non si prevedono a breve riforme incisive. Suggestionati dalle
teorie sullo «scontro di civiltà», non abbiamo saputo cogliere quanto di
promettente si muoveva dentro al mondo musulmano, facendoci cogliere
di sorpresa dalle Primavere arabe e lasciando che - in Siria come in Egitto,
in Libia come in Yemen - le sincere istanze democratiche rimanessero
schiacciate tra i difensori dello status quo e l’estremismo islamico.
Ma non possiamo nemmeno arrenderci. Se il bilancio è quello tracciato,
esistono però strumenti che, qualora rafforzati, potrebbero aprire nuove
prospettive: dal Tribunale penale internazionale al rilancio di un costruttivo
multilateralismo, fino al progetto di una zona libera da armi di distruzione di
massa in Medio Oriente, promosso nel 2012 dall’Ue e poi accantonato.
Lo dobbiamo in primo luogo ai siriani, così come alle vittime di tutti i
conflitti presenti e futuri, di cui non possiamo più non sentirci responsabili.
E, come Popoli, lo dobbiamo anche al nostro collaboratore Paolo Dall’Oglio,
scomparso da fine luglio proprio in Siria. Sulla vicenda ci atteniamo al
silenzio che ci è stato suggerito da parenti e autorità. Con il desiderio di
vedere presto, insieme a lui e come lui auspica nel suo libro più recente, «il
giorno in cui Siria sarà sinonimo di resurrezione».
OTTOBRE 2013 POPOLI 1
PICS
Quando mangiare fa male
foto di Andy Richter/ Aurora
CAMMINI DI GIUSTIZIA
sommario
Un successo, molte sconfitte
S. Femminis
N. 10 - OTTOBRE 2013
01 EDITORIALE
Reportage
Maledizione Kivu
G. Musumeci, G. Baioni
20 Indonesia
La polizia del Corano
A. Ursic
23 Riflessioni
La Chiesa e la guerra
G. Piana
14
35
REPORTAGE
26 Eventi
Il Papa tra i rifugiati
F. Pistocchini
29 Il profilo
Pietro Parolin
G. Vecchi
IDENTITÀ - DIFFERENZA
30 Bolivia
Violini nella foresta
M. Bastos
35 Bosnia
Ancora poca acqua
sotto il ponte
E. Gatto
38 Etiopia
Estifanos,
il Lutero del Tigrai
A. Marzi
41 La foto
L’islam celebra Abramo
In copertina: lavoratori nelle miniere di manganese e coltan
del Nord Kivu, nella Repubblica Democratica del Congo
(foto G. Musumeci).
30
DIALOGO E ANNUNCIO
Inchiesta
Missione formato famiglia
S. Femminis, L. Moscatelli,
E. Casale
PICS
08
48 Concilio/5
Il Vaticano II spiegato ai giovani
J. Costadoat SJ
50 Chiese
L’Africa balla con i pentecostali
L. Lado SJ
53 Il fatto, il commento
Dal conflitto alla comunione
G. Dotti
RUBRICHE
04 Lettere e idee
05 Contromano
G. Ferrario
06 Multitalia
L’accoglienza ha un limite?
M. Ambrosini
06 Ogni giorno a Gerusalemme
Il pellegrinaggio degli altri
S. Bittasi SJ
26
07 Scusate il disagio
Come è libera la libertà!
G. Poretti
54 Jsn/Magis/Lms/Jrs/Amo
78 Postcard
80 L’ultima Parola
Un annuncio per tutti
S. Fausti SJ
E tra
INCHIESTA
42
lettere e idee
ANCHE IN SIRIA
L’ALBERO DELLA PACE
Cari amici di Popoli, vorrei condividere con la redazione e con i lettori un
appello che ho inviato a
papa Francesco ai primi di
settembre.
«Santo Padre, in questi
giorni in cui non si legge,
non si sente altro che parlare di guerra, soprattutto
in terra siriana, desidero
condividere con Lei un
cammino che si sta portando avanti da quasi un
anno proprio in Siria.
Quello del Kaki Tree, l’Albero della pace, è un cammino cominciato da lontano, precisamente dalla
città giapponese di Na-
SCRIVETECI
Indirizzate le
vostre lettere a:
[email protected]
Redazione Popoli
Piazza San Fedele 4
20121 Milano
02.86352802 (fax)
www.popoli.info
gasaki. Nel 1992 l’artista
Tatsuo Miyajima venne a
conoscenza, durante una
visita alla città vittima
della follia atomica, di un
albero di caco miracolosamente sopravvissuto al
bombardamento del 1945.
E di un botanico chiamato Masayuki Ebinuma che
da anni si prendeva cura
della pianta e ne distribuiva talee ai bambini delle
scuole come segno di pace. Ispirato da questo gesto insieme semplice e incredibile, Miyajima ebbe
l’intuizione di trasformare
il messaggio del botanico nel progetto Kaki Tree
(http://kakitreeproject.
com) che con la sua attività ormai decennale ha
portato talee del Kaki in
scuole, parchi, musei e altri luoghi significativi di
20 Paesi in tutto il mondo.
Dal 9 giugno 2012 il caco della pace di Nagasaki
crescerà anche nel Giardino della Pace e della
Speranza a Kabul.
Un cammino molto lungo
e di certo non semplice né
facile, ma il crederci nel
profondo e l’unione delle
IL NUOVO LIBRO DI SILVANO FAUSTI
In omaggio a chi regala uno
o più abbonamenti e a chi
sottoscrive un abbonamento
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Info: [email protected] - tel. 02863521
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forze di tanti esseri ha
reso possibile in una terra,
quella afghana da oltre
trent’anni teatro di gravi
attentati, l’ultimo pochi
giorni fa. Noi sappiamo
che ci può essere speranza di rinascita e di pace anche dove c’è ancora
grande distruzione e solo
attraverso un semplice albero, testimone vivente di
quel che la Natura stessa
può donarci.
In Siria, crescerà (speria-
mo dalla primavera 2014)
al monastero di Deir Mar
Musa, realtà fondata da
padre Paolo Dall’Oglio. Ora
è nel bresciano dove si sta
fortificando per crescere
ancora più rigoglioso in
una terra che avrà bisogno di tutti noi nella sua
ricostruzione dopo questi
anni di tragedia che Paolo
(un carissimo amico) mi
indicava a livelli di quelli
di Hiroshima e Nagasaki.
Come dargli torto in que-
Anno di fondazione: 1915
Direttore responsabile
Stefano Femminis
Redazione Enrico Casale, Davide Magni SJ,
Francesco Pistocchini
Segreteria di Redazione
Cinzia Giovari (02.86352415)
Sede Piazza San Fedele 4 - 20121 Milano
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La testata fruisce dei contributi statali diretti di cui alla
legge 7 agosto 1990, n. 250.
ste ore di trepidazione e
comunque di speranza in
un dialogo tra chi forse
non vuole sentire.
La pace sia con Lei e con
tutti quelli che la desiderano dal profondo del loro
cuore».
Tiziana Volta
[email protected]
I CRISTIANI
E QUEGLI AEREI
Cari amici di Popoli, che
leggo volentieri e con interesse, se ritenete il caso vi affido queste righe
per la rubrica delle lettere.
È solo uno sfogo, anche
se credo profondamente
che il male avanzi dove
non contrastato dal bene.
Come cristiano mi sento
profondamente contrario
all’acquisto da parte del
governo italiano degli aerei da guerra F35. Ritengo
sia una scelta assolutamente all’opposto del modo evangelico di concepire le scelte e le priorità nel
gestire il denaro pubblico.
Mi oppongo e chiedo che
gli stessi soldi siano destinati a favorire pace, equità e giustizia (non solo in
FONDO AMICI
Sono numerosi quanti
gradirebbero ricevere Popoli, ma devono rinunciarvi per motivi economici.
Chi volesse aiutarci a
soddisfare queste richieste può inviare un’offerta
sul nostro conto corrente
postale o con carta di
credito, dal sito, indicando come causale: «Fondo
amici Popoli».
CONTROMANO
di Giuseppe Ferrario
Italia). La nostra mente è
ormai a tal punto ottenebrata da non distinguere
il male? Il grido furente di
Gesù contro i farisei vale
per noi oggi!
Giampietro Bologna
Schio (Vi)
Il suo non è solo uno sfogo, ma la denuncia di una
contraddizione percepita
come stridente da un numero sempre maggiore di
persone, anche in ambito
cristiano. Come rivista,
a metà settembre siamo
stati tra i primi firmatari
di un appello promosso
dal settimanale Riforma,
dal mensile Confronti e
dall’agenzia Adista. Il
testo, pubblicato sul nostro sito e sottoscrivibile
online, richiama anzitutto
la beatitudine evangelica:
«Beati quelli che si adoperano per la pace, perché
saranno chiamati figli di
Dio» (Matteo 5,9). E vi
si legge: «Noi, cristiani
appartenenti a diverse
tradizioni confessionali,
constatata la determinazione del governo italiano
di procedere all’acquisto
di 90 cacciabombardieri
progettati per trasportare anche bombe atomiche,
esprimiamo il nostro sdegno per una scelta che va
contro lo spirito dell’articolo 11 della Costituzione
(“L’Italia ripudia la guerra”). Una scelta, per noi
credenti, in palese contraddizione con il comandamento “non uccidere”
e il messaggio di pace del
Vangelo di Cristo; uniamo
la nostra voce a quella di
tanti “operatori di pace”,
credenti e non credenti nel
chiedere che i parlamentari (in particolare quelli
di orientamento cristiano,
cattolici e protestanti) e il
governo italiano, onorando gli impegni presi durante la campagna elettorale: recedano dal Progetto F35; destinino i miliar-
di per esso stanziati a un
grande piano per il lavoro
che restituisca un futuro
alle giovani generazioni
creando occupazione nei
settori della scuola e della
ricerca, della salvaguardia
dell’ambiente, delle energie rinnovabili, della valorizzazione del patrimonio
artistico del nostro Paese».
RACCONTARE
LA GUERRA
Seguo le notizie che pubblicate sul sito www.
popoli.info, con informazioni ulteriori rispetto a
quelle che escono sul cartaceo. Devo dire che state
facendo un ottimo lavoro
sulla Siria. Lo fate sempre,
in tante parti del mondo,
ma - ripeto - in questo
momento così delicato per
il Paese mediorientale e
per il mondo, voi ci siete e
in modo attento.
Paolo Gilardoni
Milano
OTTOBRE 2013 POPOLI 5
lettere e idee
L’accoglienza ha un limite?
G
MULTITALIA
Maurizio Ambrosini
Università di Milano,
direttore della rivista
Mondi migranti
li sbarchi di migranti e profughi sulle coste italiane hanno rappresentato uno dei principali
eventi dell’estate, e la visita di papa Francesco a Lampedusa ha indubbiamente contribuito
a guardare con occhi diversi quelli che tanto spesso erano bollati come «clandestini». Qualcuno
tuttavia ha sollevato un dubbio: non bisogna porre limiti all’accoglienza?
La risposta dipende dalle ragioni degli sbarcati. Se si tratta di persone che richiedono asilo, non
il Vangelo ma la nostra Costituzione e le convenzioni internazionali ci obbligano ad ascoltarli, a
esaminare le loro motivazioni ed eventualmente ad accoglierli. In nessuno dei testi normativi in
materia si prevede che l’obbligo di accoglienza umanitaria cessi una volta superata una certa
soglia numerica. In altri termini, i nostri legislatori hanno sancito che i diritti umani hanno una
priorità assoluta: vengono prima della preoccupazione di contingentare l’accoglienza. Nel caso
di persone che arrivano da Paesi in guerra, spesso renitenti alla leva, come nel caso eritreo,
o fuggiaschi da sanguinosi conflitti interni, come nel caso somalo, i tassi di accettazione sono
molto alti. Minori e donne incinte non possono essere respinti. Nel 2011, il 40% delle domande
d’asilo sono state accolte, ricevendo una qualche forma di protezione umanitaria: in numeri,
circa 10mila persone. In ogni caso, non siamo vittime di un’invasione.
Nel caso dei migranti economici, non altrettanto tutelati dalle norme, i problemi sono altri. Prima
di tutto, le richieste del mercato del lavoro, che hanno prodotto sette sanatorie in 25 anni: solo
ora la crisi le ha rallentate, ma anche i nuovi ingressi si sono pressoché arrestati. Poi c’è una
questione normativa: 1,3 milioni di immigrati in Italia sono cittadini dell’Unione Europea, con diritto di libera circolazione. Terzo e decisivo aspetto: i costi elevatissimi del trattenimento e della
deportazione degli immigrati irregolari. Di fatto gli espulsi sono il 2-3%. Infine, se non si riesce a
espellerli, ma non si vuole accoglierli, si rischia di produrre una popolazione sbandata ed esposta a ogni deriva. Meglio allora metterli in regola con adeguati percorsi di accompagnamento.
Per concludere: molte volte un’accoglienza saggia e lungimirante è più accorta di una severità
gridata e apparente.
Il pellegrinaggio degli altri
S
OGNI GIORNO
A GERUSALEMME
Stefano Bittasi SJ
Gesuita, direttore dei
programmi di formazione
della Compagnia di Gesù
a Gerusalemme
ulla stampa araba di Gerusalemme si è sviluppato negli ultimi mesi un feroce dibattito sull’opportunità di organizzare pellegrinaggi in questa città
santa. Vi sembra strano? Non lo è se si guarda al
problema dal punto di vista islamico. Se, infatti, venire
in pellegrinaggio a Gerusalemme è un’esperienza relativamente semplice per moltissimi cristiani ed ebrei
(si calcolano circa 3 milioni di pellegrini ogni anno), la
cosa è più complicata nel mondo musulmano.
Gerusalemme è la terza città santa dell’islam (dopo
Mecca e Medina) e i primi discepoli di Maometto
pregavano rivolti alla moschea di Al-Aqsa, mentre solo più tardi hanno rivolto i propri tappeti di preghiera
verso la Mecca. Gerusalemme è stata da sempre
meta di innumerevoli pellegrini musulmani, ma solo
fino al 1967. In quell’anno Israele ha conquistato la
parte est della città e il controllo della spianata di
al-Haram al-Sharif («il nobile santuario»), con la moschea di Al-Aqsa e la Cupola della Roccia, la stessa
spianata dove sorgeva il Tempio.
Data la situazione di conflitto venutasi a creare con
gli Stati arabi confinanti, è diventato impossibile, per
i potenziali pellegrini musulmani provenienti da quei
Paesi, ottenere visti e permessi di accesso in Israele.
D’altro canto, molti leader islamici hanno emesso numerose fatwa (pareri rilasciati da giurisperiti derivanti
dall’interpretazione del Corano che danno risposta
a quesiti su situazioni di attualità) che fanno divieto
ai fedeli di riconoscere autorità a Israele: quindi, di
6 POPOLI OTTOBRE 2013
fatto, impedendo a un devoto musulmano di chiedere
un visto per venire a Gerusalemme.
La situazione però è cambiata nel corso degli ultimi
due anni. Alcune agenzie turistiche hanno cominciato
a proporre pacchetti di pellegrinaggio ai luoghi santi
di Gerusalemme ai musulmani provenienti da Paesi
non arabi che godono di buoni rapporti con Israele: in
particolare Albania e altri Stati balcanici, alcuni Paesi
dell’ex Unione Sovietica a maggioranza musulmana,
Sudafrica, Malaysia. Nel 2012, per la prima volta,
circa 2.500 pellegrini sono giunti attraverso questi
canali.
Quest’anno, poi, il presidente palestinese Mahmoud
Abbas ha formalmente invitato i musulmani a venire
a Gerusalemme e il ministro del Turismo di Israele
ha appoggiato questo invito. In risposta, in aprile un
famoso leader religioso egiziano e il principe della
Giordania sono venuti in pellegrinaggio insieme alla
moschea di Al-Aqsa, suscitando avversione in alcuni
ed entusiasmo in altri.
Certamente il potenziale economico per tutto il settore turistico palestinese è enorme. Ma non è solo
questione di soldi. La coesistenza di pellegrini delle
diverse religioni del Dio di Abramo, che vengono da
Paesi diversi qui a Gerusalemme e che spesso si
incontrano negli stessi luoghi, non può che far crescere la conoscenza tra chi viene in questa città a
pregare, favorendo possibili processi di pacificazione
e reciproca stima.
Aspettando padre Paolo
D
al 28 luglio Paolo Dall’Oglio è scomparso in Siria
e di lui non si hanno notizie certe. Nel rispettare
il silenzio stampa suggeritoci dai familiari e dalle autorità italiane, chiediamo ai lettori una preghiera per
il nostro collaboratore e amico. In questo spazio, che
lui occupa con la sua rubrica dal gennaio 2007, lo
ricordiamo con un fiocco giallo, simbolo internazionalmente utilizzato da coloro che attendono il ritorno di
una persona cara.
LA SETE DI ISMAELE
Paolo Dall’Oglio SJ
Gesuita, fondatore della
Comunità monastica
di Deir Mar Musa (Siria)
Come è libera la libertà!
Da questo numero Giacomo Poretti inizia una serie di articoli sui Dieci comandamenti.
N
on è cambiato molto rispetto a quel vecchio film di Cecil B. DeMille, I dieci comandamenti,
quando Charlton Heston, nei panni di Mosè, scendeva dal Sinai con le tavole della legge e
trovava il suo popolo adorante un vitello luccicante artefatto lì per lì dagli artigiani orafi.
«Non avremo altro dio all’infuori dei nostri idoli»: così sembra recitare il primo comandamento
del nostro vecchio, caro, adorante Occidente. E soprattutto: «Non avrai altro dio all’infuori della
libertà». Nessuno tocchi la libertà, nessuno si permetta di giudicare le scelte della mia libertà,
la libertà deve essere libera, appunto, altrimenti che libertà sarebbe? Una libertà zimbello? Una
libertà che si fa mettere i piedi in testa sarebbe come un padrone che non comanda in casa
sua; la libertà deve essere libera di posare il suo sguardo dove vuole, non deve avere limitazioni,
perché altrimenti si sentirebbe frustrata, limitata, non incoraggiata nel suo slancio vitale verso
l’infinito e oltre, come anela Buzz Lightyear.
E quindi, se nessuno deve intromettersi nella mia libertà, allora io sono libero di avere tutti
gli iPhone che voglio, quello da 32Gb, quello bianco, quello nero e il modello low cost (meglio
averne tanti piuttosto che uno, così se si impianta la batteria del 32Gb puoi usare il modello
bianco; se ti cade quello nero puoi usare il low cost; e se fai il bagno in mare col modello nero
sei proprio un pirla).
Come è bella la libertà! È proprio come cantava Giorgio Gaber: «La libertà è partecipazione», e io
voglio partecipare al concorso «Chi mangia più hamburger» e dopo la vittoria, per averne mangiati
15 in 10 minuti, posso anche aver voglia di una lavanda gastrica e nessuno me la può negare. E
se supero indenne la lavanda gastrica l’anno prossimo parteciperò al concorso «Chi mangia più
scarafaggi» e cercherò di battere il record di quello che ha vinto l’anno scorso mangiandone 32 e
poi è morto. Sì, perché uno deve essere libero di morire se ne ha voglia, e anche di scegliere la
morte che più gli piace (detto per inciso nessuno avrebbe voglia di morire, ma quella impertinente
della morte è l’unica che non si adatta al nostro concetto di libertà, e allora almeno si possa
decidere il modo, che sia scarafaggio, hamburger o clinica svizzera!).
Come è libera la libertà! La libertà mi può portare a Zurigo in una boutique del centro per comprare una borsetta da 35.000 euro e nessuno mi porterà mai in manicomio; anzi, se ho la pelle
nera e la commessa non me la vende, lo Stato dei Grigioni mi porgerà le scuse per l’imbarazzante
incidente: com’è giusta la libertà, come non è razzista la libertà!
Ma come si fa a desiderare un altro dio all’infuori della libertà?
SCUSATE IL DISAGIO
Giacomo Poretti
del trio Aldo, Giovanni
e Giacomo
OTTOBRE 2013 POPOLI 7
Quando mangiare
fa male
Foto
Andy Richter/ Aurora Photos-Novus Select
L’obesità nel mondo è raddoppiata negli ultimi
trent’anni e interessa un numero sempre maggiore
di ragazzi, malnutriti nell’abbondanza. Le immagini
di Andy Richter, dalla California, raccontano una
possibile alternativa
OTTOBRE 2013 POPOLI 9
PIANETA CIBO
Nel corso del 2013 i Pics sono dedicati
al tema del cibo nelle sue molteplici
declinazioni: come fondamentale (e
spesso carente) sostegno per la vita, come
occasione per promuovere o negare i
diritti dei lavoratori e dell’ambiente, come
espressione di identità culturali, elemento
di feste e di riti. «Nutrire il Pianeta.
Energia per la vita» è anche il tema della
prossima Esposizione Universale di Milano
del 2015.
In collaborazione con:
Con il contributo di:
10 POPOLI OTTOBRE 2013
“
“
Venticinque anni fa solo
poche aziende americane
indirizzavano il proprio
marketing ai bambini:
Disney, McDonald’s,
produttori di caramelle,
di giocattoli, di cereali
per la prima colazione.
IL FOTOGRAFO
Andy Richter (www.andyrichterphoto.
com) è nato nel 1977 e vive a
Minneapolis (Usa) dove si è laureato
in spagnolo e psicologia. Si occupa
di fotografia documentaristica,
per il settore non-profit e in quello
commerciale. Negli ultimi anni si
è impegnato in progetti di respiro
internazionale come «Hearing Around
the World», sul tema della sordità,
«Youth Culture Taipei», dedicato
a Taiwan, e «Oro Win», sul tema
dell’identità indigena in Amazzonia.
Ha pubblicato per Unicef, Usaid, Time,
Discover e National Geographic Traveler.
Il lavoro dedicato all’obesità infantile
gli è stato commissionato da Time
Magazine.
“
“
Oggi i bambini sono
bersagliati dalle compagnie
telefoniche, petrolifere e
automobilistiche quanto dai
negozi di abbigliamento e
dalle catene di ristoranti. La
pubblicità rivolta ai più piccoli
esplose negli anni Ottanta.
OTTOBRE 2013 POPOLI 11
12 Popoli ottobre 2013
“
“
Molti genitori che lavoravano,
sentendosi in colpa per il
poco tempo trascorso con
i figli, presero a spendere più
denaro per loro. [...] Adesso
nelle più grosse agenzie
pubblicitarie ci sono sezioni
che si occupano dell’infanzia.
Elisabeth e Freddy erano stanchi di essere grassi. Entrambi sedicenni, cercavano di
perdere peso fin dalla scuola elementare, ma le diete non davano risultati. Elizabeth
era alta 1 metro e 65 e pesava 132 chili, Freddy 156 chili per 1 metro e 85: in tre anni
aveva accumulato quasi 60 chili. I due ragazzi erano innegabilmente obesi e a rischio
di ipertensione, malattie cardiache, apnea nel sonno e alcuni tipi di diabete, e ogni anno
le cose peggioravano. Ma guardandosi intorno sapevano di non essere soli: dagli anni
Ottanta negli Usa i minori obesi sono più che triplicati e solo in Messico le cose vanno
peggio. Ma l’aumento dell’obesità è un trend mondiale, dall’India alla Cina, dall’Europa
alle isole del Pacifico. Secondo l’Osservatorio globale sulla salute dell’Oms, almeno 2,8
milioni di persone muoiono ogni anno per cause legate al sovrappeso o all’obesità. Il
junk food, il cibo spazzatura che comprende certi hamburger, patatine fritte, doughnuts
e bevande zuccherate, infesta le diete di tanti ragazzi, fin dai primi anni di vita, mentre
nel panorama alimentare degli Usa si presenta anche il problema dei food deserts,
sobborghi urbani o centri rurali privi di accesso a cibi freschi: solo fast food o negozi di
cibi confezionati.
Come raccontano le immagini, Freddy ed Elizabeth hanno affrontato il loro problema
in una clinica specializzata a Reedley in California, dove, insieme alle famiglie, hanno
ritrovato speranza o, almeno, la forza di affrontare diete ed esercizi, abbandonando
abitudini come i pasti davanti alla Tv, per arrivare a prendere decisioni alimentari più
consapevoli e, soprattutto, acquisire fiducia in se stessi, perché la trasformazione non può
essere solo esteriore. In sei mesi hanno perso 32 e 37 chili, ma è solo l’inizio. «Nessuno è
destinato a essere grasso per sempre - dice Elizabeth -. Anche se sei giù, l’importante è
risollevarti. Puoi sempre ripartire al prossimo pasto». E il cibo smette di essere il nemico.
“
“
Le ricerche di mercato
hanno scoperto che spesso
i bambini riconoscono
un logo ancora prima
del proprio nome.
(Eric Schlosser, Fast Food Nation. Il lato oscuro del
cheeseburger globale, Il Saggiatore, Milano 2008)
OTTOBRE 2013 POPOLI 13
reportage
Kivu, sfollati fuggono
dai combattimenti tra esercito
congolese e milizie ribelli.
Maledizione
Kivu
Un esercito debole, milizie sostenute da interessi
stranieri e risorse minerarie ambite creano una
miscela esplosiva che da anni destabilizza la
regione congolese. E i recenti tentativi di dialogo
non hanno fermato gli scontri. A farne le spese,
come sempre, la popolazione civile
Testo e foto: Giampaolo Musumeci
GOMA (REP. DEM. CONGO)
I
l Nord Kivu è un gigantesco Far
West con troppi banditi e troppo
pochi sceriffi. Situato nell’Est
della Repubblica Democratica del
Congo, al confine con Uganda e
Ruanda, è forse la regione al mondo con più gruppi armati. Quelli
riconosciuti e
identificati sono
«Noi militari
una quarantina.
congolesi siamo
Sono milizie namal pagati, la
te per la difesa
razione di cibo
del territorio e
mensile è un
villaggi, a
mestolo di farina! dei
volte create da
Ci spostiamo a
colonnelli dipiedi e ci fanno
sertori,
altre
combattere dopo
volte supportate
aver digiunato
e controllate da
per giorni»
Stati vicini a cui
fanno gola le ricchezze minerarie della regione.
Ci sono i Maj Maj, i quali credono che
immergendosi nell’acqua diventano
invulnerabili ai proiettili. C’è l’M23
(il nome viene dagli accordi di pace
del 23 marzo 2009), erede del vecchio Cndp (Consiglio nazionale per la
difesa del popolo), gruppo ribelle la
cui leadership è a maggioranza tutsi.
C’è l’Fdlr (Fronte democratico per la
liberazione del Ruanda) a maggioranza hutu ruandese. E così via. Tutti
questi gruppi armati si scontrano
14 POPOLI OTTOBRE 2013
spesso per il controllo del territorio.
Con la conseguenza che essere un
civile sfollato in Kivu è una condizione assai diffusa, secondo l’Acnur
gli sfollati sarebbero 750mila. La
maggior parte dei gruppi armati, ma
anche l’esercito governativo, sono
poi accusati di stupri di massa e violenze sulla popolazione. Le denunce
e i rapporti di varie organizzazioni
internazionali non si contano. Eppure l’impunità è diffusa.
Ma il Kivu ha anche altri «record».
È una regione con una delle più alte
concentrazioni di risorse minerarie
al mondo: oro, coltan, manganese,
cassiterite, minerali rari e utili per
l’industria ad alta tecnologia. Non
solo, registra anche il più alto numero di organizzazioni non governative (circa cento nel solo capoluogo
Goma) che alimentano una vera e
propria industria dell’emergenza e
della cooperazione in un territorio
devastato da uno stato di guerra che
sembra non avere mai fine. Proprio
nel Kivu è presente la più grande
missione delle Nazioni Unite: quasi
20mila caschi blu, attivi nell’area
a partire dal 2000. Con risultati, in
termini di stabilizzazione e sicurezza, quanto meno discutibili.
Infine è una delle regioni con la più
marcata assenza dello Stato centrale. Un esercito debole, confini troppo
porosi, assenza di strade, di energia
elettrica e acqua, altissimo livello di
corruzione. Questa serie di record
rendono il conflitto in Kivu uno dei
più difficili da comprendere. Perché
l’intreccio tra tutti questi fattori lo
rende impenetrabile, almeno tanto
quanto le sue foreste.
L’ESERCITO DI CARTA
Un tragico esempio è la strage avvenuta a Kitchanga, una cittadina a
circa due ore di fuoristrada a Nord di
Goma. Il 27 febbraio 2013 dalla collina che sovrasta l’abitato iniziano a
piovere granate, colpi di mortaio e
razzi. Sono le 7 del mattino. Bruciano le capanne, crollano i tetti, anche
cammini di giustizia
quello della chiesa retta da padre congolesi dopo aver rinunciato a
Faustino Mbara. Dopo 10 ore di bat- propositi di ribellione. Secondo il
taglia restano sul terreno 134 civili. consolidato costume di Kinshasa i
«È stato terribile - racconta padre gruppi armati possono infatti chieFaustino - dall’alba a tramonto a dere di essere «assorbiti» nell’eserKitchanga è stata guerra. È stato col- cito. I Maj Maj erano entrati in città
pito anche l’ospedale. Era un “fuggi proprio per ricevere le uniformi. Ma
fuggi” generale, nessuno capiva da come si può facilmente immaginare,
dove sparassero».
i capi di due gruppi
In quelle lunghe ore si Il Kivu è il
armati diversi non possono fronteggiati un territorio con
sono stare sullo stesso
battaglione di soldati la più lunga e
territorio per troppo
governativi e uno di Maj consistente
tempo senza scontrarsi.
Maj. Le milizie erano lì missione dell’Onu Divergenze di vedute,
in attesa di essere inte- al mondo: quasi
qualche screzio, ordini
grate nelle forze armate 20mila caschi
diversi. Ma c’è anche
blu, presenti
dal 2000. Con
risultati quanto
meno discutibili
PROGETTI
Una governance
delle risorse
A
fine giugno a Lubumbashi (capoluogo del Katanga, regione meridionale
della Repubblica Democratica del Congo)
si è tenuto un seminario della JascNet, la
rete dei Centri sociali dei gesuiti africani.
L’obiettivo era ambizioso: instaurare una
governance delle risorse naturali del continente. Divisi in quattro gruppi, i religiosi
hanno lavorato su governance mineraria
(decidendo di creare un blog sull’argomento), gestione petrolifera, governance
ambientale e gestione terriera. I gesuiti
presenti, provenienti da Kenya, Zambia,
Madagascar, Ciad e Congo, si ritroveranno
a ottobre per proseguire i lavori.
OTTOBRE 2013 POPOLI 15
g.b.
reportage
Un blindato dei caschi blu della
missione Monusco. A fianco,
le tendopoli di sfollati a Rubaya.
CRONOLOGIA
> 3 giugno 2004 - Laurent Nkunda, alla
testa di una milizia di etnia tutsi, occupa
Bukavu (Sud Kivu). La giustificazione
ufficiale è la necessità di difendersi dai
ribelli hutu. In realtà occupa importanti
siti minerari.
> 2004-2007 - Il Nord Kivu è sconvolto
da continue razzie da parte di tutte le
milizie sul campo.
> 23 gennaio 2008 - Viene siglato un accordo tra il governo congolese e Nkunda.
> 19 gennaio 2009 - Il Ruanda annuncia
di non voler sostenere più il movimento
di Nkunda, che il 23 gennaio viene arrestato proprio dalle truppe di Kigali.
> 4 aprile 2012 - Bosco Ntaganda, tutsi,
ex collaboratore di Nkunda, alla testa
del movimento M23 prende le armi contro l’esercito congolese.
> 20 novembre 2012 - L’M23 occupa Goma, città dalla quale si ritirerà nei primi
giorni di dicembre.
> 24 febbraio 2013 - I leader di undici
nazioni africane firmano un’intesa per
riportare la pace nel Congo orientale.
L’M23 non ha propri rappresentanti
nell’assise e i leader del movimento
si dividono su come accogliere questo
accordo.
> Luglio-agosto 2013 - Le fazioni dell’M23
contrarie all’intesa di febbraio riprendono a combattere. Ai reparti della missione Onu viene data la possibilità di attaccare le posizioni dei ribelli. Opportunità
che sfruttano sostenendo le offensive
dell’esercito congolese.
> 9 settembre 2013 - A Kampala (Uganda) riprendono i colloqui tra esponenti
del governo di Kinshasa e i vertici del
movimento M23. Sul campo però proseguono gli scontri tra i militari di Kinshasa
e i ribelli.
16 POPOLI OTTOBRE 2013
Un anziano a Kitchanga, villaggio
che a febbraio è stato al centro
di scontri tra esercito e miliziani.
chi, alla Croce Rossa locale, sussurra
si sia trattato di un regolamento di
conti su base etnica. E così la situazione è esplosa. I militari congolesi
hanno fatto una strage di civili,
bruciando, sempre secondo la Croce
Rossa locale, almeno 517 abitazioni.
«Hanno colpito i civili sospettati di
collaborare con i Maj Maj», riferisce
un abitante di Kitchanga che parla
sotto anonimato.
Kitchanga è emblematica per comprendere la malagestione della sicurezza nell’Est del Paese da parte
di Kinshasa. Un Est lontano, su cui
Ruanda e Uganda hanno messo gli
occhi da tempo e in cui lavorano
multinazionali del settore minerario. L’instabilità della regione fa
quindi comodo a molti degli attori
presenti.
Uno dei fattori cruciali è il disastrato esercito congolese: un’armata
Brancaleone formata da ex ribelli,
da milizie spesso male o per nulla
addestrate, poco motivate, con poca
disciplina, mandate a combattere in
prima linea per un pugno di dollari.
Lo stipendio medio di un soldato è
70 dollari al mese. Chi ha famiglia,
fatica a sfamare i figli. Solo negli ultimi anni i programmi di formazio-
Rutshuru, miliziani dell’M23.
Rutshuru contro Laurent Nkunda e
a Luberu contro le milizie dell’Fdlr.
Masika si è trovata a dover rispondere al fuoco nemico con la figlia
legata al petto. «Non sapevo a chi
lasciarla - spiega -. Cercavo di tenerla in modo che, in caso di imboscate,
non venisse colpita. Marciavo per
ore con il mio fucile, una cassa di
munizioni e mia figlia».
«Non siamo considerati come i militari negli altri Paesi - osserva
Gérôme -. Siamo mal pagati, la razione di cibo mensile è un mestolo
di farina! Ci spostiamo a piedi, ma ci
IN BATTAGLIA CON I FIGLI
Gérôme e la moglie, il caporale fanno andare a combattere dopo che
Masika Vitimya Jeanette, lavorano abbiamo digiunato per giorni. Noi
insieme, entrambi nella ottava Re- congolesi siamo combattenti forti,
gione militare guidata dal generale possiamo sconfiggere i ribelli, ma
Bahuma. Sono sposati da sei anni. dobbiamo essere nutriti!».
Non vedono i figli da otto, né san- Già, i ribelli. Le milizie in Kivu sono se sono ancora vivi. Due figlie no numerose. A volte sono formate
da disertori, altre volte
dovrebbero essere in
Katanga presso la fami- Ruanda e Uganda sono civili che imbracciano le armi, così facili
glia di Gérôme, ma non hanno messo gli
da reperire in Congo.
riescono a riprendere i occhi da tempo
contatti con i genitori. I sull’Est del Paese: L’unica ricetta che viene
utilizzata per neutralizsuperiori non concedo- a loro e alle
zarle è l’integrazione
no loro alcuna licenza multinazionali
nelle forze armate conper andare a cercarli. I del settore
golesi. Il sistema funcellulari sui quali erano minerario che
ziona così: un leader,
registrati i numeri di te- qui lavorano
magari un colonnello
lefono dei figli sono an- l’instabilità
disertore, raggruppa aldati perduti in battaglia. fa comodo
cune decine o centinaia
Masika fatica a ricordadi volontari e forma una
re persino il volto della
milizia. Il gruppo armaterza figlia. Fino a 8
mesi, la piccola è stata al fronte in- to sopravvive sul territorio grazie
sieme alla madre che combatteva a all’assenza dei governativi, impone dell’Onu hanno consentito di stilare liste degli effettivi, di verificare
che gli ufficiali non si intascassero
le paghe dei sottoposti. Kinshasa
ha poi chiesto e ottenuto che alcuni
battaglioni fossero inquadrati da ufficiali cinesi o americani. Ma, come
racconta Gérome Amisi Donge, 45
anni, tenente di stanza a Minova,
i militari ben addestrati vengono
poi inviati in altri battaglioni meno
organizzati, vanificando lo sforzo
formativo.
nendo tasse ai locali e sfruttando
le miniere se ci sono. Se il gruppo
è ben strutturato e ha contatti con
i Paesi vicini, può infatti
Milizie ed esercito
trafficare in
sono accusati di
coltan o cassistupri di massa
terite. Poi, doe violenze sulla
po aver compopolazione.
piuto violenze
Le denunce
e aver «modi varie
strato i muscoorganizzazioni
li», chiede la
internazionali non
pace in cambio
si contano, ma
de l l’i nteg r al’impunità è diffusa
zione. Di solito
il comandante dei ribelli ottiene un
grado molto alto nelle forze armate
(generale, per esempio) e nell’intesa
pretende che i suoi uomini siano
stanziati negli stessi territori in cui
combattevano in precedenza.
LA RICCHEZZA SCIPPATA
Rubaya, nel Masisi, un ampio massiccio assai ricco di minerali a NordOvest di Goma è una cittadina ricca,
in cui più o meno tutti sono coinvolti
nell’estrazione di manganese e coltan. La zona è controllata dall’814°
Reggimento Maj Maj Niatura sotto
il comando del colonnello Habarughira. Mesi fa, le colline circostanti
erano controllate dagli uomini del
generale Bosco Ntaganda, comandante del gruppo ribelle M23, ora
all’Aja in attesa di giudizio. La presenza dei miliziani è molto discreta.
La legge vieta la presenza di soldati
OTTOBRE 2013 POPOLI 17
reportage
o uomini armati nelle miniere, tranne la speciale «Polizia delle miniere».
I Maj Maj controllano Rubaya e i
suoi siti, nonché gli accessi all’intera
area. È lì che, grazie a check point
mobili, impongono tasse ai minatori
o ai portatori che entrano ed escono
dal villaggio. Pochi dollari a testa.
Decine o centinaia di dollari, invece,
se a passare sono i fuoristrada o i
camioncini carichi di coltan diretti
a Goma. Il semplice controllo del
traffico di persone da e per Rubaya
rimpingua le casse dei Maj Maj. Non
è cioè necessario occuparsi direttamente del trasporto e della commercializzazione del minerale.
Alcuni numeri: un chilo di sabbia
mista, minerale
grezzo, che esce
Le milizie, grazie
dalle miniere
a check point
mobili, impongono di Rubaya vale
10 dollari; una
tasse ai minatori
volta a Goma il
e ai fuoristrada
prezzo sale a 70;
diretti a Goma. Il
semplice controllo passato il confine con il Ruandel traffico di
da, 105 dollari.
persone da e per
Un prezzo che
Rubaya rimpingua
non ripaga in
le casse
alcun modo lo
sforzo di migliaia di minatori locali.
Venant Bahati ha 26 anni, le spalle
larghe, il viso imperlato di sudore,
un sacco sulla testa. «Mi alzo alle
4 del mattino e ogni giorno vengo
a Rubaya - racconta -. Trasporto
sacchi da 25 chili e faccio su e giù
dalla collina quattro volte al giorno
dall’alba fino alle tre del pomeriggio. Guadagno 10 dollari al giorno,
se va bene. E riesco appena a sfamare i miei due figli e mia moglie».
Faustin Nkomeshwe ha 22 anni e
anch’egli fa il minatore. Faustin scava ogni giorno. In media guadagna
5 dollari al giorno. Se un crollo dei
tunnel o una caduta accidentale non
lo uccideranno o non lo renderanno
invalido, potrà a stento garantire un
futuro alla sua famiglia.
Il futuro del Kivu, invece, è pieno di
punti di domanda.
18 POPOLI OTTOBRE 2013
Un gesuita
d’oro
Giusy Baioni
GOMA (REP. DEM. CONGO)
È
stato tra i primi a studiare in
profondità il fenomeno, tanto
da pubblicare un’analisi già
nel 2001: padre Didier de Failly,
gesuita belga da oltre 25 anni a
Bukavu, capoluogo del Sud Kivu, ha
consacrato gli ultimi lustri ad approfondire le dinamiche dello sfruttamento minerario nella regione e a
individuare mezzi efficaci per contrastarne il commercio illegale, tra
Padre Didier de Failly.
le principali cause della guerra. È il
direttore del Bureau d’Etudes Scientifiques et Tecniques (Best) e della ne artigianale dei minerali».
Maison des mines du Kivu. Colla- La maggior parte degli studi dibora con vari network internaziona- sponibili oggi partono infatti dal
li, come la Public-Private Alliance presupposto che in Congo esista
for Responsible Minerals Trade e la una catena mineraria industriale e
Extractive Industries Transparency non artigianale, come è in realtà. È
Initiative. La sua voce è ascoltata questo uno dei maggiori problemi
ovunque e i suoi contributi scrit- evidenziati dal gesuita. «In un conti sono pietre miliari nel percorso testo simile - osserva -, garantire la
che sta portando alla certificazione tracciabilità non è affatto semplice,
dei minerali provenienti da zone di né è semplice verificare la filiera o
conflitto.
evitare imbrogli, se il tutto consiLo incontriamo nel suo ufficio nel ste solo nell’apporre un’etichetta sul
collegio dei gesuiti Alfajiri a Buka- sacco di coltan, tungsteno o cassitevu. Nel nostro colloquio si addentra rite. Alterare o sostituire un cartelnei meandri delle normative in- lino è un gioco da ragazzi. Inoltre,
ternazionali che oggi cercano di non essendoci concorrenza (sono
regolare il commercio dei minerali ancora in pochi a etichettare i mi«insanguinati», mettendone in evi- nerali), il prezzo della materia prima
denza i limiti. «È necessario - osser- resta basso. A rimetterci sono quindi
va - che il denaro proveniente dalla i lavoratori. Lo Stato congolese poi
vendita delle risorse minerarie torni non fa il suo lavoro. È incapace di
alla gente, per migliorarne le condi- proteggere i cittadini e così regna
zioni di vita. La società
l’impunità». Per questo
civile del Sud Kivu si «È necessario
motivo, uno degli obietsta professionalizzando che il denaro
tivi per cui padre Didier
nei suoi interventi, va proveniente
si sta battendo è riuscire
sostenuta e incoraggia- dalla vendita
a imporre l’etichettatura
ta, ma non è semplice dei minerali torni elettronica: «Vorremmo
acquisire competenza alla gente,
avviare un sistema più
nel settore dell’estrazio- per migliorarne
sicuro, con un sensore
le condizioni di
vita. Ma non
è un’impresa
semplice»
Dodd-Frank prevede infatti la possibilità di boicottare le aziende elettroniche che non utilizzano coltan
e minerali conflict-free. Il principio
in sé è ottimo. Ma siccome la filiera
non può essere facilmente garantita,
le aziende elettroniche, temendo di
UN LAVORO RISCHIOSO
Un altro punto su cui de Failly in- perdere clienti, finiscono per rinunsiste riguarda il Dodd-Frank Wall ciare ai minerali congolesi rivolgenStreet Reform Act, legge statuniten- dosi ad altri fornitori. A rimetterci
se approvata il 21 luglio 2010. Que- sono quindi i congolesi che vivosta legge, al paragrafo n. 1502, parla no dell’estrazione. Serve dunque,
espressamente dei minerali prove- secondo de Failly, una gradualità
nienti dalle zone di conflitto nell’Est nell’applicazione della normativa e
del Congo e dai Paesi confinan- un lavoro più efficace per garantire
ti, imponendo alle compagnie che la filiera. Proprio per sensibilizzare
commercializzano uno dei quattro su questi temi i vertici delle orgaminerali strategici provenienti dal nizzazioni internazionali, nel 2011
de Failly ha viaggiato
Paese africano (tantalio,
molto recandosi a Watungsteno, oro e cassite- «La tracciabilità
shington, Bruxelles, Parite) di rendere pubbli- dei minerali
rigi, Berlino.
che le fonti e le misure è complessa.
Padre Didier non lavoprese affinché i mine- Dobbiamo
ra però solo a livello
rali non alimentino il imporre
internazionale, ma ha
conflitto. La norma ha l’etichettatura
molti progetti anche sul
grandi meriti (tra l’altro, elettronica:
terreno: «Inizialmente
a fine luglio, la Corte di- un sensore
volevamo diffondere testrettuale di Washing- in ogni sacco
sti in swahili nei quali
ton ha rigettato il ricor- per seguirne
si parla dei diritti dei
so di alcune lobby che l’itinerario»
minatori. Purtroppo la
volevano limitarne gli
maggior parte dei mieffetti) ma, secondo il
natori è analfabeta. Così
gesuita, rischia di avere
sui minatori effetti opposti a quelli abbiamo deciso di selezionare quelli
che si era proposto il legislatore. La che avevano un minimo di istruin ogni sacco per seguirne l’itinerario. Questo ovvierebbe alla difficoltà di verificare se le etichette
corrispondono davvero ai Paesi di
produzione».
Una donna congolese
setaccia la sabbia
alla ricerca del coltan.
zione e li abbiamo formati. Adesso
sono loro a formare i loro colleghi.
La maggioranza degli abusi poi sono
commessi dalle autorità pubbliche. È
necessario quindi educare la società
civile affinché
sia in grado
A Bukavu (Sud
di controllare
Kivu) Didier de
i funzionari
Failly, gesuita
statali. Vorbelga studia le
remmo anche
dinamiche dello
realizzare un
sfruttamento
documentario
minerario e cerca
per mostrare
di individuare
ai responsabimezzi efficaci
li a Kinshasa
per contrastare il
e in Europa la
commercio illegale
vera vita dei
minatori e le inimmaginabili difficoltà che incontrano». I progetti si
scontrano, purtroppo, con la mancanza di fondi. Attualmente ne arrivano dalla Chiesa battista e da un
gruppo ebraico, ma non bastano di
fronte al molto lavoro da fare.
Le attività di padre de Failly minacciano diversi interessi. «Il mio nome
e il mio luogo di lavoro sono stati
citati più volte alla radio ruandese,
mettendomi così in pericolo». Non
solo, è stato accusato di aver passato informazioni all’Onu. Così padre
Didier preferisce non entrare più in
Ruanda, dove per lui i nemici sarebbero troppo numerosi.
MINERALI RARI
> Tantalio - È un metallo molto resistente
alla corrosione (soprattutto all’attacco
degli acidi) ed è un buon conduttore di
calore ed elettricità. Si usa per produrre
strumenti chirurgici e protesi intracorporee.
> Tungsteno - Il tungsteno è un metallo
noto per le sue proprietà di conduzione.
Trova ampio impiego nelle applicazioni
elettriche e nell’industria aerospaziale.
> Oro - L’oro è un metallo inattaccabile
dalla maggior parte dei composti chimici.
Viene utilizzato per coniare monete e
viene inoltre impiegato in odontoiatria,
gioielleria e nell’industria elettronica.
> Cassiterite - È il nome più diffuso del
biossido di stagno. Viene utilizzato per
produrre il bronzo e altre leghe speciali
e per saldare. OTTOBRE 2013 POPOLI 19
AFP
indonesia
La polizia
lasciarono invece una legge islamica - unica in Indonesia - che oggi
regola la vita della provincia più
occidentale dell’arcipelago, punizioni corporali incluse.
Sulla spiaggia di Ulele, devastata
in quel tragico Santo Stefano, le
coppiette non sposate che si godono un po’ d’intimità al tramonto
vengono allontanate. Le relazioni
extraconiugali sono anch’esse tabù,
Nella provincia autonomista di Sumatra, dove
così come il gioco d’azzardo e l’inl’applicazione della shari’a ha effetti insoliti
frazione del precetto di non bere
per la consueta tolleranza indonesiana,
alcolici. Sul corretto ordine islasi gioca il confronto fra tradizione e modernità
mico vigila la Wilayatul Hisbah, la
con nonchalance, come se gli toc- polizia islamica istituita nel 2003 e
Alessandro Ursic
casse ricordare un evento banale. di cui Marzuki Ali è il responsabile
BANDA ACEH (INDONESIA)
Dall’altra parte del frustino c’erano in città. Il corpo è composto da
entile nella parlata e capace cittadini di Banda Aceh, la città oltre 1.200 agenti nell’intera provincia di Aceh: uomini
di sorridere sotto quei baffi indonesiana sconvolta
e donne che perlustraneri quando spiega come dal catastrofico tsu- Gli acehnesi,
usare lo scudiscio, Marzuki Ali nami del 26 dicembre discendenti di un no le strade nelle loro
divise color oliva, alla
ricorda un padre burbero d’altri 2004. Oltre a 170mila fiorente regno
ricerca dei trasgressori
tempi, di quelli per cui la disciplina persone, quelle onde poi caduto sotto
della morale di Allah.
può portare a qualche scapaccio- si portarono via anche i colonizzatori
Se colgono qualcuno
ne. Dal 2006 ha vibrato lui stesso una guerriglia sepa- olandesi, sono
dei colpi: «tre-quattro volte», dice ratista decennale. Ma tradizionalmente in flagrante, «il primo
del Corano
G
20 POPOLI OTTOBRE 2013
orgogliosi della
loro diversità
dal resto
dell’Indonesia
Banda Aceh, dicembre 2011: un concerto
rock interrotto dalla polizia, che costringe
una sessantina di punk a tagliarsi i capelli.
obiettivo è di istruirli e di avvertirli che stanno violando la legge. I
recidivi li deferiamo ai giudici, che
possono condannarli alle fustigate», spiega Marzuki. Nella provincia
capita decine di volte all’anno: 50
nel 2011.
DOPO LO TSUNAMI
Non che Banda Aceh sia un covo di
anticonformisti che hanno scordato
il Corano. La città è soprannominata «la veranda della Mecca» proiettata come un pollice verso ovest, fu
la porta d’entrata dell’islam nell’arcipelago indonesiano fin dal XIII
secolo, grazie alle frequenti visite
di mercanti arabi. Ancora oggi è di
gran lunga la provincia religiosamente più conservatrice dell’Indonesia, Paese dove gli oltre 210 milioni di musulmani seguono per lo
più un islam moderato e fortemente
influenzato da animismo e induismo. Gli acehnesi, discendenti di
un fiorente regno poi caduto sotto
i colonizzatori olandesi, sono tradizionalmente orgogliosi della loro
diversità dal resto dell’Indonesia.
Nove anni dopo l’onda assassina, se
si eccettuano il Museo dello tsunami e alcune barche ancora arenate
sulla terraferma a chilometri dal
litorale, ben poco a Banda Aceh
ricorda il disastro. Lontana è anche
la guerriglia separatista del Movimento per l’Aceh libero (Gam), che
tra gli anni Settanta e il 2005 causò
15mila morti e portò a un’oppressiva presenza militare. In cambio
di una maggiore autonomia, alla
provincia fu in sostanza concessa
la shari’a, la legge islamica.
Al visitatore non può sfuggire
la pia osservanza islamica degli
acehnesi, gente di una gentilezza
squisita, fuori dalle rotte turistiche
e per questo ancora più accogliente
verso lo straniero. La splendida
moschea Baiturrahman troneggia
nel centro della città. Al contrario
del resto dell’Indonesia, donne e
ragazze hanno i capelli coperti dal
velo. Con l’introduzione della legge
islamica, i tre cinema cittadini sono
stati chiusi. La vita notturna è praticamente inesistente: il massimo
per i giovani è chiacchierare in uno
dei tanti caffè. Molti non sono neanche mai stati a Giakarta, la capitale, ma hanno comunque affinato
il loro inglese grazie al massiccio
arrivo di Ong dopo lo tsunami.
L’impressione è quella di una placida città di provincia. Ma le autorità locali avanzano regolarmente
proposte di un giro di vite su comportamenti «immorali», specie nei
villaggi dell’interno. Definendo l’omosessualità «una malattia sociale
da sradicare», il vicegovernatore di
Banda Aceh ha recentemente spinto
per una legge che punisca i gay con
cento fustigate. A Lhokseumawe
(170mila abitanti) il sindaco vuole vietare alle donne di sedere a
cavalcioni sul sedile dei motorini.
Le autorità di Aceh Nord, il territorio circostante, hanno appena
proibito al gentil sesso di «ballare
in pubblico». I rari casi di istinti
ribelli vengono tenuti d’occhio. Nel
dicembre 2011 una sessantina di
giovani punk - in molti arrivati da
fuori Banda Aceh per il primo festival rock locale - furono arrestati
e sottoposti a una specie di «naja»
forzata per una settimana, con rasatura e «bagno purificatore».
Tuttavia, Banda Aceh non è l’Afghanistan dei talebani. Molte ragazze guidano lo scooter, e nei
caffè sanno rivolgere occhiate languide ai coetanei. Gli stranieri vengono lasciati in pace dalla polizia
islamica e le donne della minoranza
cinese vanno in giro a capo scoperto. Lo stesso Marzuki ammette:
«L’obiettivo della fustigazione non
è fare male,
ma
umiliaSulla spiaggia
re in modo da
devastata dallo
prevenire nuotsunami del 2004,
ve infrazioni.
le coppiette non
Non a caso,
sposate che si
lasciamo che
godono un po’
la persona pud’intimità vengono
nita rimanga
allontanate.
vestita», spiega
Le relazioni
mimando il geextraconiugali
sto con cui va
sono tabù
somministrato
il colpo corretto: frenando il braccio a metà corsa, facendo arrivare
lo scudiscio a destinazione non con
ACEH, L’OCCIDENTE INDONESIANO
Banda
Aceh
Lhokseumawe
Medan
MALAYSIA
BRUNEI
Kuala
Lumpur
SINGAPORE
MALAYSIA
Borneo
Oceano Indiano
Sumatra
I N D O N E S I A
Giakarta
Giava
OTTOBRE 2013 POPOLI 21
indonesia
«GENERAZIONE TWITTER»
Le generazioni più giovani, per
quanto osservanti, hanno però fame di aprirsi al mondo. YouTube
e Twitter sono popolarissimi. Le
ragazze ascoltano dive pop americane come Taylor Swift e Katy
Perry, che cantano amori romantici
Preghiera del venerdì in una
moschea di Banda Aceh.
22 POPOLI OTTOBRE 2013
con testi decisamente poco consoni rappresentante della sezione locale
alla shari’a. «Un controsenso? Non del Fronte dei difensori dell’islam»
ci avevo mai pensato», ammette (Fpi). Il gruppo, numericamente
Nanda Mariska, una 22enne che si marginale ma dotato di appoggi
definisce musulmana convinta e influenti, spinge per l’introduzione
che, come gran parte delle sue ami- entro il 2014 di un «nuovo codice»
che, non ha mai avuto un ragazzo. islamico che decuplicherebbe il nuUn punk di soprannome André, tra mero di fustigate per ogni reato, e
quelli arrestati e rasati due anni non solo.
fa, sintetizza il suo disgusto per le «Ai ladri andrebbe tagliata la mano
e gli adulteri dovrebberegole oppressive: «La
ro essere lapidati!», si
gente di Aceh è ipocri- Gli islamici
scalda Yusuf. Poi guarta! Noi vogliamo solo radicali sono
da la giovane Nanda,
liberare la nostra cre- in crescita in
indicata dal giornaliatività, che male c’è?», Indonesia e
sta straniero, e giudica
spiega rollandosi una guardano alla
sigaretta ed esibendo provincia di Aceh «non sufficientemente
modesto» il suo modo
una nuova chioma co- come a un
di vestire: velo, maglia
lorata.
laboratorio di
C’è tuttavia chi vorreb- quanto vorrebbero che non lascia intravedere alcuna forma,
be punizioni ben più estendere al
pantaloni larghi e nesevere. Gli islamici ra- resto del Paese
anche una caviglia scodicali sono in crescita
perta. La ragazza monel Paese e guardano
stra tutto il suo stupore
alla provincia di Aceh
come a un laboratorio di quan- e, ripensandoci, scuote la testa con
to vorrebbero estendere al resto un sorriso. Il futuro della shari’a a
dell’Indonesia. «Quella di adesso Banda Aceh (e non solo) passerà da
non è una vera shari’a, ma solo un confronti simili tra le due anime
primo passo per istruire la popola- dell’islam locale: quella fondamenzione», spiega Yusuf al-Qardhawy, talista e quella più moderata.
AFP
piena potenza. La lapidazione è in
teoria prevista per alcuni reati, ma
non è mai stata eseguita.
Specie in città, la shari’a e soprattutto le punizioni corporali non
sono così popolari. Nel mercato attorno alla moschea Baiturrahman,
molti storcono il naso di fronte ai
blitz della polizia prima della preghiera del venerdì, che obbligano
negozi e ristoranti a chiudere. C’è
anche un diffuso fastidio verso
le disuguaglianze nell’applicazione
della legge: non è un mistero che
alcuni hotel e locali di lusso servano alcolici ai più benestanti, che
hanno comunque la possibilità di
volare a Giakarta per un weekend
«proibito». Ma, anche per il timore
di mancare di rispetto ad Allah,
pochi acehnesi osano confidare la
loro contrarietà.
riflessioni
La Chiesa
e la guerra
Mentre il mondo si divide sull’opportunità
di un intervento militare in Siria, al di là
di considerazioni geopolitiche si ripropongono,
come in altri casi simili, dilemmi etici che
interrogano credenti e non. Abbiamo chiesto
a un teologo morale, esperto di dottrina sociale
della Chiesa, di aiutarci a fare chiarezza
Giannino Piana
L
e drammatiche vicende che
hanno contrassegnato negli
ultimi decenni diversi Paesi
dell’area mediterranea, dai Balcani
(in particolare la Bosnia e il Kosovo), al Nord Africa (la recente
guerra in Libia), fino alla tragedia
in corso in Siria, pongono con urgenza l’interrogativo sul «che fare»
per evitare (o quanto meno per
contenere) terribili carneficine, le
cui vittime sono popolazioni inermi, donne e bambini in primis, e
dove si assiste talora a vere e proprie forme di genocidio. Si tratta,
ad esempio nel caso siriano, di
«guerre civili» destinate ad abbattere regimi autoritari, che reagiscono con la forza alla pressione di
parti consistenti della popolazione,
mettendo in atto forme spietate di
repressione con decine di migliaia
di vittime sacrificate a un potere
sanguinario che non accetta alcuna
forma ragionevole di trattativa o di
mediazione.
La dottrina morale, sia laica sia di
ispirazione cristiana (in particolare nei secoli più recenti quella
cattolica), ha ipotizzato in passato
varie forme di intervento - dalla
legittimità di procedere all’uccisione
dell’«ingiusto tiranno», alla giustificazione della guerra difensiva (me-
diante la teoria della «guerra giusta») - che avevano come obiettivo
quello di salvaguardare tanto i diritti dei singoli quanto quelli dei popoli di fronte alle prevaricazioni di
un tiranno o all’aggressione dall’esterno di un altro popolo. Queste
forme di intervento (in particolare
la guerra) hanno perso - come vedremo - la loro legittimità, a causa
dei profondi cambiamenti culturali
e tecnologici verificatisi soprattutto
nella seconda metà del Novecento.
La gravità delle situazioni ricordate
e di molte altre - basti ricordare
il genocidio del 1994 in Ruanda,
consumatosi nell’indifferenza del
mondo occidentale e delle autorità
internazionali - ripropone, tuttavia,
in termini perentori, la domanda
circa le modalità di intervento possibili, stante il fatto che risulterebbe
del tutto immorale assistere inermi
a massacri di tale consistenza.
NON ESISTONO «GUERRE GIUSTE»
La teoria della «guerra giusta»,
che ha origini remote nel pensiero
patristico - Agostino è stato il
Ribaltando
primo a formula prospettiva
larla - e che ha
del passato
avuto il merito
Giovanni XXIII
storico di fissadefinisce
re limiti precisi
«irragionevole
alla possibilità
pensare che la
de l l’i nter vento
guerra possa
bellico, sia riduessere utilizzata
cendone l’esercome strumento
cizio alla sola
di giustizia»
difesa (negando
perciò diritto di cittadinanza alla
guerra offensiva o di conquista),
sia dettando con chiarezza le condizioni per l’ingresso in essa (ius
ad bellum) e per le modalità della sua esecuzione (ius in bello),
ha perso, nel nostro tempo, ogni
giustificazione. Il primo ad affermarlo, superando decisamente le
posizioni assunte dai precedenti
pontefici (non escluso l’immediato
predecessore Pio XII), è stato GioOTTOBRE 2013 POPOLI 23
riflessioni
vanni XXIII, il quale, nell’enciclica Pacem in terris del 1963 non ha
esitato a condannare, in maniera netta e irrevocabile, la guerra
(ogni guerra), in quanto «contraria
alla ragione».
La sconfessione della dottrina della
«guerra giusta», considerata acquisita dalla tradizione - si comprende
proprio per questo lo scandalo suscitato in alcuni ambienti cattolici
conservatori -, si appoggia a motivazioni di ordine strettamente
razionale. Ribaltando la prospettiva del passato che considerava la
guerra, sia pure difensiva e rispettosa di alcune condizioni, come un
atto assolutamente ragionevole, il
Papa afferma che è «del tutto irragionevole (alienum a ratione) pensare che nell’era atomica la guerra
possa essere utilizzata come strumento di giustizia» (Pacem
Come intervenire
in terris, n. 67).
di fronte
Ciò che l’encia situazioni
clica intende
complesse
sottolineare è
e conflittuali
che la presennelle quali
za nel nostro
sussiste il dovere
tempo di armi
morale di agire
micidiali - l’eper impedire
nergia nucleare
forme di violenza
è la «cifra» del
insensata?
salto qualitativo intervenuto nel campo degli armamenti con un potere di annientamento che mette a repentaglio la
sopravvivenza stessa dell’umanità
- fa sì che la guerra costituisca uno
strumento del tutto sproporzionato,
perciò inadeguato, ad affrontare
qualsiasi causa giusta.
Il ricorso a una motivazione razionale, ha trovato largo consenso
anche nel mondo laico - non è irrilevante che sia questo il primo documento del magistero della Chiesa
universale indirizzato anche «a tutti
gli uomini di buona volontà» -, dove
la consapevolezza del potenziale
bellico di enorme portata distruttiva che la tecnologia ha messo a
24 POPOLI OTTOBRE 2013
disposizione dell’uomo - accanto QUALI ALTERNATIVE?
alle armi nucleari non vanno di- Il ripudio della guerra lascia tutmenticate quelle chimiche e batte- tavia aperta la questione su come
riologiche - è divenuto l’argomento intervenire di fronte a situazioni
fondamentale per il rifiuto della complesse e conflittuali nelle quali
guerra.
sussiste il dovere morale di agire
A confermarne l’illegittimità è, del per impedire (o arrestare) forme di
resto, anche la considerazione del- violenza insensata che provocano
la inapplicabilità dei criteri che la morte di un enorme numero
stanno alla base della teoria della di vittime innocenti. La riflessione
«guerra giusta». Lo ius ad bellum, morale ha introdotto in proposicioè il diritto a entrare in guerra, to nuove categorie destinate a far
sia pure come estremo rimedio, si fronte a tali situazioni. Esse sono
fondava, oltre che sull’esistenza riconducibili alla dottrina della «indella «giusta causa», anche sul fatto gerenza umanitaria» e a quella degli
che a dichiararla fosse un’«autorità «interventi (o operazioni) di polizia
competente» e che si agisse con internazionale», il cui obiettivo è la
«retta intenzione». Il cambiamento prestazione di soccorso alle vittime
degli scenari internazionali rende dell’aggressione mediante il coinvoldifficile identificare tale autorità, gimento della comunità internazioessendo divenuto insufficiente, in nale. Va detto che «ingerenza» e «inun mondo globalizzato e interdi- tervento» devono essere nettamente
pendente come l’attuale, il riferi- distinti per la sostanziale differenza
mento alla sovranità dello Stato; a riguardo dell’uso della forza: l’inmentre appare sempre più arduo gerenza comporta infatti il sostegno
il ricorso alla retta intenzione di dato alle popolazioni senza l’uso di
fronte al complesso degli interessi mezzi violenti, mentre l’intervento
in gioco nelle relazioni tra i popoli. implica l’uso delle armi con la possiDel tutto irrealistica risulta poi bilità pertanto di qualche vittima (è
l’applicazione delle regole che fan- questa la ragione per cui non si può
no capo allo ius in bello, cioè alle parlare di azione umanitaria).
modalità di intervento: il rispetto Questa ultima forma di azione, per
degli obiettivi civili e
quanto assai delicata,
l’adozione del criterio La legittimità
non può tuttavia essedella proporzionalità di interventi
re equiparata a un insono infatti largamen- di ingerenza
tervento bellico. Non
te incompatibili con lo umanitaria
si tratta infatti - come
sviluppo tecnologico o di polizia
qualcuno scorrettamenintervenuto nel campo internazionale è
te asserisce - di un ridegli armamenti.
fuori discussione. torno alla giustificazio-
Devono però
essere rispettate
alcune precise
condizioni
Giovanni Paolo II durante l’Angelus
della Giornata mondiale per la Pace del 2005.
ne della guerra (la quale, respinta II, il quale, pur ribadendo in termidalla porta, tornerebbe a far capoli- ni intransigenti il proprio «no» alla
no dalla finestra), ma del consenso guerra, non ha esitato a riconoscere
dato a interventi che si differenzia- - sollecitato dal moltiplicarsi di
no radicalmente dalla guerra, sia sul situazioni in cui i diritti umaversante del «fine perseguito» - l’in- ni venivano gravemente calpestati
tenzione è, in questo caso, di arre- (particolare influenza ha avuto a
stare un processo di grave violenza tale proposito il caso della Bosnia) - sia sul versante delle «modalità di l’esigenza di intervenire con coragesecuzione», trattandosi di un’azione gio per evitare il dilagare di mali
chiaramente circoscritta e destinata maggiori. Di fronte alla tortura di
unicamente a disarmare l’aggresso- massa o a veri e propri genocidi
re. Non è indifferente,
volti all’eliminazione
a tale riguardo, che si Il modello etico
di interi gruppi etnici
faccia riferimento alla al quale tali
o, ancora, alle violenze
polizia, che ha come interventi si
efferate nei confronti
fine proprio quello di ispirano è quello
di donne e bambini non
riportare l’ordine in una di un’«etica della ci si può trincerare diesituazione conflittuale, responsabilità»,
tro a un pacifismo a
e non all’esercito, che ha basata sul
ogni costo (senza «se»
invece finalità belliche. bilancio degli
e senza «ma»); è doLa legittimità di que- effetti positivi
veroso ricorrere anche
sto ordine di interventi e negativi
alla forza, sviluppanè fuori discussione: si delle azioni
do - come afferma il
tratta di un sostegno
Pontefice - «azioni cirche riveste una innegacoscritte nel tempo e
bile portata etica, e la
precise nei loro obietcui attuazione esige il verificarsi di tivi, condotte nel pieno rispetto del
alcune condizioni, quali l’imparzia- diritto internazionale, garantite da
lità, la volontà di promuovere una un’autorità riconosciuta a livello
vera de-escalation della violenza e sopranazionale e, comunque, mai
della guerra e la prudenza nell’uso lasciate alla mera logica delle armi»
delle armi. La sua plausibilità è (Giovanni Paolo II, Messaggio per
legata alla presenza di situazioni la celebrazione della Giornata monestreme, nelle quali l’uso coerciti- diale della Pace, 1 gennaio 2000,
vo della forza è reso necessario sia n. 11).
dal fallimento della trattativa po- È qui chiaramente affermata la
litica, sia dalla considerazione che legittimità di iniziative limitate,
gli effetti negativi della rinuncia a motivate dall’esigenza di dare sointervenire risulterebbero più gravi stegno alla tutela dei diritti umani
di quelli prodotti dallo stesso inter- e nelle quali l’uso della forza, che
vento; per questo è necessario, quale ha - lo si è già ricordato - carattere
garanzia di imparzialità, il controllo di extrema ratio, deve avvenire
delle grandi organizzazioni interna- sotto il diretto controllo di un’auzionali (oggi in particolare dell’Onu) torità internazionale che si pone
in grado di valutare in maniera come obiettivo il ristabilimento di
imparziale (al di là e al di sopra di una convivenza ordinata e pacifiinteressi particolaristici) l’opportu- ca. L’affermarsi, sia a livello etico
nità di intervenire.
sia politico, di tali concetti è di
grande importanza; attraverso di
essi, mentre si scongiura il pericolo
CONDIZIONI DI LEGITTIMITÀ
In questa direzione si è mosso an- del ricorso alla guerra, che tende,
che il magistero di Giovanni Paolo di sua natura, alla sconfitta del ne-
mico, creando di conseguenza una
condizione inevitabilmente squilibrata e conflittuale, ci si mette
nel contempo in grado di risanare
situazioni altrimenti destinate a
provocare ricadute pesantemente
negative per la vita di intere popolazioni.
UN’ETICA DELLA RESPONSABILITÀ
Il modello etico al quale tali interventi si ispirano è quello di
un’«etica della responsabilità», basata sulla verifica delle conseguenze, cioè sul bilancio degli effetti
positivi e negativi delle azioni.
L’uso della forza non è a priori
condannato, come sempre e del tutto ingiustificabile; è reso possibile
soltanto quando si tratta di «male
minore» o di «riduzione del danno».
Non è infatti sufficiente, nei casi
ricordati, fare appello alle sole buone intenzioni o a un’astratta declamazione dei principi; è necessario
perseguire concretamente il «bene
possibile» e saper correre anche il
rischio, quando si è di fronte a situazioni drammatiche, di sbagliare
intervenendo, piuttosto che evitare
di intervenire per non sbagliare.
Tutto questo vale, ovviamente, nei
casi estremi. Altre sono - ce lo ricorda con forza la Pacem in terris
(cfr nn. 60, 51 e 67) - le vie ordinarie da percorrere per la promozione
della pace: dal disarmo integrato
attraverso controlli efficaci, alla
messa al bando delle armi nucleari (e aggiungiamo chimiche e
batteriologiche), fino alla ricerca
di soluzione dei conflitti mediante
il negoziato ispirato dalla volontà di un’equa composizione delle
parti. Ma, prima ancora, ciò che
conta - e a questo è dedicata gran
parte dell’enciclica giovannea - è
l’impegno a costruire, giorno dopo
giorno, un modello di convivenza
all’interno delle nazioni e tra le nazioni fondato sul rispetto dei diritti
e sull’ampliamento degli spazi della
partecipazione pubblica.
OTTOBRE 2013 POPOLI 25
eventi
Il Papa
tra i rifugiati
conflitto o da regimi che attuano
molteplici forme di repressione. Una
berlina senza scorta raggiunge la
via, il Papa scende dall’auto, l’emozione sale e la tensione si scioglie:
Due mesi dopo la visita a Lampedusa,
le mani si allungano, i saluti e gli
papa Bergoglio accoglie l’invito del Centro
Astalli e incontra a Roma chi ha dovuto fuggire abbracci si moltiplicano.
dal proprio Paese. Per ricordare che «solidarietà Così Francesco inizia la sua visita al
Centro Astalli, la sede italiana del Jrs
è la nostra parola»
(Servizio dei gesuiti per i rifugiati),
guerre. Per molti africani o medio- che da trent’anni offre aiuto a chi
Testo: Francesco Pistocchini
Foto: Centro Astalli/Alessia Giuliani rientali l'Italia è il primo luogo dove chiede asilo. Il Jrs è attivo in decine
chiedere asilo e Roma è la città dove di Paesi e in Italia opera soprattutto
uardiamo il fratello dimora il maggior numero di rifu- a Roma, con decine di operatori
e centinaia di volontari, assistenmezzo morto sul ciglio giati nel Paese.
della strada, forse pen- Il richiamo alla responsabilità di do oltre ventimila persone all'anno
siamo “poverino”, e continuiamo Lampedusa ha avuto un'eco precisa (34mila in tutta Italia). Da sette anni,
per la nostra strada, non è compito nel pomeriggio del 10 settembre, ogni mese in una rubrica su Popoli,
nostro». Papa Francesco l'8 luglio nel centro di Roma. È il primo po- racconta storie di fuga, difficoltà di
a Lampedusa, parlando vicino alla meriggio e in via Astalli, nei pressi integrazione, ma anche l’impegno di
piccola barca divenuta altare, de- di piazza Venezia, c’è molta attesa, tanti per una solidarietà concreta.
nunciava la globalizzazione dell’in- non solo fra gli stranieri che di Il Papa compie una visita nella forma
differenza, l'incapacità di piangere solito attendono in fila il proprio più semplice possibile, recandosi in
turno alla porta della
un luogo dove l’aiuto si
per chi muore in mare.
manifesta con l’offerta
Negli sbarchi sulle coste meridiona- mensa che ogni giorno Il Servizio dei
di un pasto, si intrattieli, additati da politici come «esodi» offre un pasto a circa gesuiti per i
ne con alcuni rifugiati.
o «invasioni», malamente bloccati 400 persone. Non sono rifugiati è attivo
Qualcuno si avvicina
dai respingimenti in mare o dalle semplicemente uomini e in decine di
e gli parla all’orecchio.
polizie nordafricane in cambio di donne immigrati, sono Paesi. L'anno
«Noi non sappiamo tutto
lauti finanziamenti, arrivano anche fuggiti - soli o con le scorso in Italia,
dei loro drammi - racpersone in fuga da persecuzioni e famiglie - da Paesi in come Centro
«G
26 POPOLI OTTOBRE 2013
Astalli, ha dato
assistenza a
più di 34mila
persone
Roma, 10 settembre: Papa Francesco alla
mensa del Centro Astalli. Accanto a lui,
Giovanni La Manna, il gesuita, presidente
del Centro, che ha invitato il pontefice.
Adam è sudanese, ha 33 anni, è
sopravvissuto alla guerra in Darfur.
Racconta al Papa la sua esperienza:
«Può sembrare eccezionale, in realtà
è una storia comune a tantissime
persone nel mondo - spiega -. È una
storia di guerra. Tutto è cominciato
quando alcuni militaADAM E CAROL
ri hanno dato fuoco al
Molti tra i presenti sono «Io sono
mio villaggio. Le mie
musulmani. Il clima di musulmano due sorelle più piccole
familiarità che si crea racconta un
non è scontato. «È lui che rifugiato -. Tra noi di 4 e 6 anni sono morte
lo crea - aggiunge padre ci sono cristiani e tra le fiamme». Adam è
costretto ad arruolarsi
Trotta -. Il gesto è since- islamici, ma non
con i ribelli, ma quando
ro». «Io sono di famiglia conta perché c'è
musulmana - racconta la gioia immensa si trova ad affrontare
suo fratello arruolato
Adam, che poco dopo di incontrarlo e
nell'esercito, getta il fuparla a nome di tutti vederlo mentre
cile e inizia una fuga
davanti al Papa -. Tra ci ascolta»
che lo porta in Italia. Da
di noi ci sono cristiani
allora non ha più visto
e islamici, ma non conta
la sua famiglia.
la religione di appartenenza perché c'è la gioia immensa di Carol è un’insegnante siriana, parla
incontrarlo e vederlo davanti a noi al Papa di un conflitto ancora più
vicino, che oggi conta più di un
mentre ci ascolta».
conta Giuseppe Trotta, gesuita e per
alcuni anni responsabile della scuola
di italiano del Centro -. Anche se conosciamo le persone e cerchiamo di
aiutarle nella lingua, nelle questioni
legali o per altri servizi».
milione di rifugiati. «I nostri ragazzi
sono stati tutti arruolati o uccisi in
una guerra per noi senza senso. Ce li
stanno ammazzando tutti. Siamo un
Paese senza futuro».
Anche Carol, come Adam, si fa portavoce di una realtà di accoglienza
che molto spesso è lontana dagli
impegni che i Paesi europei hanno
preso, almeno sulla carta. «Sognavamo un'Europa accogliente e aperta.
Purtroppo neanche qui le nostre
sofferenze trovano pace».
UN BIGLIETTO PER MORIRE
«Roma dovrebbe essere la città che
permette di ritrovare una dimensione umana, di ricominciare a sorridere - risponde il Papa -. Quante volte,
invece, qui, come in altre parti, tante
persone che portano scritto “protezione internazionale” sul loro permesso di soggiorno, sono costrette a
vivere in situazioni disagiate, a volte
degradanti».
A MILANO
Nasce la Fondazione Martini
«L
a memoria dei padri è un atto di giustizia. E Martini è
stato un padre per tutta la Chiesa. Anche noi alla “fine
del mondo” facevamo gli esercizi con i suoi testi». Con queste
parole, il 30 agosto papa Francesco ha ricevuto in visita privata
i membri della Fondazione Carlo Maria Martini nata in coincidenza con il primo anniversario della morte del cardinale (31
agosto 2012). La Fondazione, creata
per iniziativa della Provincia d’Italia
della Compagnia di Gesù (in partecipazione con l’Arcidiocesi di Milano)
intende promuovere la conoscenza e
lo studio della vita e delle opere del
prelato e per tener vivo lo spirito che
le ha animate.
Nel discorso rivolto ai rappresentanti
della Fondazione, il Papa ha ricordato
il ruolo di padre Carlo Maria Martini alla 32a Congregazione Generale
dei gesuiti (1974), durante la quale
Martini seppe indicare la via per
mantenere l’attenzione sulla giustizia
favorendo l’unione all’interno della Compagnia stessa e nei rapporti tra i gesuiti e la Santa Sede. Papa Francesco ha ricordato
con grande gratitudine e stima la sua figura definendolo «profeta
e uomo di discernimento e di pace».
«Il cardinale Martini - ha spiegato Carlo Casalone, superiore
della Provincia italiana della Compagnia di Gesù -, nel suo testamento ha indicato la Provincia d’Italia quale erede universale
del proprio patrimonio, costituito in sostanza dai suoi scritti, e
una Fondazione ci è sembrato lo strumento più adatto a proseguire la sua eredità spirituale e intellettuale».
La Fondazione avrà sede a Milano presso la Fondazione San
Fedele, dove già esistono diverse attività dei gesuiti nel campo
sociale e culturale (tra cui la stessa redazione di Popoli). «Costruiremo - continua padre Casalone un archivio che raccolga le opere del
cardinale. Vogliamo poi classificare
quanto è stato scritto su di lui. Così
renderemo disponibile il suo patrimonio intellettuale e spirituale a chi lo
voglia studiare».
La Fondazione si propone anche di
sostenere e alimentare il confronto ecumenico, interreligioso, con la
società civile e con i non credenti
in continuità con l’opera di dialogo sempre perseguita da Martini.
Sempre in coerenza con l’opera del
cardinale, promuoverà gli studi biblici
e contribuirà a progetti formativi e pastorali che valorizzino la
pedagogia ignaziana.
Infine, attraverso un sito (www.fondazionecarlomariamartini.it),
la Fondazione darà voce alle numerose testimonianze di personalità e gente comune per le quali la figura del cardinale ha rappresentato e rappresenta un punto di riferimento fondamentale.
OTTOBRE 2013 POPOLI
27 Casale
Enrico
eventi
Nella vicina chiesa del Gesù, dove
prosegue l'incontro, è sepolto padre
Pedro Arrupe, il superiore generale
dei gesuiti che nel 1980 fondò il Jrs,
in risposta al dramma dei boat people delle guerre nel Sud-Est asiatico,
gettando le basi per una delle più articolate e importanti opere dei gesuiti
nel mondo di oggi.
«Hai dovuto lasciare la tua città per
nascere, hai dovuto abbandonare il
tuo Paese per sopravvivere - recita
una preghiera, mentre il Papa e una
famiglia egiziana depongono fiori
sulla tomba di Arrupe -. Loro possono aiutarci a
capirti e a vedere
«La misericordia
di nuovo il tuo
vera - dice il
volto, questa volPapa - chiede la
ta con lineamengiustizia, chiede
che il povero trovi ti africani, slavi,
asiatici, diversi
la strada per non
dai nostri».
essere più tale.
Per anni il CenChiede a noi che
tro Astalli ha
nessuno debba
più avere bisogno cercato anche
di rispondere ai
di una mensa»
problemi di inserimento, nella ricerca di lavoro,
richiamando i politici, locali e nazionali, al rispetto degli impegni presi.
«La misericordia vera - aggiunge il
Papa -, quella che Dio ci dona e ci
insegna, chiede la giustizia, chiede
che il povero trovi la strada per non
essere più tale. Chiede - e lo chiede a
noi Chiesa, a noi città di Roma, alle
istituzioni - che nessuno debba più
avere bisogno di una mensa, di un
alloggio di fortuna, di un servizio
di assistenza legale per vedere riconosciuto il proprio diritto a vivere
e a lavorare, a essere pienamente
persona».
Le parole di Adam sono un appello
a nome di tanti: «Il viaggio che noi
affrontiamo per chiedere asilo in
Europa è un crimine contro l’umanità. Eravamo in 170 sulla barca che
dalla Libia ci ha portato in Italia.
Molti di noi hanno pagato il biglietto per incontrare la morte. Santità,
la sua voce è forte. Tutti l’ascoltano.
28 POPOLI OTTOBRE 2013
Ci aiuti. Faccia fermare questo massacro. Chiedere asilo non può essere
un tragico modo di perdere la vita».
CONVENTI VUOTI
Papa Bergoglio riprende alcune parole di Adam: «“Noi rifugiati abbiamo il dovere di fare del nostro
meglio per essere integrati in Italia”.
E questo è un diritto: l’integrazione!
E Carol ha detto: “I siriani in Europa
sentono la grande responsabilità di
non essere un peso, vogliamo sentirci parte attiva di una nuova società”.
Anche questo è un diritto! Ecco,
questa responsabilità è la base etica,
è la forza per costruire insieme. Mi
domando: noi accompagniamo questo cammino?».
E a braccio aggiunge: «I conventi
vuoti non servono alla Chiesa per
trasformarli in alberghi e guadagnare i soldi. I conventi vuoti non
sono nostri, sono per la carne di Cristo che sono i rifugiati». Chi ascolta
conosce, come gesuita, operatore o
volontario, la dura realtà dell’accoglienza in Italia e un applauso accoglie le parole del vescovo di Roma.
Ripercorrendo gli elementi centrali
della missione del Jrs - accompagnare, servire e difendere i rifugiati
in ogni parte del mondo -, il Papa
aggiunge: «Ognuno di voi porta soprattutto una ricchezza umana e
religiosa, una ricchezza da accogliere, non da temere. Molti di voi siete
musulmani, di altre religioni; venite
da vari Paesi, da situazioni diverse.
Non dobbiamo avere paura delle
differenze!»
Per questo sottolinea come sia bello
che a lavorare per i rifugiati, insieme con i gesuiti, siano uomini e
donne cristiani e anche non credenti
o di altre religioni, uniti nel nome
del bene comune, che per i cristiani
è espressione dell’amore del Padre in
Cristo Gesù. «Queste persone ci ricordano sofferenze e drammi dell’umanità. Ma quella fila ci dice anche
che fare qualcosa, adesso, tutti, è
possibile. Basta bussare alla porta,
e provare a dire: “Io ci sono. Come
posso dare una mano?».
È una sintonia di spirito quella che il
Centro Astalli ritrova nell'incontro
con il Papa gesuita. Non solo per il
significato delle parole, ma anche
per lo stile familiare, senza protocolli, che accomuna tutti.
Adam si scusa per il suo italiano, il
Papa sorride, poi scambiando qualche parola in privato gli dice: «Anche
il mio italiano è da migliorare». «Sono momenti che non si dimenticano racconta il giovane sudanese -. Credo
davvero che le cose cambieranno».
il profilo
Pietro Parolin
A
Nato a Schiavon (Vi)
il 17 gennaio 1955,
Pietro Parolin è stato
nominato dal Papa
Segretario di Stato della
Santa Sede. Entra in
carica il 15 ottobre.
Roma ci sono condomini dove ancora se
lo ricordano, mentre
andava a trovare anziani e
persone che avevano bisogno di una guida spirituale,
senza magari sospettare che
quel prete in clergyman lavorasse ai vertici della Santa Sede. Con l’arcivescovo
Pietro Parolin, Francesco ha
nominato come Segretario
di Stato un esempio di ciò
che raccomanda spesso: un
pastore che abbia l’«odore
delle pecore». Ma non solo:
ha compiuto una scelta che
rappresenta, per così dire, un
ritorno alla normalità, alla
grande tradizione diplomatica vaticana.
Non che le due cose siano
in contraddizione. Nel volo
di ritorno dal Brasile, il Papa citava a modello il cardinale Agostino Casaroli, che
andava a trovare i giovani
detenuti di Casal del Marmo
e Giovanni XXIII che gli diceva, al ritorno da una missione internazionale: «Non li
abbandoni mai».
È rimasta celebre la battuta
di Domenico Tardini, «ministro degli esteri» di Pio XII
e poi Segretario di Stato di
Giovanni XXIII, a chi gli diceva che quella vaticana è la
prima diplomazia del mondo: «Figuriamoci la seconda». Ma la stessa ironia del
grande diplomatico dimostrava, socraticamente, l’eccellenza di una scuola che
forma le sue élite nell’Accademia di piazza della Minerva, a Roma. Pietro Parolin
viene da lì.
Nato a Schiavon, in provincia di Vicenza, il 17
gennaio 1955, a soli 58 anni è il più giovane Segretario di Stato del dopoguerra; per trovarne uno
più precoce bisogna risalire al 1930 con la nomina,
a neanche 54 anni, del cardinale Eugenio Pacelli,
futuro Pio XII.
Del resto il ragazzo dimostra ben presto di avere
stoffa. Non ha un’infanzia facile: orfano di padre a
dieci anni, viene cresciuto con la sorella e il fratello
dalla mamma Ada, maestra elementare, dalla quale
ogni estate passa tuttora le ferie. Entra in seminario
quattordicenne, dopo la maturità classica studia
Filosofia e Teologia e per due anni fa il viceparroco
a Schio, prima di andare a Roma a studiare Diritto
canonico alla Gregoriana. Poiché il giovane ha talento, nel 1983, a 28 anni, entra pure nella pontifi-
Il Papa ha nominato come Segretario
di Stato un esempio di ciò che raccomanda
spesso: un pastore che abbia l’«odore
delle pecore». Scelta che è anche un ritorno
alla grande tradizione diplomatica vaticana
cia Accademia ecclesiastica. Così nell’86 comincia
il suo servizio diplomatico, in Nigeria fino all’89, in
Messico fino al ’92, finché rientra a Roma ed entra
in Segreteria di Stato.
Quello di monsignor Parolin è un ritorno a casa:
prima di essere inviato come nunzio in Venezuela
- dal 2009 a oggi -, alla Terza Loggia ha lavorato
per 17 anni, gli ultimi sette come «sottosegretario
per i Rapporti con gli Stati» e quindi «numero tre»
della Segreteria di Stato. Alieno dall’apparire, con
Giovanni Paolo II e Benedetto XVI si è occupato
di innumerevoli dossier. In particolare è esperto di
Medio Oriente e del continente asiatico in generale,
dal Vietnam alla Cina. Il suo stesso profilo, del resto, mostra il nuovo ruolo che il Segretario di Stato
è destinato ad avere nella riforma di Francesco, il
Papa venuto «dalla fine del mondo»: una figura
meno egemone nella Curia e sempre più rivolta
all’esterno, oltre l’Italia e l’Europa, per lavorare a
fianco del Papa ai problemi della Chiesa universale
e alle questioni internazionali.
Gian Guido Vecchi
Vaticanista del Corriere della Sera
OTTOBRE 2013 POPOLI 29
bolivia
Violini
nella foresta
Martina Bastos
SANTA CRUZ (BOLIVIA)
L
à dove si incontrano serpenti, orchidee e manghi grandi
come pugni. Là dove la terra
è rossa, fertile e piatta finché non
scompare nella massa densa e verde
della foresta. Là, in mezzo al nulla,
tre secoli fa arrivarono uomini
che aprirono sentieri, abbatterono
alberi, fondarono villaggi dentro le
foreste. E a chi viveva lì proposero
modi nuovi di pregare, costruire,
vivere insieme. Costruirono capan-
30 POPOLI OTTOBRE 2013
Fondate nel Settecento dai gesuiti, le Riduzioni
furono poi forzatamente abbandonate. Finché
un architetto svizzero ha scoperto migliaia di
partiture. E dalla musica sono nati progetti
culturali e sociali che hanno rivitalizzato la zona
ne di fango e paglia, piazze con una
croce al centro. Edificarono chiese
in legno, e nel legno intagliarono fiori, frutta, uccelli. Nel loro
bagaglio portavano flauti, viole,
arpe. E trecento anni dopo, come
per un miracolo inesplicabile, là si
ascoltano nuovamente Beethoven,
Vivaldi, Bach.
La Chiquitanía, regione agricola e
ricca di legname del dipartimento di
Santa Cruz, nel sud-est della Bolivia, è la distesa di pianure tropicali
dove i gesuiti fondarono, tra il 1691
e il 1760, le Missioni o Reducciones:
villaggi indigeni formati da semplici case intorno a una piazza e
alla chiesa. L’idea era di convertire
identità - differenza
Lezioni di violoncello a Concepción,
una delle Riduzioni fondate dai gesuiti
e poi riscoperte alcuni anni fa.
suita Martin Schmidt, musicista e
architetto svizzero, fu il responsabile della maggior parte delle
costruzioni, che imitavano quelle
della sua patria. In ogni Missione,
inoltre, creò laboratori di artigianato, scuole di musica e pittura, coro
e orchestra.
La musica sembrava ammaliare gli
indios. Era un suono che mai avevano ascoltato nella foresta. Del
resto, il primo avvicinamento non
poté avvenire attraverso il linguaggio parlato, ma solo grazie alla
musica. Ben presto gli indios impararono a fabbricare gli strumenti, a
suonarli, a comporre partiture. Ma
nel 1767 il re di Spagna, Carlo III,
ordinò l’espulsione dei gesuiti dal
Nuovo Mondo. Iniziò così il lento
declino delle Missioni: gli strumenti furono abbandonati, molte chiese
andarono in rovina.
IL TESORO DI ZIPOLI
Tutto cambiò, nuovamente, nel 1972,
quando l’architetto svizzero Hans
Roth arrivò in Bolivia con un biglietto di ritorno e un incarico: il
restauro del tempio di San Rafael.
La durata del suo contratto era di sei
mesi. Alla fine si fermò 27 anni.
Roth si dedicò a restaurare le chiese
che si trovavano in cattivo stato.
Durante i lavori trovò nelle sacrestie
alcune casse abbandonate. Dentro
c’erano migliaia di partiture originali del XVII secolo, composte nelle
al cristianesimo gli indios, ma an- Missioni da sacerdoti europei o da
che di proteggere il territorio dalle indigeni anonimi. La maggior parte
invasioni dei coloni portoghesi in erano firmate dal gesuita italiano
Domenico Zipoli, uno dei massimi
cerca di schiavi.
In questo luogo inaccessibile, vici- compositori del Settecento, che fu
no al confine brasiliano, si svilup- anche missionario in Sudamerica.
pò un’architettura religiosa unica Molte partiture erano marcite, mangiate da topi e insetti,
al mondo. Missionari
consumate dall’umidie indios beneficiarono In questi luoghi
tà. Roth contattò mudella natura generosa inaccessibili si
sicologi che iniziarono
e con il legname della svilupparono
un lungo processo di
zona costruirono chie- un’architettura
se superbe, un misto religiosa unica al pulizia e conservaziodi cultura autoctona e mondo, laboratori ne. Ripararono, fumigarono (una tecnica nel
barocco europeo. Il ge- di artigianato,
scuole di musica
e pittura. Erano
le Reducciones
dei gesuiti
restauro di libri), catalogarono per
genere: messe, salmi, sonate. Oggi
sono tutte conservate a Concepción
(una delle Missioni). I pezzi recuperati hanno dato vita all’Archivio
musicale di Chiquitos: 3.103 spartiti,
tutti digitalizzati e protetti in una
sala con antifurto, sistema antincendio e aria condizionata.
La scoperta di Roth ha portato alla
luce un mondo perduto. Si è rivitalizzata la musica barocca. La regione
si è risvegliata. Nel 1990, sei delle
antiche Missioni sono state dichiarate Patrimonio dell’umanità: San
Rafael, San Javier, Concepción, San
Miguel, San José e Santa Ana. L’Unesco sottolinea
che le Missioni
Dopo tre secoli
gesuitiche deldi abbandono, nel
la Bolivia non
1972 l’architetto
sono rovine,
svizzero Hans Roth
ma villaggi
iniziò a restaurare
ancora vivi.
le chiese delle
Forse proprio
Missioni. Un giorno
grazie al loro
scoprì migliaia di
isolamento, sopartiture originali
no quelle medel XVII secolo.
glio conservate
Fu un nuovo inizio
in Sudamerica.
Ancora oggi, vi si pratica la liuteria, eredità del passato missionario.
I liutai lavorano in laboratori rustici e fabbricano eccellenti violini
che in Europa costerebbero una
fortuna.
Nel 1996 è nato il Festival internazionale «Missioni di Chiquitos»,
il maggiore evento culturale della
Bolivia. Ogni due anni, i migliori
gruppi di musica barocca di tutto il
mondo arrivano nella Chiquitanía.
In occasione del Festival si è anche
vista per la prima volta un’orchestra
composta solo da bambini indigeni.
Provenivano dal villaggio di Urubichá, nella provincia di Guarayos, e
la loro fama si è diffusa in tutto il
Paese. Come ricorda Marcelo Araúz,
presidente del Festival, «la gente era
commossa e tutti si chiedevano: “Da
dove arrivano questi bambini?”. Abbiamo dovuto comprare loro scarpe
OTTOBRE 2013 POPOLI 31
bolivia
e camicie. Quando sono andati a
suonare a La Paz gli abbiamo comprato vestiti per il freddo».
Questo è stato solo l’inizio. Da allora, anche il villaggio più piccolo ha
formato la propria orchestra.
ORCHESTRE DI BAMBINI
Santa Ana de Chiquitos è un luogo
molto tranquillo. Di tutte le Missioni della zona,
è quella che ha
La regione si
conservato meè risvegliata.
glio
l’aspetto
Nel 1990, sei
originale. Poco
delle antiche
è cambiato da
Missioni sono
allora. A Sanstate dichiarate
ta Ana non c’è
dall’Unesco
polizia, c’è un
Patrimonio
corregidor, figudell’umanità:
ra nata con le
non sono rovine,
Missioni, incarima villaggi vivi
cata di risolvere
conflitti nella comunità. Il cacicco
continua a presiedere il cabildo, una
forma di governo indigeno ereditato
dall’epoca missionaria. Le case pavimento di terra, pareti di adobe,
tetto di palma intrecciata - sono
disposte in fila a partire dalla piazza centrale, un quadrilatero di erba
nel quale pascolano maiali, vitelli,
galline. Durante l’ora della siesta
si vedono in giro più animali che
persone. Sotto i toborochi - alberi
enormi e dai fiori rosa - i cani cercano ombra, raramente abbaiano.
32 POPOLI OTTOBRE 2013
Ci sono anatre che attraversano in francese che vive da sette anni in
fila strade troppo larghe, argillose. Bolivia. Prima ne ha passati 25 in
Bambini che passano su biciclette Venezuela. Era il primo fiato solitroppo grandi per loro. Ci sono porte sta nell’orchestra del maestro José
aperte, amache, zanzariere. Chi non Antonio Abreu (musicista, attivista
dorme compra ghiaccio, beve latte ed educatore venezuelano, ideadi cocco, suona il violino.
tore di un metodo di promozione
La sera è fatta di afa e luce gial- sociale dei giovani attraverso la
lognola. Dentro la chiesa un uomo musica). Gustavo Dudamel è stato
grida: «Male, male, male!» e trenta suo alunno. Il metodo utilizzato in
bambini tacciono come usignoli Chiquitanía si basa sul cosiddetto
muti. E i violini con loro. L’uomo Sistema di orchestra del Venezuela,
interrompe e - toccandosi la testa che dà priorità alla pratica rispet- dice: «Bisogna sentire, come un to alla teoria. Secondo Antoine è
martello, i colpi del ritmo nella una formula che ben si adatta alla
testa». L’uomo vuole un ritmo in- mentalità latinoamericana, dove la
fernale. Un uccello volteggia sopra gente non ha molta pazienza.
l’altare e i trenta bambini ripren- «Il problema dei conservatori dono in mano il loro strumento. spiega - è che iniziano insegnando
L’orchestra infantile di Santa Ana solfeggio, armonia, storia dei comcomincia, di nuovo, la Sonata 18 positori. E il bambino si annoia
dell’Archivio di Chiquitos.
mortalmente. Invece, con questo
Su seicento abitanti, quasi cento sistema, dal primo giorno al bambambini appartengono all’orche- bino danno in mano un violino
stra. Trenta di loro stanno per an- e lui inizia a suonare. Senza sadare in Argentina per un concerto. per leggere, già inizia a suonare:
Antoine Duhamel è arrivato a San- impara per imitazione. Cammin
ta Ana per le ultime prove. «In cre- facendo, migliora la tecnica, finscendo, andiamo, andiamo! Contate ché gli spiegano: “Ciò che hai suobene le battute. Aiutate
nato è quello che c’è
il violino con il corpo. Nel 1996 nelle
scritto qui”. Così l’inseQuello di Buenos Aires Missioni è nato
gnamento è molto più
è un pubblico colto. Vi un Festival che
veloce e immediato.
tireranno i pomodori se è il maggiore
In Venezuela ci sono
non fate bene».
evento culturale orchestre con bambini
Antoine, 67 anni, è un della Bolivia.
di tre anni, e dovreste
direttore di orchestra Ogni due anni, i
sentire come suonano».
migliori gruppi di
musica barocca
del mondo
arrivano qui
A sinistra la chiesa di San José de Chiquitos,
a destra quella di Concepción. Al centro, alcuni
bambini si esercitano al violino a San Ignacio.
«La musica è come una donna COME UNA TAZZA DI CAFFÈ
Dionisio ha iniziato a suonare il spiega -. Quando uno si innamovioloncello a 12 anni. Oggi ne ha ra, deve avvicinarsi piano piano,
27 ed è uno dei professori. Così in- parlarle, vedere se è consenziente
segna ai suoi bambini: «Abbiamo la o meno. Se ci accetta, ce lo farà sapere. Se non è
partitura. Ora bisogna
dell’idea, anche. Se la
interpretarla, sentirla. È Oggi ogni
donna non vuole, se la
come mettere lo zucche- villaggio
musica non ti entra in
ro nel caffè. Se pren- ha la propria
testa, perché sforzarsi
diamo il caffè senza orchestra.
tanto? Meglio dedicarzucchero non c’è gusto, Molte sono
si a qualcos’altro».
non ha senso. La musi- formate da
Januario suona ancora
ca è uguale. Mettiamole bambini, che
durante la messa, nelsempre lo zucchero».
imparano a
La metafora è una sua suonare secondo le veglie funebri, nelle
feste patronali. Gli piainvenzione. Un’abitudi- il metodo del
ce vedere che i piccoli
ne che ha anche il ve- maestro Abreu
imparano, che non si
nezuelano Gustavo Duperderà la sua eredità.
damel. Raccontano che
«Prima che restaurasin un’occasione, mentre
la sua orchestra provava la Sesta sero la chiesa, qui non c’era nessun
sinfonia di Beethoven, uno dei pas- turista - dice, mentre lega un asino
saggi veniva male. Dudamel chiese alla porta di casa -. Nessuno arriagli orchestrali che lo suonassero vava da fuori. Per me è un orgoglio
«come due giovani innamorati che il fatto che si sono formate queste
orchestre, perché gli anziani sono
corrono nudi per il bosco».
A Januario Soriocó nessuno ha morti e sono rimasto solo. E se
insegnato nulla. Con i suoi 80 anni, muoio io, chi rimane?».
è l’ultimo di una generazione di Al di là del paesaggio esotico, al
anziani che ha imparato a suonare di là del fatto insolito di ascoltare,
il violino a orecchio. Suonavano attraverso questi bambini, i maga memoria, senza saper leggere. giori compositori in un luogo così
Januario ha avuto il suo primo vio- remoto, il valore è radicato in ciò
lino in cambio di un paio di panta- che tutto questo ha significato per
loni e una camicia. Lo portava con loro. Non si tratta solo di una rivosé quando andava a lavorare nel luzione culturale, ma soprattutto
sociale.
suo campo. E lì si esercitava.
Il progetto ha attenuato di molto la
povertà nella regione. Offre l’opportunità di un futuro in un luogo
in cui le possibilità sono poche.
Infatti, che cosa poteva aspettarsi
un bambino in questi paesi? Figli di
contadini poveri, fin da piccoli erano soliti aiutare nei lavori agricoli.
Non si parlava di scuola secondaria. Arrivati a 15-16 anni, di solito
mettevano incinta una ragazza e se
ne andavano al campo del padre,
a vivere di un’agricoltura di sussistenza. Questo era tutto.
«La musica li salva dall’alcol, dalla
droga - spiega Agapito Rocha, sin-
OTTOBRE 2013 POPOLI 33
bolivia
daco di Santa Ana -. Richiede molta
pratica, molta disciplina. È necessario il talento, ma anche l’impegno.
Perché costa fatica stare tre ore a
suonare e ti vien fuori il livido qui»,
dice indicandosi il mento.
La musica si è trasformata in un’opportunità di lavoro, in un’occasione
di crescita sociale. Permette ai ragazzi di studiare e diventare, per
esempio, insegnanti per le generazioni successive. La formazione è
gratuita. Gli strumenti sono costosi,
ma i ragazzi ricevono l’appoggio
delle istituzioni europee, che mandano loro strumenti di seconda
mano. La realtà di ogni orchestra,
poi, varia a seconda del sindaco
di turno. In alcuni casi, i giovani
ricevono aiuti alimentari: razioni
di farina, riso, zucchero e olio che
portano alla famiglia. A volte arrivano donazioni dall’estero, persone
che hanno avuto modo di ascoltarli e desiderano collaborare alla
manutenzione degli strumenti o
34 POPOLI OTTOBRE 2013
all’abbigliamento. Nei casi migliori,
ottengono borse di studio a livello
universitario o stage all’estero, il
più delle volte in Europa.
Jimmy ha otto anni e in piedi non
è più alto del suo strumento: suona
un violoncello più grande di lui.
Quando ha iniziato, due anni fa, i
piedi gli pendevano dalla sedia. È
il figlio del sindaco. «Prende la cosa molto sul serio - spiega il padre
-. Per un bambino dalle umili origini è un passo importante, perché
se uno va da Santa Ana alla città
senza nessuna base, senza essere
musicista, nella città non è niente, solo manodopera. Invece, chi
conosce la musica è qualcuno che
almeno può entrare in un istituto
di arte, può crescere».
La musica apre orizzonti impensabili. È passato un mese da quando
Wilson, insegnante di flauto, 28
anni, è stato a suonare in Germania. Lì, per la prima volta, ha visto
la neve.
bosnia-erzegovina
Il ponte vecchio di Mostar, distrutto
durante la guerra e riaperto nel 2004.
Ancora poca acqua
sotto il ponte
Testo e foto: Elisabetta Gatto
SARAJEVO
E
Il 9 novembre di vent’anni fa, a Mostar crollava
sotto 60 colpi di mortaio il simbolo di una storia
fatta di incroci, scambi e contaminazioni.
Dopo la guerra il ponte è stato ricostruito,
ma il Paese balcanico è ancora in cerca
di una vera riconciliazione
mir respira a fondo, si bagna i capelli e sparge un po’
di acqua sulla muta. Il suo
amico Hedin passa con un cappello
a raccogliere qualche spicciolo dai to «luna pietrificata» per il colore
passanti e dai turisti che si sono chiaro della pietra locale, la teneliradunati sul ponte attorno a lui. È ja, che riflette le luci del tramonto e
un «Icaro di Mostar», come vengono di notte quelle dei lampioni.
soprannominati i giovani impavidi Il ponte fu voluto da Solimano il
che si tuffano nelle acque gelide Magnifico nel 1557 e realizzato
della Neretva, badando bene di in circa dieci anni dall’architetto
piegare indietro le gambe per ral- Sinan. È rimasto in piedi fino alla
lentare la velocità e di distenderle mattina del 9 novembre 1993, quannuovamente prima dell’impatto con do venne distrutto dall’artiglieria
l’acqua. Di lì a qualche minuto croato-bosniaca nel corso della
guerra che ha insanguitoccherà a lui. Un salto
nato il Paese tra il 1992
di 23 metri, ma soprat- Lo Stari Most,
e il 1996. Ci vollero più
tutto un modo nuovo maestoso arco
di 60 colpi di mortaio
di vivere quel ponte, lo di pietra che
per farlo crollare.
Stari Most, un maesto- insiste su due
Un portavoce delle forso arco di pietra che si torri medievali,
ze croate affermò che il
appoggia su due torri fu voluto da
ponte era stato distrutmedievali, ribattezza- Solimano il
Magnifico nel
1557. È stato
ricostruito
nel 2004
to perché di importanza strategica.
Il valore strategico, in realtà, era di
poco conto. Si è trattato di un atto
per «uccidere la memoria», come
lo definisce lo storico statunitense
Andras Riedlmayer: la distruzione
deliberata di un patrimonio culturale comune e la cancellazione di
secoli di convivenza pacifica.
SIMBOLI NEL MIRINO
Mostar significa proprio «custode
del ponte». La città, dunque, non poteva rimanerne senza. E così, terminata la guerra, sono iniziati i progetti per la ricostruzione: oltre mille
pietre sono state lavorate secondo
le tecniche medievali e il 22 luglio
2004 lo Stari Most è stato riaperto,
OTTOBRE 2013 POPOLI 35
bosnia-erzegovina
brindando alla riconciliazione fra
le comunità cristiane e musulmane
dopo gli orrori del conflitto.
Rancore e diffidenza, però, restano
evidenti. Il ponte unisce (o divide?)
la zona musulmana, attraversata
dalla vivace Kujundžiluk, la «via d’oro» affollata di negozi di artigianato,
da quella croata a maggioranza cattolica. Tuttavia Nedim, un interprete,
non è d’accordo: «Si insiste a chiamare “zona ottomana” quella che da
altre parti si chiama semplicemente
“centro storico”. È fuorviante, è una
forma di propaganda».
Certo è che a Mostar, e non solo,
le relazioni tra le comunità sono
ridotte al minimo, quando non sfociano addirittura in tensioni. E quel
colpo al cuore della città ha lasciato
il segno. Infatti quando, durante la
guerra, i contendenti hanno capito
che non sarebbero riusciti a riportare una vittoria in breve tempo, hanno deciso di minare i luoghi simbolo della cultura: a Mostar il
Entrando
ponte vecchio, a
a Sarajevo
Sarajevo, tra gli
dalla Serbia si
altri, la Bibliopercorrono, lungo
teca nazionale,
un asse spaziale
colpita
dale cronologico,
i periodi ottomano, le granate dei
serbo-bosniaci
asburgico e
nel 1992 (solo
socialista. Che
un decimo dei
cosa si è rotto in
libri conservati
quell’equilibrio?
fu salvato dalle
fiamme), e la sede del quotidiano
Oslobodenje (Liberazione).
Quando il giornale fu fondato, durante la seconda guerra mondiale,
la liberazione era quella partigiana
dall’occupazione tedesca della Jugoslavia. Mai nome fu più profetico:
durante l’assedio della città, lo staff,
formato da una settantina di giornalisti bosniaci, serbi e croati, ha continuato a documentare la guerra da
una redazione sotterranea, allestita
in un rifugio anti-bombardamento,
ed è riuscita a pubblicare un’edizione
quotidiana, saltando solo un giorno.
36 POPOLI OTTOBRE 2013
L’assedio di Sarajevo, durato quasi
quattro anni (dal 5 aprile 1992 al 29
febbraio 1996), è stato il più lungo
della storia moderna. Serbi e bosniaci
ancora oggi non si mettono d’accordo
sulla scintilla che gli diede l’avvio:
per i primi l’uccisione di un serbo,
Nikola Gardović, durante il corteo
nuziale del figlio; per i bosniaci quella di due donne, Suada Dilberović,
studentessa bosniaca, e Olga Sučić,
funzionaria parlamentare croata, nel
corso di una grande manifestazione
per la pace. Il ponte Vrbanj, sul quale
vennero colpite a morte da un cecchino, oggi porta il loro nome.
A quelle morti ne seguirono moltissime altre: le vittime tra i civili
in città furono oltre 11mila, di cui
1.600 bambini. La via Zmaja od Bosne, che dalla città conduce all’aeroporto, fu tristemente ribattezzata
«viale dei cecchini», perché dall’alto
si sparava sulla gente.
«Era diventato pericoloso anche fare
le cose più semplici e quotidiane, come attraversare una strada o fare il
bucato nel fiume», racconta Vedran
Jusufbegović, fisioterapista, che
aveva vent’anni quando la guerra è
cominciata. «Hanno sparato persino
durante il funerale di mia nonna.
Al cimitero sono accorsi parenti in
abiti musulmani. Li hanno presi di
mira. A nulla è valsa la presenza
di un sacerdote, né la sacralità del
luogo e della cerimonia».
Nessuno immaginava che la popolazione avrebbe resistito così a
lungo a difesa della città. Senza
divisa, con armi improvvisate, almeno all’inizio. Se è successo è
stato anche grazie al «tunnel della
salvezza», un corridoio di 800 metri
scavato in quattro mesi e quattro
giorni, per la maggior parte sotto
l’aeroporto perché sotto il controllo
dell’Onu. Era la principale via di
rifornimento e di fuga verso la zona
del monte Igman, non ancora caduta in mano all’esercito serbo. Ma
anche il canale attraverso il quale
passava la voglia di evasione, racchiusa in un pacchetto di sigarette
o in una videocassetta. E non si può
capire quanto siano preziose queste
cose quando attorno c’è solo orrore.
UNA METAFORA CHE CI PARLA
Sarajevo è da sempre un crocevia
di popoli e di commerci, uno snodo
importante di traffici tra Oriente
e Occidente, una culla di civiltà.
Terra di ospitalità fin dai tempi delle
rotte carovaniere, quando nei caravanserragli i viandanti potevano
soggiornare per tre giorni e tre notti
gratuitamente. Emblema di tolleranza religiosa, tanto da conquistarsi
il nome di «Gerusalemme d’Europa» (coniato da Giovanni Paolo II),
perché nello spazio di un centinaio
di metri sorgono la moschea, la sinagoga, la cattedrale cattolica e la
chiesa ortodossa. «Durante l’assedio
si ascoltava musica serba - rivela
Vedran senza esitazione -. Perché
no? Erano canzoni d’amore».
A livello urbanistico si possono
«leggere» le diverse epoche storiche
negli edifici cittadini, perché chi è
venuto dopo ha rispettato le architetture preesistenti e si è posto in
una logica di continuità: entrando
a Sarajevo dalla Serbia si percorrono, lungo un asse spaziale che
Nelle foto: memorie e ferite ancora visibili
di un conflitto terminato quasi vent’anni fa.
è al tempo stesso cronologico, il diverse varianti linguistiche diffuperiodo ottomano, quello asburgico se nella regione. «A più di vent’anni
e quello socialista.
di distanza - ammette Vedran -, i
E allora cosa si è rotto in quell’e- rapporti tra serbi e bosniaci sono
quilibrio? Mauro Montalbetti, pre- dettati da ragioni di convenienza
sidente di Ipsia, Ong promossa dalle economica o sono di natura cultuAcli, incontrato in occasione della rale. C’è una tolleranza che si può
presentazione del libro di Stefano definire umana, ma lontana da una
Tallia, Una volta era un Paese. sincera collaborazione».
La ex-Jugoslavia vista dalle scuole Per fortuna, i tentativi di superare le
(Scribacchini Editore), suggerisce di barriere non mancano. Non occorre
guardare ai Balcani come alla me- fissare lo sguardo sempre e solo sultafora della nostra storia contem- le macerie. C’è una generazione che
poranea: dal riemergere dei nazio- non ha vissuto la guerra eppure ne
nalismi all’esaltazione del sangue sente il peso: «Non vogliamo essere
e delle piccole patrie,
ricordati solo per dieci
all’incapacità di trova- C’è una
anni di follia, abbiamo
re una risposta diversa generazione che
una storia millenaria»,
dalla guerra alla sfida non ha vissuto
afferma Maya, una studella coesistenza di più la guerra, eppure dentessa bosniaca.
etnie e religioni sullo ne sente il peso:
E allora si cercano
stesso territorio.
strade per trovare un
«Non vogliamo
«I Balcani - spiega essere ricordati
cammino comune e coMontalbetti - diventa- solo per dieci
struire relazioni nuove.
no quasi il paradigma anni di follia,
Ad esempio, attraverso
di ciò che può accadere abbiamo una
il cibo. Con un progetovunque e in qualsiasi storia millenaria» to di promozione dello
momento, a testimosviluppo locale ecosonianza che ogni comustenibile nelle valli dei
nità può disgregarsi. La
fiumi Drina, Neretva e
crisi economica e politica che li ha Sava, Oxfam Italia tutela le produinvestiti all’inizio degli anni No- zioni tipiche della Bosnia-Erzegovivanta si è trasformata in qualcosa na: miele, formaggio e vino. Lavora
di impensabile e di imprevedibile, la con i produttori locali e appoggia le
convivenza plurale e il multicultu- piccole e medie imprese per favorire
ralismo sono diventati all’improv- il dialogo tra le comunità e rafviso impraticabili, il frutto della forzare il processo di ricostruzione
modernità si è tradotto in un’onda nella regione e in tutto il Paese. È
di violenza collettiva senza prece- un’idea per mettere insieme persone
denti».
che si sono fatte la guerra. Marko,
Si è consumata una tragedia di cui un contadino serbo-bosniaco, venresta traccia non solo nei palazzi de il formaggio nel sacco, uno dei
sventrati, nei cimiteri gremiti di vit- prodotti più originali della cucina
time della guerra, nelle «rose di Sa- della Bosnia-Erzegovina, a cattolici
rajevo», cicatrici simboliche di resina e musulmani. Non è solo buono da
rossa nei punti in cui sono esplose le mangiare, è strategico per riattivare
granate, e nelle targhe commemo- la comunicazione nel Paese.
rative al mercato di Markale, teatro Anche lo sport è un mezzo di ridi due terribili massacri. Ma anche conciliazione, in accordo con lo
nella quotidianità fatta di divisioni.
spirito olimpico che rese celebre
Esistono ancora oggi scuole sepa- Sarajevo nell’inverno del 1984.
rate per etnia, programmi di studio Infatti sono diversi gli atleti serbi
differenziati, insegnamenti nelle o serbo-bosniaci, in particolare
calciatori, che giocano in squadre
bosniache della massima serie, come Sarajevo o Zeljo.
Nelle scuole si tentano esperimenti
di interscambio culturale: studenti
musulmani e cattolici frequentano
classi rigorosamente separate, ma
nel cortile comune possono incontrarsi e giocare insieme.
Forse non ha senso cercare un senso per ciò che è stato. E ha ragione
Stefano Tallia quando, rivisitando
Ivo Andrić, scrive: «I Balcani, e non
solo la Bosnia, iniziano dove finisce la logica».
LA RIVOLUZIONE DEI BEBÈ
U
n simbolo delle fratture bosniache è
la vicenda chiamata «Bebolucija» (un
neologismo traducibile come «rivoluzione
dei bebè»). All’inizio di giugno genitori con
i figli piccoli hanno protestato per giorni
davanti al Parlamento di Sarajevo, chiedendo di approvare una legge che istituisca un
sistema numerico, unico per tutto il Paese,
di identificazione dei cittadini (una sorta
di codice fiscale). Dal 12 febbraio non
è più in vigore il sistema precedente e il
mancato accordo tra i partiti impedisce ai
neonati di avere i documenti e uscire dal
Paese. Questo vuoto normativo ha un effetto concreto sulle persone: Belmina, una
bambina di pochi mesi che doveva recarsi
in Germania per cure mediche urgenti, non
è potuta partire. La protesta è diventata il
massimo movimento civile del dopoguerra
bosniaco contro la politica ingessata dalle
divisioni etniche e nazionaliste. Solo il 18
luglio il Parlamento ha approvato la nuova
legge, ma mantenendo un sistema che
distingue le varie appartenenze etniche.
OTTOBRE 2013 POPOLI 37
f.p.
etiopia
Adriano Marzi
ADDIS ABEBA
Q
uando incrociamo il sorriso invitante di Wendemu
e Asgede, il sole è già alto
e bollente. Fradici di sudore e con
le gambe dure, da ore stiamo affrontando l’aspra discesa che porta
alla remota valle in cui si nasconde
il villaggio di Gunda Gunde, nel
Tigrai etiope. I due giovani sono
agronomi dell’Università di Macallè, inviati per l’ennesima volta
tra queste gole spigolose con il
compito di raccogliere campioni
di suolo, acqua e piante che poi
dovranno esaminare in laboratorio.
Da scienziati cercano di venire a
capo di un mistero: la straordinaria
qualità delle arance prodotte in
questo angolo remoto del Nord-Est,
a pochi chilometri dal confine con
l’Eritrea (cfr box). Una zona ribattezzata «piccolo Tibet» dallo stu38 POPOLI OTTOBRE 2013
Estifanos
il Lutero del Tigrai
Il villaggio di Gunda Gunde ospitò i seguaci
di un monaco che invocava una riforma della
Chiesa copta. Secoli dopo, la memoria di quel
movimento è custodita in un monastero. Ma la
comunità è diventata famosa anche per le arance
che coltiva e che possiedono proprietà uniche
dioso Paul Henze, in omaggio alla che ci separano dalla meta finale
bellezza e al mistero di queste mon- possono essere percorsi soltanto a
tagne fiabesche, baluardo dell’alto- piedi. Un cammino che una persopiano etiope che poco più a oriente na ben allenata può affrontare in
precipita nella grande depressione cinque ore, ma che può rivelarsi indella Dancalia.
terminabile per chi non
La spedizione cui ab- Settant’anni
ha dimestichezza con
biamo la fortuna di prima che il
la montagna. Quando
unirci è partita da Ge- protestantesimo
finalmente raggiungiablen, ultimo villaggio vedesse la luce
mo i 300 abitanti di
della regione raggiun- in Europa, il
Gunda Gunde, il sole è
gibile in macchina. I monaco etiope
già tramontato. Ad at1200 metri di dislivello Estifanos
tenderci troviamo una
diede vita a un
movimento di
riforma radicale
del cristianesimo
Abba Lemlem di fronte
al piccolo monastero
degli stefaniti.
generosità sconfinata. Un pentolone
ripieno d’acqua, spezie e farina di
ceci (ingredienti base del tradizionale shiro) viene messo subito
a bollire su un fuoco di legna,
mentre un ragazzo sistema alcune
stuoie lungo la veranda di casa. La
volta delle stelle è talmente bella
da rendere sopportabile anche la
dura pietra su cui abbandoniamo il
corpo esausto.
LA «RIFORMA» COPTA
Per convincere l’amico Paolo ad
affrontare questa missione in un
luogo così remoto non è bastata la
promessa di una spremuta eccezionale. Siamo qui per visitare un
antico monastero che nel XV secolo
fece da culla al movimento religioso degli stefaniti e che ancora oggi
custodisce preziose antichità. Estifanos, fondatore del movimento,
trascorse la giovinezza tra queste
montagne lavorando come pastore.
A 19 anni venne ordinato diacono
ma, deluso dal malcostume diffuso
tra gli altri monaci ortodossi, decise di fondare un proprio ordine
religioso. Così, settant’anni prima
che il protestantesimo vedesse la
luce in Europa, diede vita a un
movimento di riforma radicale del
cristianesimo.
Estifanos e i suoi seguaci predicavano una vita di austerità e condivisione, in completa indipendenza
dal mondo esteriore. Praticavano
anche grande tolleranza non solo
nei confronti dei cristiani ortodossi,
ma anche dei musulmani. Proprio
come i riformati europei, non vedevano con favore la venerazione
esasperata per la Madonna. La sua
interpretazione delle Sacre scritture
costò a Estifanos la persecuzione.
Ma neppure la prigione e le torture
lo convinsero a inginocchiarsi di
fronte all’imperatore etiope perché
diceva: «La prostrazione è un gesto
dovuto soltanto a Dio». Il monaco
morì in una prigione nel 1447. Il
AGRICOLTURA
Le arance studiate all’università
A
ll’Università di Macallè, città principale della regione del Tigrai etiope,
gli esperimenti per trapiantare le straordinarie arance di Gunda Gunde
continuano a rivelarsi un fallimento. «Sono anni che lavoriamo per estendere
la produzione di questa qualità - racconta Asgede, uno dei ricercatori che
cura il progetto - ma in nessun altra zona d’Etiopia le arance crescono così
grandi, dolci e succose. Continuiamo a studiare il fenomeno, ma ancora non
siamo venuti a capo di questo mistero».
Come tutti gli altri prodotti di Gunda Gunde (banane, papaie, pomodori) destinati al mercato di Adigrat (la città più vicina), le arance devono risalire la
valle a dorso d’asino fino a Geblen. Da lì proseguono su piccoli camioncini
stracarichi, che avanzano traballanti tra le buche e la polvere delle strade
sterrate locali. Il succo di queste arance è il frutto di un sistema di coltivazione unico in un ambiente estremo: il terreno arabile viene conservato con
cura ed è strappato alle aspre montagne circostanti; l’acqua è razionata
grazie a un sistema di canalizzazione basato su piccole cascate; i campi per
le coltivazioni sono tutti terrazzati grazie a muretti a secco e recintati con
barriere di cactus che li proteggono dal pascolo. I contadini sono costretti a
razionare il cibo con cura perché sia sufficiente anche nelle ultime settimane
prima del nuovo raccolto e, per poter raggiungere scuole e ospedali pubblici,
devono affrontare ore di cammino. La loro è una vita fatta di tanto sacrificio,
non troppo dissimile a quella dei santi stefaniti così come è raccontata nei
manoscritti custoditi nel monastero di Gunda Gunde.
suo corpo venne poi bruciato in
pubblico. I monasteri degli stefaniti
vennero prima distrutti e poi incendiati dal clero ortodosso, mentre
i discepoli che rimasero fedeli agli
insegnamenti di Estifanos vennero incarcerati e
uccisi. La persecuzione del
L’interpretazione
movimento conche Estifanos
tinuò per tutto il
diede delle Sacre
XVI secolo, fino
scritture gli costò
a quando il mola persecuzione.
vimento venne
Ma neppure
riassorbito nella
la prigione
Chiesa ortodose le torture
sa. Le idee di
lo convinsero
Estifanos però
a rinnegare
non scomparvele sue idee
ro e ancora oggi
gli stefaniti hanno un posto di
rilievo nella storia religiosa etiope.
Gunda Gunde è diventato così un
luogo mitico, custode della memoria del movimento. All’interno
del monastero sono conservati 219
manoscritti (Vangeli, storie bibliche e vite dei santi stefaniti) oltre
a ricche miniature e dipinti, che
risalgono a prima del XVI secolo. Li ha fotografati Ewa Balicka
dell’Università di Uppsala (Svezia),
inviata qui dieci anni fa dall’Hill
Museum and Manuscript Library.
Antonio Mordini, nella sua spedizione del 1953, aveva contato 800
documenti.
IL SEGRETO DEL MONASTERO
A differenza delle altre basiliche
del Tigrai, scavate nella roccia sui
picchi delle montagne, la chiesa
di Maryam Gunda Gunde si trova
in fondo a una serie di gole. Per
raggiungerla occorre seguire fino
al termine della sua corsa il letto
in secca del torrente che durante
la stagione delle piogge alimenta le
arance e le altre coltivazioni locali.
Prima d’incamminarsi è però necessario il nullaosta degli abitanti del
villaggio. A sorpresa, le stesse persone che ci hanno sfamato e ospiOTTOBRE 2013 POPOLI 39
etiopia
A sinistra, la strada sterrata che porta
a Gunda Gunde. In basso, la piccola
comunità di religiosi del villaggio.
dopo averci interrogato ci danno Di colpo abba Lemlem c’invita ad
alzarci: un capretto è stato sacril’assenso alla visita.
L’emozione e la stanchezza, unite al ficato per festeggiare il suo ritorno
delizioso tej (un liquore di miele ti- (o il nostro arrivo?) e il resto della
comunità dei monaci ci
pico dell’altopiano etioattende per dare inizio
pe) che ci viene servito Estifanos morì
al pasto. La testa dell’asenza pausa in piccole in prigione
nimale è conficcata per
otri di vetro non ap- nel 1447.
pena raggiungiamo il I monasteri degli le corna tra le pietre
monastero, ci spingono stefaniti vennero di una parete. Dal collo esce sangue fresco.
in una sorta di trance incendiati
Il tej, come il sangue
mistica. Non possiamo dal clero
del capretto, continua a
far altro che rimanere e i discepoli
scorrere. Il monaco che
sospesi di fronte allo furono
taglia la carne bollita
scorrere degli eventi.
incarcerati
non smette di offrirci
Alcuni monaci ci fanno e uccisi
i bocconi migliori. Con
accomodare all’ombra
lo sguardo cerchiamo
di una tettoia di legni
gli occhi di abba Lemintrecciati. Ad accompagnare il tej, ci porgono una cesta lem, come fossero l’unica bussola
di paglia piena di besso, un impasto rimasta a disposizione. Lui però ci
di farina d’orzo e spezie. Seduto guarda solo quando non lo facciaal nostro fianco c’è un vecchio mo noi.
monaco sdentato, che non smette Prima di addormentarci abbiamo
di ridere davanti ai miei tentativi un ultimo pensiero, quasi un pecmaldestri di mangiare il besso con cato di presunzione: il segreto delle
le mani. Paolo intanto studia i gesti arance di Gunda Gunde forse è in
di un altro monaco, che sta tostan- questa miscela unica fatta di una
do parte del caffè portato con noi religiosità antica, ospitalità, isolamento e natura incontaminata.
come omaggio ai monaci.
tato il giorno precedente, ora non
sembrano disposte ad accordarci
il permesso di proseguire. Mentre
siamo delusi dall’idea di avere fatto tanta strada senza poter
Gunda Gunde
nemmeno veè diventato così
dere il profilo
un luogo custode
della basilica,
della memoria
s’avvicina un
del movimento.
uomo avvolto
All’interno
in un manteldel monastero
lo. Tra il cosono conservati
pricapo piatto
manoscritti,
e la fitta barba
miniature e dipinti
bianca spuntadel XVI secolo
no due occhi
brillanti e affilati: sono quelli di
abba Lemlem, leader della congregazione che oggi vive nel monastero di Gunda Gunde. Occhi che
40 POPOLI OTTOBRE 2013
la foto
L’islam celebra Abramo
Il 15 ottobre il mondo
musulmano celebra
Id al-Adha, la festa del
sacrificio, la seconda
più importante
ricorrenza islamica.
Per l’occasione, i
fedeli sgozzano,
secondo il rituale
della macellazione
islamica, un animale
(ovino, caprino, bovino
o camelide) in ricordo
del sacrificio ordinato
da Dio ad Abramo per
provare la sua fede.
La carne viene divisa
in tre parti: una rimane
in famiglia, una viene
data ai parenti e una
viene donata ai poveri.
Ogni anno, in
occasione di Id al-Adha
vengono uccisi circa
100 milioni di animali.
Nonostante il sacrificio
degli animali, è però
una festa gioiosa
(viene anche chiamata
la «festa grande»).
Per questo motivo
una norma islamica
vieta, nei giorni delle
celebrazioni, qualsiasi
tipo di ascesi o di
digiuno (nella foto Ap,
un montone in attesa
di essere sacrificato a
Srinagar, India).
OTTOBRE 2013 POPOLI 41
inchiesta
Missione
formato famiglia
Stefano Femminis
N
é eroi, né santi. Navigatori
questo sì, chiamati come
sono a esplorare mondi a
loro sconosciuti, anche se non con
le incognite e i rischi di qualche
secolo fa. Sono i coniugi che, seguendo gli itinerari più svariati,
decidono di seguire alla lettera l’appello evangelico: «Andate in tutto
il mondo e annunciate il Vangelo»
Le famiglie missionarie - solitamente nei primi anni di matrimonio e quasi sempre appoggiandosi
alla diocesi italiana di appartenenza - preferiscono il basso profilo,
ricordano quanto peraltro ripetono
tutti i pontefici e i documenti della
Chiesa, dal Concilio in avanti, ov42 POPOLI OTTOBRE 2013
A partire come missionari nelle Chiese del Sud
del mondo non sono solo sacerdoti e suore, ma
anche famiglie, perlopiù inviate dalle diocesi di
appartenenza. Ne abbiamo incontrate alcune per
capire che cosa c’è all’origine della loro scelta
e che cosa succede quando è ora di tornare
vero che la missione non è un compito solo per preti o suore e che ogni
battezzato può e deve essere missionario, non importa se non sposta
mai il proprio domicilio. Eppure la
loro scelta incuriosisce e interroga:
se non altro perché in tempi di crisi
economica galoppante non è una
scelta da poco quella di lasciare un
lavoro sicuro. Così come non deve
essere una passeggiata adattarsi
a una cultura spesso totalmente
«altra» e chiedere ai propri figli di
fare lo stesso. E altrettanto coraggio, probabilmente, è richiesto nel
momento del ritorno, normalmente
dopo 3-4 anni, quando occhi e cuore si stavano affezionando a nuovi
orizzonti.
Allora abbiamo provato a conoscere
meglio alcune di queste famiglie,
concentrando l’attenzione su «categorie» che vivono momenti particolarmente delicati: chi sta per partire
o è partito da poco, e chi da poco è
rientrato in Italia.
dialogo e annuncio
Desideri, paure e progetti che si
METTERE SU CASA IN PAPUA
La prima storia è quella di Diana ritrovano - seppure forgiati dai
e Tommaso, che al momento del primi mesi di esperienza - nelle
colloquio con Popoli, a fine agosto, parole di altre due coppie che
erano alle prese con i preparativi abbiamo interpellato, in Perù e in
del matrimonio «Ci sposeremo il Mozambico.
13 settembre - spiega Tommaso - e Nel primo caso, in realtà, siamo di
ci concederemo una breve luna di fronte a missionari «di lungo cormiele più qualche mese di vita in- so»: Emanuele e Silvia Crestani sosieme a Milano. Poi partiremo per no stati in Guinea Bissau dal 2006
la Papua Nuova Guinea, sull’isola al 2009. Dopo qualche anno in
di Goodenough. Nella missione di Italia, lo scorso 28 giugno la parWatuluma esistono una scuola che tenza per Barranca, 200 chilometri
accoglie ragazzi dalle elementari a nord di Lima, dove insieme alle
alle superiori, un ospedale e una 4 figlie hanno raggiunto don Alchiesa. Ci occuperemo della ma- berto Bruzzolo, sacerdote fidei donutenzione e dell’amministrazione num della diocesi di Milano. «Per
della scuola: Diana dal punto di ora - raccontano - stiamo dando
vista educativo-psicologico, io da continuità a progetti già in corso,
che prevedono l’accompagnamento
quello tecnico-strutturale».
Diana e Tommaso sono volontari di ragazzi della parrocchia con
dell’Associazione laici Pime (Alp), attività educative e di doposcuola.
che ogni anno invia in missione Sosteniamo poi attività di pro- per un’esperienza di qualche mozione femminile attraverso un
anno - alcuni laici: nel 2013 laboratorio di taglio e cucito».
hanno ricevuto il «mandato» sette Inevitabile chiedere che cosa li ha
persone, compresi i due neosposi. convinti a partire una seconda vol«La nostra scelta è maturata pro- ta: «Ciò che ci aveva spinti allora
gressivamente - spiega Tommaso era stato il desiderio di condividere
-: io ero stato in Bangladesh con il la nostra vita di famiglia cristiana
Pime, Diana in Brasile con la sua in queste terre, inviati dalla nostra
parrocchia, e poi pellegrinaggi Chiesa di origine a un’altra Chiesa.
parrocchiali, Gmg, tanti incontri Volevamo incontrare una realtà che
con testimoni significativi». Già, per alcuni tratti ci appariva ingiuviene da ribattere, ma un conto sta, quasi senza futuro, ma nello
sono le esperienze estive, da sin- stesso tempo tanto attraente, per la
gle o fidanzati, un conto «metter sua semplicità ed essenzialità. C’era
su casa» in Papua; non c’è un come un senso di corresponsabilità
po’ di timore? «Quando abbiamo nei confronti di queste persone e
deciso di sposarci abbiamo anche un’insoddisfazione per il modello di
sentito il desiderio di fondare la vita proposto dall’Occidente. Dopo
nostra famiglia su un’esperienza il rientro in Italia il desiderio della
capace di guidarci per tutta la missione è sempre rimasto vivo in
vita. Una vita di sobrietà e di noi e con l’arrivo di due gemelline,
condivisione, per conoscere Dio Martina e Camilla, si è rafforzato
il desiderio di poter ofsempre più a fondo.
frire a tutta la nostra
Certo, qualche paura Diana e
famiglia alcuni anni di
c’è, ad esempio che le Tommaso, sposi
crescita in una nuova
nostre reazioni emo- il 13 settembre,
esperienza».
tive di fronte alle no- sono in partenza
Ma la presenza, le atvità ci impediscano di per la Papua:
tenzioni di cui i figli
vivere a pieno questa «Vogliamo
occasione».
fondare la nostra hanno bisogno, non
famiglia su
un’esperienza
che ci guidi per
tutta la vita»
rischiano di limitare l’esperienza?
«In realtà - proseguono i Crestani
- avere dei figli per noi rappresenta
un’occasione importante per poter
avvicinare realtà dove magari per
i consacrati sarebbe più difficile
entrare».
ESSERE FAMIGLIA,
UN LASCIAPASSARE
Concetto condiviso da tutte le coppie interpellate, ad esempio Giulia e Fabio Cento, in Mozambico
dall’agosto 2012: «Come famiglia
- spiegano ci è più facile
«Avere dei figli entrare nella
spiegano Silvia
vita della gened Emanuele
te, condivide- rappresenta
re con loro le
un’occasione
preoccupazioimportante per
ni e le gioie
poter avvicinare
dell’essere farealtà dove magari
miglia. I tempi
per i consacrati
delle famiglie
sarebbe più difficile
sono inevitaentrare»
bilmente diversi da quelli dei consacrati. Ma
è proprio in questa diversità che la
condivisione riesce meglio. È da qui
che nasce l’idea di una équipe missionaria, nel nostro caso composta
da un’altra famiglia italiana, Luca
e Giulia Cresti e i loro tre figli, e da
un sacerdote spagnolo, padre Pepe».
All’équipe è stata affidata la cura
pastorale della parrocchia a Taninga, una comunità rurale al confine
tra la provincia di Maputo e quella
di Gaza, compito per cui Giulia e
Fabio si sono preparati grazie alle
esperienze con Mgm (Movimento
giovanile missionario, attualmente
Missio giovani) e con il sostegno
fondamentale del Centro fraternità
missionarie (Cfm) di Piombino.
«Padre Carlo Uccelli, saveriano, ed
Emma Gremmo, laica per tanti anni missionaria in Congo sono per
noi come due genitori spirituali:
nel 1985 hanno dato vita a questa
realtà che aiuta nella formazione
e nel sostegno spirituale ed ecoOTTOBRE 2013 POPOLI 43
inchiesta
nomico di persone intenzionate
a partire per la missione. Anche
se poi l’invio viene fatto dalla
propria diocesi. Una cosa su cui il
Cfm insiste molto è il mantenere
uno stretto contatto con la gente
del posto. Cerchiamo di vivere
in sobrietà, anche se, nonostante
gli sforzi, siamo consapevoli che
resteremo sempre dei privilegiati.
In quest’ottica,
poi, ci pesa un
«Cerchiamo
po’ essere condi vivere in
siderati dalle
sobrietà, benché
persone di qui
consapevoli
come “portatoche restiamo
ri di verità”. C’è
dei privilegiati.
un rispetto nei
Inoltre ci pesa
nostri confronti
un po’ essere
molto forte che
considerati
li porta a cre“portatori
dere e accettadi verità”»
re anche quello
che non vorrebbero, quindi è difficile per noi capire cosa pensano
realmente, solo il tempo li aiuterà
a capire che anche i missionari
sono semplici cristiani che hanno
deciso di condividere una parte
della loro vita».
Per Fabio e Giulia, così come per le
altre coppie intervistate, il contatto
con la realtà rimane vivo anche a
distanza: «Don Gianni Cesena, già
direttore della Fondazione Missio,
amava ripetere spesso che “la missione è andata e ritorno”. Crediamo
44 POPOLI OTTOBRE 2013
che la Chiesa mozambicana
abbia molto da “raccontare”
a quella italiana e proprio
in virtù di questo scambio e del
fatto che il ritorno non è solo quello
fisico e materiale, il legame con la
nostra comunità italiana è forte».
UNA RICCHEZZA IN VALIGIA
Il ritorno, appunto. Un momento
delicato, tanto più per chi è stato lontano dall’Italia per parecchi
anni. È il caso di Chiara e Giovanni Balestreri: «Come fidei donum
inviati dalla diocesi di Milano
siamo stati cinque anni in Perù,
nella diocesi di Huacho. In precedenza eravamo stati in Sri Lanka
con l’associazione Papa Giovanni
XXIII. Da fidanzati invece tre
mesi in Bolivia. Praticamente sono
quasi nove anni che stiamo vivendo una condizione di “pellegrini”.
Siamo rientrati in Italia nel gennaio 2013 con la famiglia, che nel
frattempo ha visto la nascita di
tre bambine. L’Ufficio missionario
ha accolto il nostro desiderio di
metterci ancora a servizio della
diocesi. Nel concreto si è realizzato
un nostro inserimento in una parrocchia che rimaneva senza parroco residente: un progetto pilota
ancora da definire, ma molto interessante. Quindi il nostro rientro è
un po’ anomalo sia per quanto riguarda il lavoro sia per quanto ri-
guarda la vita quotidiana. L’aver
accettato poi la proposta di abitare
in una casa parrocchiale ci aiuta a
continuare a vivere con una certa
precarietà evangelica che favorisce questa nostra ricerca».
Chiediamo a Chiara e Giovanni
quale Chiesa hanno trovato al loro
rientro in patria, e sembrano avere
già le idee chiare: «Forse si ragiona ancora troppo per gruppi e per
interessi quando invece il Vangelo
comprende tutto. Ad esempio si
parla di chiese “etniche” e nelle
parrocchie sono ancora pochi i catechisti stranieri, persone che invece potrebbero portare delle ricchezze. Abbiamo però riscontrato che
le parrocchie rimangono presenze
vive in una società secolarizzata:
la vivacità dei gruppi religiosi, dei
gruppi missionari e di volontariato
è qualcosa che all’estero non è così
facile da trovare».
La fatica del rientro traspare più forte nelle parole di Lucia ed Emiliano
Composta, tornati da poco più di un
anno dopo un triennio in Mozambico come fidei donum della diocesi
di Verona: «Il rientro è duro, da tanti
punti di vista. Prima di tutto, si vive
una forte nostalgia per il mondo e
le amicizie lasciate. C’è bisogno di
ritrovare il proprio equilibrio psico-
In apertura e in queste pagine, immagini
tratte dagli album delle famiglie Composta
(Mozambico), Carrà (Brasile, non intervistati nel
servizio), Balestreri (Perú) e Cento (Mozambico).
seconda parte del
nostro mandato di
fidei donum, quella della “restituzione del dono”.
La realtà ecclesiale che ci ha preparati e inviati,
con un percorso
straordinario, ci
fisico: l’adattamento è stato difficile ha bene accolti a livello umano,
là, il riadattamento non è da meno. ma non è ancora pronta e organizE poi inizia il lavoro di mettere in zata ad accompagnare il rientro,
relazione dentro di sé due mondi specialmente dei laici, e fatica a
che sembrano così diversi e lontani, trovare canali per rimettere in cirma ugualmente amati e vissuti, che colo la ricchezza straordinaria che
devono poter coesistere nella mente un’esperienza missionaria come la
e nel cuore per non creare fratture, nostra ci ha regalato. Avendo conosciuto la Chiesa morimorsi, strappi interiozambicana, che è molto
ri. L’esperienza va riela- «Abbiamo
giovane, “sbilanciata”
borata e in qualche mo- ritrovato una
a favore dei poveri e
do tradotta perché dia Chiesa italiana
quasi completamente
frutto. Abbiamo trovato che ci sembra
affidata alla responsatanto calore e solidarie- più preoccupata
bilità dei laici, ci semtà rientrando nel “no- di difendere
bra per contrasto che
stro” mondo, ma sono i propri confini
rientrate due persone che di incontrare la Chiesa italiana sia
ancora molto gerarchidiverse da quelle che le persone nelle
ca e clericale, preoccuerano partite e questo loro difficoltà
pata più di difendere
non sempre è compreso quotidiane»
i propri confini che di
e accettato da amici e
incontrare le persone
parenti. Il rientro al lanelle loro difficoltà
voro, poi, non scontato
soprattutto di questi tempi, deve quotidiane, poco aperta alle sfide
ritrovare un senso. Non viviamo al- reali dei tempi, con poco spazio
lo stesso modo l’impegno lavorativo lasciato all’iniziativa dei laici».
e sentiamo l’esigenza che la nostra
attività assuma un orizzonte più MISSIONARI O COOPERANTI?
«La Chiesa non è una Ong», ha det“sociale”».
Lucia ed Emiliano, poi, non esitano to papa Francesco in una delle sue
a toccare un punto delicato, ovvero prime esternazioni. Viene dunque
ciò che i missionari laici rientrati da chiedere ai coniugi incontrati
possono donare alla propria comu- in che cosa si sentono diversi da
nità: «Crediamo fortemente nella chi, magari con partner e figli al
seguito, lavora nella cooperazione
internazionale, anche
in organizzazioni di
ispirazione cattolica.
«Ci abbiamo riflettuto spesso - rispondono
Elisa e Daniele Restelli,
rientrati in giugno dalla
Bolivia, dove erano stati
MISSIONE IN MOVIMENTO
A
nche i movimenti ecclesiali inviano
famiglie in missione. I numeri non
sono paragonabili a quelli dei laici fidei donum, ma il fenomeno è vivo. «Fin dal 1943,
quando Chiara Lubich fondò il movimento
dei Focolari - spiega Raimondo Scotto -, le
nostre famiglie si sono recate in missione.
In settant’anni ne sono partite 220 e, attualmente, nel mondo 840 nuclei hanno offerto
la disponibilità a lasciare il loro Paese per
trasferirsi all’estero. Ogni partenza è frutto
di un discernimento attento che prende in
considerazione diversi fattori». In primo luogo
il lavoro: chi va all’estero deve poter trovare
un lavoro nella località in cui andrà a vivere e
deve avere un’occupazione quando rientrerà.
«Il lavoro - continua Scotto - è fondamentale
perché da esso dipende il mantenimento
della famiglia. Ma valutiamo anche che il
trasferimento non mini l’unità del nucleo
famigliare mettendone in crisi gli equilibri».
I focolarini vengono chiamati dai vescovi
locali oppure si spostano per dar vita o
sostenere una comunità all’estero. Le mete
sono le più disparate: dai Paesi del Sud del
mondo alle nazioni europee. «Recentemente
una famiglia polacca si è trasferita in Islanda
chiamata dal vescovo - conclude Scotto -,
ma abbiamo nuclei un po’ in tutto il mondo:
Turchia, Pakistan, Angola, Zambia, ecc. La
durata dei soggiorni va da pochi mesi ad
alcuni anni».
Anche le famiglie di Comunione e Liberazione fanno esperienze all’estero. Sono pochi
nuclei (3-4) all’anno che vanno a seguire
progetti di cooperazione. «Sono coppie giovani con bambini piccoli oppure coppie già
avanti con l’età con figli grandi - osserva
Maria Teresa Gatti dell’Avsi, Ong che si ispira
agli ideali di Cl -. Possiedono forti professionalità (ingegneri, medici, infermieri, ecc.)
e solitamente non hanno problemi di lavoro
quando rientrano». Come nel caso dei focolarini, i ciellini hanno un legame stretto con la
comunità religiosa di appartenenza (diocesi
e parrocchia), ma non partono in missione
come fidei donum laici.
Dal 1986 anche il Cammino Neocatecumenale invia famiglie all’estero per aiutare i
vescovi locali o per fondare nuclei del movimento nei Paesi del Sud del mondo. «Le famiglie - spiegano i responsabili - danno la loro
disponibilità per andare in qualunque parte
del mondo, in modo gratuito, nella precarietà
e confidando nella Provvidenza. Ricevono la
destinazione in appositi convegni. In 27 anni
sono partite oltre 800 famiglie».
OTTOBRE 2013 POPOLI
45 Casale
Enrico
inchiesta
inviati dalla diocesi di Bergamo -.
In origine, infatti, saremmo dovuti
partire con una Ong, poi la storia
ha voluto che ci fosse rivolto un
invito dal Centro missionario diocesano e così la prospettiva è cambiata. Cambia che c’è un invio, il
mio lavoro non è a titolo personale,
non è solo la mia coscienza che mi
muove ma c’è una Chiesa che mi
invia a suo nome. Non vado (solo)
a svolgere un progetto, la mia presenza ha il sapore della condivisione nella fede. Nel quotidiano questo
significa che, più delle opere che
costruisco, quel che conta è lo stile
con cui condivido il tempo che mi
è dato in terra di missione. Le opere
hanno valore solo se in esse riesco
a far trasparire il volto di quel Dio
che si fa compagno di strada».
«Rispetto al cooperante laico - fanno eco Emiliano e Lucia - ci distingue il fatto che nella nostra
esperienza viene prima la presenza
rispetto al “progetto”, cioè al raggiungimento degli obiettivi per i
quali è stato chiesto e ottenuto un
finanziamento. Pertanto lo “stare” viene prima del “fare”. Molto
spesso, poi, la vita del cooperante
si svolge nelle grandi città, dove
hanno sede le organizzazioni, e
quindi lontani dalle realtà più periferiche. Mentre quello che noi
abbiamo scelto e amato della nostra esperienza è stata proprio la
prossimità».
Ma non vi sentite un po’ degli eroi?
È la domanda finale rivolta a tutti. E
la risposta è unanimemente negativa: «Testimoniamo solo che la chiamata a una vita cristiana è per tutti,
che non è necessario essere speciali
per fare scelte evangeliche. E per la
comunità a cui si viene inviati è il
segno che quelli che arrivano non
sono “professionisti del Vangelo”,
ma persone che cercano di vivere la
concretezza della fraternità».
@
Leggi le interviste integrali alle famiglie
su www.popoli.info
46 POPOLI OTTOBRE 2013
Una sfida
per tutta la Chiesa
Luca Moscatelli *
N
el 1957 papa Pio XII con l’enciclica Fidei donum sollecitava le diocesi del mondo ad
inviare presbiteri nelle giovani Chiese, soprattutto dell’Africa. Da allora
i preti diocesani inviati in missione
sono stati chiamati fidei donum, cioè
«dono della fede». L’importanza di
questa enciclica è grande: essa an-
ticipa la convinzione esplicitata poi
dal Concilio Vaticano II che soggetto
della missione è ogni singola Chiesa
locale con il suo vescovo (e non più
soltanto la Chiesa di Roma e dunque
il Papa) e colloca, sia pure in maniera germinale, l’impegno missionario
nell’orizzonte del dono e nella logica
dello scambio (di doni).
Ci sono voluti però 50 anni, e cioè
la ripresa della profezia del Concilio
LE CIFRE
È
la Fondazione Missio, organismo della Cei, a «censire» i fidei donum
italiani in missione. Le statistiche disponibili distinguono tra persone
consacrate e laici, senza ulteriori suddivisioni tra sposati e single. Sono
comunque numeri indicativi: nel 2009 i laici «in servizio missionario con
convenzione Cei» erano 295, più o meno come nell’anno successivo (279);
nel 2011 si è registrato il picco del quinquennio, con 355 laici in missione;
nel 2012 si è scesi a 342, mentre nel 2013 (ma i dati sono aggiornati a fine
agosto) i laici missionari all’estero sono 293.
I Paesi di destinazione sono numerosi - ben 41 -, con una netta prevalenza
dei continenti latinoamericano e africano. Le nazioni con la maggiore presenza di laici fidei donum italiani sono Brasile (42), Bolivia (27), Camerun (23),
Madagascar (21) e Perù (20).
Dal punto di vista economico, la Cei garantisce a chi firma la convenzione il
rimborso di eventuali contributi previdenziali (fino a un massimo di 4.500
euro all’anno) che la persona decide di versare anche in assenza dall’Italia e
delle spese per visite mediche. L’organismo di riferimento, ovvero nella maggior parte dei casi il Centro missionario diocesano di residenza del missionario, se ne ha la possibilità paga il viaggio di andata e ritorno, mentre per
l’alloggio e il vitto normalmente sono la diocesi di invio e quella di accoglienza ad accordarsi. I laici fidei donum non percepiscono alcun tipo di stipendio.
SULLA FRONTIERA
P
rima missionari e poi inviati. Si potrebbe riassumere così la storia di
Roberto, Gabriella e Costanza Ugolini: dal 2000 papà, mamma e figlia
vivono in Turchia, nella città di Van, ai confini con l’Iran. «È una scelta di
vita - spiega Roberto - maturata parallelamente a un cammino di fede fatto
come singoli e come famiglia. Prima della partenza, per cinque anni siamo
stati seguiti dal gesuita Paolo Bizzeti. Dopo la partenza abbiamo ricevuto
il “mandato” dell’arcivescovo di Smirne e solo successivamente è arrivato
quello dell’arcivescovo di Firenze, nostra diocesi di partenza».
Quale il senso di una presenza in una regione dove sostanzialmente non
esistono cristiani? «Il nostro obiettivo è anzitutto “vivere con”: con profughi
afghani e iraniani che, scappando per la guerra o per problemi religiosi o
politici, ogni giorno arrivano attraverso le montagne fino a Van. Non hanno
niente. Cerchiamo di aiutarli concretamente nei casi più difficili, grazie anche
alla rete di sostegno che abbiamo in Italia. Costanza lavora come traduttrice
volontaria dal farsi al turco nell’unica associazione che in città si occupa di loro».
Roberto spiega anche che «in Turchia, per motivi socio-religiosi, un uomo solo
non potrebbe avere la libertà di movimento e di relazione in ambienti dove
ci sono donne sole. Essere qui come famiglia è fondamentale».
Visti da Van i discorsi su scontri di civiltà e integralismi sembrano lontani anni
luce: «La cosa più bella sono le relazioni che viviamo quotidianamente con
persone ferite nel profondo. Desiderano mettere al centro l’umanità, il contatto,
essere considerate semplicemente esseri umani, reciprocamente uguali».
e insieme la presa d’atto di decenni sione alle genti. In questi ultimi
di impegno dei laici nella missione anni risulta in effetti significativa
delle loro Chiese, affinché anche a la partenza di laici fidei donum,
laici inviati dalle loro diocesi in Ita- come singoli e come famiglie, che
lia venisse accordato il nome di fidei con un mandato formale del proprio
donum. Il documento della Commis- vescovo si recano in altre Chiese per
sione episcopale per l’evangelizza- l’annuncio del Vangelo e la testimozione dei popoli e la cooperazione tra nianza della carità».
le Chiese della Cei, datato 2007 (50° Il documento si concludeva con
anniversario della Fidei donum) e alcuni segnali di allarme: «Non
intitolato Dalle feconde memorie alle possiamo ignorare il fatto che in
coraggiose prospettive, recita così al questo momento diminuiscono gli
numero 7: «Oggi, più che ragionare invii da parte delle Chiese di anin termini di “necessità”, ci sembra tica tradizione. Tra le cause del
adeguato parlare dei fidei donum fenomeno, va indubbiamente ancome di una “scelta” legata all’iden- noverata la diminuzione del clero
tità stessa della Chiesa, mistero di e il conseguente innalzarsi della
comunione e missione. Con il Conci- sua età media, ma vanno considelio Vaticano II, infatti, l’ecclesiologia rate anche altre ragioni legate alla
ha messo in evidenza l’integrazione cultura, alla messa in discussione
della dimensione missionaria nella dell’idea stessa di missione e a una
natura stessa della Chiesa intera: pastorale che privilegia l’erogazione di servizi rispetto
non solo ai presbiteri e
all’evangelizzazione.
ai religiosi, ma anche I fidei donum
Inoltre, non deve esseai laici - in quanto pie- laici tornano
re sottovalutato il fatnamente partecipi della arricchiti dalla
to che un contesto di
missione della Chiesa - è frequentazione
benessere diffuso può
rivolto con sempre mag- di Chiese povere
frenare lo slancio misgiore chiarezza l’invito e di poveri.
sionario».
a considerare la mis- L’ecclesiologia,
però, resta
angusta e il loro
coinvolgimento
limitato
DAVVERO CORRESPONSABILI?
A fronte di un’esperienza liberante
e valorizzante fatta dai nostri laici missionari, l’ecclesiologia (più
quella inconscia che quella conscia,
se così si può dire) resta angusta.
I nostri fidei donum laici tornano arricchiti di una visione e di
una sapienza evangelica che solo
la frequentazione di Chiese povere
e di poveri sa offrire. Nonostante la
necessità anche qui da noi costringa in molti modi e in molti ruoli
ad attribuire responsabilità ai laici,
rimangono in auge, sia in Italia come anche in missione, linguaggi e
mentalità di supplenza o quando va
bene di collaborazione. L’idea invece di una Chiesa dove tutti,
Solo 50 anni
in nome di un
dopo l’enciclica
carisma e di un
di Pio XII,
ministero sono
prendendo atto
corresponsabili,
del loro impegno
resta appunto
missionario,
un’idea.
anche a laici
Ci sono naturalinviati dalle
mente interesdiocesi è stato
santi eccezioni,
accordato il nome
dalle quali però
di fidei donum
ancora non abbiamo imparato abbastanza. Forse
dovremmo prendere, tutti insieme,
l’occasione del rientro dei nostri
fidei donum laici e preti per farne
un laboratorio pastorale e teologico
capace di ricentrare le priorità della
missione ecclesiale. Nei contenuti, e
ancor più nello stile, la missione attesta un’immagine di Dio. Se siamo
chiamati e mandati per essere testimoni di un Regno nel quale nessuno
è suddito e nessuno è «padre», dove
tutti sono figli/e, fratelli/sorelle,
principi e principesse, e dunque «di
casa», un po’ di cose dovrebbero
cominciare a cambiare. Sapendo
che su queste cose si giocava il buon
nome del Padre nostro, Gesù ci ha
messo la vita e ci ha invitato a fare
altrettanto.
* Teologo, Ufficio missionario
della Diocesi di Milano
OTTOBRE 2013 POPOLI 47
concilio/5
Jorge Costadoat SJ
SANTIAGO DEL CILE
S
o che alcuni giovani, quando sentono parlare del «Concilio» (1962-1965), pensano
che si tratti di qualcosa di antiquato. Al contrario, la mia generazione
(sono nato nel 1958) ritiene che al
Vaticano II si debba il grande rinnovamento della Chiesa attuale. Mi
chiedo: che cosa ho io in comune
con le nuove generazioni per poter
spiegare loro che il Concilio ha dato impulso a cambiamenti enormi
nella Chiesa, che in parte devono
ancora compiersi? Ho l’impressione
che viviamo in mondi diversi.
Però, se guardo i miei nipoti più
piccoli, che hanno 50 anni meno di
me, mi rendo conto che abbiamo in
comune almeno due cose: primo, sia
per loro sia per
me l’amore è la
Il Vaticano II
cosa più imporha affrontato
tante; secondo,
domande simili
sia a me che a
a quelle odierne.
loro piacciono le
Ad esempio
patatine fritte.
sui limiti della
Mi perdonerete
globalizzazione,
il paragone irl’individualismo
riverente. Mi è
e lo sfaldarsi
utile per spiegadi una comunità
re che, grazie al
di appartenenza
Vaticano II, possiamo immaginare che la Chiesa,
se si rinnova, ha davanti a sé un
grande avvenire.
LA SFIDA DEI TEMPI
Quando i padri conciliari fissarono
lo sguardo sul mondo contemporaneo scoprirono che il principale
«segno dei tempi» erano i grandi
e rapidi cambiamenti storici, legati allo sviluppo della scienza
e della tecnica, all’espansione del
capitalismo e alle lotte per i diritti
sociali. Oggi queste trasformazioni continuano a essere la grande
sfida. I giovani lo sperimentano
con maggiore serenità. Sono più
preparati degli anziani a cavalcare
48 POPOLI OTTOBRE 2013
Il Vaticano II
spiegato ai giovani
Come far comprendere ai giovani la straordinaria
attualità del Concilio Vaticano II? Come far
capire che le sue intuizioni non sono superate,
ma anzi ancora da compiere? Un teologo gesuita
cileno, che aveva quattro anni quando papa
Giovanni XXIII aprì l’assise, prova a rivolgersi
alle nuove generazioni
le onde agitate della vita. Forse
non sentono la stessa angoscia dei
loro genitori per il futuro. Tuttavia, anche loro percepiscono che
le straordinarie possibilità offerte
dalla globalizzazione hanno un lato
oscuro: l’individualismo, la spersonalizzazione, la provvisorietà delle
relazioni umane, il senso di abbandono, il non poter più contare su
una comunità di appartenenza.
Ebbene, il Vaticano II affrontò domande molto simili a quelle che
affrontiamo oggi, giovani e meno
giovani: come vivremo in futuro
cambiamenti così grandi e rapidi?
Chi saranno le vittime principali
delle trasformazioni e chi avrà cura
di loro? Quali riforme devono realizzarsi nella Chiesa affinché essa
effettivamente riesca a offrire un
orientamento a chi cerca un senso
per la propria vita e un rifugio a
coloro che sono stati esclusi?
Cinquant’anni fa la Chiesa ha fatto
un enorme sforzo per adattarsi alle
preoccupazioni del proprio tempo.
Ha voluto aggiornarsi. Lo ha fatto,
curiosamente, tornando indietro.
È tornata alle fonti originarie, al
Vangelo e alla propria storia. Così
ha potuto distinguere l’essenziale
dal transitorio, la Tradizione dai
tradizionalismi asfissianti, per ela-
Sulla spiaggia di Rio de Janeiro,
nei giorni della recente Gmg.
borare poi nuove proposte, nuovi
modi di intendere se stessa e di
organizzarsi, coerentemente con le
necessità che andavano nascendo.
Quello che il Concilio Vaticano ha
fatto tanti anni fa è ciò che la Chiesa dovrebbe continuare a fare oggi.
Su questo hanno insistito gli ultimi
pontefici. Il Concilio ci ha lasciato
compiti per molto tempo. I compiti
sono gli stessi, ma sono gli stessi
anche i contributi del Vaticano II
che restano validi per i prossimi 50,
100 o 500 anni. Ne segnalo alcuni.
un fattore di libertà, di giustizia
e di amore tra gli esseri umani, e
mai di settarismo, fanatismo e violenza. La Chiesa oggi, come quella
di cinquant’anni fa, sa che questa
è la sua missione. Sa che la propria
vocazione particolare è lottare affinché «tutti» abbiano un posto nel
mondo. La diffusione del razzismo
o comunque dell’idea che esistano
esseri umani superiori è sempre
in agguato. L’umanità è capace di
retromarce atroci.
b) La Chiesa vuole ottenere questo
attraverso un annuncio rinnovato di Gesù Cristo. Se l’obiettivo è
TRE EREDITÀ
a) Un’idea dominante nel Concilio è capire chi è l’uomo e quale orienstata questa: Dio desidera la salvez- tamento può dare agli incredibili
za di tutti gli esseri umani. Questo sviluppi raggiunti, le scienze e le
è facile da capire per i giovani tecniche saranno sempre un aiuto
poiché hanno un concetto più «po- sul piano dei mezzi. Ma non si può
sitivo» di Dio e delle altre culture e chiedere loro di più. Sul senso della
religioni. Per i cattolici dell’inizio vita ci possono dire qualcosa di imdel XX secolo, inclusa la gerarchia, portante solo le persone autentiche
non era così facile ammetterlo. e, soprattutto, le grandi tradizioni
Allora si pensava che «fuori dalla filosofiche e religiose.
Chiesa non c’è salvezza». Questo Il Concilio ha «reincontrato», grazie
oggi sembra, oltre che sbagliato, a uno studio più profondo della Sacra scrittura, il Figlio di Dio incarinsopportabilmente meschino.
Il Vaticano II, al contrario, esortò a nato in Gesù di Nazareth, sottolinecredere che l’amore è il principale ando che Cristo è l’uomo che rivela
criterio di salvezza. Fu straordina- all’uomo la propria umanità. Inoltre
riamente audace. Affermando che ha operato una distinzione tra Scriti fedeli di altre religioni o gli atei tura e Parola di Dio, per mostrare
possono salvarsi se amano e, al che Dio, che ha parlato nella Bibbia,
contrario, i cattolici «condannarsi» continua a parlare nella storia attrase non lo fanno, i padri conciliari verso lo Spirito di Cristo resuscitato.
relativizzavano la necessità stessa Pertanto Gesù può orientarci con il
della Chiesa. Ne erano consapevoli suo esempio evangelico, ma anche
e, nonostante ciò, decisero di corre- facendoci capire interiormente dove
dobbiamo andare, qual è il senso
re il rischio.
La coscienza dell’importanza di della nostra vita.
«tutti» agli occhi di Dio, promos- c) Il terzo contributo teologico del
sa dal Concilio, continua a essere Concilio deve ancora perlopiù traun fattore chiave e tremendamente dursi in pratica. Il Vaticano II chiede
alla Chiesa di essere un
attuale. Sarà decisivo,
sacramento di unione e
anche in futuro, che Per aggiornarsi
di comunione fra tutti
vi sia un’autorità mo- la Chiesa è
gli uomini e con Dio;
rale come la Chiesa che tornata indietro.
un fattore decisivo, per
dichiari che tutti gli È tornata alle
usare le parole di Paolo
esseri umani hanno la fonti originarie,
VI, della «civiltà dell’astessa dignità e che la al Vangelo e alla
more». Quanto abbiamo
religione deve essere propria storia.
Così ha potuto
distinguere
l’essenziale
dal transitorio
bisogno oggi di comunità che ci riconoscano come propri membri! Abbiamo bisogno di una comunità che
ci dia un nome quando nasciamo e ci
protegga fino alla morte. E colui che
riconosce e riunisce in una comunità
è Cristo, Dio amore.
Nelle comunità della Chiesa conciliare è diventata decisiva l’uguale
dignità delle persone. La Chiesa latinoamericana è arrivata alla conclusione che questo si raggiunge quando i cristiani
optano per i
Nelle comunità
poveri e quando
della Chiesa
essa diventa la
conciliare è
«Chiesa dei podiventata decisiva
veri», quando i
l’uguale dignità
poveri si sentodelle persone.
no nella Chiesa
E questo
come nella prosi raggiunge
pria casa.
quando i cristiani
La Chiesa che il
optano
Concilio ha imper i poveri
maginato deve
essere umile. In essa il battesimo
deve considerarsi il sacramento
principale, così che i sacerdoti siano al servizio di tutti i battezzati.
Questa orizzontalità desiderata dal
Vaticano II deve realizzarsi anche
in relazione agli altri popoli e fedi
della terra.
Insomma, mi sembra che possiamo capirci tra generazioni diverse.
Perché tutti possiamo vedere come
le principali intuizioni del Vaticano
II sono ancora attuali. Perché se le
patatine fritte uniscono giovani e
adulti, ci unisce molto di più il riconoscimento che l’amore è la cosa
più grande, e ciò che la Chiesa del
Concilio ha chiesto è di amare l’umanità in un modo più coerente con
il Vangelo.
LA SERIE
G
li articoli precedenti della nostra
serie dedicata al cinquantesimo anniversario del Concilio Vaticano II (iniziato
nell’ottobre 1962 e terminato nel dicembre 1965) sono stati pubblicati nei numeri
di novembre 2012 e gennaio, febbraio e
maggio 2013. Tutti sono leggibili sul sito
www.popoli.info
nella sezione «Speciali».
OTTOBRE 2013 POPOLI 49
chiese
L’Africa balla
con i pentecostali
Ludovic Lado SJ *
ABIDJAN (COSTA D’AVORIO)
P
rima di cercare di comprendere il fenomeno del pentecostalismo, va detto fin dall’inizio che questo movimento, che
ha riabilitato la pneumatologia (la
scienza che studia le sostanze spirituali e il loro principio vitale) in seno
al cristianesimo, ha sì una radice
afroamericana, che risale a William J.
Seymour (18701922), ma nella
I neopentecostali
sua espressione
sostengono l’idea
africana non è
dell’efficacia
una semplice
della fede che fa
replica di quello
miracoli come
risposta ai bisogni americano.
concreti della vita L’Africa non ha
quotidiana (lavoro, aspettato il pente c o s t a l i s mo,
matrimonio,
e nemmeno il
figli, soldi,
c r i st ia ne si mo
salute, ecc.)
in generale, per
parlare il linguaggio degli spiriti.
L’universo delle rappresentazioni collettive e religiose di parecchi popoli
africani è abitato da spiriti di diversa natura che interagiscono con
gli umani. Ci sono spiriti dell’acqua,
della foresta, delle montagne o, ancora, degli antenati. Il cristianesimo
ha portato in Africa i concetti dello Spirito Santo e del «malvagio».
Dall’incontro tra pneumatologia africana e pneumatologia cristiana sono
nate diverse forme di sincretismo sia
all’interno delle Chiese missionarie
sia all’esterno. Di ciò esistono numerosi esempi.
Quasi in concomitanza con il risveglio
pentecostale negli Stati Uniti agli ini50 POPOLI OTTOBRE 2013
Il pentecostalismo si sta diffondendo a macchia
d’olio proponendo una religiosità semplice che fa
del miracolismo una risposta ai bisogni concreti
della vita quotidiana. Una fede che insiste su
balli, canti e preghiere scenografiche. Ma che
spesso nasconde interessi economici e politici
zi del Ventesimo secolo, sono emerse, le Chiese Aladura in Nigeria (1930),
ai margini delle Chiese missionarie, la Chiesa Lumpa in Zambia (1953).
numerose Chiese indipendenti africa- Questi movimenti hanno conosciuto
ne. Una buona parte di esse metteva un certo successo che alcuni hanno
già in evidenza lo Spirito Santo come attribuito al loro radicamento nell’uun’arma di lotta contro stregoneria, niverso delle rappresentazioni colletfeticci e ogni genere di
tive africane e alla loro
spiriti malefici. Si pos- L’Africa
sensibilità per i problemi
sono citare, tra gli al- ha sempre
esistenziali dei fedeli.
tri, il Movimento dello parlato
Quanto al pentecostaliSpirito Santo in Kenya il linguaggio
smo nella sua versione
(1912), il Kibanghismo degli spiriti. Le
americana, esso è giunnella Repubblica Demo- rappresentazioni
to in Africa nel 1908
cratica del Congo (1951), religiose africane attraverso il Sudafrica,
sono popolate
da spiriti che
interagiscono
con gli umani
dove ha conosciuto un certo slancio
attraverso le Chiese sioniste che si
rivolgevano alle fasce meno abbienti delle comunità nere. Nell’Africa
occidentale, le Assemblee di Dio, la
Chiesa pentecostale più numerosa al
mondo, sono arrivate nel 1921 tramite l’attività di missionari americani
convinti di essere stati scelti e inviati
dallo Spirito Santo per evangelizzare
le popolazioni locali. Il Burkina Faso,
il primo Paese africano interessato
dalla missione pentecostale, diventerà
molto rapidamente il trampolino di
lancio per l’espansione del movimento nei Paesi dell’Africa Occidentale.
sociale, soprattutto nell’educazione e
nei media.
IL NEOPENTECOSTALISMO
Siccome il movimento pentecostale
è una successione di risvegli (cioè
di annunci effettuati da predicatori
illuminati), altre ondate di risvegli
hanno fatto seguito alle prime che
hanno caratterizzato il pentecostalismo classico, dando così vita a quello
che oggi viene chiamato neopentecostalismo. Esso arriva in Africa
negli anni Ottanta del Novecento
dall’America del Nord. È una versione
del pentecostalismo che, pur mante-
LE STATISTICHE
Mezzo miliardo di fedeli
I
l pentecostalismo è un movimento cristiano nato negli Stati Uniti tra la
fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento in seno all’Evangelicismo protestante. L’aggettivo «pentecostale» è riferito alla particolare enfasi che i predicatori pongono sull’effusione dello Spirito Santo nel giorno della Pentecoste.
Secondo uno studio del World Christian Database, pubblicato all’inizio del
2013, nel mondo i fedeli delle Chiese pentecostali sono circa 500 milioni e
crescono rapidamente. Tanto è vero che, sempre secondo lo stesso studio,
entro il 2025 potrebbero essere circa un miliardo. Oltre al Nord America, il
pentecostalismo è diffuso in Asia (Corea del Sud, Singapore, Filippine, India e
Cina), Africa (soprattutto nei Paesi anglofoni) e America Latina (in particolar modo
in Brasile). In Europa il fenomeno è meno presente, ma si sta gradualmente
diffondendo. Secondo uno studio dell’Università cattolica di Lublino (Polonia),
nel 2010 i pentecostali europei erano circa 20 milioni. Anche in Italia, il movimento (vietato sotto il fascismo e rinato negli anni Cinquanta e Sessanta) si sta
diffondendo sulla scia dell’immigrazione nigeriana e ghanese. Attualmente sono
censite sul territorio italiano 600 Chiese pentecostali con circa 400mila fedeli.
e.c.
Il messaggio di cui si fanno portatori i pentecostali pone l’accento
sulla rinascita religiosa, tramite il
battesimo nello Spirito, e la santificazione, attraverso la qualità della testimonianza di vita. Da questo
punto di vista essi sono portatori di
una tendenza ascetica e vedono nella
conversione una rottura radicale con
i costumi e le religioni tradizionali,
che considerano «opere diaboliche».
Oltre che nel campo religioso, queste
Chiese investono molte risorse umane ed economiche anche nel settore
nendo l’accento sull’esperienza dello
Spirito Santo e dei suoi molteplici
doni, esalta anche il progresso in
tutte le sue forme come una manifestazione della vera rinascita. Questo
movimento si distingue per un uso
ottimale dei media e delle nuove
tecnologie dell’informatica e della
comunicazione, settori in cui eccelle
e nei quali ha dimostrato di essere
molto più avanti rispetto alle Chiese
missionarie classiche.
I neopentecostali sostengono l’idea
dell’efficacia della fede che fa mira-
coli come risposta ai bisogni concreti
della vita quotidiana (lavoro, matrimonio, figli, carriera, soldi, salute,
ecc.). I loro canti più popolari esaltano l’azione miracolosa di Dio Padre
o di Gesù Cristo nella vita di alcune
figure bibliche. Consacrandosi a Cristo si diventa «vincenti». La rinascita
è incompatibile con l’insuccesso e la
sofferenza che bisogna, al contrario,
continuamente
esorcizzare. Essa
Per il
è sinonimo della
cristianesimo
vittoria del conafricano
vertito su tutte
i canti e i balli
le forze ostili, del
sono forme
suo progresso e
di preghiera
della sua riuscita.
che offrono
Non si deve più
un naturale
voltare le spalle
sbocco
alla ricchezza, al
alla propria
comfort, al prespiritualità
stigio, ecc. La
ricchezza dei pastori pentecostali,
però, non cade dal cielo, essa è frutto
delle donazioni dei fedeli o, in alcuni
casi, di un vero e proprio tariffario
delle benedizioni e delle preghiere
(il cui «prezzo» varia a seconda della
natura del male che devono sconfiggere). In Nigeria come in Ghana,
per esempio, negli ultimi tre decenni
è emersa una nuova generazione
di predicatori molto popolari, che
si sono trasformati in figure sociali
di spicco (grazie alle ricchezze accumulate) e che incarnano il potere
religioso. I più conosciuti sono spesso
corteggiati dagli uomini politici in
cerca di voti in occasione delle elezioni. A volte sono gli stessi pastori
a sfruttare la notorietà per scendere
in politica. Il pentecostalismo conta
ormai adepti e predicatori anche nelle classi dirigenti, il che favorisce a
volte slanci di messianismo politico
tinto di millenarismo.
In Africa, il pentecostalismo è un
fenomeno plurale che fa proprie
espressioni culturali locali, ma anche
importate da fuori continente (Nord
America, America Latina, Asia). Per
esempio, la Chiesa Universale del
OTTOBRE 2013 POPOLI 51
chiese
Regno di Dio, una grande Chiesa
pentecostale di origine brasiliana, ha
costruito un edificio ultramoderno in
stile occidentale nel bel mezzo di un
quartiere popolare di Abidjan.
Per quanto riguarda l’espressione
liturgica, il pentecostalismo è caratterizzato dall’intensità delle manifestazioni corporee ed emozionali, accompagnate, spesso, da canti
popolari e danze. Il cristianesimo
africano, che si esprime molto attraverso la danza, trova in queste forme
di preghiera un naturale sbocco alla
propria spiritualità. In merito all’aspetto verbale, i predicatori pentecostali scommettono molto sull’oralità
e sulla narrazione incentrati sul vissuto e sull’esperienza del quotidiano,
presentando testimonianze pubbliche
della benevolenza di Dio o sui «tranelli di Satana sventati». Le predicazioni pentecostali possiedono l’arte di
nutrire la speranza. La disoccupazione, l’insuccesso, la sterilità, il celibato
involontario, la povertà e tutti gli
insuccessi della vita sono interpretati
come il risultato di blocchi causati
dalla stregoneria o dal diavolo. Blocchi che bisogna vincere attraverso
preghiere liberatorie ed esorcismi.
L’INFLUENZA SUL CATTOLICESIMO
L’influenza del pentecostalismo sulla Chiesa cattolica passa principalmente attraverso il rinnovamento
carismatico. L’esplosione del movimento carismatico cattolico in Africa
risale agli anni Ottanta. La cultura
e la liturgia dei carismatici cattolici
prendono a prestito molti elementi
dal movimento pentecostale, ferme
restando le divergenze dottrinali.
Questo prestito assume la forma di
una diffusione negli ambienti cattolici sia dei canti popolari pentecostali
sia degli stili e dei contenuti scanditi
dagli «Alleluja-Amen». L’insistenza
sul concetto di successo economico
e sociale è tuttavia mantenuta entro
i limiti dell’accettabile. La diffusione del movimento carismatico nella
Chiesa cattolica ha portato anche a
una rivitalizzazione del ministero
dei malati che, negli ultimi anni, ha
conosciuto una domanda crescente.
IL PERSONAGGIO
Milingo, il vescovo che si fece pentecostale
Q
uella di Emmanuel Milingo è
una storia singolare in
cui si intrecciano clamore mediatico, devozione
popolare e strumentalizzazioni. Zambiano,
brillante studente dei
seminari cattolici di Kasina e Kachebere, Milingo è stato ordinato vescovo nel 1969.
Nominato arcivescovo di Lusaka, diventa
famoso come esorcista e guaritore. I suoi
metodi vengono però giudicati «non convenzionali» dalla Santa Sede. Il 6 agosto
1983 rinuncia alla diocesi di Lusaka e si
trasferisce a Roma, dove presta la sua
opera presso il Pontificio consiglio della pastorale per i migranti e gli immigrati. In Italia
continua a fare esorcismi e organizza meeting di preghiera in stadi, teatri, palazzetti
che attirano migliaia di persone. Partecipa
anche a trasmissioni televisive e radiofoniche facendo suo il modello di predicazione
52 POPOLI
OTTOBRE 2013
dei pastori
pentecostali.
Il 2001 segna il primo
strappo con la Chiesa
cattolica. Milingo entra
a far parte della setta
di Sun Myung Moon
e si sposa (nella foto).
La Chiesa lo allontana
dal suo incarico. Negli anni successivi il
vescovo alternerà fasi
di ripensamento, con prolungati ritiri in
luoghi segreti e promesse di rientrare nella
Chiesa cattolica, a fasi in cui tornerà a
professare la sua adesione alla setta di
Moon. La stampa internazionale segue con
attenzione la crisi. Un’attenzione alla quale
non è estranea la potenza mediatica delle
sette pentecostali.
La crisi culmina il 17 dicembre 2009 con
la riduzione allo stato laicale del monsignore in seguito all’ordinazione episcopale di
quattro preti sposati. Oggi l’ex arcivescovo
di Lusaka, 83 anni, vive a Seul insieme
alla moglie e fa sempre parte della setta di
Moon.
e.c.
Questa influenza del pentecostalismo
non è esente da rischi di eccessi e
devianze. E non sono solo i laici a
«deragliare» in questa ricerca spirituale o mistica. Il caso più conosciuto
nell’Africa subsahariana è quello di
Emmanuel Milingo, l’ex arcivescovo
di Lusaka, che da fervente carismatico quale era, si è ritrovato nella setta
di Moon (cfr box). Uno dei casi più
recenti è quello di Mathias Vigan,
prete diocesano del Benin, ex parroco ed esorcista, che ostinandosi a
esercitare pratiche poco ortodosse è
stato scomunicato. Da allora si è autoproclamato papa Cristoforo XVIII e
attira folle assetate di miracoli.
Bisogna sottolineare che, malgrado la
diffusione della cultura pentecostale,
la Chiesa cattolica ha pochi rapporti
con il pentecostalismo. Anche se
le autorità vaticane mantengono un
dialogo con alcune realtà del pentecostalismo storico (come le Assemblee di Dio), sul territorio, almeno
in Africa, i rapporti sono ancora
improntati al sospetto e alle invettive
reciproche. Sono le famiglie a vivere
le tensioni più forti. Al loro interno i
membri rimasti nella Chiesa cattolica
si devono quotidianamente confrontare con i loro parenti che sono entrati nelle sette pentecostali. E gli attriti
non mancano.
Nell’aprile scorso, la Conferenza episcopale tedesca ha organizzato a Roma una conferenza sul movimento
pentecostale e sulle sfide che esso
pone alla Chiesa cattolica. I partecipanti, ricercatori e operatori pastorali,
venivano da tutti i continenti. Oltre
agli scambi di vedute sulla natura
del pentecostalismo in quanto tale, si è dibattuta molto la questione
della «conversione pastorale», cioè
del rinnovamento pastorale da parte
della Chiesa cattolica, come risposta a
questa sfida. Ma quali contorni dovrà
avere questa «conversione»? Nessuno,
per ora, ha dato una risposta.
* Gesuita, antropologo
delle religioni del Centro
ricerche e azione per la pace
il fatto, il commento
Dal conflitto
alla comunione
C
Guido Dotti
Monaco di Bose,
esperto di questioni
ecumeniche.
ome ogni anno, il 31
ottobre le Chiese luterane festeggiano l’anniversario dell’evento che
simbolicamente ha dato inizio
alla Riforma protestante: l’affissione delle 95 tesi di Lutero
a Wittemberg, nel 1517. Una
festa per celebrare una lacerazione della Chiesa? Forse nei
secoli è stato così, ma non più
oggi: il cammino ecumenico
percorso in questi decenni, a
partire in particolare dal Concilio Vaticano II, ha ottenuto
risultati inimmaginabili solo
mezzo secolo prima. Così le
Chiese si sono incamminate
per giungere a commemorare
in modo congiunto il 500° anniversario della Riforma, che
cadrà nel 2017.
Ma come è stata possibile questa guarigione - o, per lo meno, questa cura efficace - delle
memorie? Il 17 giugno scorso
è stato reso pubblico un documento, Dal conflitto alla comunione. La commemorazione
comune luterana-cattolica della Riforma nel 2017, messo
a punto dalla Commissione
teologica bilaterale. Un testo
che ripercorre la vicenda di
quell’istanza evangelica che si
tramutò ben presto in divisione nella Chiesa d’Occidente. È
un racconto condiviso delle
vicende del passato che non
si nasconde dietro luoghi comuni e non evita interrogativi
cruciali, ma che affronta le
questioni più scottanti di allora e di oggi con l’intento di
ricostruire una storia comune,
di riconoscere gli errori commessi e le intenzioni stravolte,
così come le ricadute positive
nella vita di fede quotidiana di tanti cristiani.
È un testo denso, frutto non solo dell’ottimo lavoro
di teologi e storici della Chiesa, ma più ancora del
vissuto quotidiano di tante comunità cristiane. Si
coglie anche un clima più propenso a ricercare non
solo «ciò che ci unisce che è più grande di ciò che ci
divide» (per citare Giovanni XXIII), ma soprattutto
Colui che unisce i cristiani, Cristo stesso, più grande
e più forte di colui che divide, il diavolo il cui nome
è «divisore», appunto. Questa riflessione teologica
accompagna per mano anche chi della Riforma e
della Controriforma conosce solo qualche episodio,
perlopiù negativo: scomuniche, condanne reciproche, persecuzioni, cedimenti al potere temporale.
Il testo termina con un’affermazione decisiva - «il
conflitto del XVI secolo è finito» - e pone cinque «im-
Il 31 ottobre le Chiese luterane festeggiano
l’anniversario dell’affissione delle 95 tesi di
Lutero a Wittemberg. Una festa per celebrare
una lacerazione della Chiesa? Forse nei
secoli è stato così, ma non più oggi
perativi» da assumere come compiti ineludibili da qui
al 2017: istanze evangeliche che proiettano le Chiese
verso la testimonianza resa a Cristo in mezzo agli
uomini e alle donne del nostro tempo e che offrono
l’unico criterio decisivo per una celebrazione autenticamente cristiana: «Gli inizi della Riforma saranno
ricordati in maniera adeguata quando luterani e cattolici ascolteranno insieme il Vangelo di Gesù Cristo e si
lasceranno di nuovo chiamare a fare comunità insieme
al Signore». Ecco la perenne vocazione cristiana: fare
comunità con il Signore Gesù. Con lui e attorno a lui
le nostre infedeltà sono avvolte dal suo perdono e le
nostre differenze diventano carismi complementari a
beneficio della corsa della Parola nella storia.
Davvero i teologi hanno fatto la loro parte, ora tocca ai
cristiani convertirsi all’unico Signore, riscoprire i sentieri che la Parola di Dio traccia nelle loro vite,
rinnovare quel desiderio di essere portatori di una buona notizia che è messaggio di speranza per l’umanità
intera: la vita è più forte della
morte, il Signore ha vinto la
morte, per tutti e per sempre.
Un’antica moneta con un ritratto
di Martin Lutero.
Un bambino
non è mai irregolare
C
eleste seria seria con il suo to il pronto soccorso, rischiando di
elegantissimo impermeabile, intasarne gli accessi, per patologie di
Jimmi con il gel nei capelli lieve entità per cui basterebbe il pee gli occhi neri affascinanti, le ter- diatra di base. Figura prevista dalla
ribili sorelline Ivana e Rudina, Me- legge ma che in Lombardia non viene
lanie con i codini allegri e colorati, riconosciuta ai figli di extracomuFranco Derek e la mamma attenta e nitari senza permesso di soggiorno.
coscienziosa, Valeria nata a Natale da Una mozione presentata in giugno
da Umberto Ambrosoli
una mamma bambina e
e dal Pd, che chiedeva
senza casa, Giosuè, Ales- L’Assistenza
l’accesso ai servizi di pesia, Jessica, gli splendidi sanitaria San
gemellini ivoriani... Tut- Fedele, a Milano, diatria anche per questi
soggetti, è stata respinta
ti ormai sono diventati svolge visite
dal Consiglio regionale
nostri amici, affezionati pediatriche per
della Lombardia.
«clienti», parte della no- i figli di stranieri
stra famiglia.
senza permesso Grazie a una convenzione con Asl Milano,
Il martedì pomeriggio di soggiorno.
da gennaio possiamo
i locali dell’Assistenza Garantendo cure
però chiedere per il picsanitaria San Fedele, a negate da una
colo senza permesso di
Milano, si trasformano: normativa miope
soggiorno il codice Stp
nell’atrio ci sono gio(straniero temporanechi e libri, risuonano le
amente presente), che
voci, talvolta i pianti,
dei piccoli pazienti in attesa della offre la possibilità di prescrivere vivisita. Ritornano per i controlli ma site specialistiche, analisi mediche ed
anche per passare un pomeriggio in esami strumentali. Tale possibilità
un ambiente sereno, dove le mamme non sostituisce comunque il pediatra
possono chiacchierare, fare amicizia, di base, il quale garantirebbe invece
scambiarsi informazioni e ricevere assistenza continua.
Più della metà dei piccoli pazienti ha
rassicurazioni.
Nel settembre 2009 l’Assistenza de- un’età compresa tra 0 e 3 anni, così
cide, dopo aver effettuato un attento come succede in quasi tutti gli ambumonitoraggio sul territorio milanese, latori pediatrici, e accede allo studio
di aprire, un pomeriggio alla setti- medico per i controlli di routine.
mana, un ambulatorio di pediatria La prevenzione è importante (anche
gratuito per bambini bisognosi e economicamente!): tutti i bambini
senza permesso di soggiorno, for- vanno seguiti dalla nascita, e almeno
mando una équipe di tre pediatre, fino al terzo anno, per verificare che
un farmacista, un responsabile e due la crescita sia regolare, sia nel peso
che in altezza, che non ci siano o
pedagogiste. Tutti volontari.
Da allora abbiamo visto 253 bambini insorgano malformazioni o disturbi
ed effettuato 604 visite, bambini che di vista, udito, parola e postura,
altrimenti non sarebbero stati visitati controllare la dentizione e la relativa
da nessuno o che avrebbero utilizza- igiene, e tanto altro.
54 POPOLI OTTOBRE 2013
G. BIANCOFIORE
www.jsn.it
L’
Assistenza sanitaria San Fedele
nasce a Milano nel 1948 per opera del gesuita Lodovico Maino. Ha sede
nello stessa struttura in cui si trova
anche la redazione di Popoli.
Alla pediatria dell’Assistenza possono
accedere persone non in possesso del
permesso di soggiorno o che pur avendolo, ma essendo disoccupate o per
altri impedimenti, non hanno pieno accesso all’assistenza sanitaria di base.
Il servizio di pediatria è aperto il martedì, dalle ore 15, su appuntamento (gli
appuntamenti si fissano telefonando
allo 0286352251 il lunedì e mercoledì
mattina e il giovedì pomeriggio).
Nella foto, due volontarie dell’Assistenza
San Fedele visitano una piccola utente.
Per ora non abbiamo riscontrato patologie diverse da quelle dei coetanei
italiani; i genitori vogliono soprattutto essere rassicurati in presenza di
febbre, tosse, mal di gola, gastroenteriti. La dottoressa si preoccupa soprattutto che le vaccinazioni e le profilassi
di legge vengano effettuate.
La bocciatura della mozione Ambrosoli porterà un aggravio di costi per
il servizio sanitario; e noi ci aspettiamo un maggiore carico di lavoro, pur
rimanendo più che disponibili a collaborare in un’ottica di sussidiarietà.
Elena Morandi
Responsabile pediatria
Assistenza sanitaria San Fedele
www.magisitalia.org
Più formazione
meno mattoni
Il neo presidente del Magis, padre Gay: «I tempi cambiano e
dobbiamo ripensare il nostro ruolo e il nostro modo di agire»
D
opo una serie di cambiamenti
interni, il Magis ha un nuovo
presidente. Padre Nicola Gay,
Viceprovinciale dei gesuiti per il Nord
Italia, assume l’incarico di traghettare il movimento missionario verso una nuova fisionomia. «In questi
anni - spiega padre Gay - ci siamo
resi conto che una serie di situazioni
stanno mutando e quindi si rende
necessario cambiare anche il Magis».
Ed esemplifica: «I missionari italiani
ed europei sono in diminuzione. Le
Chiese africane sono più forti rispetto
a 30-40 anni fa, anche per merito
dei tanti missionari che ci hanno
lavorato. Sembra dunque arrivato il
momento di fare più attenzione alle
esigenze che nascono da gruppi, religiosi e anche gesuiti che sono in loco.
Prima erano i missionari che dovevano leggere le esigenze e provvedervi.
Adesso sono le stesse realtà locali
che indicano quali esigenze sentono
essenziali per far crescere le loro
Chiese. Un altro aspetto importante è
quello della sostenibilità finanziaria.
Progetti che hanno bisogno sempre
di un appoggio esterno sembrano
non funzionare più. Inoltre si sente
l’esigenza di avere “più formazione
e meno mattoni”, per dirla con uno
slogan. Tutto questo ha portato a un
ripensamento anche da parte di molte
Ong europee, alcune delle quali stanno riflettendo su come riposizionarsi.
A livello interno poi va detto che
il Magis è stato pensato come una
fondazione di partecipazione. Ma la
relazione con gli enti aderenti non
è mai stata approfondita e sembra
il momento di provare a farlo. Il
servizio di detrazione fiscale che la
fondazione fa agli enti è importante
ma non può essere l’unico legame.
Bisogna rifletterci. Una campagna
significativa in questo senso è stata
quella della raccolta dei cellulari, che
in qualche modo ha fatto conoscere il
Magis anche fuori dei propri aderenti.
È infine arrivato il momento di una
maggiore unitarietà. Ci sono caratteristiche diverse, al Nord, al Centro e al
Sud, ma una maggiore collaborazione
è indispensabile».
Qual è oggi l’identikit del Magis?
Il Magis ha sedi storiche a Gallarate,
INTENZIONI DI PREGHIERA
Le intenzioni sono proposte ogni mese dall’Apostolato della preghiera (www.adp.it), associazione della Compagnia di Gesù diffusa
in tutto il mondo.
OTTOBRE
GENERALE - Perché quanti si sentono schiacciati dal peso della
vita, sino a desiderarne la fine, possano avvertire la vicinanza dell’amore di Dio.
MISSIONARIA - Perché la celebrazione della Giornata Missionaria
Mondiale renda tutti i cristiani coscienti di essere non solo destinatari, ma anche annunciatori della Parola di Dio.
Roma e Palermo, che svolgono ancora
qualche servizio tipico delle Procure
delle missioni. Di fatto le Procure
erano luoghi dove c’erano volontari e
si facevano attività. Si sono evolute,
hanno preso forma di Ong, ma c’è bisogno di maggiore conoscenza, stima
e collaborazione, per essere più efficaci nei finanziamenti e sui progetti.
Quale collaborazione ci potrà essere
con le altre realtà che nella Provincia
si occupano di missione?
Su alcune linee di integrazione si sta
riflettendo. Si era, per esempio, proposta una collaborazione tra le riviste
del Magis e della Lega missionaria
studenti con Popoli, ma non si è
ancora trovato il modo di coniugare
esigenze diverse: quella di aggregare
le persone raccontando quanto si fa,
con quella di offrire una riflessione
aggiornata e seria come fa Popoli.
Ancora, il Magis già collabora con
il Jsn, con i gesuiti in Albania, ma
si avverte l’esigenza di rendere più
strutturate tali collaborazioni per evitare situazioni in cui proprio le difficoltà di collaborazione hanno reso
meno efficace l’azione di ciascuno.
© GesuitiNews
OTTOBRE 2013 POPOLI 55
www.legamissionaria.it
Lega Missionaria Studenti
«Ho lasciato il mio cuore
a Sighet»
Le impressioni di un volontario che questa estate ha vissuto
un’esperienza in un campo estivo in Transilvania (Romania)
A
volte non si viaggia in modo
«sincronizzato»: il corpo e il
cuore hanno tempi diversi,
quando uno arriva l’altro parte
e quando uno parte l’altro resta.
Accade così che la città di Sighet,
nella bella Transilvania, appaia
all’improvviso il centro del mondo,
o quanto meno il centro di molte
vite, traguardo e partenza di corpi
e di cuori. Solo poche settimane,
poche ma abbastanza per realizzare
qualcosa di miracoloso. Sembra un
periodo di luce nel buio, come quello ben rappresentato nel film Risvegli da interpreti di eccezione quali
Robert De Niro e Robin Williams.
L’arrivo è nella giornata di domenica mattina. Una mattina assonnata,
come coloro i quali scendono dal
l’autobus che li ha portati in città
da un vicino aeroporto. Tutti a
riposare, per caricare gli archi del
proprio cuore con frecce d’amore e
tutti impazienti di vedere l’America, perché Sighet, anche per chi la
conosce da tempo, è e resta sempre
una nuova scoperta. Incontro di
tutti i volontari con il responsabile, per definire il servizio al quale
dedicare il proprio tempo, e poi si
parte!
Scuola, ospedale psichiatrico, camin de batrani (ospizio-ospedale
per anziani e ragazzi con particolari patologie): non sono luoghi, non
sono posti, sono persone, sentimenti, emozioni, tante volte bisogni
che ci interpellano direttamente e
individualmente. Centrato l’obiettivo bisogna coordinare le forze: i
56 POPOLI OTTOBRE 2013
momenti comunitari, di preghiera
e di condivisione sono importanti;
la compagnia, la condivisione del
tempo, il vivere in amicizia sono
indispensabili.
Nelle famiglie che ci ospitano sperimentiamo il desiderio di pareggiare un debito con il mondo che ci
accoglie. È presso queste famiglie
che saldiamo legami imprevisti e
imprevedibili, fatti di comunicazioni stentate, di rapidi incontri,
della loro deliziosa e instancabile
ospitalità. Non lo credevamo, persone estranee riescono davvero a
entrare nel nostro mondo e noi nel
loro. Al punto che qualcuno arriva
a pensare che la sintonia raggiunta
con i «genitori» di Sighet (padre e
madre della casa che ospita) può
apparire maggiore di quella esistente con i propri.
Giorno dopo giorno ci sentiamo
alleggeriti del fardello delle nostre
debolezze e arricchiti da qualcosa
che in modo forse banale possiamo
chiamare «amore». Non è tutto oro
quel che luccica: le difficoltà, le
incomprensioni e la complessità di
rendere testimonianza di una vita
che ci ha reso liberi dal bisogno e
dalla paura sono ben presenti. Per
molti di noi la vita di tutti i giorni è
faticosa e impervia. Le opportunità
legate al benessere sono occasione per sterilizzare la coscienza. È
così: ci vuol tempo per dismettere
i panni della cultura occidentale, fatta spesso di perbenismo e
convenzioni sociali, alimentata da
formalismi che tutto sono tranne
che espressione dello spirito che
abita in ciascuno di noi. Il cuore
ne paga il prezzo, tiranneggiato da
lacci e lacciuoli che impediscono di
volare con il bambino romeno, con
il malato, con il disabile; ci prendiamo per mano, e prendiamo loro
la mano, ma siamo pesanti, pesanti
dentro; tutto quello che vogliamo
dare non è abbastanza… E spesso
rimane intrappolato tra le nostre
mani, talvolta si ferma come un
nodo in gola, che può sfociare in
un silenzioso e un doloroso pianto.
Siamo arrivati al capolinea: il turno è finito e si torna a casa. I nostri
cuori sono in Romania, mentre i
nostri corpi prendono la via del ritorno, un ritorno, ahimè, al passato.
Non lasciamo il buio, non lasciamo
la desolazione; confidiamo che il
dono d’amore che abbiamo desiderato, e che abbiamo vissuto, faccia
compagnia a tanti amici romeni, e
viva ancora in tanti piccoli segni di
presenza e di vicinanza, custodito
in quella parte di noi che resta lì,
fino a quando non raggiungeremo
nuovamente i nostri cuori. Sarà
l’inizio del prossimo campo.
Gianluca Denora
CAMPI DI SOLIDARIETÀ, 250 VOLONTARI IN QUATTRO PAESI
S
ono circa 250 i volontari, provenienti
da diverse città italiane, che nel 2013
hanno preso parte ai campi di solidarietà
organizzati dalla Lega Missionaria Studenti. Nel periodo invernale hanno avuto
luogo i campi in Kenya (25 partecipanti) e
in Romania, dove circa 40 persone hanno
festeggiato il capodanno a Sighet, la citta-
dina transilvana dove la Lms è presente
dal 1998. A Sighet si è poi svolto anche
il campo estivo, su tre turni, che ha visto
la partecipazione di 120 volontari. Gruppi
più ridotti, ma altrettanto motivati, per il
Perù (25 persone) e per il campo di evangelizzazione di Cuba (35 persone).
Info: www.legamissionaria.it
www.centroastalli.it
La cultura
non è un monolite
D
a oltre 10 anni il Centro volta c’è un’interazione tra gli inAstalli incontra gli studenti dividui, ciascuno con il proprio
delle scuole italiane in un bagaglio culturale e di esperienze.
impegno educativo e di sensibiliz- L’obiettivo del progetto «Incontri»
zazione ai temi del diritto d’asilo e - rivolto anche alle scuole elementari - è, invece, di far
del dialogo interreliconoscere agli studenti
gioso. Nel 2012 i pro- Il Centro Astalli
le diverse religioni che
getti «Finestre - Storie torna nelle
compongono la società
di rifugiati» e «Incon- scuole per far
italiana. Basta comintri» hanno coinvolto conoscere
ciare chiedendo loro
oltre 13mila alunni tra agli studenti
di alzare la mano se
gli otto e i diciotto i rifugiati, le
loro storie che
hanno mai incontrato
anni.
almeno una persona
Attraverso il progetto raccontano
di religione diversa da
«Finestre», molti stu- l’ingiustizia,
quella cattolica, magdenti di scuole medie e la bellezza
gioritaria in Italia. Più
superiori hanno avuto delle differenze
o meno numerose, le
l’occasione di conoscealzate di mano sono
re un rifugiato e di
ascoltare la sua storia, maturando sempre presenti e i ragazzi iniziano
una maggiore consapevolezza di a riflettere su quanto questa temaciò che accade in altri contesti del tica sia loro vicina.
mondo, oltre la «finestra» della loro Fatima, testimone algerina di fede islamica, spiega: «Mi piace far
aula.
Solitamente l’incontro si svolge in conoscere agli studenti chi è un
classe, ma i docenti possono sce- musulmano partendo dalle loro dogliere anche di far visitare agli mande e dalle loro critiche. Cerco
studenti una delle strutture del di costruire un dialogo attraverso
Centro Astalli, come la mensa o i il quale si possano cogliere divercentri di accoglienza. «Dal 2007 sità e punti di contatto tra la mia
partecipo agli incontri nelle scuole cultura e religione e la loro. Deve
e ciò che colpisce sempre i ragazzi esserci una conoscenza reciproca
è come sia riuscita a superare le per un’accettazione dell’altro più
avversità, sopravvivere al seque- rispettosa e libera da pregiudizi».
stro e ricominciare, poi, la mia vita Anche Florica - di fede ortodossa
da zero», racconta Isabel, rifugiata e originaria della Romania - dà
spazio alle curiosità degli alunni.
dalla Colombia.
Frank, rifugiato dal Camerun, spie- Le capita, a volte, di incontrare stuga le difficoltà che ha dovuto su- denti ortodossi che conoscono poco
perare in Italia per il solo fatto di la propria religione: «Sono felice
essere straniero. Quello che vuole di spiegare loro il senso di alcune
trasmettere è che la cultura non gestualità, riti e festività che spesso
è un monolite, bensì qualcosa di seguono per tradizione senza commolto fluido, che evolve ogni qual prenderne a pieno il significato».
Entrambi i progetti cercano di coinvolgere i giovani nell’apertura verso una società multiculturale e
multireligiosa, mediante l’incontro
diretto con un testimone. Questa
metodologia favorisce la conoscenza reciproca e il dialogo, in una
prospettiva di arricchimento e di
scambio nella quale si può guardare
all’altro senza le lenti distorte del
pregiudizio e dei luoghi comuni.
Fondazione Astalli
ESILIO: UN CONCORSO
LETTERARIO
A
nche per l’anno scolastico 20132014, il Centro Astalli propone
agli studenti di scuole medie e superiori il concorso letterario «La scrittura
non va in esilio». Gli alunni delle classi
che aderiranno ai progetti «Finestre»
e «Incontri» potranno cimentarsi in un
esercizio di scrittura, redigendo un
racconto sui temi del diritto d’asilo e
dell’immigrazione, del dialogo interreligioso e della società interculturale.
Una giuria - composta da rifugiati, giornalisti, insegnanti, scrittori e membri di
organizzazioni umanitarie - valuterà gli
elaborati e selezionerà i dieci racconti
vincitori. Gli autori verranno premiati in
ottobre in un evento pubblico organizzato dal Centro Astalli.
OTTOBRE 2013 POPOLI 57
www.amo-fme.org
In cammino
con Paolo
Un itinerario di trekking lungo le strade dell’Anatolia
percorse da Paolo e Barnaba nel loro primo viaggio
missionario. E la Parola risuona insieme ai passi
S
aint Paul Trail: l’avete mai
sentito nominare? È un percorso di trekking in Turchia,
terra biblica spesso trascurata. Lungo circa 500 chilometri, ripercorre il
primo viaggio apostolico di Paolo e
Barnaba (Atti degli Apostoli, capitoli
13-14). Ce ne parla Paolo Bizzeti,
gesuita alla guida di un recente e
pionieristico pellegrinaggio con un
gruppo di giovani italiani in quelle
terre. Un’esperienza affascinante per
rivivere e assaporare alcune pagine
bibliche.
Di cosa che si tratta?
Il Saint Paul Trail (Spt) è il cammino
percorso dall’apostolo Paolo durante
la sua predicazione tra le genti in
Turchia. Da Antalya, sulla costa sud,
a Yalvaç, nella regione dei grandi laghi, passando per villaggi di pastori, laghetti incontaminati, panorami
mozzafiato, su e giù per dislivelli
che possono sfiorare i 2.800 metri.
Se ne inizia a parlare soltanto nel
2003, quando due giovani inglesi,
Kate Clow e Terry Richardson, con
una équipe di volontari internazionali, percorrono e tracciano il
sentiero. Una route importante nel
Paese, seconda per lunghezza alla
Lycian Way, altro lungo itinerario a
piedi tracciato in precedenza dagli
stessi giovani e che si è fatto conoscere nel mondo anglosassone attraverso i reportage del Times. Risale
al 2004 la pubblicazione del primo
libro-guida sul tracciato, St Paul
Trail. Turkey’s Second Long Distance
58 POPOLI OTTOBRE 2013
Walking Route. A new European
Cultural Route (Ed. Upcountry [Turkey] Ltd). Da allora in molti da varie
parti del mondo hanno cominciato
a percorrerlo, salendo dalla Panfilia
in Pisidia per usare i nomi romani di
queste regioni.
Un trekking, ma dal valore spirituale
molto forte. Qual è il significato del
percorso?
Il tragitto porta il nome di Paolo
perché ripercorre alcuni dei tratti su
cui camminò l’Apostolo delle genti
in compagnia di Barnaba durante
il loro primo viaggio missionario:
partiti da Cipro sbarcarono a Perge
(allora c’era un porto) e salirono
fino ad Antiochia di Pisidia, Konya,
Listra e Derbe in Licaonia, per poi
ridiscendere dall’altipiano anatolico
fino al porto di Antalya (vedi Atti
13,13ss) e da qui tornare al porto di
Seleucia di Pieria e quindi ad Antiochia sull’Oronte, dalla cui comunità
cristiana erano partiti. In realtà il
percorso segnato segue solo alcuni
tratti della strada romana che percorsero gli apostoli in quel tempo.
Il messaggio forte emerge dalle pagine... e dal contesto...
I luoghi che si percorrono sono
quelli di una Turchia rurale e dedita
alla pastorizia che non si discostano
molto dal modo di vivere delle genti
di allora. Un contesto che, unito agli
sconfinati panorami, aiuta molto
la contemplazione, la preghiera, il
ritorno all’essenziale.
Come lo ha scoperto? In Italia mi
sembra che nessuna agenzia di pellegrinaggi o viaggi proponga questo
itinerario.
È stato per caso, l’anno scorso, mentre ero ad Antalya, per organizzare
un pellegrinaggio nei luoghi degli
Atti degli Apostoli. Incuriosito, l’ho
percorso nel luglio 2012 insieme a
Maurizio Confalonieri, un giovane
atleta milanese, scoprendo un itinerario davvero affascinante. Spesso
nei luoghi di fortuna dove alloggiavamo o nelle piccole pensioni
ci dicevano che eravamo i primi
italiani che si vedevano sul Spt. In
effetti in Italia il percorso è ancora
sconosciuto: perciò quest’anno abbiamo deciso di portare un gruppo
di giovani ed educatori: Maurizio
ha seguito la l’aspetto del trekking
(circa 4-5 ore di cammino al giorno)
e io la parte delle letture bibliche sul
libro degli Atti.
E il risultato?
Tutti entusiasti, direi. Sia della bellezza del tracciato, sia dei panorami
e dello spessore che acquista la
Parola di Dio quando è letta nel suo
contesto. Uno degli scopi principali
era, infatti, capire a fondo le parole
di Paolo sulle fatiche dei viaggi che
si leggono al capitolo 11 della seconda lettera ai Corinzi.
Elisa Costanzo
A cura della Redazione
e di Anna Casanova
@casanovanna
Per segnalazioni scrivi a
[email protected]
Sul comodino di...
Mauro Magatti
Cinema
Il passato
61
69
65
Strumenti
Baglama
Habitat
Green concept, l’architettura
che rispetta l’ambiente
66
71
Osservatorio
Da dimenticate a invisibili:
le crisi umanitarie nei Tg
Sapori&saperi
La cucina europea
«ladra» di ingredienti
72
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Se il codice
non è più segreto
Mediterraneo a fumetti
Carino!
74
60
62
76
60
61
65
Leggere
Segnalazioni Novità in libreria
La libreria Set’ (Roma)
Sul comodino di... Mauro
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Cinema Il passato
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Osservatorio Da dimenticate a invisibili: le crisi umanitarie nei Tg
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dell’originale
On air Radio Onda d’Urto
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Solidee «Amici di Lazzaro» in strada contro la tratta
Habitat Green concept,
l’architettura che rispetta l’ambiente
Il colore dei soldi Gustare
Sapori&saperi La cucina europea
«ladra» di ingredienti
Retrogusto Oficina de Sabor (Milano)
Sorseggi Kinnie Inter@gire
Se il
codice non è più segreto
Decode Note di speranza dal Medio Oriente Mediterraneo a fumetti
Carino!
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Leggere
novità in libreria
Marco Aime
Le radici
nella sabbia
A 14 anni dalla sua prima uscita, viene riproposto in versione
aggiornata questo viaggio nella
regione africana del Sahel: è il
mondo degli ultimi, sempre in fondo a statistiche impietose che mettono in evidenza il distacco tra
il ricco mondo occidentale e la
desolante situazione di questi Paesi
attanagliati da una povertà priva
di ogni prospettiva. Eppure, dalle
decine di incontri avuti nel corso
dei suoi viaggi, Aime, antropologo
e scrittore, è riuscito cogliere una
ricchezza umana straordinaria. Un
patrimonio che oggi rischia di andare perduto con lo scatenarsi della
guerra maliana e il diffondersi
dell’estremismo religioso. Questo
testo ha quindi un grande valore
come testimonianza di una ricchezza dei popoli saheliani che non può
e non deve andare perduta. [Edi,
2013, pp. 182, euro 12]
Andrea Bouchard
Il pianeta senza
baci (e senza bici)
semplici, ma ineludibili. Nella breve
storia della permanenza di Mattia
sul pianeta Blu, l’autore, un maestro
elementare, affronta con rara sensibilità i temi del razzismo, del totalitarismo, dell’ossessione per la salute
e per la sicurezza di una società,
come la nostra, disorientata, in cui
perdono cittadinanza la natura, il
corpo, le emozioni e le relazioni
umane più vere e profonde. [Salani,
2013, pp. 160, euro 15]
Antonio Ferrari
Sgretolamento.
Voci senza filtro
Prima che il Muro di Berlino crollasse nel 1989, era già iniziata
una lunga fase di sgretolamento
di quel mondo caratterizzato dalla
contrapposizione tra il blocco occidentale e quello sovietico. Antonio
Ferrari, inviato del Corriere della
Sera, è stato un attento osservatore
della transizione. In questo libro, a
più di 25 anni di distanza da quegli
eventi, ha raccolto le interviste ai
protagonisti di quell’epoca. Da esse
traspare la progressiva fine delle
grandi ideologie e la lenta ricerca di
nuovi equilibri politici, economici
e sociali, equilibri in parte ancora
tutti da raggiungere. [Jaka Book,
2013, pp. 160, euro 15]
LA LIBRERIA
L
a libreria-bistrot Set’, a Roma,
è un mix di influenze. Da una
parte si ispira alle librerie del Nord
Europa: lo si nota ad esempio
nell’arredamento, tutto rigorosamente in legno e nell’impostazione
del locale, dove l’idea è di creare
un luogo d’aggregazione in cui
al piacere della lettura si unisca
il piacere di ritrovarsi, degustare vino, mangiare. Dall’altra parte
questa libreria offre una cucina
esotica dai sapori e dalle tecniche
di cottura orientali.
La libreria punta sulla qualità anche nell’offerta dei libri: rifugge
tendenzialmente dai best-seller del
momento per proporre invece libri
di piccole e medie case editrici.
Grande attenzione inoltre all’attualità: ogni mese partendo dalla
cronaca si sceglie un tema a cui
la libreria dedica un focus con libri
e incontri, trasformandosi così in
«libreria tematica». Tra i temi affrontati ultimamente: democrazia,
paura, potere globale, emancipazione della donna, schiavitù.
SET’
P.zza Martiri di Belfiore,
ang. Via Settembrini - Roma
Luigi Geninazzi
Se a prima vista può apparire come un libro di fantascienza per
bambini, Il pianeta senza baci è, in
realtà, una denuncia della deriva
della società tecnologica. Una denuncia indirizzata non solo ai più
piccoli, ma a chiunque abbia voglia
di lasciarsi interrogare da domande
60 POPOLI OTTOBRE 2013
L’Atlantide rossa.
La fine del
comunismo in
Europa
Giornalista di Avvenire, esperto
dell’Europa centro-orientale dove
è stato per anni inviato, l’autore
ripercorre la storia di quella parte del continente sfociata nella
caduta del Muro di Berlino nel
1989. Questo spartiacque ebbe negli anni Ottanta una ricca e complessa preparazione. A partire da
figure di primo piano come Lech
Wałęsa, leader di Solidarnosc (e
autore della Prefazione), il libro
descrive protagonisti politici o
persone comuni, molti dei quali
accomunati nella svolta da un’identità religiosa forte. I fermenti
del cristianesimo (non solo in
Polonia) furono, infatti, determinanti, stimolati dal pontificato di
Giovanni Paolo II.
E sulla dimensione - quasi ovunque non violenta - di quel risveglio democratico può essere utile
rif lettere ancora oggi. [Lindau,
2013, pp. 286, euro 19]
Gustavo Gutiérrez,
Gerhard Ludwig Müller
Dalla parte dei
poveri. Teologia della
liberazione, teologia
della chiesa
Una coppia di autori spiazzante - almeno per gli schematismi
con cui molti valutano le cose
di Chiesa - firma un libro che
sta facendo discutere: si tratta di
Gustavo Gutiérrez, teologo domenicano peruviano, «padre» della
teologia della liberazione, e di
Gerhard Ludwig Müller, prefetto
della Congregazione per la dottrina della fede del Vaticano, scelto
per questo delicato incarico da
Benedetto XVI, che non fu certo
morbido con alcune derive di questa corrente teologica.
Nel momento in cui Müller scrive
che «la teologia della liberazione
svolge un’opera indispensabile per
il servizio della Chiesa di Cristo a
favore dell’umanità» e la definisce
«irrinunciabile», e dal canto suo
Gutiérrez non esita ad ancorare
il messaggio della teologia della
SUL COMODINO DI... Mauro Magatti
Quella lezione di Havel sul totalitarismo
V
Sociologo ed economista,
Mauro Magatti è
professore ordinario
di Sociologia generale
all’Università Cattolica di
Milano. Autore di svariate
monografie e saggi su
riviste italiane e straniere,
è editorialista del Corriere
della Sera.
aclav Havel è un dissidente cecoslovacco che
ebbe un ruolo importante, non solo nel suo Paese ma anche sul piano internazionale, nel quadro
della grande transizione storica che ha portato al
dissolvimento del regime sovietico. Drammaturgo,
Havel viene coinvolto nella vita politica suo malgrado, trascinato dalla indignazione morale che gli
nasceva dal constatare la condizione inaccettabile
nella quale lui stesso, al pari di molti concittadini,
si trovava a vivere.
Uscito nel 1978, Il potere dei senza potere è il primo libro scritto da Havel ed è stato ristampato nel
2013 da Itaca Libri (introduzione di Marta Cartabia,
pp. 208, euro 15). Il volume comincia introducendo
la nozione di sistema post-totalitario per qualificare
il mondo sovietico. Un sistema nel quale la violenza
esplicita viene limitata a casi straordinari, ma dove
è all’opera la costruzione forzosa di una rappresentazione sotto la quale si vuole far rientrare l’intera
realtà. A partire da questa lucida intuizione, Havel
ricostruisce con precisione i meccanismi che sono
all’opera e che consentono a un potere chiuso e
ottuso di stabilizzare la situazione. Un potere che
Havel denuncia come inaccettabile.
Per far questo, Havel si appella a un termine che è
diventato estraneo a noi post-moderni occidentali
che è quello di verità. L’unica via per opporsi a un
regime che si nasconde fino a sembrare invisibile
è fare appello alla verità che emerge dal contrasto evidente tra la vita quotidiana delle persone
e le dichiarazioni, stracolme di ideologia, del
regime. È facendo leva su questo iato che Havel
costruisce la forza del suo discorso e della sua
azione.
Leggere Il potere dei senza potere, a 35 anni dalla
sua prima uscita nella Cecoslovacchia sovietica degli anni Settanta, è un’esperienza impressionante.
Perché leggendo queste pagine si ha la netta sensazione che Havel stia parlando non di un mondo
che non c’e più, ma esattamente di quello che
stiamo vivendo in Italia e in Occidente in questi
anni. Da questo punto di vista, la lettura d Havel è
davvero preziosa. Per almeno tre motivi.
Il primo è che, anche se non sempre ce ne rendiamo conto, anche noi siamo in un regime posttotalitario. Certo molto diverso da quello sovietico.
Formalmente viviamo in un contesto di libertà. Ma
anche la nostra esperienza è plasmata da sistemi
di potere che investono enormi risorse a legittimare
quello che non è legittimabile. Basti citare il caso
della finanziarizzazione e di tutto quello che si è
portato dietro.
Il secondo motivo è che Havel ci indica la via della
dissidenza. Oltre a un certo punto, esiste il dovere
di non accettare ciò che non è accettabile e di assumere una posizione di responsabilità. La dissidenza
non è ancora una proposta compiuta, ma è l’inizio
di una presa di consapevolezza che le cose devono
cambiare.
Il terzo motivo è che Havel mette al centro della
scena non i sistemi che organizzano la nostra società, ma la vita delle persone, le loro speranze, le
loro paure. Cambiare il punto di vista è decisivo: è
da qui che può partire il cambiamento.
OTTOBRE 2013 POPOLI 61
Leggere
CARTA CANTA L’«altro» nella stampa periodica italiana
Sì, viaggiare
I
n estate lo sguardo punta lontano e le pagine dedicate a possibili
mete di spedizioni più o meno esotiche aumentano. Proponiamo
qui tre servizi che dicono la varietà di interazioni possibili tra il «nostro»
Occidente e i più diversi angoli del mondo.
In «Là dove c’era la foresta ora c’è l’olio da snack» (Sette, 26 luglio
2013), Sara Gandolfi ci dice quanto i meccanismi economici e culturali
siano interconnessi su scala globale, raccontando come una merendina
in Occidente possa deforestare l’Oriente e allargare il buco dell’ozono. Il
servizio dà voce alle denunce di Greenpeace: in Indonesia «si bruciano
le torbiere (e si distrugge l’ecosistema) per far posto alle piantagioni di
palma, da cui si ricavano i grassi delle merendine», con l’effetto che 42
milioni di ettari di foresta rischiano di sparire e che ogni anno vengono
rilasciati nell’atmosfera 1,8 miliardi di tonnellate di Co2.
Ma non è solo la domanda di materie prime a generare flussi su
scala planetaria e non sempre la direzione del flusso è quella che
ci aspettiamo. Così la domanda di competenze professionali e know
how ha più che raddoppiato il numero degli italiani emigrati a Dubai,
a un ritmo di cento nuovi arrivi al mese. «Bye bye, vado a Dubai» (D
la Repubblica, 20 luglio 2013) è costruito sulle interviste di Paola
Santoro ad alcuni di questi professionisti: gli elevati stipendi sembrano facilitare l’incontro con una monarchia che si ispira all’Occidente
per molti aspetti, dalla gestione economica allo skyline cittadino, ma
non nel riconoscimento dei diritti civili (niente diritto di voto, pena di
morte, scarsissime tutele per i tanti immigrati asiatici che svolgono i
lavori più umili). Gli ottimi compensi possono far accettare più di un
compromesso, ma non possono essere tutto. Come dice uno degli
intervistati: «Qui l’italiano medio è felice. Non manca nulla della sua
cultura [?!] dell’ultimo ventennio: locali, soldi, donne, macchinoni.
Se sei superficiale, va bene. Altrimenti c’è da lavorare su se stessi.
Nessuno ne parla, ma la solitudine è devastante, e il tasso di suicidi
tra gli expat è alto».
Con «L’inferno sotto il sole dei Caraibi» (Io donna, 20 luglio 2013) ci
spostiamo dal «paradiso» degli emirati a Hispaniola, isola caraibica
condivisa tra Haiti e la Repubblica Dominicana. Giulia Calligaro incrocia
elementi di carattere storico, economico, politico, di costume, tratteggiando il drammatico profilo dei due Paesi. Santo Domingo (Pil pro capite 4.440 dollari/anno, 34% della popolazione sotto la soglia di povertà),
dove grattacieli e centri commerciali svettano sopra veri e propri slum,
«ospita ogni anno più di 4 milioni di turisti tra palme e spiagge candide,
ignari di essere a pochi chilometri da uno dei Paesi più poveri del globo».
Haiti, periodicamente devastata da cicloni e terremoti ed esportatrice di
manodopera verso Santo Domingo, ha un Pil pro capite di 660 dollari/
anno e ha il 70% della popolazione sotto la soglia di povertà. Entrambi
i Paesi sono dipendenti economicamente dall’Occidente: export di materie prime, import alimentare e un terziario che, turismo a parte, vive
in relazione al numero impressionante di Ong (12mila solo ad Haiti).
Ma l’Occidente entra in profondità anche nell’immaginario locale: Santo
Domingo è il Paese al mondo con il più elevato numero di saloni di
bellezza per abitante: perché «la grande ossessione qui sono i capelli
crespi (pelo malo), che rivelano percentuali di sangue nero, e vengono
stirati (pelo bueno) dalle donne fino a bruciarli, nei quartieri più ricchi
come in quelli popolari, dove ci si indebita per una messa in piega».
Elvio Schiocchet e Maria Grazia Tanara
62 POPOLI OTTOBRE 2013
liberazione al magistero sociale
della Chiesa e degli ultimi pontefici e prende le distanze dal marxismo nell’approccio al problema
della povertà, sembra davvero
giunta l’ora di una definitiva riconciliazione. O forse, semplicemente, cresce nella comunità
cristiana la consapevolezza che il
cristiano può essere da una sola
parte, quella appunto dei poveri.
[Coed. Messaggero Padova-Emi,
2013, pp. 192, euro 15]
Pietro Kuciukian
Dispersi. Viaggio fra
le comunità armene
nel mondo
«Kuciukian ci fa percepire che cosa vuol dire oggi essere armeni e
mette subito in chiaro che il problema della memoria non è una
questione di ieri, una pura diatriba
storica, ma riguarda la condizione
esistenziale delle nuove generazioni». Così scrive Gabriele Nissim,
ebreo, nell’Introduzione a questo
lavoro di esplorazione delle comunità armene della diaspora nel
mondo e di scavo della memoria.
L’intento dell’autore - parzialmente
realizzato perché i Paesi con presenza armene sono numerosi - è di
riunire i dispersi dell’altro grande
genocidio europeo del Novecento,
avvenuto nell’impero ottomano in
disfacimento (1915-1917) e che la
Turchia moderna non ha mai riconosciuto. Kuciukian viaggia per
raccogliere le tracce e i volti di un
popolo dalla forte identità, che si
trova solo in parte (3 milioni su 11)
a vivere nell’Armenia indipendente.
[Guerini e associati, 2013, pp. 228,
euro 16]
Daniela Sangalli,
Aldo Corradi
In cammino
con i miei poveri
Un libro per conoscere la storia
sofferta e la complessa attualità del Guatemala, attraverso gli
occhi di uno dei vescovi centroamericani più noti e amati. Monsignor Álvaro Ramazzini, presule
di Huehuetenango, è conosciuto
anche come il vescovo dei «senza
terra», ed è particolarmente impegnato su temi scottanti dell’attualità centroamericana: i diritti
umani, la condizione dei migranti,
la salvaguardia dell’ambiente. Per
questo suo impegno Ramazzini ha
ricevuto minacce di morte negli
ultimi anni e ha vissuto quasi un
anno sotto scorta.
Ritratto di una figura che, come
scrive don Alberto Vitali nella
Prefazione, si pone in continuità
con vescovi del calibro di Samuel
Ruiz, Hélder Câmara, Óscar Romero: «Sono questi i pastori che
hanno incarnato nei decenni successivi alla Conferenza di Medellín l’opzione preferenziale per i poveri. Sono quelli che hanno saputo
rivelare a tutti noi il volto solidale
e materno della Chiesa». [Paoline,
2013, pp. 176, euro 12,50]
Nello Scavo
La lista di Bergoglio.
I salvati da papa
Francesco
All’indomani dell’elezione di Jorge
Mario Bergoglio al soglio pontificio vi fu chi, in Argentina, sollevò
dubbi sul ruolo del futuro Papa
durante gli anni della dittatura,
insinuando una sua connivenza
con i militari o quantomeno un’eccessiva prudenza nella difesa dei
diritti umani.
Dopo le immediate e decise smentite, arriva ora questo volume a
rendere definitivamente giustizia
alla verità. Frutto di un’accurata
ricerca giornalistica, Nello Scavo,
giornalista di Avvenire, ricostruisce le vicende di quanti - dissidenti, sindacalisti, preti, studenti,
intellettuali, credenti e non - l’allora superiore provinciale dei gesuiti riuscì a mettere in salvo dalla
persecuzione politica della giunta
militare.
E non si trattò di episodi sporadici: Bergoglio aveva costruito una
vera e propria rete clandestina
per salvaguardare i perseguitati (a
cui offriva anche preziosi consigli
su come depistare la polizia e la
censura) e organizzare le fughe
all’estero. [Emi, 2013, pp. 192,
euro 11,90]
Gianluca Solera
Riscatto
Mediterraneo
La Primavera araba, aprendo una
fase epocale di cambiamento, ha
portato al centro delle cronache la
sponda meridionale del Mediterraneo. Ma chi sono i protagonisti di
questa rivolta? Come si muovono e
come si organizzano? E quali prospettive di reale cambiamento offrono alla regione? Secondo l’autore,
che vive in Egitto e che ha compiuto
un lungo viaggio in Medio Oriente e
in Nord Africa, è in atto un profondo
rivolgimento sociale che sta portando a un graduale (e non privo di
contraddizioni) superamento degli
assetti politici ereditati dalle vecchie
dittature. Quale sarà il punto di arrivo della rivolta? Solera è ottimista
e crede che il naturale sbocco di
questi rivolgimenti non potrà che
BABEL Radici straniere, parole italiane
«S
iamo cresciute in un mondo in cui il nostro stesso
respiro ci soffocava, confinate nelle regole irremovibili della repressione». È una frase che da sola dà il tono
del libro La rivolta dei dittatoriati (Mesogea 2013), scritto
da Ouejdane Mejri e Afef Hagi. Le due donne tunisine
raccontano con passione e lucidità la loro Rivoluzione dei
gelsomini, vissuta dall’Italia, attraverso i media e i social
network, ma sapendo che le loro famiglie erano in prima
linea a manifestare in Tunisia.
C’è dunque un doppio, meritevole sforzo dietro a questa
storia. Da una parte, per scrivere il libro Mejri e Hagi hanno
dovuto attingere alla propria biografia, a quello che stavano vivendo, hanno dovuto scavare dentro, interrogarsi e
mettersi in discussione. Dall’altra le autrici hanno deciso
di scrivere il libro in italiano e di pensarlo dunque per un
pubblico non direttamente coinvolto nelle vicende tunisine.
Ouejdane insegna Informatica al Politecnico di Milano, fa
ricerca nell’ambito dell’uso delle tecnologie in contesti di
crisi, è blogger e presidente dell’Associazione dei tunisini
in Italia Pontes. Afef, anche lei esponente dell’associazione Pontes, è invece laureata in Psicologia a Parigi e svolge
attualmente un dottorato di ricerca sui processi culturali e
formativi presso l’Università di Firenze.
OUEJDANE MEJRI,
AFEF HAGI
La rivolta
dei dittatoriati
Mesogea 2013
pp. 144, euro 15
OTTOBRE 2013 POPOLI 63
Leggere
essere l’adozione di nuove istituzioni
democratiche che assicurino una
maggiore partecipazione popolare
alla vita politica. [Nuovadimensione,
2013, pp. 256, euro 17]
Paolo Trianni e Marco
Vannini, (a cura di)
Nella caverna del
cuore. L’itinerario
mistico di Henri
Le Saux in India
Forse Henri Le Saux (1910-1973) è
stato l’unico, ma almeno lui ci è riuscito, a divenire hindu e rimanere
fedele a Cristo. Abhishiktananda fu
il nome indiano che si scelse e che
significa: «Colui che trova la sua
gioia nel Cristo, l’Unto del Signore».
A lui è stato dedicato un convegno
a Camaldoli (22-24 ottobre 2010)
nel centenario della nascita. Ora,
con lodevole iniziativa, la Rivista
di ascetica e mistica ne pubblica gli
atti. Si tratta di un prezioso con-
tributo per la conoscenza di questo
monaco benedettino, ancora poco
noto, che ha raggiunto l’esperienza
mistica della unione con il divino,
l’advaita. In essa ha potuto svelare
il mistero della Trinità cristiana al
mondo hindu in modalità a esso
comprensibili ed entrare nel mistero
di Dio come un hindu lo percepisce.
Scriveva sul suo diario spirituale:
«Nella mia guha (caverna) è la guha
di Cristo. Nella guha di Cristo è la
guha del Padre, nella guha del Padre, io sono». [Rivista di ascetica e
mistica, n. 2/aprile-giugno 2013,
pp. 103, euro 15]
Edoardo Zin
Robert Schuman.
Un padre
dell’Europa unita
aiuta a comprendere la figura di
uno degli ideatori politici dell’Europa integrata, lo statista artefice
della Dichiarazione del 9 maggio
1950, a mezzo secolo dalla morte.
Quel documento, firmato da Schuman in qualità di ministro degli
Esteri della Francia, è convenzionalmente considerato l’atto di nascita del processo di integrazione
europea. Le origini culturali dello
statista legate al mondo renano, la
fede cristiana e il coraggio politico
proprio di una generazione uscita
dalla guerra mondiale sono elementi tratteggiati in questa breve
biografia di un uomo che, come
osserva Romano Prodi nella Prefazione, sapeva mettere a fuoco la
Germania e le relazioni tra Stati
europei in un modo che aiuterebbe
nel contesto di oggi. [Editrice Ave,
2013, pp. 126, euro 12]
Mentre l’Unione europea vive una
fase di lacerazioni non solo economiche, questo saggio su Schuman
Puoi leggere Popoli
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8 ottobre
Milano
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64 POPOLI OTTOBRE 2013
Presentazione di La lista di
Bergoglio. I salvati di papa
Francesco, di Nello Scavo.
Nella sede di Popoli, P.za
S. Fedele 4, ore 18.30
ottobre-novembre
Varese-Como
Frontiere letterarie, festival
per abbattere le frontiere
territoriali e mentali.
Tra gli ospiti il «nostro»
Giacomo Poretti
www.frontiere-letterarie.it
Guardare
Il passato
Il film più «europeo» di Farhadi, conferma la
grandezza del cineasta iraniano, che racconta
le fratture di una famiglia complessa
«T
utto ciò di cui siamo
sicuri è il dubbio»,
dice uno dei protagonisti
di Il passato, primo film
«francese» del regista iraniano Asghar Farhadi. E
l’incertezza della verità era
anche il tema centrale del
suo precedente capolavoro,
Una separazione.
Farhadi prende ancora
spunto da una situazione comune: una gita, una
rottura, un divorzio. Apre
ogni film su un dettaglio
quotidiano conosciuto e ordinario, per poi indagare le
sfumature, la complessità
degli uomini e del mondo.
In Una separazione, una
fotocopiatrice in movimento, volti indistinti, identità
fuori fuoco.
Il passato - premio della
giuria ecumenica all’ultimo Festival di Cannes e in
uscita a dicembre nelle sale
italiane - inizia invece con
l’arrivo di un uomo durante
un temporale. Tergicristalli
in movimento tentano di
ripulire il parabrezza dalla
pioggia, ma anche di cancellare il titolo che emerge
dal buio: Le passé. I tergicristalli sembrano quasi
ottenere un risultato, ma il
titolo resiste, ritorna. Come
a dire, fin dai primi fotogrammi, che «il passato»
non può essere rimosso in
nessun modo. Non basta
non pensarci. Metafora
chiara: e tutto il film è
costruito sugli sguardi dei
personaggi, sui movimenti
nervosi dei loro corpi. Mani
si sfiorano dicendo qualcosa che non può essere afferrato del tutto, nemmeno
nello straordinario finale
in una stanza d’ospedale. I
dialoghi aggiungono frammenti su frammenti al puzzle delle relazioni umane.
Chi pensava che il primo
film realizzato in Europa
da Farhadi potesse coincidere con una occidentalizzazione o con un possibile
snaturamento dello sguardo personale e profondo
del regista, si deve ricredere. La potenza del suo
cinema, infatti, è racchiusa
ancora una volta proprio
nella capacità di inquadrare rapporti infranti, persone e silenzio, forse come
nessun’altro oggi. Parla con
i volti dei propri attori, co-
DOCUMENTARI a cura di BiblioLavoro - Cisl Lombardia
Nel mese missionario, presentiamo alcuni documentari sul tema
CHIQUITANÍA - LA MUSICA DEGLI INDIOS
Regia di Daniel Baldotto. Italia, 2002, 55’
La musica nelle missioni dei gesuiti del Sud America fu un importante strumento di diffusione della fede cristiana, come racconta anche il reportage a p. 30.
MFUMU MATENSI, L’ONCLE MISSIONNAIRE
Regia di Samuel Tilman e Nicolas de Borman. Belgio, 2003, 54’
Victor Mertens, conosciuto anche come Mfumu Matensi, è stato un missionario gesuita belga attivo in Congo dove visse per oltre sessant’anni guidando la
Compagnia di Gesù negli anni che portarono il Paese all’indipendenza. La sua
lunga vita è raccontata al pronipote arrivato in Congo per incontrarlo.
VERBA MANENT
A cura di Nova-T Produzioni televisive e multimediali. Italia, 2013
Serie di web documentari in cinquanta episodi con testimonianze di missionari
in terre «estreme» raccolte dal Centro di produzioni televisive e multimediali dei
frati cappuccini, fondato a Torino da padre Ottavio Fasano.
Per il prestito dei video:
BiblioLavoro (libri - video - archivi storici) tel. 02.24426244 - [email protected]
lori della pelle e Paesi di
provenienza diversi, culture contrastanti e forse
inconciliabili. Farhadi è un
osservatore unico e straordinario della bellezza, della
multiformità e del dolore
dell’uomo. Del suo inestirpabile male quotidiano.
Tra incomprensioni, tensioni, confessioni mai dette
e traumi, il film racconta un’altra separazione,
tra l’iraniano Ahmad (Ali
Mosaffa) e Marie (Bérénice Bejo, migliore attrice a
Cannes), che vive da diversi anni a Parigi con Samir
(Tahar Rahim), francese
beur (di origine nordafricana), e tre ragazzini.
Il regista si concentra soprattutto sui propri magnifici attori, soffre con loro,
con grazia, onestà e pudore. Si limita a osservare, a
mettere a fuoco il dolore
che ogni rottura trascina
con sé, negli anni. Lascia
sottintesa - ma evidente
come i titoli - l’importanza
di un dialogo vero, sincero
e profondo tra le persone. Sa dare un contorno
cinematografico, nitido e
spiazzante, all’inafferrabile
animo umano.
Luca Barnabé
OTTOBRE 2013 POPOLI 65
Guardare
A cura dell’Osservatorio Media Research di Pavia
Da dimenticate a invisibili:
le crisi umanitarie nei Tg
Nel 2012 solo 4 notizie su 100 nei telegiornali italiani della sera
sono state dedicate alle guerre e alle emergenze umanitarie nel mondo
L
e crisi umanitarie stanno scomparendo dall’agenda dei telegiornali nella
fascia di massimo ascolto.
Il 9° Rapporto di Medici
senza frontiere (Msf) su Le
crisi dimenticate dai media nel 2012, realizzato in
collaborazione con l’Osservatorio di Pavia, ha preso
in esame la copertura delle
crisi umanitarie nei sette
notiziari italiani di prima
serata (tre pubblici e quattro privati): nel corso del
2012 i notiziari hanno de-
dicato solo il 4% a contesti
di crisi, conflitti, emergenze sanitarie e umanitarie.
Si tratta del dato più basso
dal 2006 a oggi, da quando
Msf ha avviato un monitoraggio dei Tg.
Distribuzione per eventi
e/o scenari di crisi umanitarie internazionali. Quando si parla di crisi, in quasi
due terzi dei casi ci si riferisce a scenari di guerra e
di conflitto (67%). La parte
più significativa è occupata da due contesti: la Siria,
con il 26% (pari a 506 notizie) e l’Afghanistan con il
15% (a 292 notizie). Segue
lo spazio attribuito a singoli eventi critici, seconda
voce dell’agenda delle crisi
con il 35%, in particolare
ai rapimenti e alle proteste.
La «notiziabilità» (la visibilità di alcune aree) è collegata a singoli eventi, che
vedono il coinvolgimento
di cittadini occidentali, italiani nella maggior parte
dei casi.
Notizie su epidemie (13,
Festival
A Trento, tutti nello stesso piatto
È
giunto alla 5ª edizione un appuntamento molto atteso a Trento: il festival cinematografico Tutti
nello stesso piatto (5-27 novembre, www.tuttinellostessopiatto.it), organizzato da Mandacarù
Onlus, cooperativa di commercio equo, e Consorzio Ctm-Altromercato, che declina a 360º il tema del
cibo, affrontando questioni che spaziano dalla filiera di produzione ai cambiamenti climatici all’accaparramento energetico. «Se negli scorsi anni al Festival arrivavano
molte produzioni legate agli aspetti più glamour del cibo - spiega
la direttrice del Festival, Beatrice De Blasi - quest’anno prevale
nettamente un taglio di giornalismo investigativo, con grande attenzione alla violazione dei diritti umani». E infatti i temi dominanti
tra i 45 documentari e film, sono gli effetti nefasti, su popolazioni e
ambiente, delle perforazioni per l’approvvigionamento del petrolio
e gli spostamenti forzati di popolazioni intere causate da land grabbing o costruzioni di dighe.
Il Festival aprirà con il documentario Glacial Balance, dedicato a Roberto Filippi, glaciologo trentino
scomparso nel 2011, un viaggio di cinque anni dall’Argentina alla Colombia per conoscere lo scioglimento dei ghiacciai e capire che impatto hanno sulla nostra tavola. Ogni proiezione serale sarà
preceduta da una degustazione di piatti che i cuochi del circuito Slow food hanno creato, con prodotti locali e del commercio equo-solidale. Ai film che saranno proiettati presso il Museo di Scienze
di Trento (Muse) seguirà un dibattito con ricercatori.
Il Festival presenta un Focus sulla Cina con De Regenakers, dell’olandese Floris-Jan van Luyn, indagine su quattro attivisti che non accettano il degrado ecologico della loro terra, e Waking the Green
Tiger del canadese Gary Marcuse, straordinaria lotta di giornalisti e agricoltori contro la costruzione
di una diga sullo Yangtze che forzerebbe 100mila persone ad abbandonare le proprie terre.
Infine, il pluripremiato Solar Mamas: due giordane rischiano di essere cacciate di casa perché hanno
osato partecipare a un corso di formazione rivolto a donne analfabete. In sei mesi hanno imparato
a costruire pannelli solari, garantendosi così un mestiere e indipendenza economica. Il film fa parte
della campagna «Why Poverty», e l’organizzazione del Festival, che ha ottenuto i diritti dalla produzione sudafricana, lo distribuisce gratuitamente a tutte le organizzazioni che lo chiedono.
pari allo 0,6%) riguardano
in metà dei casi Hiv/Aids,
alla malnutrizione sono
dedicate 11 notizie, mentre
alle calamità naturali sono
dedicati 26 servizi (1,3%).
Come nei Rapporti precedenti realizzati dall’Osservatorio di Pavia per Msf, si
rileva la visibilità continua
di alcune crisi particolarmente gravi (come la Siria), la visibilità «ciclica»
di altre (come il Sudan, di
cui si è parlato in occasione
dell’arresto di George Clooney durante un sit-in di
protesta davanti all’ambasciata sudanese negli Usa)
alternata a lunghi silenzi;
e, infine, l’invisibilità cronica di alcune crisi che non
hanno ricevuto, nel 2012,
alcuna copertura mediatica (è il caso della Repubblica Centrafricana dov’è
in corso una grave crisi
sanitaria e umanitaria a
seguito della guerra civile).
Anche le malattie tropicali
neglette, tra cui malattia
del sonno, malattia di Chagas o la stessa tubercolosi
sono state sostanzialmente
ignorate.
Prossimità e decontestualizzazione delle crisi risultano essere due elementi
specifici della notiziabilità
delle crisi umanitarie internazionali nei Tg italiani.
Nel corso del 2012 non è
mancata una copertura vasta e appropriata di situazioni di crisi gravi, drammatiche e prossime (come
Siria e Medio Oriente). Si
è verificata, però, una sottorappresentazione di crisi
umanitarie meno eclatanti,
ma dalle conseguenze non
meno gravi. Quando le crisi umanitarie nel mondo
non sono vicine (il caso,
nel 2012, della Nigeria),
lo diventano perché vi sono coinvolti nostri connazionali. Per questo si può
parlare di decontestualiz-
zazione: l’area o il Paese
in cui è in corso una crisi
umanitaria non sono raccontati in ragione di quella
crisi, ma per eventi relativi
a vicende che toccano da
vicino l’Italia. Così si parla
di Mali quando viene liberata la cooperante Rossella
Urru, o di Nigeria, di cui
si è ampiamente parlato in
occasione dell’uccisione di
un ostaggio italiano, Franco Lamolinara.
I Tg nel 2012 si sono sempre più dedicati alla crisi
economica in Italia e in
Europa e di conseguenza
alla politica, tanto da ridimensionare anche le soft
news (curiosità, gossip, costume). Tuttavia, la pagina
di «Curiosità e costume»,
pur in diminuzione, occupa il 6% del totale.
Qualche confronto. Se le
«crisi umanitarie» trovano sempre meno spazio, la
«fine del mondo» profetizzata dai maya ha invece
conquistato 30 notizie. La
classica «emergenza fred-
do», con l’arrivo dei malanni di stagione, 39 notizie.
Ancor più grande l’attenzione al mondo animale:
70 notizie in un anno di
informazione serale, con
racconti di formichieri rimasti orfani e di gatti obesi
abbandonati dai padroni.
Come ha scritto José Saramago nel romanzo Cecità:
«Perché siamo diventati
ciechi, Non lo so, forse un
giorno si arriverà a conoscerne la ragione, Vuoi che
ti dica cosa penso, Parla,
Secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me
lo siamo, Ciechi che vedono, Ciechi che, pur vedendo, non vedono».
Paola Barretta
Pippo Delbono
«Il mio incontro con l’Africa che sa ridere»
R
egista, attore teatrale e cinematografico, in ottobre al Piccolo Teatro di Milano con il suo ultimo spettacolo, Pippo
Delbono è una tra le più significative voci del nostro panorama
culturale, molto conosciuto anche all’estero. Spesso veemente
nello svelare ipocrisie e derive morali della società contemporanea, ha sempre considerato il confronto con la diversità un
momento cruciale della sua ricerca. Un’inquieta curiosità che lo
ha spinto, nel corso della sua trentennale attività, in decine di
Paesi. Risale ad appena qualche mese fa l’incontro con il Senegal e il potente battesimo dell’Africa Nera.
Cosa l’ha indotta ad approdare in Africa subsahariana?
L’Africa è uno di quei luoghi che appartengono alla nostra comune storia di uomini, e non potevo esimermi, come artista, da un
contatto diretto. Era importante stare, esserci in questo luogo
della Terra dove si soffre e si muore, ma che è al tempo stesso
il più ricco di vitali contraddizioni, tanto da costituire la verosimile
prospettiva futura del pianeta. È inoltre il luogo in cui ritrovi l’origine di moltissime cose, di quasi tutte le musiche ad esempio,
e all’origine bisogna avere il coraggio di tornare.
Che cosa le ha lasciato di più prezioso questo viaggio?
Qualcosa che ha a che fare con lo stomaco, la carne, la pesantezza ma anche la leggerezza. Una pesantezza che senti nel modo di confrontarsi retrivo, perfino fascista, con la religione, le donne, l’omosessualità o l’Aids, alla quale si associa una leggerezza
straordinaria nel rapporto con la gioia, la sensazione di essere
parte di un tutto e la capacità di essere poveri senza lasciare
che la povertà spezzi la relazione con la felicità. Prima di riprendere l’aereo sono capitato in mezzo a un gruppo di donne che
ho filmato per più di un’ora mentre ridevano e manifestavano
con intensità sorprendente la propria gioia, pur non possedendo
quasi nulla. Quando sono arrivato a Parigi, ho riascoltato la gente
parlare di crisi, con tristezza e nostalgia per qualcosa di perduto.
Noi abbiamo perduto ciò che l’Africa conserva: il rapporto con la
felicità, la natura, l’energia presente. Ci sono molte signore, in
Europa, cui occorrerebbe una vita intera per ridere quanto quelle
donne in un’ora e mezza. Pensiamo sempre a come eravamo o
a come vorremmo essere e viviamo poco nel presente. Siamo
fuori ritmo. Abbiamo un serio problema con il ritmo.
E a livello professionale quali tracce ha lasciato l’Africa?
Nell’ultimo spettacolo, Orchidee, ci sono immagini che ho ripreso
da queste donne in festa e alcune parole del poeta Senghor.
Ma si tratta solo di un primo passo cui dovrebbe seguire un
progetto da realizzare in Senegal tra il 2014 e il 2015. Sarebbe
arrogante, dopo una permanenza di due settimane, pretendere
di raccontare l’Africa nella sua complessità. È una terra su cui
abbondano idee retoriche, banali, da cui occorre prendere le
distanze con una conoscenza approfondita. Mi considero un
uomo che è entrato da una piccola porta e ha appena sbirciato.
OTTOBRE 2013 POPOLI 67
Vincenzo Maria Oreggia
Ascoltare
Se la cover è meglio
dell’originale
Autori arabi e israeliani hanno riproposto vecchi
successi con risultati ottimi sia dal punto di
vista sonoro sia da quello dell’interpretazione
A
volte le «copie» sono
migliori degli originali. Non succede molto
spesso, ma accade che in
campo musicale le cover
(ovvero i rifacimenti) possano superare in originalità e complessità le versioni
originali. Spesso si tratta
di classici e, a volte, persino di hit, che vengono
ripensati e riproposti in
modo inconsueto o alternativo, al punto da arricchire di nuove sonorità la
traccia storica. Qui parleremo di quello che possiamo definire «East meets
West», ovvero l’Oriente che
incontra l’Occidente.
Iniziamo da Israele, dove il
patrimonio culturale degli
ebrei mizrahi (provenienti
dal Nordafrica e dal Medio
Oriente, o meglio, da tutti
quei Paesi a maggioranza
musulmana tra Mediterraneo e Asia Centrale) ha
portato numerosi artisti di
questo ceppo a cercare di
connettersi con le radici
della cultura araba in cui i
loro genitori e nonni hanno vissuto per generazioni.
Ciò si nota in particolare in
campo musicale.
I Mashrou’ Leila
Paradossalmente, alcuni
artisti ebrei israeliani di
origine mizrahi hanno un
significativo seguito nei
Paesi confinanti, proprio
perché cantano anche in
arabo. Come, ad esempio,
Zehava Ben e Eyal Golan, di stirpe marocchina:
stessa cosa per la star Sa-
rit Hadad, metà tunisina
e metà caucasica. Ben e
Hadad hanno incluso nel
loro repertorio dal vivo
alcuni grandi classici di
Umm Kulthum, leggendaria cantante egiziana che
ha segnato per sempre la
storia musicale dei Paesi
arabi. Accomuna le folle
D
68 POPOLI GIUGNO-LUGLIO 2013
al 1997 (ogni sabato, ore 20,30-22,30) va
in onda su Radio Onda d’Urto (Bs) Vivara,
programma della comunità srilankese. Vivara in
cingalese significa «guardare nella profondità delle
cose» ed è questo lo spirito del programma condotto
da Vigit, cingalese da oltre vent’anni in Italia.
Il programma inizia con una sintesi in italiano delle
notizie che riguardano lo Sri Lanka e la comunità
srilankese in Italia, poi prosegue in lingua cingalese.
Dopo una canzone scelta in base alla puntata, Vigit
apre uno spazio dedicato ai più piccoli. «Ci seguono
molte famiglie - spiega -. Inoltre la nostra associazione
Solidarietà Sri Lanka-Italia (300 famiglie iscritte su
5mila cingalesi residenti a Brescia) ha creato una
scuola, che i bambini frequentano la domenica, per
imparare cultura, lingua e storia del nostro Paese.
Questi bambini vengono quindi coinvolti in registrazioni
di fiabe per loro».
Dopo lo spazio dedicato all’infanzia segue uno spazio
dedicato ai temi legati all’immigrazione. Non manca
poi un Gr di notizie nazionali e internazionali. La
trasmissione si chiude con un approfondimento sulla
politica cingalese.
10-13 ottobre
Roma
Al Parco della Musica,
si tiene il Festival del
flamenco con i migliori
interpreti del genere.
www.auditorium.com
13 ottobre - 2 marzo
Milano
XXIX Stagione di
«Aperitivo in concerto»
dedicata alla musica
afroamericana.
aperitivoinconcerto.com
israeliane, così come i fan
di fede islamica, la commovente Enta omri (Sei
la mia vita), cavallo di
battaglia proprio di Umm
Kulthum (che la incise nel
1965), eseguita dalla Hadad anche nel corso di
tour europei.
Il giovane rocker Dudu
Tassa è diventato famoso nel
2005 per una
versione moderna del classico
iracheno Fog
el nakhal (Sopra le palme),
che affonda le
ZEHAVA BEN
radici nella tra- ENTA OMRI
dizione anti- 2008
ca del maqam.
Questo motivo fu portato al successo da Nazem
Al-Ghazali, uno tra i più
famosi autori e interpreti
popolari iracheni del XX
secolo. E se Tassa, in onore
alle ascendenze irachene
della sua famiglia, riprese
questa canzone in arabo,
farcendola di sonorità moderne, c’è chi in Italia ha
scelto la stessa per una
versione mistica. Ci riferiamo a Franco Battiato,
che nel 1992, eseguì la sua
personale versione di Fog el
nakhal proprio a
Baghdad.
Le traiettorie
della musica si
beffano dei conflitti, dei muri
e degli «scontri
tra culture». Il
pezzo è stato
poi inserito anche nell’album-omaggio a
Giuni Russo Cercati in me
(uscito postumo nel 2008).
Per tornare invece a cover di pezzi più recenti
e mainstream, rimaniamo
ancora tra Israele e Europa,
con l’israeliana di origine
franco-tunisina
Yael Naim, balzata all’onore
delle cronache
qualche anno fa
per suoi due accattivanti pezzi
scelti
rispettivamente per YAEL NAIM
una pubblicità YAEL NAIM
di una gran- 2008
de compagnia
americana di computer e
di un’azienda italiana del
settore alimentare. Detto
questo, nel 2008 la Naim
ha utilizzato la sua superba
voce per rivoltare come un
calzino la patinata e osé
Toxic di Britney Spears.
Regalandoci una versione
cover di gran lunga più
bella della hit originaria.
Ci spostiamo di pochi
chilometri e andiamo in
Libano, turbolento Paese
arabo confinante. Qui la
giovane e talentuosa band dei
Mashrou’ Leila
sta crescendo
in popolarità
in modo vertiginoso in tutto
il bacino mediorientale, sia
grazie a ottime
produzioni originali, che a cover intriganti.
Come Ghadam Yawmon
Afdal (Domani sarà un
giorno migliore, 2011),
riproposizione delle hit
dell’album Clint Eastwood
dei Gorillaz, e Ma tetrekni
heik (2013), versione levantina di Ne me quitte pas del chansonnier
Jacques Brel.
Alessandra Abbona
STRUMENTI
Baglama
I
l baglama, detto anche saz (da noi
è noto come chitarra saracena), è
uno strumento a corde simile al liuto,
diffuso principalmente in Turchia, nella
regione balcanica e nell’Asia Centrale.
Di origine antica, è considerato il
simbolo della musica folk turca. Ne
fa accenno la saga di Dede Korkut,
risalente al XV secolo, ma strumenti
cordofoni simili (come il kopuz) fanno
parte del patrimonio sonoro delle
tribù turche dell’Anatolia e dell’Asia
Centrale da almeno due millenni.
Come il liuto, il baglama ha una cassa
armonica panciuta e un manico piuttosto lungo. Possiede due coppie di
corde più un terzetto (sette corde in
totale): può essere regolato su varie
sonorità e prendere diversi nomi a
seconda della zona in cui viene utilizzato. Il cura è lo strumento più piccolo
della famiglia dei baglama, mentre il
divan sazı è il più voluminoso. Lo strumento si divide in tre parti: il guscio
(che può essere prodotto in legno di
gelso, ginepro, faggio, abete, noce),
quindi la tavola armonica (in abete) e
il manico (che dev’essere di abete o
di faggio).
Viene suonato pizzicandone le corde
con un plettro (detto tezene) in corteccia di ciliegio o anche plastica oppure
con le dita, nel classico stile noto
come selpe. Questo strumento viene
impiegato nella musica popolare e
classica di tradizione ottomana, con
estensioni anche nelle regioni curde,
Siria e Iraq. Anche nella vicina Grecia
il baglama è piuttosto usato, in particolare nel rebetiko, genere musicale
popolare come lo sono il blues negli
Stati Uniti e il tango in Argentina.
Tra i musicisti contemporanei di una
certa notorietà che si sono cimentati
con il baglama vi è il turco Zülfü Livanelioglu, classe 1946, artista poliedrico (cantautore, scrittore giornalista
e regista). Livanelioglu viene definito
«il Bob Dylan turco», per la sua felice
fusione tra musica folk e musica
moderna. Molto ampia è la sua discografia, che testimonia una carriera
quarantennale. Tra i tanti riconoscimenti anche il Premio Tenco in Italia,
ovvero l’Oscar della musica d’autore
e di qualità.
a.a.
OTTOBRE 2013 POPOLI 69
Benvivere
Hai poco tempo?
Fai volontariato!
A Milano, un sito rende possibile, anche per
brevi periodi, trovare forme di impegno sociale
Q
uando si tratta di fare del volontariato,
la maggior parte di noi
sente una spinta emotiva, ma incontra spesso il
freno del tempo. «Ho solo
due ore libere! Mi piacerebbe, ma proprio non
riesco». Sono queste le
frasi che si sentono dire.
Ma è stato proprio questo
vincolo a solleticare Odile
Robotti, manager milanese, docente universitaria,
che nel 2008 ha creato il
primo network in Italia
di volontariato flessibile,
a portata di click (www.
milanoaltruista.org).
È sufficiente andare sul
sito, visionare il calendario con l’elenco di tutte
le attività divise per tipologia e luogo (si va dal
lavoro con i senza fissa
dimora alla tinteggiatura
delle scuole, dalla creazione di murales all’accudimento di anziani),
scegliere quella per cui si
è disponibili - anche solo
per due ore al mese - e
iscriversi.
«Nel 2008 volevo fare
volontariato, ma scoprii
che non era così facile. Anzitutto su Internet
non esisteva un sito che
aggregasse le varie possibilità. Una volta superato il primo ostacolo e
recuperati i recapiti ho
scoperto che le associazioni richiedevano un
70 POPOLI OTTOBRE 2013
colloquio, un corso di
formazione e una garanzia di continuità. Ma chi
ha poco tempo in questo
modo viene disincentivato. Questo approccio mi
ha intimidito». Odile non
si è rassegnata e ha iniziato a documentarsi per
trovare una formula che
permettesse a chiunque
di poter fare volontariato.
E così è volata negli Usa
per conoscere la realtà
dell’associazione Hands
Zone, che l’ha fatta entrare in contatto con alcune realtà di New York
e Washington. Odile ha
importato il modello in
Italia e ha fatto nascere
l’associazione, che si è
affiliata a Hands Zone.
«Il nostro sito - spiega
- non solo aiuta gli aspiranti volontari a trovare
l’attività a loro più adatta, ma dà una mano anche alle Onlus a trovare
i volontari con le carat-
teristiche giuste per raggiungere i loro obiettivi
e, se possibile, ampliarli».
Finora hanno partecipato
circa un migliaio di persone, soprattutto donne
di età compresa tra 30 e
40 anni.
SOLIDEE
«Amici di Lazzaro» in strada contro la tratta
A
Torino il numero di prostitute nigeriane
è sensibilmente aumentato dal 2011.
Molte di queste donne sono arrivate dalla
Libia, ottenendo il permesso di soggiorno
per motivi umanitari. Di queste, 310 (il 78%)
risultano sfruttate da maman o bros (protettori). Portate in Italia con l’inganno, si trovano costrette a prostituirsi dietro il ricatto e le
minacce di ripercussioni sulle loro famiglie.
Avvicinarle e aiutarle non è facile. Da quindi-
ci anni l’associazione «Amici di Lazzaro» se
ne occupa ed è riuscita a liberare centinaia
di ragazze da questa schiavitù.
L’Associazione sta cercando dieci volontari
tra i 18 e 30 anni che svolgano attività di
strada contro lo sfruttamento. Una volta
formati, accompagnati da esperti, cercheranno di parlare con le ragazze, dando loro
informazioni sulla possibilità di scappare e
trovare un rifugio sicuro, una nuova identità.
Un’attività che richiede tempo in
quanto incontra un’iniziale resistenza. Le ragazze infatti sanno
che possono esporre le loro famiglie a ritorsioni e sono quindi
restie a ribellarsi. Una volta trovato
il coraggio per affrancarsi, però,
difficilmente tornano indietro. Info:
www.amicidilazzaro.it
HABITAT
Green concept, l’architettura che rispetta l’ambiente
L
e istanze ambientali rappresentano per architetti
e ingegneri uno stimolo a progettare costruzioni
sempre più speciali sul piano tecnologico e su quello
della creatività. L’inserire elementi innovativi è diventato ordinaria amministrazione e, pur in un panorama
generale non incoraggiante, spiccano alcuni esempi
virtuosi di architettura ecosostenibile.
Come il Correctional Institution di Hong Kong, prigione femminile nel quartiere di Lo Wu che non solo
ha tutte le caratteristiche per ospitare e riabilitare i
detenuti, ma è stato costruito e progettato per essere
ecosostenibile: dai tetti ecologici all’impianto solare
termico che fornisce acqua calda, dall’illuminazione
naturale al sistema di ventilazione potenziato. La sfida è stata raccolta e amplificata dalla Germania. Ad
Amburgo, città che quest’anno ospita l’International
Building Exibition, centinaia di nuove costruzioni sono
state realizzate ispirandosi al green concept. Tra esse
la Soft House progettata dal Massachusetts Institute
of Technology di Boston. Questa presenta, oltre a tutte
le dotazioni dei normali edifici, un’innovativa «facciata
dinamica» che, tramite elementi tessili e moduli a
inseguimento solare, cattura energia con un’altissima efficienza su tutta la superficie verticale esterna
dell’edificio.
Un altro esempio attento alle esigenze ambientali
è rappresentato dalle due torri di Francoforte, sedi
della Deutsche Bank. Inizialmente chiamate scherzo-
samente «Debito e Credito», ora sono state ribattezzate dai media Green Towers. Mario Bellini, architetto
italiano, ha curato la ristrutturazione dei due grattacieli
riuscendo non solo a riciclare il 98% dei materiali risultanti dalle demolizioni, ma anche a ottenere il Leed
Platinum, massima certificazione per le costruzioni
sostenibili. Per finire, il Vietnam fa da modello per il
costruire consapevole attraverso le nuove leve della
bioarchitettura: come Vo Trong Nghia, che con opere
quali la Casa di Pietra e la Stacking House dimostra
che si può scegliere tra un passato fatto di sprechi e il
futuro che armonizza uomo e natura.
Roberto Desiderati
IL COLORE DEI SOLDI
I numeri
dell’inclusione
finanziaria
degli immigrati
620.
000
C
irca 620mila immigrati possiedono un conto
corrente presso istituti di credito italiani e appartiengono
a un profilo finanziariamente
evoluto. Si tratta di individui
che si relazionano con il sistema finanziario non solo
per la semplice custodia del
risparmio e la concessione
del credito, ma chiedono servizi più complessi che vanno
dalla gestione dei pagamenti
alla gestione del proprio patrimonio.
Si tratta in prevalenza di uomini fra i 35 e i 55 anni, con
un profilo di istruzione medioalto. Da un punto di vista
lavorativo hanno un lavoro
dipendente stabile o sono
piccoli imprenditori, quasi la
metà di essi possiede un’abitazione propria.
Da dove vengono? In questo
gruppo sono rappresentate
tutte le principali nazionalità
a conferma che la nazionalità
in sé non è un indicatore di
inclusione finanziaria.
Daniele Frigeri
Direttore scientifico
Osservatorio CeSPI
(www.cespi.it)
4-6 ottobre
Ferrara
«Tuttaunaltracosa», fiera
nazionale del commercio
equo e solidale.
www.tuttaunaltracosa.it
4-6 ottobre
Tione (Tn)
«Ecofiera», rassegna
dedicata allo sviluppo
sostenibile nelle aree
di montagna
www.ecofiera.net
Gustare
La cucina europea
«ladra» di ingredienti
Che cosa rimarrebbe della nostra tradizione
culinaria senza mais, pomodori, peperoncino,
patate, maiale e pesche? Un cavolo
A
La ricetta
••••••••••••••••••••••••••••••••••••••••••••••••••••••••
••••••••••••••••••••••••••••••••••••••••••••••••••••••••
insistere sull’identità
in cucina si rischiano sorprese. Noi europei,
ad esempio, volendo riandare alle origini, dovremmo fare a meno di
pomodori e polenta, di
cacao e peperoncino, dei
tacchini che ci vengono
dalle Americhe. Dovremmo fare a meno anche
di pesche e maiale, dei
cetrioli arrivati dall’Asia,
del caffè africano, delle
spezie, ecc. Ci rimane il
cavolo. Più europeo del
cavolo non c’è proprio
GRÜNKOHL
UND PINKEL
Prendere un cavolo
cappuccio, tagliarlo
sottilmente, scottarlo in acqua bollente
e scolarlo.
In una padella far
rosolare della pancetta con una mezza
cipolla tagliata
sottile.
Aggiungere il cavolo
e far cuocere a fuoco vivace per pochi
minuti poi aggiungere acqua, coprire e
continuare la cottura
a fuoco lento per
mezz’ora con del
brodo di carne.
Salare e pepare,
aggiungere senape,
salsiccie, carne o
una fetta di prosciutto e continuare
la cottura per altri
trenta minuti.
Servire con patate
bollite o rosolate in
burro e zucchero.
72 POPOLI OTTOBRE 2013
nulla. I suoi antenati crescono ancora nell’isola di
Helgoland, nel Mare del
Nord e da lì si sono diffusi ovunque. Ma ci volle
la fantasia dei contadini
germanici per moltiplicare il cavolo selvatico
(Brassica Oleracea) nelle
centinaia di varietà oggi conosciute. Dapprima
ci fu il cavolo a foglia
(come il nero toscano),
poi si diffusero i cavoli
«a testa», cioè il cavolo
cappuccio e la verza derivati dalla trasformazione
della gemma principale
(Brassica oleracea var.
capitata). Dalla mutazione della infiorescenza
vennero prima il broccolo e poi il cavolfiore
(Brassica oleracea var.
botrytis), dall’ingrossamento del fusto derivò
il cavolo rapa (Brassica
oleracea var. gongylodes),
dallo sviluppo delle gemme laterali il cavoletto di
Bruxelles (Brassica oleracea var. gemmifera). E
ci sono le varianti regionali, come il Vinschger
Kobis della Val Venosta,
il cavolo cinese, la cima
di rapa del Mediterraneo
(Brassica rapa sp.) e il
cavolo palma, l’Ostfriesische Palme della Frisia
Orientale. Una mutazione
incessante.
Barili di crauti accompa-
gnarono Cristoforo Colombo e tutti i navigatori europei lungo le rotte
degli oceani: con i loro
minerali e le vitamine
permisero agli equipaggi
di mantenersi in salute e
di approdare, appunto, in
ogni angolo del mondo.
I popoli del mare del Nord
non dimenticano le origini autoctone del cavolo.
Nei gelidi pomeriggi invernali quando vogliono
fare festa radunano gli
amici e, in corteo, tirando carretti pieni di cibo
e di bottiglie, si dirigono
verso la campagna, fermandosi a ogni angolo
per brindare e giocare.
È il Kohlfahrt, il «viaggio del cavolo», inventato nei secoli scorsi dai
ricchi delle città che finivano la scampagnata
nelle osterie a mangiare
cavolo riccio e salsiccie
(pinkel). Con il tempo il
Kohlfahrt si è arricchito
di usanze, ad esempio
quella di eleggere il re e
la regina del cavolo e di
offrire doni ai mangiatori
più robusti.
Anche le trattorie di campagna si adeguano cucinando enormi quantità
di cavolo riccio. Perché,
come dice il proverbio:
«meglio far scoppiare la
pancia che far avariare
i cavoli» (M. Krause, G.
Falschlunger, V. Danese,
Vivere il sapere. Cavoli, Provincia di Bolzano,
2010).
Anna Casella Paltrinieri
RETROGUSTO Locali etnici con una storia dietro
Oficina de Sabor
H
a trascorso la sua vita lavorativa
nel mondo della comunicazione di
impresa, prima come portavoce della
Olivetti di Carlo De Benedetti, poi con
una propria società. L’incontro umano
e professionale con la cuoca brasiliana Natalia Costa lo ha proiettato in un
mondo completamente diverso, quello
della cucina sudamericana. Così, dopo
35 anni, Lucio Filisdeo si è trovato
impegnato nella promozione non più di
prodotti high tech, ma di piatti prelibati.
«Il titolare di un ristoratore di Milano - spiega Filisdeo - aveva deciso
di trasformare il suo locale di cucina
toscana in un ristorante brasiliano.
Così si era recato in Brasile e si era
accordato con la Porcão, una rete di
churrascarias in franchising. Tornato in
Italia allestisce così il primo ristorante brasiliano. Natalia, che aveva una
grande esperienza ai fornelli e aveva
lavorato per Porcão, lo aveva seguito,
iniziando a lavorare nella sua cucina.
Quando ho conosciuto Natalia. Io la
conobbi quando era appena arrivata in
Italia. Era il 1993».
Nel 1999 il locale si trasforma e prende il nome di Oficina de Sabor. Natalia,
che nel frattempo si è sposata con
Lucio, è sempre alla guida della cucina.
Nel menù, oltre al churrasco (carne
cotta alla brace su spiedoni) tipico
delle regioni meridionali del Brasile,
vengono affiancati anche piatti di pesce, secondo le ricette tradizionali del
Nord-Est del Paese. «Il proporre piatti di
pesce - continua Filisdeo - fa di noi una
churrascaria speciale. Tradizionalmente infatti in una churrascaria vengono
serviti solo piatti di carne. Noi invece
uniamo due tradizioni culinarie diverse
e questo ci rende unici».
I clienti di Oficina de Sabor sono in
maggioranza italiani, ma i brasiliani
non mancano. A Milano c’è infatti una
piccola comunità carioca anche se,
negli ultimi tempi, complice la crisi, si
è assottigliata un po’.
II ristorante ha cambiato la vita di
Lucio. «Una volta in pensione - conclude - mi sono dedicato anima e corpo
al locale. Non ho ruoli operativi, ma
coordino i lavori e mi occupo della promozione della nostra attività. In questo
ho fatto tesoro della mia passata
esperienza».
OFICINA DE SABOR Via Agnesi 17,
Milano
SORSEGGI
Kinnie
L
12 ottobre
Torreano di
Martignacco (Ud)
«Good», rassegna
nazionale dei prodotti
alimentari tipici.
www.udinegoriziafiere.it
31 ottobre
Longarone (Bl)
«Sapori italiani»,
fiera dei prodotti tipici
delle aree montane.
www.longaronefiere.it
a ricetta è segreta come quella della
Coca Cola. Del Kinnie però si sa che
è una miscela di ingredienti provenienti
dal bacino del Mediterraneo. Su tutti il
chinotto, agrume tipico della fascia meridionale dell’Europa.
Il Kinnie nasce a Malta nel 1952 come
risposta alla Coca Cola, portata nel Vecchio continente dalle truppe statunitensi
durante la seconda guerra mondiale. Fin
dall’inizio viene prodotta dalla Simonds
Farsons Cisk, un birrificio nato a Malta
nel 1928 e famoso per aver lanciato sul
mercato la prima birra maltese, la Cisk
Pilsner. La ricetta del Kinnie è custodita
gelosamente dai produttori che però negli
anni rivelano gli ingredienti. Oltre al chinotto, elemento base della bevanda, sono presenti essenze di anice, gingseng,
vaniglia, rabarbaro e liquirizia.
Il Kinnie tradizionale è stato affiancato
da una versione diet (introdotta a partire dal 1984) e da una senza zucchero
(2007), ribattezzata Kinnie Zest (che ha
un colore più scuro e un sapore di agrumi
più forte).
Solitamente il Kinnie si beve liscio, ma
sempre più spesso viene utilizzato per
preparare long drink mescolato con vino
bianco, champagne, cognac o rum.
Inter@gire
Se il codice
non è più segreto
L’abilità di sviluppare software riguarda ormai
ogni Stato così come ogni bambino. Perché il
software ha a che fare con ogni aspetto della
vita. E c’è chi ne promuove l’apprendimento
C
odice, la materia prima di ogni software.
Dal sistema di controllo
dell’ascensore di casa a
Facebook, dal cuore elettronico dell’auto ai sistemi
di regolazione del traffico
metropolitano, dal conto in
banca ai mercati finanziari
globali, tutto è governato dal codice. Che si parli
di agricoltura, industria,
servizi, scienze della vita,
biotecnologie, ingegneria,
in ogni ambito dipendiamo della tecnologia. È a
tutti gli effetti una nuova
lingua, un linguaggio giovane. E per pochi.
Se il codice è dietro ogni
aspetto del nostro vivere
quotidiano, e se è ancor più vero che è dentro
l’essenza stessa del nostro futuro, perché non
lo stiamo insegnando ai
nostri figli? Se lo sono
domandato i promotori di
Code.org, e la risposta è
stata che ogni studente
in ogni scuola deve avere
l’opportunità di imparare
a sviluppare.
Per realizzare questo innovativo proposito, si
sono mobilitati alcuni
personaggi molto in vista
del mondo politico, imprenditoriale e civile, tra
cui alcuni dell’industria
della tecnologia. Tra loro,
Peter Denning, ex pre-
sidente della Association
of Computing Machinery, che dice: «Imparare
a parlare il linguaggio
dell’informazione ti dà il
potere di trasformare il
mondo». Impressionante
la prossimità di questo
concetto con uno attribuibile a Galileo Galilei, di
cui parlò papa Benedetto
XVI nel novembre 2009
in occasione di un convegno. Non era forse Galileo, scriveva in sostanza
Ratzinger, a sostenere che
Dio ha scritto il libro della
natura nella forma del
linguaggio matematico?
E che indagando la ma-
tematica ci si avvicina a
Dio? Ecco, semplificando: se la matematica è
il linguaggio che Dio ha
usato per creare il mondo, l’informatica, che usa
una sequenza di «zero» e
«uno», è il linguaggio che
l’uomo usa per trasformare il mondo.
Non dotare ogni bambino
della capacità di sviluppare codice significa creare squilibri tra chi saprà
e chi non saprà «trasformare il mondo» in futuro:
i primi lo creeranno, i
secondi si adegueranno.
Ecco perché Code.org ne
fa una questione politica
DECODE
Note di speranza dal Medio Oriente
N
el 2006 una giovanissima attivista del Bahrein, Esra’a
Al Shafei, iniziò a rendersi conto che, nonostante i ragazzi mediorientali stessero utilizzando sempre più spesso
Internet, non erano ancora realmente in grado di riconoscersi
nel profondo cambiamento che esso portava. Si affacciavano in rete moltissime comunità: curdi, arabi, iraniani…
Erano, però, tutte iniziative chiuse in se stesse e sembrava
che queste divisioni finissero per frenare la potenziale forza
dirompente delle nuove tecnologie sull’evoluzione politica e
sociale di quei Paesi.
Giovani, attivismo online, superamento delle frontiere territoriali, culturali e religiose, creatività: la soluzione dell’equazione è fin troppo semplice. La musica, dopo molti altri progetti,
nel 2010 è diventata la nuova sfida. Con i suoi 1.093 artisti
e 5.070 brani, oggi Mideast Tunes è una piattaforma per
musicisti underground in Medio Oriente e Nord Africa, artisti
che usano la musica come strumento per il cambiamento
sociale. Il progetto vuole oltrepassare le barriere religiose e
geografiche per unire i giovani impegnati a promuovere un
74 POPOLI OTTOBRE 2013
discorso costruttivo in Medio Oriente attraverso la musica.
L’idea è quella di promuovere band e musicisti che altrimenti
non riuscirebbero a emergere autonomamente sulla scena
internazionale, proprio perché provenienti da un’area poco
considerata dal mercato mondiale della musica.
Mideast Tunes (www.mideastunes.com) in sostanza è un
servizio non profit di distribuzione digitale di musica: gli
artisti collaborano mettendo a disposizione una selezione
dei propri brani che possono essere ascoltati gratuitamente
in streaming. Come dice Esra’a Al Shafei, «crediamo che la
musica possa cambiare il mondo e che i musicisti del Medio
Oriente e del Nord Africa segneranno la via».
Va sottolineato che Mideast Tunes è solo uno dei tanti progetti di Mideast Youth, che dal 2006 ha dato una scossa alla
percezione che la gioventù del Medio Oriente ha di se stessa
e al modo in cui viene percepita dai media occidentali, con
una serie di iniziative di grande impatto politico e culturale.
Antonio Sonzini
[email protected]
oltre che di istruzione.
Tra i testimonial ci sono imprenditori come Bill
Gates, fondatore di Microsoft, e Mark Zuckerberg,
fondatore di Facebook,
che di certo hanno un interesse diretto: se la scuola fosse in grado di formare più programmatori,
le loro aziende avrebbero
opportunità di scelta migliori. Ma oltre a questo
ci sono buoni motivi di
interesse pubblico per appoggiare la causa.
In un mondo iperconnesso e globalizzato l’abilità
nello sviluppo di coding,
inclusa la capacità di trasformare questa abilità in
impresa, è una leva strategica. Gran Bretagna e Stati
Uniti ne sono consapevoli
e hanno già programmi
per rendere competitive
le prossime generazioni.
Altri Paesi puntano all’alfabetizzazione informatica per favorire la crescita di capacità interne di
computing con l’obiettivo
a medio-lungo termine di
essere più forti economicamente e indipendenti
politicamente.
Tra i Paesi più all’avanguardia e quelli meno c’è
una zona grigia dove le
iniziative legate allo sviluppo di capacità di coding sono lasciate a gruppi,
enti, imprenditori, persino
singole scuole. In Italia si
è puntato recentemente
su una forte accelerazione nell’uso di strumenti
digitali nella scuola, ma
siamo ancora lontani dal
colmare la distanza tra la
pervasività dell’esperienza
quotidiana dell’interazione
con software e la capacità
di «scriverli».
In termini politici, poi,
lo sviluppo della capacità
di coding tocca allo stesso modo la dimensione
dell’individuo e quella del
sistema Paese. I software
raccolgono, organizzano
e distribuiscono dati, e
quindi informazioni. E se
le informazioni sono reddito, conti correnti, stato
di salute, catasto, licenze alimentari, sistemi di
sicurezza, progetti industriali, brevetti, allora chi
ha in mano il software
ha in mano le «forme digitali» che le informazioni assumono. Oltre che
un tema di competitività
diventa anche una questione di sicurezza e, in
fondo, di libertà.
Code.org auspica che tutti abbiano una possibilità
di imparare, obiettivo che
si può estendere almeno
a quanti sono connessi e
hanno un Pc o un tablet.
È per questo che Code.org
non opera solo nella direzione della sensibilizzazione, ma punta a offrire
opportunità di imparare il
coding, accogliendo e dando visibilità a corsi in rete
e non solo. Collegandosi
a Code.org e cliccando su
learn si può scegliere di
cominciare subito a imparare gratuitamente con
Scratch,
Codecademy,
Khan Academy, Code Hs.
Così, il prossimo Steve Jobs
potrebbe essere un autodidatta brasiliano.
Giovanni Vannini
[email protected]
@giovvan
SIRIA
T
U
O
K
C
A
BL
Una vera e propria guerra
di informazione e disinform
azione
si combatte in Siria fin dal
l’inizio degli scontri nel 201
1: una
stretta mortale sul contro
llo dell’informazione e dei
media.
Giornalisti, blogger e informatori in rete:
75
UCCISI
40%
dei giornalisti
uccisi in tutto
il mondo
S.E.A.
44
DETENUTI
RAPITI
DIGITAL
06.2011 WAR
Cresce
l’offensiva militare
e il Governo
chiude la rete
internet del Paese
per un giorno
10.2011
La Syrian Electronic
Army è un gruppo
di cyberattivisti
pro-Assad che ha
messo in atto diverse
violazioni della
sicurezza ad alto
profilo, tra cui l’attacco
ai server di New York
Times, Washington Post
e CNN e agli account
Twitter di AP, Reuters,
BBC e Al Jazeera.
In settembre gli
Anonymous hanno
attaccato i server SEA.
15
I server di Blue
Coat Systems,
società per la
sicurezza dei
contenuti online,
vengono violati
per censurare
l’attività web USA
05.2013
Il quarto blackout
della Rete dura 19
ore. Anche
i cellulari vengono
tagliati fuori.
Le autorità danno
la colpa ai
cyberterroristi
07.2011
Viene censurato
The-Syrian.com.
Il sito consente
a chiunque di
esprimere in rete
la propria opinione
06.2012
Un file con un virus
viene diramato via
Skype agli attivisti.
Il virus installa di
nascosto un software
che spia e ruba dati
personali e accessi
alla rete
07.2013
Assad lancia un
account su Instagram:
70 foto lo ritraggono
sorridente con
la moglie, in diversi
luoghi, tra folle adoranti
Fonti: Rsf.org, Wikipedia.org, Doha Center for Media Freedom,
Refworld.org, Crowdvoice.org | Design by Oogo (www.oogo.com)
OTTOBRE 2013 POPOLI 75
Mediterraneo a fumetti
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In quale Paese si trova questa città?
1. Dall’indipendenza, 31 dei suoi 48 governi
sono stati retti da militari
2. Vi abita la «monaca bianca»
3. Un cereale è patrimonio culturale
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La risposta di giugno-luglio:
Kosovo
Silvano Fausti S.I.
Biblista e scrittore
Un annuncio
per tutti
«Manda degli uomini a Giaffa e traduci qui un certo
Simone Pietro» (leggi Atti 10,1-8)
D
io agisce sempre, anche qui e ora, nella storia.
La sua iniziativa però non parte dalla Chiesa,
ma da coloro che essa esclude. Infatti manda il suo
angelo non a Pietro, ma a un pagano, con l’ordine di
pescare il pescatore di uomini alla sua pesca.
Nell’annuncio a Maria il Verbo si è fatto carne in
Gesù. Nell’annuncio al pagano Cornelio il Verbo vuol
farsi carne in ogni uomo, «perché Dio sia tutto in tutti» (1Cor 15,28). Questo è il desiderio del Padre, che
in vista del Figlio ha fatto il mondo. Gesù ha annullato la separazione tra cielo e terra: sulla croce si è
addirittura fatto peccato e maledizione perché ogni
atomo di creazione sia pienezza di Gloria.
Il Vangelo continua la sua corsa: da Gerusalemme
alla Giudea, alla Samaria e oltre, fino a Damasco.
Con Cornelio attinge il suo fine, che apre orizzonti
senza fine. Cade ogni divisione tra gli uomini: la
benedizione di Abramo si estende anche ai «pagani».
L’umanità diventa un’unica famiglia. Nel Figlio siamo tutti liberi, figli di Dio e fratelli tra noi, nella
nostra diversità. È il mistero eterno di Dio e dell’uomo, svelato ora. A salvezza di tutti, Dio compreso!
Non si tratta di omologazione sotto un unico potere,
ma di «globalizzazione» nel segno dell’amore. Le
differenze culturali e religiose rimangono; ma non
come luogo di lotta, bensì di comunione. Le diversità non sono più barriere, ma aperture reciproche.
I con-fini diventano incontro con altre finitudini,
contatto con l’altro, sacramento dell’Altro.
L’amore è innanzitutto libertà dal proprio egoismo
e rispetto del cammino altrui, anche se errato o incompleto (1Cor 7,1ss). Infatti c’è «un solo Dio», Padre
di tutti, «e un solo Signore, Gesù Cristo, in virtù del
quale esistono tutte le cose e noi esistiamo per lui»
(1Cor 8,6).
Saltano tutti i tabù culturali e religiosi. Le cose sono
tutte buone. Il male non sta in esse: sta nell’intenzione e nell’azione dell’uomo che le usa per demolire invece di edificare comunione con l’altro. L’amore
80 POPOLI OTTOBRE 2013
rende Paolo libero di farsi giudeo con i giudei e senza
legge con i pagani. Essendo nella legge di Cristo, si
fa «tutto a tutti» (1Cor 9,19-23). La legge di Cristo
infatti è portare gli uni i pesi degli altri (Gal 6,2).
Questa è la vera libertà dei figli: servirsi a vicenda
nel reciproco amore (Gal 5,13).
Principi semplici che esigono soluzioni intelligenti.
Per esempio: come vivere e mangiare insieme, rispettando le diversità culturali? Il primo «Concilio»
di Gerusalemme (At 15,1ss) darà regole pratiche, che
aiutano giudei e pagani a vivere da fratelli tra loro.
I Concili successivi invece devieranno in scomuniche di chi non la pensa come noi. Ma identificare
Dio con le proprie idee su di lui, è idolatria che
distrugge la Chiesa: ci rende incapaci di accogliere
l’altro nella sua alterità. Pensiamo ai riti cinesi e a
certe idiosincrasie attuali verso la contemporaneità.
Che dire poi quando cerchiamo il potere per imporre
le nostre idee o per ottenere privilegi?
Dio farà poi capire a Pietro che quelli che lui considera «cani», sono i suoi figli privilegiati. Devono
sedere alla mensa comune, senza troppi contorni di
circoncisioni, divieti e prescrizioni. Temi di bruciante
attualità. Dio non vuol mandare il mondo in chiesa,
ma la Chiesa nel mondo, perché, nella fraternità
verso tutti, riveli a ciascuno il volto del Padre.
Anche nei Vangeli Dio si cela ai vicini e si svela ai
lontani (cfr. la samaritana di Gv 4,1ss, la sirofenicia
di Mc 7,27ss, il centurione di Lc 7,1ss e il centurione
di Mc 15,39). La Chiesa è sollecitata a essere se stessa dal di fuori. La nostra identità ci viene sempre
dall’esterno: è l’altro che ci «converte» di continuo
alla fraternità che ci rende figli. L’ultimo a sedere
alla mensa sarà il Figlio dell’uomo, che torna nella
sua gloria.
PER RIFLETTERE E CONDIVIDERE
> Dove agisce Dio?
> Perché si serve di un pagano per convertire Pietro
al Vangelo?
> Qual è il privilegio dei lontani?