Una parola a caso del vocabolario

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Una parola a caso del vocabolario
Una parola a caso del vocabolario
di Gianluca Iadecola
alla mia famiglia.
PARTE
PRIMA
E’ da quando è morto mio padre che ho iniziato ad interessarmi alle ragazze. Prima di
allora in loro presenza mi sentivo a disagio e potrei anche dire che m’inquietavano. Non era
il fatto che fossero biologicamente diverse ma ad infastidirmi era l’atteggiamento frivolo e
superficiale proprio delle quattordicenni. Cambiai presto idea ma per molto tempo ho avuto
un bel da fare per convincere mia madre che non fossi un omosessuale. A quindici anni
davo una paghetta settimanale a mia sorella affinché dicesse in casa che mi aveva visto
abbracciato alla sua amica Alison o Barbara o Vattelappesca. L’anno successivo finì sul mio
libro paga anche Alison. Un paio di volte a settimana si faceva vedere a casa nostra
fingendosi tutta un miele con le sue moine che mi davano l’orticaria. Erano soldi ben spesi;
mia madre non ebbe più sospetti sulla virilità del suo bambino.
In famiglia ci chiamavamo tutti per nome ed erano quasi bandite le parole babbo,
mamma, figlio o altre diavolerie. Eravamo solamente Jack, Karen, Mary ed Ernest. Io sono
Ernest, Ernest Thorton.
Mia madre era molto fiera di noi. La famiglia era tutto e ci si sacrificava anima e corpo,
sempre di corsa per casa con la sua andatura traballante per una gamba un poco troppo
corta. Quando camminava lentamente era impercettibile ma se suonava il campanello o
doveva sbrigare faccende urgenti la sua zoppia usciva fuori con prepotenza, ostacolandola,
tirandola indietro per un piede, allora tutto il suo corpo cercava di fare il lavoro che la gamba
corta non poteva sostenere e si dimenava come in un ballo sudamericano con le braccia
larghe, e le spalle, i fianchi, la testa che oscillando la spingevano in avanti.
Con Karen eravamo d’accordo su tutto e mia sorella diceva che ero il cocco di mamma.
Mary era molto carina e ancora oggi che ha diversi capelli bianchi, sul suo viso sono rimasti
i tratti della bellezza. Non era particolarmente intelligente ma in compenso era molto furba e
riusciva sempre a fare quello che desiderava. In special modo era capace di far fare agli
altri ciò che voleva, c’era da sbellicarsi dal ridere vedendola persuadere nostro padre che
fumando si dimostrava anticomunista, lui che aveva la tessera del partito da ventisette anni
ed era arrivato ad essere vicesegretario di sezione. Dopo tre giorni smise di fumare, e dopo
quattro settimane stracciò la tessera imprecando come un ossesso, accendendosi un
cubano.
Casa nostra, un quartierino di tre stanze in tutto, era sempre affollata. Oltre alle visite di
Alison, ricevevamo quelle di un gran numero di persone, soprattutto miei amici. Avvolte
erano così tanti che s’improvvisavano festicciole con musica e pasticcini. Mia madre
adorava il twist e non di rado si univa a noi ballando piuttosto bene mentre Jack batteva le
mani ridendo. A quei tempi io ero la principale fonte di reddito della famiglia. Avevo
dimostrato fin da piccolo una particolare attitudine mnemonica; a nove anni sapevo le
tabelline dal due al novantanove e le capitali del mondo, a dieci imparai tutte le parole del
vocabolario che cominciavano con la A e il semestre successivo ne memorizzai il
significato. Mio padre, col permesso del preside, mi portava nelle ultime classi a mostrare il
miracolo di un figlio che inorgoglisce. Da parte mia amavo mio padre come un Dio.
Arrivato al college cominciarono i problemi. Prendevo voti alti solo in matematica, il resto
era un disastro. Quando fui bocciato all’esame finale Jack non riusciva a capacitarsi.
-
per Santo Zapata come fai a sapere tutti i numeri del mondo tutte le parole del
vocabolario fino alla R ed essere bocciato
Comprò il diploma per mezzo di un suo amico del partito, mi ordinò di imparare tutto il
vocabolario e cominciò a portarmi nelle fiere. Si era appositamente fatto costruire da “Simon
il falegname”, anche detto Ventotto per una sua particolare caratteristica che non solo la
moglie avrà verificato, una specie di palchetto con annesso uno striscione rosso ed una
scritta gialla: “Sa tutto il vocabolario a memoria” e più sotto: “Centesimi 20”. I primi tempi
non facemmo molti affari, Jack mi rimproverava sempre che ero un buono a nulla e che mi
avrebbe trovato un posto in fabbrica. Io non ci vedevo niente di male nel fare l’operaio,
quasi tutti quelli che conoscevo lo erano e non mi sembravano così male.
Una mattina alla fiera di M. venne anche Mary per aiutarmi a smontare il banchetto alla
fine della fiera, mentre nostro padre andava a trattare l’acquisto della farina per l’anno a
venire. In realtà si rivelò molto più utile e preziosa.
Una coppia di sposini chiese cosa volesse dire la parola amore, quando glielo ebbi detto
parvero soddisfatti e lasciarono sette centesimi di mancia. Mary si annoiava molto, Jack non
la lasciava allontanare dal nostro banchetto e quella sbruffava ad ogni momento. Poi venne
da me chiedendomi se fossi proprio certo di sapere tutte le parole del vocabolario, io dissi di
sì. Si mise a fianco a nostro padre e cominciò ad urlare.
-
Signore e Signori
prego di avvicinarsi
senza trucchi e senza inganno
questo prodigio della specie umana sfiderà chiunque di voi voglia rischiare venti
centesimi
Qualcuno si avvicinò e altri gli vennero dietro e dopo poco eravamo accerchiati. Mary
cominciò a spiegare le regole.
-
voi gentile pubblico potrete tornare a casa con dieci volte venti centesimi se
mio fratello non saprà il significato della parola da voi scelta
arbitro imparziale della
disputa sarà nostro padre Jack Thorton da tutti conosciuto come uomo onesto e retto
che con l’ausilio di questo vocabolario darà vittoria ad una delle parti
Dalla prima fila un uomo piccoletto tutto vestito di nero gridò calotta. Mio padre pretese
che gli fossero dati i venti centesimi e li pose sul banchetto, vicino ai due dollari di
contropartita destinati all’acquisto della farina. Sudava. Sfogliò il vocabolario e trovò la
parola richiesta. Io cominciai.
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calotta sostantivo femminile singolare ciascuna delle due parti di una superficie
sferica divisa da un piano secante oppure ogni struttura o oggetto di forma semisferica o
cupoliforme o comunque convessa oppure associazione degli ufficiali subalterni di un
reparto
Quando ebbi finito Jack fece un largo sorriso e infilò i soldi in tasca. Qualcuno applaudì
ma tutto tacque quando un signore distinto con un naso enorme spintosi nei pressi di Jack
disse forte labiate.
Jack rimise i soldi sul tavolo sfogliò il dizionario e mi fece cenno che potevo cominciare.
-
labiate sostantivo femminile plurale
famiglia di piante dicotiledoni prevalentemente
diffuse nelle regioni temperate del vecchio mondo hanno fiori zigomorfi con corolla bilobata
quattro o due stami pistillo bicarpellare con ovario supero e frutto tetrachenio
La maggior parte dei presenti non aveva capito due parole di fila dell’intera definizione
ma quando il nasuto tirò fuori il portamonete, tutti esultarono come se avessero vinto una
disputa personale. La sera, smontato il palchetto, contammo quattro dollari e sessantasette
centesimi che corrispondevano a due mesi di pensione di mio padre. Quando finimmo di
sistemare tutto Jack tornò con la farina e un regalo per ogni membro della famiglia.
Un’armonica per me, delle scarpe nuove per Mary e uno scialle magnifico per Karen.
Cantammo per tutta la durata del viaggio di ritorno e scoprimmo che Jack conosceva una
quantità straordinaria di canzoni d’amore. La mia armonica era bellissima.
Karen ci aspettava davanti al portone con le braccia conserte e le gambe divaricate, il
vento le saliva su per la gonna di feltro nero, facendone campana. Mary gli raccontò tutto
mentre noi scaricavamo la farina. Volle riascoltare la storia almeno dieci volte, non le
bastava mai. La faceva ridere il modo in cui Jack imitava il piccoletto vestito di nero o
quando mia sorella ripeteva le regole della contesa.
Ci furono molte fiere quell’anno, tutti avevano qualcosa da vendere o comprare ma
dubito che in molti abbiano fatto affari migliori dei nostri.
Dopo un anno e sette mesi
d’attività ci potemmo permettere l’acquisto di un frigorifero. Nel nostro caseggiato solo i
Mayes, i nostri dirimpettai, lo avevano ma non scorreva buon sangue tra noi. Mettevano a
disposizione parte del loro frigorifero agli altri condomini in cambio di un piccolo mensile ma
i nostri soldi non li volevano e neanche il nostro cibo bisognoso di frescura.
Il furgone della ditta di elettrodomestici parcheggiò sotto il portone con un gran
scoppiettio di carburante e sui balconi apparve una matassa di persone. Quelli che non
avevano finestre che davano sulla strada si fecero ospitare dai vicini più fortunati, qualora
neanche così fossero riusciti a sporgersi abbastanza ruppero gli indugi e scesero in cortile,
accogliendo con un grande applauso gli scaricatori del “nuovo frigorifero dei Thorton”. A
rigore di logica non poteva definirsi “nuovo” perché non ne avevamo uno vecchio e quello
comprato era di seconda mano ma tutti, ciò non di meno, aspettavano di vedere “il nuovo
frigorifero dei Thorton”. Mio padre per l’occasione mise il vestito buono e volle che sul
contratto di acquisto ci fosse anche la mia firma perché i soldi li hai guadagnati tu mi disse
orgoglioso. A furor di popolo il frigorifero fu collocato in cucina, ad angolo col muro, a fianco
al lavabo. Grida di giubilo si alzarono quando l’elettrodomestico vibrò raggiunto da una
scarica di vitale elettricità. A tutti furono messi a disposizione novantaquattro centimetri
cubici, i conti furono fatti dal Signor Smith, a titolo gratuito, ma molti vollero dimostrare la
propria riconoscenza con un paio di birre o un dolce ancora caldo.
Erano bei tempi.
II
Fu allora che Alison cominciò a rifiutare i soldi che le spettavano per le sue visite. Veniva
più spesso del solito, quasi tutti i giorni, in fine ce la ritrovavamo in casa ogni momento. Non
si comportava più come prima, non prendeva le mie mani tra le sue, non mi si accoccolava
a fianco sul divano come fanno quei gatti rossi e grassocci mentre fuori piove. Qualcosa era
cambiato. Quel piacevole fastidio mi mancava. Mia madre, convinta che fossimo due dolci
fidanzatini, si preoccupò molto credendo che fossimo in litigio. La verità era che Alison si
era innamorata di me o chissà che altro vattelappesca provava. Cercava il modo di dirmelo
ma non era capace, dopo tutti i falsi sentimenti che aveva dovuto dimostrarmi non era
sicura che avrei capito la differenza con questi nuovi e prepotenti moti del suo animo.
Eravamo giovani.
-
Ernest
-
sì
-
ti piaceva quando ti abbracciavo
-
qualche volta
-
ti andrebbe di riabbracciarmi ogni tanto
-
se vuoi
-
oggi non ho ancora fumato
quando non puzzavi di sigaretta
ma non devi aver fumato
Mi prese per mano e andammo vicino al vecchio pozzo esaurito da un decennio.
Compresi che non ci eravamo mai abbracciati. Lei mi strinse forte, la pressione del seno sul
mio petto ebbe immediate ripercussioni più in basso. Tolse la testa dalla mia spalla sinistra
e capii che era tutto finito, slegai le mani dietro la sua schiena e fu allora che Alison mi
mollò un bacio caldo, (ebbi subito in mente le fornaci della “Mauler cotto e mattoni” dove
lavorava lo zio Frank, il fratello di mamma) umido, vischioso. All’inizio fu un contatto tra
labbra poi istintivamente aprii la bocca e la sua saliva si unì alla mia. Non potei trovare nulla
che avessi mangiato da paragonare alla morbidezza della sua lingua. Da quel giorno ho
baciato altre donne ma nessuna aveva la lingua morbida come Alison. Mi sentivo il re del
mondo e probabilmente, se mai ce ne sarà uno, dubito che sarà felice come lo sono stato io
in quel momento. Continuavo a ripetermi: non dimenticare, non dimenticare, memorizza
ogni cosa. Avevo gli occhi chiusi, poi aprendoli vidi i suoi stretti così fortemente che alle
commissure laterali si erano formate due piccole pieghe. Rivolsi lo sguardo tutto intorno e
scorsi il sole che tramontava seminascosto da una nuvola grigia a forma di pipa, intanto si
levavano le grida selvagge dei bambini per un fuoricampo , le cicale urlavano il proprio
amore e fiori tropicali arancione inebriavano l’aria con effluvi portati dai venti e poi c’era la
lingua morbida di Alison, la lingua e Alison. Tutto doveva essere ricordato, annotato,
assolutamente. Quel giorno non l’ho mai dimenticato. Quel giorno è morto mio padre.
La cosa peggiore di quando muore una persona è che ti manca subito. Se mi avessero
detto che Jack era ancora vivo ma lontano e per molto tempo, mi sarebbe mancato dopo
qualche giorno o settimana. Invece era morto. Non era in una terra solitaria e misteriosa,
non era a Cuba, era morto.
Stava passeggiando con lo zio Frank, il fratello di mamma, quando in un momento è
cascato a terra esanime, il cranio sfondato. La tegola arancione che lo aveva colpito gli era
rimasta per un terzo conficcata nella testa, il resto si era frantumato in mille pezzi. La
capoccia aperta in due come un melograno queste furono le esatte parole dello zio Frank, il
fratello di mamma, (precisiamo sempre di quale zio Frank si tratti perché c’è anche lo zio
Frank il fratello del nonno, che del resto è morto di tisi da un bel pezzo, ma tutti continuiamo
a chiamare zio Frank il fratello di mamma: zio Frank il fratello di mamma, così, per
abitudine) quando arrivò di corsa a casa nostra. Allorché ebbe ripreso fiato cercò di
consolare Karen ma si ricordò che il corpo era ancora lì, da solo, con una folla di
sconosciuti a fianco. Ci precipitammo in Golden road 47. Al numero 47 si stava rifacendo il
tetto e la facciata. Come un bel pacco di natale, il palazzo era incartato da una sottile
reticella giallina messa a protezione dei passanti. Mancava solo il fiocco. Non mancò la
sorpresa.
All’obitorio mi permisero di vederlo. Notai sul viso un’espressione incredula, come se,
nella frazione di secondo che la tegola ha impiegato per trapassare i parietali, avesse avuto
il tempo di pensare. Quanto vorrei sapere cosa ha pensato. Diverse volte nella mia vita mi
sono detto: nel momento in cui morirò il mio ultimo pensiero sarà questo… . E "questo” a
dodici anni era il nostro cane Ben, poi la bocca di Alison, le sorelle Bouvard, poi Friù, e
perlamarina quante altre cose.
Quando giungemmo al numero 47 un gran numero di persone era intorno a Jack. A me e
Mary non fu permesso di passare. Ci rendemmo conto che Karen era arrivata a vedere il
corpo quando un urlo, doloroso a sentirsi, si levò dal centro della calca. Io ero tutto sudato,
o forse erano lacrime. Mio padre, il padre che amavo come un Dio, si era spento per colpa
della legge di gravità. L’uomo deve rispettare ben poche regole, una di queste è la legge di
gravità. Non c’è nulla da fare, è così e basta.
Dopo una lunga attesa arrivò un’ambulanza che se lo portò via. Mentre i barellieri lo
alzavano dal selciato riuscii a scorgere il suo braccio destro penzoloni dal quale discendeva
un rivolo di sangue. Era il 21 maggio 19--.
III
L’organizzazione del funerale fu completamente opera di Karen. La salma fu ricomposta
da lei sola. Mentre lo lavava in camera da letto la sentivamo cantare una vecchia canzone
che solevano ballare durante le nostre feste. Tutti li guardavano e loro, come giovincelli, si
scambiavano baci e sguardi comprensivi. Con quella canzone si erano incontrati, lui le
aveva chiesto di ballare e lei ballando si vergognò di essere zoppa.
Vendemmo il frigorifero per poter acquistare un vestito per Jack e affittarne tre per noi.
Non fu possibile comprargli anche le scarpe ma ne aveva un paio seminuove, usate
pochissimo perché troppo strette. Le corone di fiori, la bara e la vecchia Ford familiare
furono scelte da Karen meticolosamente. Alla veglia c’erano diversi ex colleghi di Jack, tutti
i parenti e molti compagni di partito. La stanza era affollata e cominciò a riempirsi di fumo,
furono aperte le finestre ma l’aria immobile e appiccicosa non migliorò la situazione.
Gli amici del bar si erano portati le sedie e per non saper né leggere e né scrivere si
fecero una partitina a carte. Lo zio Frank, il fratello di mamma, fremeva; lo aspettavano alla
bocciofila Harris per la finale del torneo di boccette. Quando vi arrivò pretese un minuto di
silenzio in memoria del cognato. Alle tre erano quasi tutti andati via. Non più di dieci
persone accerchiavano il letto matrimoniale su cui giaceva un uomo solo. Non c’era molto
da fare e cominciai ad osservarli.
Vicino la grande candela posta al lato destro del capezzale c’era Generosa, la nostra
dirimpettaia italiana, con due dei dodici figli che aveva messo al mondo. Il bambino più
piccolo si è sposato tre anni fa con una cicciona, l’altro è sparito da un pezzo e nessuno sa
che fine abbia fatto ma tutti dicono che sia morto sbranato dai cani nel deserto tra Egitto e
Libia. Li teneva addormentati tra le braccia, sulle ginocchia, e con le mani snocciolava un
rosario d'argento. La faccia di cuoio aveva una rasoiata trasversale dalla quale uscivano
sussurrate preghiere. Nello stesso posto, dall’altro lato, c’erano Karen e Mary. Si tenevano
per mano. Spesso da lì si levava un lamento acuto seguito da singhiozzi e sussulti. Ogni
tanto tendevano lo sguardo verso nonno Ernest che stava seduto su una sedia di paglia,
piagnucolante nell’oscurità. Nella sua giacca da camera di flanella a quadri rossa e nera si
stringeva a diventare piccolo piccolo, come per scomparire e sottrarsi a quella sofferenza.
Non scomparve ma continuò ad aver freddo. Pensai che sopravvivere al proprio figlio è la
peggiore condanna che Dio possa infliggere ad un uomo. Alle spalle del nonno c’era Rip, il
becchino. Nessuno ricordava più il suo vero nome e anche sulla lapide gli hanno scritto due
volte Rip e la data del decesso. Ogni volta che l’aria, perdendo la propria immobilità, gli
scompigliava lievemente i capelli, lui si arricciava i baffi. Era convinto di avere i Vittorio
Emanuele più eleganti della contea e a dire il vero con la divisa da becchino faceva la sua
bella figura. Io ero vicino alla porta e a fianco a me c’era una donna che nessuno di noi
aveva mai visto prima. Quando finì il funerale scomparve e non la rivedemmo più.
La bara, presa a braccia, uscì dal portone di casa. Lo scroscio delle serrande che si
abbassavano avvertiva gli astanti disattenti che c’era un uomo che faceva il suo ultimo
viaggio. Quelle serrande, simili a bandiere ammainate a mezz’asta, davano un tragico
senso di solennità al lento incedere del feretro. Un sole spietato squagliava i colletti delle
camice buone. In chiesa tutti fecero un profondo respiro per rinfrescare i polmoni, l’acqua
santa fu ben cosparsa su polsi e nuche infuocate e in un momento finì.
Padre Bohumil spiegò che Jack era in un posto migliore e che Dio lo aveva chiamato a
se e tutte quelle cose che perlamarina si devono dire ad un funerale. Non fu capace di
spiegarci perché avesse preso un buon padre di famiglia ma solo disse le vie del Signore
sono imperscrutabili. La bara fu caricata sulla Ford familiare non senza qualche difficoltà.
Con estenuante lentezza giungemmo al cimitero, qualcuno tagliò per i campi. Karen,
stremata, rimasta indietro, fu chiamata a gran voce per la scelta del loculo.
-
scegli un posto comodo, dove non avrai il torcicollo quando vieni a trovarlo - le
disse il nonno, che di torcicolli se ne intendeva.
-
prendi questo così tu ti ci metterai a fianco quando toccherà a te - le disse il
fratello Frank.
Alla fine fu scelto un secondo piano in fondo al corridoio della cappella di famiglia. I tre
piani rimanenti erano vuoti.
La donna sconosciuta della veglia depose due mazzetti di fiori, afflosciati per il caldo,
sulla bara. C’era su ognuno un bigliettino con un nome ma non mi fu possibile leggerli
perché le lacrime mi annacquavano la vista. Per fortuna quell’orribile giorno era finito.
Appena a casa m’infilai di volata nel letto.
Quella notte non riuscii a dormire. Una lunga notte atroce dove il sole non si decideva
mai a far capolino, dribblando le imposte della finestra. Avevo sempre lo stesso pensiero,
non un pensiero preciso ma sempre lo stesso, come se avessi dimenticato qualcosa senza
sapere cosa. Questa sensazione era così forte e reale che mi ritrovai a frugare nei cassetti,
sul comodino, tra i panni poggiati sulla sedia. Quando ebbi coscienza di cosa stessi facendo
sorrisi e ritornai a letto. Per due giorni quel pensiero nebuloso mi frullò nella mente, come
quando si ha un motivetto idiota per la testa e non si riesce a smettere di evocarlo e ci si
ritrova a canticchiarlo nel tram o a tavola o mentre si ringrazia il signore per il pane
quotidiano. Avevo il corpo come di piombo e non uscii dalla mia camera. Alison non si fece
vedere. Mi venne la febbre alta e dissero che avevo delirato ma non lo ricordavo.
-
cosa stai facendo
-
sto pescando
-
possibile che bastino tre giorni di mia assenza per ridurti in questo stato
-
chi sei
Mi arrivò un bacio morbido come il burro.
-
tua madre mi ha detto che a momenti arriverà il dottore è un brav’uomo ha
curato anche mio fratello quando ha avuto la polmonite
-
ho la polmonite
-
no scemo mio fratello l’ha avuta ma gli è passata
-
mi fa piacere
Sentivo un forte prurito al capo, dentro. Avrei voluto prendere i ferri da uncinetto di mia
madre e ficcarmeli su per il naso e grattarmi, grattarmi a sangue fino all’osso. Quando il
dottore finì di visitarmi mi diede un buffetto sul collo e scrisse con la sua grafia da gallina sul
ricettario. Diagnosticò una lieve forma di esaurimento, riconducibile alla morte di Jack. La
mia mente era uno specchio in cui non mi riconoscevo e che mi faceva apparire distorto al
mio stesso sguardo. Così come nella casa degli specchi del Luna Park in cui da bambino mi
vedevo alto e magro o grasso o basso e ondulato. Ora però era qualcos’altro che si
deformava, non più la testa col tronco e le braccia e le gambe ma tutto ciò che rimaneva;
emanando un rumore assordante, un ronzio ottuso, continuo e uniforme. Ah, se avessi
avuto quei dannati ferri da uncinetto!
Le medicine prescritte non funzionarono, al ronzio si unì un battito profondo. Potevo
distinguere ogni globulo rosso che si andava ad infrangere sulle tempie.
TUM-tum TUM-tum TUM-tum Tum-tumTUM-tum.
Solo le cure amorevoli delle mie tre donne riuscivano a distogliermi da quel supplizio, le
loro premure mi rassicuravano, dandomi la tranquillità di una persona in buona compagnia.
Karen una notte s’infilò in camera mia con un esorcista o vattelappesca santona di periferia.
Mi spogliarono completamente e cosparsero il corpo con una specie di olio contro il
malocchio. Ebbi un’erezione e per la vergogna finsi di dormire. La vecchia prese un piattino
da caffè, vi fece cadere un chicco di grano dal quale uscì il malocchio sotto forma di bolla
d’aria. Serbavo ben poca fede in queste pratiche pseudomagiche ma confesso che la
mattina dopo stavo meglio. Tutti i rumori si attenuarono e di lì a tre giorni scomparvero
completamente.
Quello fu il primo attacco della malattia che mi ha portato in questo posto maledetto da
Dio e dagli uomini che sono nel terzo livello del manicomio criminale di K.
IV
Qui tutti sono gentili con me, tranne Arthur, il responsabile del secondo piano, che è il
piano dove sconto la mia condanna. Pena capitale. Sono passati venti anni dal giorno in cui
il giudice emise la sentenza, augurandomi che fosse eseguita al più presto. Per ora è morto
solo il giudice in un incidente stradale, pace all’anima sua.
In appello mi è stato concesso del tempo per degli accertamenti psichiatrici che
avrebbero dovuto sostenere l’eventuale revisione della condanna. La mia visita al
manicomio criminale di K. doveva durare poche settimane e invece ne sono passate
millesettecentocinque. Gli esami non hanno ancora dato risposte certe e intanto sono
parcheggiato qui nell’attesa di morire, in un modo o nell’altro.
Sono considerato un livello tre, massima pericolosità. Quelli del primo livello se la
spassano. Stanno al pianterreno e la domenica mattina possono uscire per il paese di K.,
che è a solo un chilometro dalle nostre sbarre. Il secondo livello è proprio sotto di noi, al
primo piano. Non li fanno uscire ma li sentiamo cantare. Al terzo livello non cantiamo mai.
Siamo in cinque, il più anziano è Luther, un negro che di pazzo non ha proprio nulla ma
anche lui lo aspetta la sedia. Ha fatto secco un polizioide che si sbatteva la moglie a giorni
alterni con un collega. Gli ha infilato un uncino da macellaio nel collo e se l’è portato in giro
come un cagnolino al guinzaglio.
A fianco alla mia cella c’è quella di Martin, un omicida seriale di merda. Apriva le
ragazzine in due con un taglierino, partendo dal pube su per l’ombelico fino alla bocca, poi
le violentava. Credo che se avesse la possibilità farebbe lo stesso con ognuno di noi. Di
notte rievoca le sue gesta e sento che si masturba, sempre con la finestra aperta. Tra un
mese e mezzo ha un appuntamento col becchino. Anche lui è nero. Di fronte vegeta Bob,
alla sua età non si dovrebbe stare in un posto come questo, povero ragazzo. Non so
perché sia qui, le guardie non ci dicono mai niente di niente e Bob di sicuro è molto
malato. Da quando è arrivato, otto mesi fa, ha aperto la bocca solo per mangiare. In fine
c’è Paul, un tipo normale, stile medio borghese; tra dieci persone non si distinguerebbe.
Non ha voluto dirci perché è qui ma è l’unico cui non sono mai tolti i ceppi.
Arthur mantiene un diario dove annota tutto quello che succede al secondo piano. Vi
scrive a che ora si sveglia ognuno di noi, quando va al bagno e perché, l’appetito durante i
due pasti quotidiani, le parole pronunciate, i tic, le malattie, i farmaci somministrati, in
quale dose e per quale via, le visite, il cambio dei turni, le riviste che leggiamo e ogni
dannata cosa succeda al secondo piano. Non abbandona mai il posto di lavoro, vive in
una cella come la nostra e non riceve visite. Credo sia solo, senza famiglia o amici, senza
un ombrello che gli faccia da casa. Ha una lunga cicatrice sul braccio destro, ricordo di un
matricida che non ha gradito l’isolamento nel porco. Il porco è la camera con pareti
imbottite, senza finestre né luce, in fondo al corridoio. La chiamiamo porco perché è piena
di merda e chi vi entra esce sporco come un porco. In venti anni sono entrato nel porco
due volte e giuro che m'è bastato.
Arthur è di origine ebraica come Reb Meshulan, il vecchio dottore che ha tentato di
curare la mia malattia. Quando gli attacchi diventarono più frequenti e gravi la pozione
della santona non ebbe più efficacia. Il ricorso alla medicina ufficiale stava a significare la
sconfitta del sapere popolare e penso che se sono qui è anche per i malocchi lanciatimi
dalle streghe del quartiere.
Il buon Reb ce la mise tutta per curarmi. Provò dapprima eliminando le proteine dalla
dieta, poi i grassi ed i cibi solidi, l’uso della Cannabis indica coincise col digiuno e sebbene
mi trovassi perfettamente rilassato i disturbi continuavano imperterriti, snobbando gli sforzi
del dottore. Dopo sedici giorni di digiuno si volle adottare una terapia antitetica alla prima.
Ero costretto ad ingozzarmi dalla mattina alla sera con cibi grassi e proteici, nell’acqua
fluttuavano globuli di strutto, al posto della Cannabis indica mi somministravano due volte
al giorno una specie di miscuglio di sostanze psicotrope e miorilassanti. Ma oltre alla
gastrite non ebbi benefici. Il caro Reb Meshulan chiese un consulto ad un esimio collega,
professore universitario di grande fama, il Dottor Grimmelshausen. Con fare spiccio mi
infilò le mani in ogni orifizio, e in tutti quei posti dove ognuno, per pudicizia o solletico, non
vorrebbe mai essere toccato da un estraneo. Fece numerose domande e quando seppe
che avevo una certa capacità di memoria la volle subito mettere alla prova. Mi chiese una
quantità di termini medici ma anche sciocchezze come cosa fosse una caffettiera o un
trattore. Fu immediatamente certo della connessione dei disturbi con le mie capacità. Si
sentì così onorato dal mio male che mi fece tanti complimenti per l’originalità della malattia
che mi era toccata in sorte.
-
mai visto niente di simile – disse- ma si sa la mente umana è un posto pericoloso
Consigliò digiuno e riposo ed una robusta cura ormonale.
Karen era sempre al mio fianco, mai un lamento o una lacrima per le nostre disgrazie. Il
conto dei dottori era salato e così cominciò a prestare occhi e mani alla “Sartoria Genkins
– abiti su misura”. Lavorava a casa, senza sosta imbastiva giacche e cuciva pieghe,
misurava maniche o legava bottoni di osso. Abiti fatti su misura per la “Sartoria Genkins –
abiti su misura”. I suoi occhi si cerchiarono presto di carne bluastra dalla consistenza
pastosa, le dita resistettero con orgoglio all’artrite ma quando si arresero lo fecero di
schianto. Allora era percettibile ad ogni punto croce lo stridio delle falangi che
scheggiavano incontrandosi. Karen era divenuto lo scheletro di una donna. Il suo corpo
aveva subito tante e tali modifiche che era difficile riconoscere in lei lo stesso essere
umano di prima.
Mary sentendosi di peso andò via di casa con un camionista di D scomparendo per
diversi anni. L’ho rivista il primo giorno del processo seduta in seconda fila con un
marmocchio incollato al collo. Ero diventato zio.
I miei attacchi erano furiosi, urlavo tutta la notte senza sosta e spesso dovevano
legarmi al letto con un bavaglio in bocca. Non era solo dolore fisico quello che provavo ma
un forte senso di angoscia, come per qualcosa di ineluttabile e tremendo.
Le poche volte che mi era permesso uscire di casa la gente mi guardava con curiosità e
si fermava in crocchi per bisbigliare le parole- indiavolato pazzo fuori dalla grazia di Dioe perlamarina chissà quante altre scemenze. Come se avessi una bandiera piantata nel
capo attiravo lo sguardo dei passanti. Se un attacco improvviso mi sorprendeva per strada
cominciavo a sbattere con le braccia sui muri delle case, il capo ciondoloni urtava
maldestramente le persone e i cani cominciavano ad abbaiare ringhiosi. Alison non
resistette a tutto ciò e dopo tre anni di malattia mi fece trovare una lettera in cui diceva che
non sarebbe più tornata a trovarmi, che aveva conosciuto un aviatore, una persona per
bene.
Dopo sei anni il male si concesse delle pause. Allora cominciai a frequentare il circolo
“Ratafià” dove si giocava a biliardo e si ascoltava musica jazz. Trovai degli amici, ragazzi
normali con problemi normali, qualcuno mi prendeva in giro, altri mi rispettavano per come
giocavo a scala quaranta. Dopo tre mani sapevo le carte che aveva ognuno. Albert si
accontentava del trenta per cento delle vincite, così diventammo inseparabili. Uscivamo
con le sorelle Bouvard, l’attività sessuale sembrava giovarmi.
Per oltre un mese non ebbi crisi ma i rapporti con Karen cominciarono ad essere
insofferenti. Probabilmente m’imputava il suo decadimento fisico, la fuga di Mary e
vattelappesca quante altre cose. Ero quasi sempre fuori casa, mi era insopportabile
vederla seduta sulla sedia di legno scuro, curva continuamente sull’ago che lacerava i suoi
sogni di vecchiaia. Senza sosta borbottava parole insensate, ingiurie o dialoghi scriteriati
con Jack, usando la voce roca per imitare quella di mio padre.
-
Jack ti ricordi il giorno del nostro matrimonio
-
certo eri bellissima ma oggi lo sei ancora di più
-
non dire sciocchezze ora sono solo un torsolo di mela masticato e vomitato
-
mah col cranio sfondato non ti vedo tanto bene
-
già deve essere difficile avere una buona vista ridotto a quella maniera
-
non mi lamento tutto sommato poteva andarmi peggio
-
sei stato sempre un ottimista per questo ti amo
-
anche io ti amo
Quando Albert venne a casa mia per la prima volta ne fu terribilmente colpito. Io avevo
fatto l’abitudine alla visione di quella vecchia pallida e stanca, tutta contorta sul grembo ma
Albert ne fu terribilmente colpito. Mi chiese se avevo intenzione di rinchiuderla in una
clinica, che lui aveva un cugino che ci lavorava in una clinica per vecchi. La settimana
successiva andai a visitare la clinica “Barker”. Sam, il cugino di Albert, mi fece vedere la
sala mensa, quella ricreativa e una camera. Avevano anche una simpatica sala mortuaria
tutta bianca con panche e sedie a sufficienza. Tutto era abbastanza squallido ma pulito.
Non dava la sensazione di essere un istituto modello ma era passabile, la retta era di tre
dollari e cinquanta al mese. Con le mie vincite e lo stipendio della “Sartoria Genkins - abiti
su misura - arrivavamo a sei dollari. Quel giovedì mamma andò a vivere nella stanza 171
della clinica “Barker”. Albert ci accompagnò con la sua automobile. Quando entrammo sul
viale reso fangoso dalle ultime piogge Karen si fece il segno di croce e mormorò mi avete
portato nel buco del culo del Diavolo bastardi.
Lasciammo che piangesse sostenuta da una suorina che continuava a dirle
brava smetta di piangere si troverà bene qui
abituata.
Lei rispondeva bastardi.
su da
tutti le saranno amici. Presto si sarebbe
Per andare a trovarla avrei dovuto prendere tre pullman, svegliarmi piuttosto presto e
tornare stanco e sudato dopo le tre, perciò andavo alla clinica Barker solo quando Albert
faceva visita a Sam, un paio di volte al mese. La stanza era sempre in penombra, le
membra di Karen si confondevano con le lenzuola e i cuscini. Io mi stendevo vicino a lei,
lei mi carezzava il capo poi si addormentava, difficilmente ci parlavamo; non avevamo
nulla da dirci. Qualche volta le riferivo i pettegolezzi del quartiere ma non prestava
attenzione, solo quando le parlavo dei miei attacchi sembrava ridestarsi dal suo stato
semincosciente. Faceva domande sui sintomi e sull’efficacia delle nuove cure, voleva
sapere come stavo e se il dottore era soddisfatto dei progressi. Quando passeggiavamo
lungo il viale circondato da acacie cercava di infilarsi in macchina pregandomi di riportarla
a casa, che sarebbe stata buona e non mi avrebbe dato alcun fastidio, presto sarebbe
morta e sperava di farlo in casa. Era infelice e rassegnata. Io semplicemente inorridivo al
pensiero che lei mi aspettasse a casa, forse, morta.
Credendo di fare il suo bene la lasciavo ogni volta alla clinica Barker, camera 171, con
la promessa che presto sarei tornato a trovarla. Di notte il pensiero di mia madre ridotta in
quello stato mi disgustava, come sassate mi tornavano alla mente tutte le premure, le frasi
sciocche e divertenti che mi rivolgeva quando ero bimbo, le merende col pane e
pomodoro, il burro di arachidi, i regali per il compleanno, e quelli per il Santo Natale.
V
Con Albert mi sentivo perfettamente a mio agio. Bruciava sempre dalla voglia di farmi
domande e me ne faceva un mucchio. Lo interessavano le cose meno serie e più
indecenti.
-
qual è la definizione di magnaccia
-
magnaccia o magnaccio
magnare che vuol dire mangiare
mantenere da essa
-
e di zoccola
sostantivo maschile derivante dal verbo dialettale
indica colui il quale sfrutta una prostituta facendosi
-
zoccola sostantivo femminile dal latino sorex sorecis da cui anche sorca vuol dire
topo e in senso spregiativo prostituta
-
dovresti andare alla televisione al quiz show
-
a far cosa
-
a fare i soldi avessi io le tue capacità non sarei più un pidocchioso ma un signore
con tanto di lacchè
-
la malattia dove la metti
-
con tutti quei soldi ti passa e se non ti passa è meglio essere ricco e malato che
malato e povero ti dico che dovresti andarci al quiz show
-
e se mi viene un attacco di quelli forti mentre devo rispondere
-
allora saluti tutti e te ne ritorni a casa
-
già così mi prendete per culo per il resto della vita
-
e tu sbatti dollari sul muso a tutti
Albert era ossessionato dai soldi. Se vedeva una macchina sportiva subito ne diceva il
prezzo tasse comprese o quando una bella ragazza attraversava la strada lui, con un
rapido calcolo, m’informava di quanti dollari erano necessari per portarla a letto o all’altare;
la differenza era sostanziale. Tutto aveva un prezzo. Una sera alla clinica Barker davanti
ad un tramonto degno del l’Altissimo mi disse che avrebbe pagato sette dollari e
settantacinque per rivederlo, non un centesimo di più. Aveva un coltello magnifico col
manico d’avorio intarsiato che mi regalò il giorno del mio ventiseiesimo compleanno. In
poche ore lo feci vedere a tutti quelli che conoscevo e tutti si complimentarono per la lama
affilatissima o per il magnifico manico in avorio. Era il mio primo coltello. Se Albert mi
avesse dato anche la licenza di guida sarei diventato una persona come le altre. In tutta la
mia vita ho guidato con buona attitudine non più di sei o sette volte, sempre la macchina di
Albert, una vecchia Ford tutta scassata di un colore marroncino indefinito, arricchito dalle
strisciate di vernice multicolore provenienti da numerosi autoveicoli.
PARTE SECONDA
I
Nel 19-- la vista di Karen peggiorò molto. Il licenziamento dalla “Sartoria Genkins –abiti
su misura” le fu notificato il 23 febbraio, la buonuscita servì per pagare i danni ai tessuti
resi inutilizzabili da sforbiciate e cuciture clownesche.
Quando andai a trovarla era già sulla soglia della clinica Barker con i bagagli
saldamente stretti nelle mani nodose, una coperta sulle spalle per ripararsi dal vento e un
cappellino fucsia completamente calato sugli occhi.
-
da tre giorni vi aspetta- mi disse un dottorino del sud.
-
riportami a casa- strillò appena gli fui vicino.
-
perché vuoi tornatene in quel buco quando qui è così bello
-
se ti piace tanto vienici tu
io torno a casa
Tremava dalla rabbia, sarebbe crollata a terra da un momento all’altro con le mani
nodose, i bagagli, il cappellino fucsia e tutto il resto, e difatti svenne.
Il giorno dopo con un carrello da supermercato cominciai a raccogliere carta e cartone
dai negozi. Mezzo dollaro a quintale. Per fare un quintale di carta ci vuole un quintale di
tempo. Nascondevo sassi in palle di carta o bagnavo il cartone per aumentarne il peso.
Talvolta dalla cartaccia sbucavano libri, taglierini, forbici e perfino anelli, dalla loro vendita
ricavavo abbastanza soldi da pagare le medicine. Quando riempivo un carrello lo portavo
alla cartiera Macheath dove con un’enorme pressa riducevano tutto in un cubo pronto per
gli acidi. Da carta nasce carta e così avevo la sensazione di raccogliere sempre la stessa.
Per evitare che mi rubassero il carrello durante una crisi presi l’abitudine di legarmi con
una fune al suo gancio posteriore. Fu così che in cima a Doris hill, inciampando, cominciò
la mia discesa libera. Il carrello pieno di carta prese subito velocità, travolsi un vecchio
barbone che mi maledisse lungamente tra il frastuono di cianfrusaglie metalliche e vetro
rotto. Ululante per il dolore arrivai in fondo a Doris hill dove orribile gente del Giappone
scattò fotografie con il flash.
Di tanto in tanto Albert m’accompagnava nei giri, mangiavamo panini al sesamo e
bevevamo birra. Due volte la settimana giocavamo a carte, il martedì e il venerdì; fu
proprio uno di quei venerdì che decise il mio destino. Quella sera non vinsi. Qualcuno con
ogni probabilità barò. Non era comunque prudente lamentarsene pubblicamente e quindi
giocai di conserva fino a quando, stufo della commedia, feci finta di sentirmi male. Ero
ormai esperto nello strabuzzare gli occhi, dilatare le narici e preda del demonio menare
calci a destra e manca colpendomi il cranio energicamente. Mi lasciarono andare con
pacche benevole sulle spalle ma tenendosi la metà
dei miei soldi. Arrivai a casa
incollerito, frustrato. Per rifarmi avrei dovuto raccogliere tre quintali di carta. Questo
pensiero mi faceva venire su dallo stomaco ondate di bile. Più ci pensavo e più ne avevo
riempita la bocca. Un attacco mi colse sulla soglia di casa. Mi rendevo conto di emettere
urla bestiali, articolando insulti e minacce all’imbroglione.
-
con queste mani ti ammazzo tu possa marcire all’inferno raccolgo tutta la carta di
merda e tu mi prendi i soldi porcaccia miseria carogna ti accoltello la faccia carogna
accoltello ti ammazzo
Le ringhiere evitarono che precipitassi nella tromba delle scale. Nonostante l’ora tarda il
baccano fu tale che in molti vennero a verificarne l’origine, mi diedero da bere un whisky e
poco dopo potei entrare in casa sulle mie gambe.
Si moriva dal caldo. Tolsi le scarpe e i pantaloni, ma giunto in cucina m’investì un odore
dolciastro. Molti oggetti erano stati spostati, qualcuno doveva essere entrato in casa.
Istintivamente andai con la mano alla ricerca del coltello ma anche quello non era al suo
posto, mi maledissi perché non lo avevo portato con me. Rimasi immobile per più di un
quarto d’ora, trattenevo il fiato immaginando che l’altro stesse facendo lo stesso dietro la
porta. Ogni volta che i fari di una macchina di passaggio creavano ombre minacciose, il
cuore mi saltava alla gola, soffocandola. Aspettavo, teso all’ascolto, che l’altro si tradisse
con un passo, un sussurro. Dopo mezz’ora mi convinsi che chiunque era entrato se ne
fosse già andato, avvertito dal baccano che avevo fatto sul pianerottolo. Spalancai
vigorosamente la porta del soggiorno, quell’odore dolciastro mi attaccò alle narici,
nauseandomi; qualunque cosa ne fosse l’origine doveva essere ancora in quella stanza.
Entrai chino, trafelato, una sostanza vischiosa si appiccicò ai calcagni paralizzandomi,
quella doveva essere la fonte delle esalazioni. Mi resi conto di essere al buio così andai
verso l’interruttore, lo misi in posizione on, la luce si sparò nelle pupille. Sulla sua sedia di
legno scuro giaceva Karen. Le corsi vicino, era immobile, come sempre china sul grembo.
-
Karen Karen che diavolo ci fai qui mi hai fatto prendere un colpo pensavo fossero i
ladri come hai fatto a tornare a casa
Quando mi chinai su di lei vidi lo scintillio di una lama farsi strada nel petto, il manico
d’avorio intarsiato era stretto tra le mani. Per terra il sangue mi aveva incollato i piedi al
pavimento. Urlai. Mi parve che la casa fosse sballottata dalle fondamenta, tutto si fece
buio.
Panico.
Pooot, un clacson dalla strada.
DRIIN
DRIINDRIIN
Qualcuno alla porta suonava il campanello.
Silenzio. Rannicchiato a terra facevo silenzio.
DRIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIN
Il campanello vibrò con insolenza la sua nota, una voce di uomo gridava il mio nome,
pugni sul legno del battente.
Albert
Sentivo i vicini che l’informavano della crisi, se non fossi andato ad aprire avrebbero
sfondato la porta. Mi alzai. Camminando emettevo un rumore terribile per via del sangue
rappreso sotto i piedi. Rimisi le calze ed i pantaloni, aprii la porta e Albert si precipitò
dentro, lo afferrai per la giacca e lui sorrise allargando le braccia.
-
che c’è non posso entrare
-
no cioè si entra
-
cos’è quest’odore stai cucinando
-
no
-
peccato ho fame hai della carne
-
si in freezer
-
che hai fatto alle mani ti sei tagliato
-
no
-
sono piene di sangue
Lo portai da Karen.
Rientrando nel salotto mi resi conto della straordinaria quantità di sangue che ricopriva i
rombi delle mattonelle. Albert imprecò. Avvicinandosi con cautela al cadavere mi sussurrò
qualcosa, ma non capii. Poi ripeté ad alta voce sei stato tu.
- come io che ti salta in mente no che non sono stato io
- come è arrivata qui sei andata a prenderla
- no l’ho trovata così
- sei stato tu
- no l’ho trovata così
- ha in corpo il tuo coltello
- lo avevo lasciato a casa
- se si è suicidata deve aver lascito qualcosa di scritto un biglietto
Cercammo dappertutto senza successo. Alla fine concludemmo che era opportuno
perquisirle le tasche, che forse il biglietto ce l’ha addosso, suggerì Albert.
Per una valida ricerca si decise di stenderla a terra, pancia in su. Albert le prese i piedi,
il rigor mortis non era ancora subentrato perché le ginocchia si distesero senza difficoltà. A
me spettava tirarla su per le braccia. Le mani artritiche stringevano il manico del coltello
infisso nel cuore con una forza straordinaria. Dovetti scardinare quella selva di dita una ad
una. Il viscidume del sangue mi complicò non poco il compito. Al tre la portammo, leggera
come una scatola vuota, diversi metri più in là, poggiandola sul pavimento pulito.
Prendemmo uno strofinaccio bagnato e le lavammo il viso. Aveva un occhio rovesciato,
completamente bianco.
Cercai nelle tasche, quelle apparenti e quelle nascoste, trovando solo otto bottoni
diversi per dimensione e colore, fili con e senza ago e un grandissimo numero di spille.
Nessuna lettera, neanche un biglietto. Piansi molto.
II
Secondo Albert la presenza del mio coltello tra gli atri ed i ventricoli di Karen era
sufficiente per accusarmi di matricidio. Con poche parole riuscì a persuadermi di non
chiamare la polizia, che se lo avessi fatto mi avrebbero portato dritto in galera, buttando
via la chiave. Mi spiegò che un suo cugino di N., entrando in un negozio di tabacco aveva
trovato il rivenditore con la pancia squartata da colpi d’ascia, chinatosi per accertarne lo
stato di salute e per la naturale curiosità degli uomini verso i visceri, udì la madre del
sindaco urlare all’assassinio. Da dodici anni scontava l’ergastolo.
Avevo molta paura e questa storia m’impressionò non poco. Era quasi mattina quando
Albert se ne andò lasciandomi con il cadavere steso per terra. Pulii il pavimento e la sedia
di legno scuro, a fatica perché il sangue non voleva proprio staccarsi. Dormii di un sonno
pesante, comatoso.
Risvegliandomi udii il campanile che batteva il tocco.
Albert era tornato con una grande valigia marrone di cartone pressato. Non servirono
spiegazioni. Lasciò le chiavi della vecchia Ford sul tavolo della cucina. Uscendo disse che
sarebbe andato a trovare dei parenti della madre che vivono nella contea di C, a presto.
Quel giorno il termometro segnò quarantun gradi. Aspettai che rinfrescasse per iniziare
il mio lavoro. L’occhio bianco sembrava guardarmi ovunque stessi, nonostante il caldo
coprii karen con una coperta. Alle sei aprii la valigia, era vuota, con un buon odore di
lavanda. Sollevai le gambe di Karen poggiandole dentro. Il busto era così rigido da non
cedere sotto i miei colpi. Dovetti rovesciare il tavolo del salotto e far forza sul collo per
riuscire a piegarla. Rimisi le gambe nella valigia, il tronco così piegato entrava
perfettamente, la testa tra le ginocchia sembrava fatta apposta. La gamba destra più lunga
dell’altra sporgeva di tre centimetri, non di più.
Mi venne da ridere. Con un robusto spintone cercai di mettere a posto la canaglia,
scricchiolò ma non cedette. Ritentai. Nulla da fare. Provai a chiudere ugualmente il
serramento. Impossibile. L’unica soluzione era amputare. Cercai un buon coltello affilato
ma il solo adatto all’impresa era già impegnato. Optai per il coltello che usavamo per
tagliare il pane, trenta centimetri di lama seghettata. Senza toglierla dalla valigia afferrai la
caviglia con la mano sinistra, mentre con la destra cercavo il punto di minor spessore e
maggiore morbidezza della gamba. Lo individuai a circa due centimetri dal tarso. Un
grosso neo indicava il punto esatto.
Mi sforzavo di pensare che fosse una bistecca di maiale o, ancora meglio, un ramo di
quercia.
Cominciai a segare lentamente, la pelle flaccida sfuggiva da tutte le parti, il neo si aprì
in due parti disuguali, subito arrivò l’osso. Impiegai trentacinque minuti per tagliarne una
buona parte, il resto lo spezzai con un colpo secco. Non fu necessario resecare tendini e
legamenti. La valigia si chiuse perfettamente. La sollevai per provarne il peso. Con poco
sforzo la portai fino all’ingresso. Dovetti aspettare le tre e venti prima di poter scendere
non visto, per precauzione non accesi le luci delle scale e la valigia andò a sbattere alla
ringhiera ma nessuno uscì a lamentarsi del trambusto.
Un silenzio spaventoso paralizzava il quartiere. Non un rumore. Il mio respiro sembrava
una locomotiva a vapore. Cercai di trattenere il fiato senza riuscirvi. Albert aveva
parcheggiato la vecchia Ford dietro l’angolo, dove la luce dei lampioni non arrivava, la
strada era deserta. Frugai le tasche in cerca delle chiavi.
- maledizione le chiavi
Per far presto decisi di lasciare la valigia a fianco la macchina (provai ad infilarla sotto
ma era troppo grande). Col cuore in gola salii le scale al galoppo, aprii la porta, presi le
chiavi sul tavolo della cucina e ridiscesi in strada, nessuno in vista. Caricai la valigia nel
portabagagli e mi sedetti al posto di guida. Avevo visto mille volte armeggiare con pedali,
volante e leve ma non avevo mai guidato. A uno come me la patente non si dà.
Fortunatamente Albert aveva lasciato un biglietto con le istruzioni.
1)
Regolare il sedile con la leva sottostante
2)
Regolare gli specchietti
3)
Inserire la chiave e ruotarla in avanti (messa in moto)
4)
Se buio, accendere i fari con il pulsante alla sinistra
del volante
5)
Se piove, azionare i tergicristalli con la leva a
sinistra del volante
6)
Togliere il freno a mano (leva dura a destra)
7)
Inserire con la mano destra le marce automatiche,
posizione D per andare avanti, R
per andare indietro, P per parcheggiare, N per star fermi
8)
Spingere il pedale a destra per accelerare, quello a
sinistra per frenare
9)
Sollevare la leva di destra per segnalare la svolta a
sinistra (freccia di sinistra)
10)
Abbassare la stessa leva per segnalare la svolta a
destra (freccia di destra)
11)
Prima di scendere dall’auto posizionare in alto la leva
del freno a mano
12)
Per spegnere il motore portare la chiave nella posizione
iniziale
Spero di aver scritto tutto giusto.
Che Dio ti aiuti.
Seguii le istruzioni scrupolosamente fino al punto 7, ma saltai il 5 perché non pioveva.
Quando spinsi il piede destro sull’acceleratore la macchina vibrò tutta e si avviò lungo la
strada. Sembrava facile. Provai a frenare, inchiodando sull’asfalto. Ripartii che quasi
cantavo, guidavo un’automobile come tutte le persone normali.
La
provinciale che porta in campagna era deserta e lì un posto tranquillo dove
seppellire
Karen
l'avrei trovato. Un grosso camion mi venne incontro con i fari
abbaglianti, sembrava impazzito e per evitarlo dovetti salire sul marciapiede travolgendo
una cassetta delle lettere. Un motociclista sfrecciò a destra, un’auto sportiva mi diede la
precedenza all’incrocio semaforico. Tutto filava liscio, nessuno incontrandomi aveva
sospettato che non avessi la patente, nessuno chiamò la polizia, neanche una suonata col
clacson.
Alla radio, sui 950 megahertz, Stan Gets cantava Night and Day poi con frenesia Glenn
Miller attaccò Perfidia. Aprii il finestrino, accelerai e il vento mi scompigliò i capelli.
Quell’estate canicolare e cannibale non sembrava finire mai. Non pioveva da più di tre
mesi e da noi è una cosa fuori dall’ordinario, tanto che vennero dei meteorologi a studiare
quell’estate crudele.
Sul ponte B spinsi l’acceleratore al massimo, a scatti e sobbalzi la macchina prese
velocità, ottanta miglia orarie, non mollai la pressione e salì a ottantacinque. Niente male
per un novellino. Tutto scorreva fulmineo, i pistoni,
efficienti, tamburellavano sotto il
cofano allegramente. Come una palla di cannone giunsi dall’altra parte del ponte, lì
cominciava la campagna di Nora. Nora era una vecchia signora mezza sciroccata che
aveva abitato quelle zone all’inizio della nostra storia, intendo quella patriota. Dormiva
sotto le stelle e si cibava di bacche e radici. Persone più savie non hanno una campagna
col proprio nome. Oggi la città è arrivata anche lì, con palazzi e supermercati tre per due,
gli alberi sotto i quali si andava a far l’amore sono stati spazzati via, sostituiti da squallidi
alberghi a ore.
Arrivato ad una biforcazione voltai a destra, procedendo lentamente giunsi in un punto
che sembrava adatto. Orinai sulla corteccia di un tasso, l’abbaiare di un cane si percepiva
appena, l’aria odorava di fiori selvatici ed erba secca. Presi la valigia e mi allontanai dalla
strada, il posto sembrava adatto e mi sedetti un attimo sulla valigia per riposare. Avevo un
gran sonno, mi ripromisi che sistemata quella faccenda avrei fatto una bella dormita.
Soltanto in quel momento mi resi conto di non aver portato una vanga con cui scavare;
con la terra indurita a quel modo dal sole era impossibile usare le sole mani. Imprecando
ricaricai Karen nel portabagagli e mestamente feci ritorno in città. Giunsi sotto casa che
già albeggiava, operai e massaie facevano capolino dalle finestre, qualcuno in strada si
godeva il fresco salendo sul tram. Scaricare la valigia non si poteva proprio, sarei stato
sicuramente notato, perciò m’infilai con nonchalance nel portone.
Bevvi mezza bottiglia di rum regalataci dallo zio Ben, un altro fratello di mamma, per la
sua visita a Miami. Alle due cominciò il giro per la raccolta della carta. Quel giorno tutti
vollero liberarsi di pacchi e risme di carta. Tre volte andai a scaricare il carrello nella
pressa della cartiera Macheat. Lì un operaio, figlio di un amico di Jack, mi procurò una
vanga.
Tornato a casa feci un bagno bollente, addormentandomi nella vasca. La pelle dei piedi
che tirava da tutte le parti mi fece svegliare di soprassalto, con un pensiero Karen come
sarà ora la pelle dei suoi piedi.
Osservando con attenzione le rughe sui polpastrelli, mi resi conto che formavano archi
concentrici di carne chiara, esangue, comunemente definiti mani e piedi da morto. Karen
aveva forse gli stessi archi? Poteva sentire anche lei la pelle dei piedi che tirava
restringendosi?
Sicuramente non quella del piede destro. Troncando la caviglia avevo notato che la
sezione dei suoi muscoli era cerulea, stoppacciosa, del tutto simile alla carne di pesce e
ciò m’ispirò una domanda: quei muscoli cerulei, l’intestino, le cervella e tutto quanto il
resto, che odore avrebbero assunto dopo una giornata torrida passata in un sarcofago di
cartone e lamiera?
In un attimo ero in strada che mi avvicinavo con lunghi passi alla vecchia Ford. Feci
finta di allacciarmi le scarpe appoggiando un piede sul paraurti posteriore e con lunghe
inspirazioni verificavo la presenza di odori nauseanti. Avvicinai il naso alla guarnizione
senza percepire altro puzzo che le esalazioni di fritto provenienti da una finestra del
pianterreno. La fame repressa per tre giorni esplose in un sol colpo, succhi gastrici
stagnanti presero a sciacquettare nello stomaco, la saliva con un fiotto mi riempì la bocca.
Pavlov ne sarebbe stato orgoglioso.
Sull’altro marciapiede “Costa il greco” arrostiva metri di Gyros pita. Adolescenti butterati
facevano gare di ingozzamento. La carne, croccante fuori, sanguinolenta dentro, veniva
ingollata da fauci voraci, le mani si alternavano sul piatto, le guance si farcivano di resti
carnei rosa e neri, succhi speziati di aromi orientali colavano dal mento direttamente sulle
camicie bianche da collegio. Il ciccione a capotavola vinse, quello col collo lungo pagò da
bere, lamentandosi che a lui il cibo impiegava più tempo a scendere fino allo stomaco.
Risa generali, brindisi.
Mi misero di buon umore, mangiai a sazietà e bevvi del vino rosso simile al marsala.
Cantammo insieme canzoni sconce e qualcuno fece da mimo con movimenti osceni delle
anche e della lingua.
Tre ore più tardi ero di nuovo alla guida, un poco brillo ma felice. Nello specchietto
controllavo la vanga stesa sul sedile posteriore. Davvero una piacevole serata.
Passai sul ponte B ma non mi fu possibile ritrovare l’incrocio, nessun posto sembrava
altrettanto buono di quello della sera precedente. Vagai due ore su stradine sterrate e alla
fine, seccato, ripresi la provinciale per tornare a casa, giusto all’alba.
Evacuai feci dure e nere come la pece. La mucosa buccale era rivestita di afte dolenti,
rosse in periferia, bianche al centro. Dallo stomaco salivano gorgoglianti emissioni
pestifere che giunte alla bocca aggredivano le afte. Uno schifo.
Driiin Driiin Al telefono una voce gracchiante comunicò concitatamente che Karen era
scomparsa dalla clinica Barker, io la rassicurai dicendole che la mamma era tornata a
casa, lei mi chiese di parlargli, le risposi che Karen stava aspettando in macchina per
andare al centro commerciale, mandatemi il conto.
Al Ratafià bevvi un succo al tamarindo con un uovo crudo per vomitare. Albert non era
ancora tornato o almeno lì nessuno lo aveva visto. Mi rendeva nervoso l’idea che andasse
in giro per la contea di C raccontando che conosceva uno con la madre chiusa nella
valigia. Era un gran chiacchierone ma comunque non c’era niente da fare.
Due inglesi lentigginosi vollero provare la mia abilità di pokerista, i soldi che vinsi li spesi
per comprare un purgante alla vaniglia, una confezione di profilattici tipo ORO e un coltello
serramanico con un drago rosso e verde disegnato sulla lama affilatissima. Era sabato
sera e per non rischiare che qualche bifolco tornando dal bingo mi vedesse nel suo campo
di patate con la vanga in mano partii più tardi del solito. Con tutti i finestrini aperti percorsi
a razzo il ponte B, Karen cominciava a puzzare, sedili e tappetini erano intrisi del suo
odore. Dovevo assolutamente liberamene quella notte. La velocità non aumentava
nonostante stessi spingendo il pedale di destra fino in fondo, provai ancora a singhiozzo
ma niente, la macchina si stava fermando. Scesi per verificare la presenza di qualcosa
che avesse potuto frenare la macchina, nulla. I fari di un’automobile venivano nella mia
direzione. Un furgone marrone e beige accostò, ne discese un energumeno pelato con
una torcia elettrica. Nella tasca dei pantaloni impugnai saldamente il coltello.
-
cosa ti è successo
-
non so si è fermata
La voce, traditrice, mi tremava.
-
il motore
-
fo forse non me ne intendo
-
sei il nipote di Bob Donan
-
no
no mai sentito nn nominare
Miseriaccia, balbettavo come una verginella.
-
cos’è quest’odore letame
-
sì pollina p per l’orto
-
apri il cofano
-
mi hai sentito ti ho chiesto di aprire il cofano
-
non non so come si fa
-
di un po’ l’hai rubata quest’auto
-
no è che
è che l’ho appena comprata
Entrò nell’abitacolo e ne uscì ridendo come solo i campagnoli sanno fare. Potevo
distinguere nella semioscurità i molari d’oro in quella bocca piena di denti infetti. Mi venne
voglia di assestargli un bel pugno sul grugno.
-
la benzina amico hai finito la benzina ti toccherà andare a piedi fino alla stazione di
servizio di Ed
Lo convinsi ad accompagnarmi in cambio della confezione di profilattici tipo ORO,
insisté nel volere un sacchetto di pollina ma lo dissuasi regalandogli la vanga. Ed versò un
gallone di petrolio nella tanica, accettò in permuta la purga ed il coltello. Ritornai a piedi
alla macchina, svuotai la tanica e la riportai da Ed. Era giorno fatto quando potei buttarmi
sul letto, dormendo all'istante.
L’abbaiare poderoso di un cane mi svegliò verso le tre e mezzo. Lavai i denti e
cominciai a sbarbarmi, il cane continuava ad abbaiare. Affacciato dalla finestra del bagno
scorsi sul marciapiede un grosso cagnaccio rosso che ringhiava e latrava all’indirizzo di
Karen.
Perdio, sentiva l’odore di ciccia. Scesi di corsa con metà viso ancora barbuto cercai di
scacciare il cane ma quello si infervorava sempre di più e ci mancò poco che mi
azzannasse. Risalii a prendere le chiavi della macchina, quando scesi il bastardone era
ancora lì a far baccano. Sgommai verso la zona industriale, ma quello m’inseguì per più di
un chilometro.
Pieno e cambio d’olio, così come mi consigliarono di fare alla pompa di Zio Joe,
costarono una fortuna. Vollero sostituirmi anche le lampadine dei fari, i tergicristalli,
sembrava stesse maturando un acquazzone, e la ruota posteriore sinistra, a giudizio di Zio
Joe usurati e pericolosi. Rimasi in macchina tutto il pomeriggio, spostandomi ogni
qualvolta un cane cominciasse ad abbaiarci. In un ferramenta dovetti comprare un nuovo
coltello e una vanga. Al tramonto m’incamminai verso la solita meta. Purtroppo le nuove
lampadine di Zio Joe non funzionavano perciò, in quell'oscurità, sterzai solo all’ultimo
momento per evitare un gatto nero che tagliò la strada. La sfortuna fu immediata. Uscii
fuori carreggiata. La ruota posteriore sinistra esplose con un botto fragoroso. Il fanale di
sinistra si era disintegrato sul tronco di un albero, un bernoccolo mi si gonfiava sulla
fronte,.
Chino sotto la macchina per verificare i danni alla ruota, una goccia di un liquido
sconosciuto mi colpì un occhio, bruciandolo. Urla e bestemmie non furono risparmiate.
C’era un pertugio dal quale quel liquido fuoriusciva con sporadiche gocciole pendenti.
Benzina, pensai, ma strofinando indice e pollice, per verificare meglio l’odore alifatico,
scoprii che non si trattava di tale molecola. Un’altra goccia finì su una guancia,
istintivamente andai con la lingua, il pentimento fu immediato. L’odore era organico, anche
se nulla di decente poteva avere un tale sapore. A pensarci bene sembrava un distillato
del fetido tanfo che aveva impregnato sedili e tappetini della macchina. Urlai dando fondo
ai polmoni, uscii alla svelta e sputai ripetutamente, fin quando la saliva finì, allora infilai
indice e medio nel faringe. Sprazzi di vomito acido m’imbrattarono pantaloni e scarpe.
Un’ora più tardi, quando fui calmo, aprii il portabagagli tenendo la manica della giacca
sul naso. Sulla superficie della valigia erano comparse delle bolle grandi come noci, di un
marrone più scuro di quello proprio della valigia. In cima ai rigonfiamenti vegetavano
floride colonie di microscopici funghi fosforescenti. Cimici e scarafaggi scappavano
indaffarati per ogni dove con il pasto caricato sulla schiena o tra le braccine minuscole.
Sollevando la valigia involontariamente ruppi una di quelle pustole fungine. Ne uscì un gas
verdastro, filamentoso, che giunto alle narici, già fortemente provate, provocò una specie
di cortocircuito cerebrale. Un attacco violento mi scaraventò a terra, la testa mi doleva
terribilmente, digrignai i denti cercando di resistere. Afferrai un arbusto posto sul ciglio
della strada, sradicandosi sollevò un terriccio vivo per la quantità di insetti neri che lì
avevano fatto il nido. Questi si unirono agli altri che la tana l’avevano nella valigia, nel
frattempo caduta alla mia destra. Guardai quei minuscoli parassiti mentre fraternizzavano,
accarezzandosi con le antenne, facendosi riverenze con le zampette.
Le meningi mi prudevano come invase da quegli insetti, i polmoni non rispondevano alla
mia chiara volontà di respirare. Ossigeno per il mio corpo, ossigeno per quel cervello che
faceva i capricci. Pensai ad un ammutinamento suicida delle membra stanche di essere
sottoposte a tale martirio ma un solletichio, come un volo di farfalla sul diaframma, stimolò
l’uscita di un rigurgito acquoso. Una buona parte la respirai causando una fastidiosa
polmonite ab ingestis curata poi in carcere.
Presi la ruota di scorta ed il cric nel vano nascosto da un tappetino umidiccio. Pipistrelli
apparentemente disorientati battevano le ali timide sul mio capo e tutto intorno un buio
inesauribile mi circondava. Con grande fatica sostituii la ruota, insozzandomi le mani e il
viso di grasso. Ricaricai tutto nel portabagagli col pensiero che avrei potuto lasciare la
valigia in un fosso ma provai subito vergogna di aver avuto un’idea così vigliacca. Ancora
una volta avevo fallito.
Il temporale tanto atteso cominciò a scudisciare il parabrezza con frustate poderose. I
tergicristalli di Zio Joe dovevano essere della stessa partita dei fari perché anche quelli
non funzionavano. Per di più non potevo chiudere i finestrini per il gran fetore così che
l’acqua entrava copiosa nell’abitacolo. I pochi automobilisti nottambuli che mi vennero
incontro dimostrarono scarsa solidarietà collegiale lanciando insulti e torturando il clacson.
In fondo non era colpa mia se non avevo i fari, che vadano a lamentarsi da Zio Joe pensai
contrariato.
Per fortuna il bagliore dei lampi illuminava a sprazzi la strada, io seguivo
disciplinatamente la striscia di vernice bianca alla mia destra. Sentivo chiaramente che il
bozzo sulla fronte continuava a crescere incontenibile, l’occhio destro anche se ancora
dolente ricominciò a funzionare a dovere. Accesi la lucina posta vicino allo specchietto
retrovisore, quella usata dalle signore per rifarsi il trucco. Cercai di osservare con metodo
il quadro che si presentava, partendo dall’alto e scendendo man mano: i capelli erano
zuppi, ripiegati in riccioli intrisi del liquido fuoriuscito dalla valigia e di pioggia, sulla fronte il
bubbone stava come un papa sullo scanno. Era rosso e duro come una caramella al
lampone, con in cima un taglietto dal quale era uscito dello sciroppo ormai rappreso.
L’occhio sinistro era normale, di un nocciola tendente al verde, l’altro pieno di arteriole
congeste simili a ragnatele di fuoco, molto più grande del normale, ancora lacrimante. Mi
fece venire in mente il mastino dei Baskerville. Il naso era in parte ricoperto da una lunga
strisciata di grasso che si spingeva sulla barba sopravvissuta alla rasatura mattutina. La
porzione controlaterale era invece liscia e pulita, neanche un graffio.
Sul collo alcuni insetti erano imprigionati in un lobulo di grasso, con bracciate poderose
cercavano di portarsi in salvo ostacolandosi l’un l’altro. Rimasi ad osservarli con
attenzione. Ce n’era uno paffutello, in assoluto quello che più di tutti m’ispirava simpatia,
sempre che una bestiolina del genere possa essere considerato gradevole. Si era ribaltato
sul groppone mostrando uno scudo attorniato da zampette uncinate. C’era in lui qualcosa
di giocoso, se la spassava beatamente nuotando stile dorso in quel laghetto artificiale. Gli
altri erano un vero schifo. Si muovevano con scatti scoordinati e robotici, respirando,
annaspando volgarmente. Tutti affannosamente pensavano solo a portare a casa la pelle,
senza considerare che io ero lì a guardarli. Bestie.
A metà del ponte B una luce azzurrina illuminava il selciato. Lasciai gli scarafaggi ai loro
affari per concentrarmi su quello scintillio che con regolarità si proiettava tutto intorno.
Come il faro a cui lavorava nonna Mary, morta nel 19--, lo stesso anno in cui è nata mia
sorella che ne ha preso il nome, su a P.. La luce rimbalzando sull’acqua si diffrangeva in
milioni di goccioline luminescenti. Quest’immagine così familiare mi fece avvicinare con
sicurezza, sapevo di trovarvi un porto sicuro, nulla di male sarebbe potuto succedere al
faro di nonna Mary. Dopo giorni di vero inferno finalmente potevo rilassarmi,
abbandonandomi dolcemente alla corrente, confortevole come la resa senza condizioni.
Con il mio carico giunsi vicino alla sorgente luminosa dove un uomo magrolino e
raffreddato mi salutò con la mano, chiedendomi di scendere. Si passò la manica della
giacca sotto il naso starnutendo rumorosamente. Un altro in divisa, col mitra sottobraccio,
mi chiese di mostrargli la patente e i documenti della macchina.
PARTE TERZA
I
Posi i documenti nelle mani del mingherlino che sorrise con labbra sottili e sbilenche.
Attentamente controllò ogni scritta, poi chiese:
-
la patente
-
l’ho dimenticata a casa
-
hai qualche altro documento di riconoscimento
-
sì certo
-
sei anche spiritoso bravo
-
no scusate agente non volevo fare dello spirito ma ho avuto un incidente e sono un
a casa
poco scosso
-
perché vai in giro senza fari accesi
-
li ho sostituiti oggi ma non funzionano
-
sei andato da Zio Joe
-
sì da Zio Joe
-
e i tergicristalli
-
Zio Joe
-
ti sei fatto fregare
-
già
-
a cosa hai sbattuto
-
un tiglio credo
-
sei ubriaco
-
no no sto bene va tutto bene ora
un gatto mi ha tagliato la strada
L’uomo in divisa puntò la torcia sul mio viso. Sapevo cosa avrebbero visto. Gli
scarafaggi continuavano a solleticarmi sotto il mento, con la mano cercai di coprirli ma era
troppo tardi. Pensai che non era un reato avere sul viso bubboni sanguinolenti, metà
barba, grasso per automobile con scarafaggi incastonati e un occhio grosso e rosso.
-
che ti è successo ragazzo una giornata storta
-
sì agente
-
in venticinque anni di servizio non ho mai visto una faccia ridotta così
devi aver
avuto proprio una brutta giornata
Illuminò più in basso, le mani nere e il vestito macchiato dal vomito.
-
già proprio una brutta giornata - ripeté.
Mi perquisirono trovando il coltello e il portafogli nelle tasche dei pantaloni. Nel
portafogli la carta di identità dimostrava che la macchina non era mia. Dalla centrale una
voce metallica, probabilmente femminile, comunicò che ero sprovvisto di regolare
permesso alla guida, inoltre la clinica Barker aveva denunciato la scomparsa di mia
madre.
Tutti e due diventarono ombrosi, questo m’innervosì molto. Cominciai a spiegargli che
la macchina era di un amico ma mi dissero di stare zitto. Parlottarono per cinque minuti poi
quello col mitra mi chiese:
-
tua madre è scomparsa
-
no
è a casa
non resisteva più a stare in clinica ed è tornata a casa da sola
sembra una vecchietta tanto fragile ma ha l’argento vivo addosso
starsene tutto il giorno tra quelle mummie
potete controllare alla Barker
telefonato ieri o l’altro ieri e gli ho spiegato tutto
che facevi in campagna a quest’ora
-
volevo fare una passeggiata
mi hanno
non sapevo che avessero fatto una
denuncia ma forse è la normale routine non è vero
-
non ce la faceva a
la macchina come
un giro in machina
Quello magro mise la testa nell’abitacolo attraverso uno dei finestrini aperti.
Immediatamente la ritrasse.
-
da dove viene questo puzzo
-
il mio amico il padrone della macchina ci trasporta concime
-
perché hai un coltello
-
oggigiorno con i delinquenti che ci sono in giro
-
sei un contadino
-
no raccolgo carta
-
perché allora porti una vanga
-
serve per scaricare il concime
Poi arrivarono le parole che non avrei voluto sentire.
-
apri il portabagagli
-
hai sentito ragazzo apri il portabagagli
-
ma no agente facciamola finita
va bene guidavo senza patente ma ora non
facciamone una tragedia pago
-
cosa vuoi pagare
-
la multa
-
la pagherai ma ora apri il portabagagli
-
vi avverto che lì dentro c’è un terribile fetore di concime
-
apri
Spalancai il portabagagli con le mani che mi tremavano.
-
che c’è nella valigia
-
concime
-
in venticinque anni di sevizio non ho mai visto mettere il concime in una valigia
-
aprila
Sperando di dissuaderli dal guardare nella valigia ruppi alcune delle bolle che vi
stazionavano sopra. Ne fuoriuscì un fetore ripugnante che mi fece guadagnare dieci minuti
nei quali spiegai che aprendo la valigia il puzzo ci avrebbe appestato orribilmente i vestiti e
a casa la mamma mi avrebbe fatto una ramanzina se fossi tornato a quel modo.
Quando i gas verdastri si dispersero nella pioggia i poliziotti m’intimarono di far presto
che non avevano tutta la notte da perdere. Aprii sperando di non trovare quello che vi
avevo messo e, in un certo senso, fu proprio così.
Per pochi istanti un silenzio siderale calò su di noi, il fascio di luce della torcia diede vita
ad un’orda muta di grosse mosche dai riflessi metallici che ci assalì. Voraci ci ricoprirono il
viso, le mani, passando dalle maniche della giacca o attraverso il colletto della camicia e
per ogni dove si potesse poi trovare un pasto edenico, pelle glabra. Le sentivo salire su
per i pantaloni, rosicchiarmi la schiena, ronzare sulla testa in una girandola perfida.
Simultaneamente ci buttammo a terra rotolano sull’asfalto per sottrarci a quelle bocche
fameliche. Potevo percepire sia all’udito che al tatto lo scricchiolio delle bestioline
schiacciate, lo scheletro chitinoso si frantumava sotto il peso dei nostri corpi. Ci alzammo
spogliandoci completamente con furia, cadaveri minuscoli cadevano a terra rimbalzando,
le sopravvissute scappavano disorientate. L’agente in borghese minacciò con l’indice
dicendo che questo scherzo me lo avrebbe fatto pagare. Non so perché a questo gesto si
sciolsero le lacrime che serbavo per la sepoltura di Karen. Non era colpa mia se nella
valigia c’erano tutte quelle mosche, e poi avevano assalito anche me. Lacrime salate
precipitavano sull’addome, scivolando sulle gambe. Ogni volta che venivano a contatto
con le escoriazioni appena prodotte da quella turba, bruciavano le carni straziate.
Mentre i poliziotti si rivestivano mi avvicinai a Karen rompendo in singhiozzi. Potevo
intravedere giusto i contorni di quel corpo sfortunato, ammassato su se stesso, distrutto.
Poco dopo si posero al mio fianco e la luce rese manifesto l’orrore raccapricciante di una
salma violata, privata della dignità di cui godono i morti. Bianche larve facevano capolino
dalla pelle martoriata, muscoli e organi dovevano esser pieni di tragitti tortuosi prodotti da
quegli animali avidi. La luce inesorabile andò sulla gamba mozzata. Vi albergavano
scarafaggi della stessa specie di quelli che avevo sul collo. Frettolosamente si rifugiarono
nei cunicoli bui scavati nel corpo di Karen, scomparendo. Il magrolino si allontanò per
vomitare, l’altro puntò il mitra nella mia direzione.
II
Il processo durò solo tre settimane. L’autopsia sui poveri resti di Karen indicò il sette
agosto come data del decesso. La causa, seppur evidente, fu ricondotta all’emorragia
dovuta ad una ferita penetrante da lama nell’emitorace sinistro con resezione dei grossi
vasi alla base del cuore. L’amputazione della caviglia era avvenuta dopo il decesso in
modo rudimentale.
Mi dichiarai innocente.
Furono chiamati a testimoniare dottori e infermieri della Barker, gli inquilini del palazzo,
Albert, il Dottor Moskat e alcuni negozianti del quartiere apparentemente informati sui fatti.
Una sola cosa accomunava le loro versioni, nessuno aveva visto Karen rientrare in casa.
Compatto il personale medico e paramedico della clinica affermò che nelle “rare” visite
alla Barker mi ero dimostrato “insensibile e arrogante”, sono state queste le parole usate
da un conducente di ambulanza di cui l’unico ricordo che ho è una sigaretta fumata
insieme nel corridoio di fronte la camera 171. Voleva a tutti i costi vendermi un vecchio
mobile a cassettoni avuto, così diceva, in eredità da una zia. Per togliermelo di torno
dovetti regalargli un pacchetto di sigarette e un paio di spintoni.
I condomini rammentarono con esattezza le parole deliranti che avevo urlato mentre
entravo in casa la notte del sette agosto: con queste mani ti ammazzo tu possa marcire
all’inferno raccolgo tutta la carta di merda e tu mi prendi i soldi carogna ti accoltello la
faccia ti ammazzo.
Naturalmente furono considerate rivolte a Karen e quando spiegai che invece erano
riferite a un baro che quella sera mi aveva ripulito il giudice rise scuotendo la testa. Dal
banco dove ero seduto potevo vedere Mary e il figlio. Era un bimbo stupendo, con la testa
tutta gialla e le mani minuscole e grassotelle. Non ci permisero di parlare ma dal suo
sguardo capii che credeva alla mai innocenza. Al suo fianco Albert le faceva forza
tenendole la mano fino a quando fu chiamato a deporre. Raccontò di avermi sorpreso con
le mani sporche di sangue in stato confusionale, schiarendosi la voce affermò che non
trovando il biglietto di addio della suicida lui stesso mi aveva persuaso a non chiamare la
polizia. Dichiarò solennemente che ero una persona a posto e pretese che fossi rilasciato
immediatamente. Il giudice prima di farlo arrestare per complicità in occultamento di
cadavere gli fece riconoscere l’arma del delitto. Dodici persone lo identificarono come
coltello di mia appartenenza. Io stesso d’altronde ne denunciai la proprietà.
Al Dottor Moskat furono rivolte almeno un centinaio di domande sui sintomi della
malattia e circa la mia facoltà di intendere e di volere. Il caro dottore mi difese a spada
tratta, senza battere ciglio tenne testa al pubblico ministero che diventò paonazzo dalla
rabbia. Spiegò ogni sfumatura dei sintomi, riferì, aiutandosi con un quaderno rosso, di tutte
le terapie applicate, dei consulti e dei progressi. Il giudice sembrò ben impressionato, e
prima di rimandarlo dai suoi malati volle chiedergli se secondo lui una persona con le mie
turbe sarebbe stato capace di un delitto tanto efferato. Il vecchietto si tolse gli occhiali
pulendoli col fazzoletto, poi li rimise al loro posto, cavalcioni sul naso, e cominciò a
parlare.
-
signor giudice signori della giuria sul piano strettamente umano posso garantire
l’innocenza del signor Thorton seppure reo di altri crimini sul cadavere della madre di cui
riconosce la colpevolezza non ne ha cagionato la morte che personalmente ritengo si sia
data la stessa signora Thorton sul piano professionale invece non posso escludere che
una mente già indebolita da numerose crisi possa aver reagito in modo violento e
incontrollabile a particolari stimoli
perché si sa
il cervello di un uomo è un posto
pericoloso
Il Pubblico Ministero fece un piccolo balzo di gioia e chiamò gli altri testimoni fregandosi
le mani. Furono convocati per testimoniare il venditore di coltelli e sua figlia, Costa il greco
e un barbone che viveva nel quartiere chiedendo l’elemosina e rubacchiando. Il coltellaro
raccontò di avermi venduto due coltelli in due giorni, uno serramanico d’acciaio, l’altro col
manico in osso. Assicurò che prezzi come lui non li faceva nessuno e che perfino da N. la
gente veniva a comprare coltelli da “Harry il coltellaro”. Alla figlia che non si voleva girare
per guardami il giudice chiese cosa temesse, e quella rispose che l’avevo importunata.
Qualcuno le chiese se sessualmente e lei abbassò il capo due volte. Allora “ Harry il
coltellaro” saltò in piedi e urlando mi promise che appena fossi uscito dalla galera mi
avrebbe fatto fuori col coltello che sfilò istantaneamente da un calzino.
Si possono dire tante cose sul mio conto, ma non che abbia mai dato fastidio ad una
ragazza. Certo, talvolta con Albert mi sono lasciato andare a qualche fischio forse unito
ad apprezzamenti sulla carrozzeria, ma non ho mai molestato sessualmente nessuno,
tantomeno quella racchietta che smorfiava sotto gli occhi attoniti della giuria. Le chiesero
di voltarsi e riconoscere il suo molestatore e quella sciagurata, con una faccia tosta da
premio Oscar, si girò e m’indicò scoppiando in lacrime. Io, al contrario, non l’avevo mai
veduta. E’ possibile che da bambini ci siamo anche incrociati da qualche parte, sono
addirittura pronto a credere di aver giocato con lei una volta a toccafulmine, ma
certamente non l’ho vista dopo la morte di mio padre, data di inizio del mio interessamento
alle femmine.
Per molto tempo mi sono chiesto perché una sconosciuta abbia trovato piacere nel
mentire ad una corte di giustizia riguardo ad un uomo che di problemi ne ha già tanti. La
risposta più plausibile è che stesse cercando un poco di fama. Il mio caso era su tutti i
giornali e anche molti corrispondenti stranieri spedivano reportage in patria. La foto della
“molestata” apparì sulle prime pagine dei quotidiani, corredata da un’intervista con tutti i
particolari, non mancavano quelli più piccanti, della molestia. Due mesi dopo seppi da un
compagno di cella che l’avevano assunta in una trasmissione televisiva dove, alla fine del
programma, lei doveva voltarsi verso il concorrente perdente e scoppiare in lacrime per la
sua dipartita. Sigla.
Costa il greco raccontò della bisboccia che vide protagonista me ed i ragazzi del
collegio. Mostrò alcune polaroid dove io e un ciccione dalla bocca piena di carne e patate
cantavamo allegramente. Un fotografo ambulante aveva scaricato un intero rullino su di
noi. In una fotografia ero ritratto in piedi, sul tavolo, i pantaloni sbottonati per la pancia
gonfia e una bottiglia di vino rosso per mano. In fondo s’intravedeva Costa soffriggere
cipolle.
Quando gli chiesero se ricordava il giorno in cui avevo fatto visita al suo locale lui
rispose sicuro il nove sera.
Alla vista di quelle immagini pensai che a due giorni dalla morte di mia madre
gozzovigliare con quei sbarbatelli fu a dir poco deplorevole. Dalla faccia delle persone in
aula compresi di non essere l’unico a pensarla a quel modo. Il giudice diede voce a questo
pensiero rivolgendomi queste parole.
-
non ti vergogni ragazzo festeggiare l’omicidio di tua madre
è gente come te che
rovina lo Stato mi auguro che tu muoia presto e che questa giuria composta da sani e
giusti cittadini persone che a differenza di te hanno coscienza del bene e del male possa
esaudire questo mio desiderio
Dio ti maledica
Continuò con una ramanzina infinita dove invocò i padri della patria a testimoni di tale
sfacelo morale, della turpitudine arrembante, poi parve mancare per il fervore e in una
pausa che si concesse per ripigliare fiato io risposi che si, mi vergognavo ma allora sentivo
solo fame e perciò mangiai. Macchioline viola gli comparvero sulle guance ma non fu
capace di replicare, tale era il disprezzo che provava, solo martellò rabbioso sul tavolo.
Per quel giorno la seduta era tolta.
Il mattino seguente ascoltarono il barbone. Non ero certo di riconoscerlo ora che lo
avevano sbarbato e agghindato con un bel vestito che a giudicare dalla taglia piuttosto
abbondante doveva appartenere al Pubblico Ministero. Riferì che lo avevo di proposito
investito col carrello pieno di carta sulla salita di Doris Hill, rompendogli un’unghia e un
vasetto di miele appena comprato. Disse che solitamente lo guardavo male e che me ne
tenevo sempre alla larga. Io allora gridai che non lo avvicinavo perché puzzava sempre
come un cane bagnato con la dissenteria e aveva le mani leste e lunghe. Fui ridotto al
silenzio dal mio avvocato il quale chiese cosa centrasse tutto questo con l’accusa di
omicidio volontario e tutto il resto, e il Pubblico Ministero informò la giuria che il teste
serviva per far comprendere la scarsa moralità a me propria, la mutilazione dello spirito
che indurendo cuore e mente mi aveva portato a tali aberrazioni comportamentali.
Infine furono mostrate le foto del mio arresto, sozzeria e scarafaggi compresi.
Soprattutto questi ultimi fecero molta impressione. Alla loro vista si levò un coro di sdegno
e ribrezzo così che anche i pochi ancora disposti a credere alla mia innocenza si
convinsero che non c’era altro da fare che friggermi su una maledetta sedia elettrica. Il
verdetto fu dato in tal senso alle 19 in punto del ventitreesimo giorno di processo. Mary
scoppiò a piangere mentre il suo bambino le carezzava i capelli e la fronte. Io non provai
nulla. Mi sembrava di essere uno dei tanti spettatori di quella vicenda, come gli altri sarei
tornato a casa e avrei raccontato di uno condannato a morte.
Cercai con lo sguardo gli occhi del giudice, quando li incrociai spedii un grumo di saliva
e catarro che non andò a segno, sporcando però la tonaca. Il giudice urlò qualcosa e tre
agenti mi saltarono addosso colpendomi col manganello sul viso e la schiena.
Con un cellulare e la scorta fui condotto nel carcere di Stato di A., dove subii il
trattamento riservato “alle verginelle”. In molti si batterono per la preda fresca, senza
coltelli, a mani nude. Mentre se le davano ebbi un attacco ma nessuno ci badò, presi dalla
rissa, dal sangue. Sotto gli occhi di tutti infine fui legato, e i due fratelli vincitori compirono
su di me le pratiche più odiose, i giochi morbosi degli omosessuali, le orgette. Mi ridussero
al silenzio con la minaccia di torture disumane e io, vile, tacqui.
Da lì, alcuni mesi dopo, in appello, l’avvocato mi fece tradurre per accertamenti psichici
nel carcere per malati di mente di K. Il pensiero di allontanarmi dai miei due aguzzini,
anche solo per poche settimane, mi fece ritornare alla vita.
III
Quando misi piede la prima volta a K. immediatamente mi tornò alla mente la casa di
cura Barker. Simile la struttura a tre parallelepipedi rettangolari, uno centrale e maggiore
con un’ampia scalinata, gli altri arretrati con poche finestre, simmetriche, il viale
fiancheggiato da gigantesche acacie, l’odore dei corridoi, la disperazione sulla faccia degli
ospiti. Da allora sono passati più di venti anni e vivere in questo posto mi è odioso,
insopportabile. Lo stato di abiezione che vi domina è ripugnante, farebbe disgustare nel
più profondo delle viscere anche un cane. Ho veduto passare uomini di tutti i tipi, qualcuno
pazzo, qualcuno innocente, tutti smarriti, afflitti dalla colpa o dalla non colpa. Certi
cacavano per terra, dove si trovavano, certi se li mangiano i propri escrementi, altri non
fanno altro che piangere e graffiarsi, altri ancora si chiudono nell’immobilismo più
completo, alcuni sembrano normalissimi ma poi ti saltano addosso per uno sguardo.
Ognuno ha le proprie manie, terribili, penose, o semplicemente buffe, ma mai ridicole.
Da quando ho cominciato a scrivere sono passate cinque settimane e molte cose sono
cambiate. Fervono i preparativi per l’esecuzione di Martin, in scena il dodici dicembre,
salvo la concessione della grazia da parte del governatore B.jr..
Martin è nervoso come una prima donna, ma in generale tutto l’ambiente è molto
eccitato e Arthur passeggia continuamente nel corridoio con un'espressione beata.
Diviene trattabile, solo in queste circostanze, e noi ne approfittiamo per avere più carne
con patate o colloqui più lunghi.
Due volte al mese vengono a trovarmi la cara Mary e il figlio Jimmy, ormai laureando in
legge. Con loro c’è Albert che, appena uscito dal carcere, ha sposato Mary. Mi raccontano
tutto della loro vita, cercano di rendermi partecipe chiedendo consiglio su dove andare al
mare o di che colore dipingere la cucina. Io suggerii giallo e la volta successiva Albert
aveva le mani schizzate di giallo canarino. Il tempo che passo con loro lo reputo prezioso
come la mia stessa vita. Mery è di grande conforto e quando qualche volta piango nel
parlatorio lei m’incoraggia e mi dice di pregare Dio. Allora le chiedo se pregare per essere
giudicato malato di mente e dover passare il resto della mia vita qui o per essere ritenuto
sano e quindi macellato. Lei solamente mi dice prega.
A Paul sono stati tolti i ceppi. Abbiamo scoperto che è molto superstizioso e per
scacciare il malocchio mette in pratica una tale quantità di espedienti e riti da non credersi.
Prima di entrare o uscire dalla cella lo si sente inspirare ed espirare rumorosamente per
purificarsi. Porta con se sempre una manciata di sale, tranne il venerdì, giorno in cui
sussurra formule e preghiere dalla mattina alla sera. Tiene continuamente indice e
mignolo che fanno le corna, anche quando dorme o mangia. Una mattina a colazione
tagliuzzavo il pane per fare una zuppa e lui ha scaraventato tutto all’aria perché in quel
modo avrei danneggiato le mammelle della vacca, portando scalogna a tutti quelli che
avessero bevuto il suo latte.
L’altra notte mi ha colto uno dei peggiori attacchi degli ultimi anni, Paul era ancora
sveglio, il giorno dopo mi ha dato un pezzo di ferro acuminato come un ago ma più
spesso, consigliandomi di conficcarlo su un fianco all’inizio della crisi per far uscire
qualche goccia di sangue. In tal modo, mi ha assicurato, avrei avuto istantaneo sollievo.
Gli chiesi se funzionasse davvero e lui mi ha risposto si. Ad essere sincero non ho mai
potuto sperimentare questo sistema perché persi il ferretto da qualche parte, forse a
mensa.
La nostra mensa è sul piano. Non è una vera mensa, il cibo non vi é cucinato ma solo
consumato. In tutto è di venticinque metri quadri, con due tavoli rettangolari e le panche
incorporate ai loro piedi, una finestrella in alto sempre chiusa, neon accesi. Per evitare
problemi ci servono cibi frullati o a spezzatino, in modo che l’unica posata sia un cucchiaio
di legno di faggio. Lo spezzatino è immangiabile, i cavoli sovente ospitano colonie di vermi
e le patate sono fradice.
Arthur è sempre a sorvegliare, prendendo appunti, sorridendoci falsamente. Paul gli
chiede continuamente di fornirgli delle carte chiamate “Tarocchi” e una coppia di lumache
nere senza guscio. Arthur sorride e annota la richiesta.
Questo mi fa ricordare che quando ero piccolo con le lumache senza guscio
organizzavo insieme agli amici del quartiere corse per lumache. Funzionava così:
mettevamo le malcapitate corridrici su una panchina del giardino, ponendo all’arrivo una
manciata d’erbetta fresca. Come è solito la prima che arrivava all’erbetta avrebbe vinto. Le
urla di incitamento non erano risparmiate, le lumache, ognuna col proprio nome e numero,
venivano spronate dapprima con vezzeggiativi e promesse di cibo, poi con improperi e
accidenti. In quasi dieci anni di esperienza solo una di quelle atlete è andata nella
direzione giusta al primo colpo e come e un razzo. Non era mia, ma la comprai per
venticinque centesimi da Scott, suo legittimo manager e allenatore. La battezzai
“Cheyenne figlia di cagna” e mi diede tante soddisfazioni, fin quando non diventò grassa e
maleodorante, allora la liberai in un prato.
Chiesi a Paul cosa ci dovesse fare con le lumache e mi mostrò le mani. Erano ricoperte
di porri e verruche, ce n’erano a decine, sulle dita, sul dorso, finanche sulle palme. Alzò la
maglietta, la schiena era anche peggio. L’unico modo per toglierle, mi spiegò, è farci
passare sopra una lumaca nera senza guscio. Gli raccontai di Cheyenne figlia di cagna e
rise molto.
Da tre giorni Bob ha cominciato a pronunciare qualche parola. All’inizio sussurrava “
acqua “ poi ha preso ad urlare “merda” e adesso non fa altro che ripeterlo
ossessivamente. Arthur è sempre lì a scrivere.
Io e Luther siamo diventati abbastanza amici, ci raccontiamo le nostre storie e i nostri
sogni. Lui è come una scarpa spaiata. Aveva solo la moglie ma lei non aveva solo Luther.
Lo hanno trasferito nella cella di Martin, che ora è in quella destinata agli “Uomini Morti”.
La sera ci parliamo attraverso il muro e Arthur trascrive i nostri dialoghi. A noi non
interessa e così parliamo di tutto quello che ci viene in mente, anche di quanto è stronzo
Arthur.
Paul continua a chiedere tarocchi e lumache nere senza guscio e Arthur non scrive più,
semplicemente fa un’ics su una colonna dell’ultima pagina.
Ho detto a Luther che sono innocente, e lui sembra avermi creduto. Gli ho anche detto
che sto scrivendo la mia storia e mi ha consigliato di farlo con lealtà e rigore. Ho pensato
tutto il giorno alla lealtà e al rigore. Mi sono reso conto che per conseguire la lealtà
bisogna essere franchi con se stesso, ma per ottenere il rigore avrei dovuto riportare le
cose giorno per giorno. Perciò oggi 16 novembre 19-- comincio a registrare gli avvenimenti
con cronache giornaliere.
16 novembre 19--
Piove. Ha cominciato piano poi è infortito. E’ spiacevole svegliarsi con un temporale in
arrivo, sembra che la giornata sia finita prima di dire buongiorno. Quando è così vorrei non
alzarmi, rigirarmi su un fianco tirando la coperta fin sopra la testa, continuare a dormire
aspettando una giornata di sole.
Steso sul letto sento ogni sei minuti la guardia che passa sotto la finestrella della mia
cella. Mi dà sicurezza. Marciano di continuo lungo il perimetro, anche nei giorni più caldi e
in quelli più gelidi, quando il ghiaccio ricopre il vetro della finestra. In estate dai loro anfibi
si leva una coltre di polvere che non raggiunge il nostro piano ma si poggia sulle foglie
degli alberi; poi queste cadono, riportano la polvere al suo posto, marciscono nelle
pozzanghere, sotto gli stivali. D’inverno gli alberi sono tutti neri, la strada coperta dalla
neve è bianca, tranne dove i soldati marciano. Lì anche è nero. Mi affaccio e riesco a
vedere l’umidità che esce dalle loro bocche. Sono in due, parlottano, gesticolano. Per un
momento penso di essere fortunato a starmene al calduccio, poi torno ad invidiargli la
sensazione dell’aria fredda sulla pelle, il vigore dato dagli anfibi chiodati e tante altre cose
impossibili da spiegare con le parole.
Nel corridoio fervono i preparativi per il trasferimento presso il carcere di Stato di A.
dove sarà effettuata l’esecuzione. I giornalisti hanno avuto il permesso di scattare qualche
foto ma non credo siano riusciti a strappare un sorriso a Martin. Hanno fotografato anche
noi, per mettersi avanti con il lavoro. A Luther è stato chiesto cosa pensa della pena di
morte e lui ha sputato sul viso del giornalista che ha voluto farsi fotografare con la saliva
che gli colava dal naso. Arthur è stato comprensivo e non ha dato alcuna pena
disciplinare, complimentandosi in privato per la mira.
Martin è davvero terrorizzato, lo sentiamo singhiozzare dietro la porta d’acciaio che
risuona sotto i colpi delle sue mani. Con noi è sempre stato uno spaccone, duro e cattivo
ma ora non ha più niente da temere e può piangere tranquillamente. Continua a chiedere
perché, perché, perché; così tutto il giorno non si sente altro che merda e perché. Noi lo
sopportiamo a stento ma i ragazzi di guardia stanno diventando matti. Uno di loro, il più
giovane, ha messo Bob nel porco, ché ha le pareti rivestite di bambagia e i suoni sono
attutiti. Martin invece è molto rispettato. Nessuno cerca di disturbarlo, non lo fanno venire
a mensa e un prete va a trovarlo quasi tutti i giorni. Deve essere terribile conoscere l’ora e
la causa della propria morte. Fuori di qui molti uomini onesti oggi sono deceduti ma non lo
sapevano e hanno vissuto la propria giornata con tranquillità. Martin si tormenta senza
sosta, immagino che sia la punizione per tutto il male che ha fatto, e non è poco. Se fossi
stato il padre o il fratello di una di quelle bambine non avrei esitato un istante a piantargli
un coltello in corpo trecento e più volte.
17 novembre 19--
Oggi è stato giorno di visita. Mary mi è sembrata molto eccitata, suo figlio domani sarà il
primo laureato della famiglia. Mi ha raccontato ogni cosa circa il buffet, le decorazioni, gli
invitati e le sue aspirazioni su Jimmy. Lo vorrebbe avvocato o giudice o notaio o pubblico
ministero o governatore o procuratore o amministratore delegato di una multinazionale.
Gli ho chiesto perché non Presidente e mi ha risposto che sono uno sciocco . Per un po’
abbiamo riso.
Bob è ancora nel porco e quasi non si sente più, Martin invece ha crisi orribili che non
mi fanno dormire la notte. I medici non sanno cosa fare, anche se sono buoni medici, non
sanno cosa fare.
Questa mattina mi hanno visitato. Due volte la settimana mi visitano, ponendo le stesse
domande da venti anni.
-
come ti chiami
-
Ernest Thorton
-
perché sei qui
-
errore giudiziario
-
con quale accusa
-
omicidio volontario lesioni e occultamento di cadavere
-
credi di essere malato di mente
-
sì
-
hai avuto degli eccessi nervosi dall’ultima visita
-
sì
-
più di uno
-
no uno soltanto sabato notte
-
sei cosciente durante le crisi
-
sì ma non ho nessun controllo sul mio corpo
-
sai cosa è la sindrome di Kojewnikoff
-
no
-
è un tipo di epilessia parziale continua pensi di esserne affetto
-
non lo so
-
non lo sappiamo neanche noi
puoi andare
L’avvocato mi ha assicurato che fin quando non si fa diagnosi di certezza sul mio male
non mi possono giustiziare. Lo stato vuole che i propri condannati a morte siano coscienti
della pena cui vanno incontro, così soffrono, altrimenti non c’è gusto.
18 novembre19—
Questa mattina Jimmy si è laureato con il massimo dei voti, scrivendo una tesi
sull’incostituzionalità della pena di morte. Uno dei secondini, quello coi capelli rossi, è
venuto a sussurrarmelo mentre stavo alle docce. Che bravo ragazzo!
Nel pomeriggio con un permesso speciale mi è stata consegnata una bellissima scatola
di cioccolatini e biscotti Danesi di cui ero goloso da bambino. Sul coperchio c’è disegnata
una ragazzona con le trecce che sorride maliziosa. Ho pensato che anche Mary deve
avere una buona memoria. Arthur è venuto a chiedermene uno e gli ho dato l’intera
confezione affinché desse a tutti un dolcetto. Martin è stato servito per primo e dal rumore
di carta crespa credo ne abbia preso una bella manciata tanto che alla fine del giro la
scatola è tornata vuota. Cosa c’è da meravigliarsi? Non ne hanno mai mangiato, e poco è
il tempo per recuperare. Bob nel porco non è stato servito e deve essersi accorto che
qualcosa era stato distribuito, allora ha ricominciato a urlare merda a più non posso tanto
che dopo un paio d’ore un secondino mi ha richiesto la scatola e vi ha messo dei pezzi di
mollica e pane raffermo della mensa e glieli ha portati. Bob afferrando la scatola ne ha
controllato il contenuto, poi l’ha scagliata sul berretto del secondino che è caduto a terra
privo di sensi. Arthur si è precipitato nel porco ed il rumore di una colluttazione ci ha
infervorato tutti.
-
dai Bob spaccagli il culo fagli male Bob uccidilo
Vibrarono nitidi degli schiaffi e ancora schiaffi e calci, qualcuno si lamentava e sputava.
Un ultimo calcio è rimbombato e qualcosa è sbattuto pesantemente sul pavimento del
corridoio. La voce autoritaria di Arthur si era fatta uno squittio e sussurrava basta basta
per carità.
Bob con tranquillità si è chinato sul corpo di Arthur sfilandogli dalla cintura le chiavi
delle celle, poi si è fermato di fronte la mia porta, io l’ho seguito con lo sguardo dallo
spioncino. Ha aperto la serratura mentre del sangue gli colava da un orecchio finendo sul
colletto e sulle piastrelle. Mi ha consegnato la scatola di biscotti e cioccolatini Danesi
ridotta ad un pezzo di lamiera informe, tanto che non si capiva più se la ragazza sul
coperchio stesse ancora ridendo.
-
mi spiace Ernest
volevo solo un biscotto
Non ha fatto in tempo a dire altro. Cinque secondini gli erano già addosso e lo
martoriavano di colpi. Lui per sfuggire ha cercato di arrampicarsi sul muro, sembrava uno
scoiattolo, poi uno gli è salito sulle braccia con i piedi e gli altri lo hanno colpito con i
manganelli sui genitali e sul capo. Bob non poteva pararsi, si contorceva sotto le botte e
quelli pestavano ancora più forte. Le divise si sono subito macchiate di sangue e giù
manganellate, Bob urlava e tutti dalle proprie celle incitavano.
-
bastonatelo
deve morire rompetegli il culo
Nessuno ha fatto caso che la mia porta fosse aperta e non so come, mi sono ritrovato
cavalcioni su una guardia a menare fendenti a più non posso. Tre denti sono saltati subito
poi l’ho voluto colpire in un occhio e sono andato perfettamente a segno.
La guardia aveva i capelli rossi, tremava, ululando orribilmente per il dolore e la paura.
Urla di tripudio arrivavano dalle celle lungo il corridoio, Bob ormai non potendo più opporre
alcuna resistenza era stato trascinato nuovamente nel porco. Tutti si sono rovesciati su di
me. Una pedata mi è stata assestata sulle tempie e poi ancora e ancora pugni e bastonate
fino a perdere i sensi. Mi sono risvegliato nella mia cella solo perché il porco era già
occupato ed è stato un bene perché senza questa risma di carta sarei impazzito.
Ora tutti dormono, mi sono affacciato alla finestrella e le guardie dopo pochi secondi
sono arrivate sotto di essa e hanno indicato dalla mia parte. Data la differenza di luce non
potevano scorgermi ma sono sicuro che stessero parlando del putiferio del terzo livello.
Hanno indicato la finestra e quello basso e tozzo si è toccato l’occhio destro due volte,
mimando con le dita a cuneo la traiettoria dell’occhio saltato al collega. Devono avermi
mandato più di qualche accidente perché subito ho percepito una fitta allo stomaco e mi
sono lasciato cadere per terra.
9 dicembre 19—
Sono nell’infermeria, bagnato d’urina e feci che emanano un fetore pestilenziale. Mi
hanno trasferito la mattina del giorno venti dello scorso mese per un’emorragia interna e
ora ho una quindicina di punti di sutura poco al disotto dello stomaco. Non è stato dato il
permesso per il trasporto in ospedale ma un medico chirurgo è venuto sin qui per
operarmi.
La flebo, dalla quale gocciala un liquido incolore, rende assai difficile scrivere, un altro
tubicino esce dall’addome e riversa in una bottiglia di Coca-Cola sangue piceo. Ho un gran
dolore al torace probabilmente dovuto ad un paio di costole rotte. Il mio letto è d’acciaio
tutto bianco, con una rete che cricchia ogni volta che muovo un muscolo, cosa che cerco
di evitare data la quantità di tumefazioni che ricoprono ogni centimetro quadrato del mio
corpo, e poi non è piacevole sguazzare nei propri escrementi. La luce del giorno entra da
un finestrone a strisce e si schianta sul muro dove l’immagine di Maria col pancione
sorveglia benevola. Purtroppo ricordo poco di questi giorni nei quali comunque ho
soprattutto dormito.
Questa mattina un infermiere con degli orribili baffi marroni mi ha chiesto se dovevo fare
dei bisogni, ho risposto di sì, e bestemmiando è andato a prendere la padella, dove con
estrema fatica, madido di sudore, ho defecato feci sanguinolente.
-
hai cagato sangue bastardo ti sta bene fosse stato per me ti avrei fatto crepare
subito che tanto dopo quello che avete combinato nel giro di un paio di mesi vi
arrostiranno tutti e due sulla sedia
sicuro
-
tagliati i baffi ciccione
Se n’è andato così com’era entrato, bestemmiando e gridando accecare un bravo
giovane con un pugno bastardofiglodiputtana.
E’ un ciccione ma ha ragione, ci toccherà sederci su quella dannata sedia, e di fatto non
è stata una bella cosa aver tolto un occhio a quel ragazzo, ma ormai è fatta e non c’è più
nulla da fare. Forse gli psichiatri non permetteranno la mia esecuzione, ma Bob è
spacciato in ogni caso.
Sera.
Il chirurgo è entrato col camice bianco tre taglie più grande delle sue spallucce
mingherline e appresso veniva l’infermiere. Con modi cortesi mi ha spostato in un letto
pulito, ha controllato e disinfettato i punti e svuotato la bottiglia di Coca-Cola valutando
colore, odore e consistenza del drenaggio.
-
sei stato fortunato potevano ucciderti
non cercare di parlare o peggio di alzarti
se ti occorre qualcosa suona la campanella ripasserò più tardi
Ho fatto segno con la testa per dire che andava bene e lui se n’è andato portandosi
dietro l’infermiere che continuava a borbottare.
Un passerotto si è posato sul davanzale della finestra, aveva un nastrino rosso
allacciato al collo, come una cravatta. Col beccuccio e le zampette simili a rastrelli ha
picchiettato sul vetro, aspettando che qualcuno aprendo la finestra sbriciolasse del pane.
E’ tornato a colpire con più decisione ma nessuno ha risposto al suo richiamo. Ho tentato
di alzarmi ma lui, vedendomi, è volato via.
Il dodici ci sarà l’esecuzione di Martin, perciò ieri deve essere stato trasferito nel carcere
di Stato di A. dove si viene accolti nel braccio della morte quattro giorni prima dello show.
Sono molto stanco, cercherò di dormire.
10 dicembre 19—
Essere inchiodati al letto è una forma di prigionia più restrittiva della cella d’isolamento.
Non potersi alzare, non poter quasi parlare e dover espletare ogni funzione fisiologica solo
con la presenza e l’aiuto di un estraneo, ed anche la propria madre diviene estranea a
certe cose, è una pena, un tormento. Cerco di suonare la campanella il meno possibile e
solo per cose urgenti, ma anche così mi sembra di dare troppo fastidio, non all’infermiere
sia chiaro, ma al mio amor proprio. Per fortuna sono ancora abbastanza giovane da
sapere che uscirò da questo letto con le mie gambe, poveri i vecchi malati senza
speranza, dove l’augurio della sera è quello di svegliarsi ancora in quel letto al mattino, per
ricominciare a prendere le medicine e urinare tra le braccia di un congiunto.
Ieri mi sono addormentato in un momento, le palpebre, come saracinesche, si sono
serrate e sono sceso nel buio prima del sogno, ma non ho sognato o almeno non ricordo.
Le cose hanno incominciato a sfocarsi dalla periferia, poi il centro, il buio ha seguito lo
stesso percorso finché tutto è diventato nero e silenzio. E’ così che immagino la morte:
una silenziosa tenebra, per sempre.
Devo aver dormito molto profondamente perché nel frattempo il dottore mi ha fasciato il
torace, un lavoretto fatto per bene tanto che quando mi alzo sui cuscini le costole non mi
dolgono quasi più. All’ora di pranzo è tornato a visitarmi, devo essergli simpatico perché si
è trattenuto più del necessario per scambiare due chiacchiere. Mi ha raccontato che lavora
all’ospedale della Misericordia ma di abitare poco lontano dal penitenziario, e ritornando a
casa si ferma per farmi visita. Con un sussurro gli ho chiesto di procurarmi un quadernetto
come questo, lui mi ha domandato cosa stessi scrivendo e io gliel’ho spiegato. E’ parso
soddisfatto e anche se non mi ha dato una risposta diretta credo che lo porterà.
-
le occorre qualcosa prima che vada via
-
si prego potrebbe sbriciolare un poco di pane sul davanzale della finestra
-
ah vedo che è venuto a farle visita Friù dal collo rosso
-
si un uccellino con un cravattino tutto rosso
-
é il passerotto di Martin veramente lui desiderava un pettirosso ma qui non ve ne
appunto
sono e allora ha messo un fiocco rosso ad un passero lo ha addestrato a fare ogni genere
di acrobazia e poco ci mancava che cominciasse a parlare non lo sapevate
-
no nessuno di noi lo sapeva
Martin non è mai stato un chiacchierone
-
e cosa credevate che stesse facendo sempre con la finestra aperta
-
pensavamo si masturbasse
-
comunque non ci si affezioni troppo Martin si tormenta più per la sua sorte che per
la sua stessa morte
-
non mi affezionerò ma gli dia un poco di pane credo abbia fame
Ha sbriciolato tra indice e pollice mezza rosetta coi semi di girasole e dopo qualche
minuto un cravattino rosso è apparso cinguettante. Senza degnarmi di uno sguardo si è
messo a spilluzzicare le molliche. Finito il pasto aveva il pancino gonfio e solo con visibile
sforzo si è alzato in volo, sparendo dalla mia vista. L’infermiere, che risponde al nome di
Oscar, entrando lo ha spaventato, spaventando anche me.
-
allora è fatta è stato tutto deciso
-
cosa cosa è stato deciso
-
sarete elettrizzati entro trenta giorni
-
non è vero chi te lo ha detto
-
Arthur che ti manda i suoi più cari saluti di buon viaggio
Mio Dio! Possibile che abbiano già deciso tutto? Credo di essere sbiancato dalla paura
perché Oscar ha continuato.
-
ah non fai più il gradasso non mi chiami più ciccione eh
-
sono tutte frottole non possono aver deliberato in così poco tempo
-
entro trenta giorni
-
lasciami in pace ciccione
-
trenta giorni
Si è incamminato tra le due brevi fila di letti scimmiottando i movimenti tetanici di un
uomo elettrico. Vuole solo farmi paura, gode nel vedermi soffrire, ma so che non è
possibile e poi gli psichiatri non lo permetteranno ma Bob è spacciato.
11 dicembre 19—
Oggi mi sento molto meglio, sono riuscito ad alzarmi e a fare quei pochi passi che
separano il letto dal bagno. Il medico mi ha visitato da capo a piedi, auscultando,
tamburellando, misurando e comprimendo ed è parso soddisfatto. Ha portato in regalo un
quaderno molto bello e una penna per me, un poco di semi e un osso di seppia per Friù
dal collo rosso così starà più tempo sul davanzale e le farà compagnia ha detto aprendo la
finestra e posando le regalie bene in vista, tanto che luccelletto è arrivato appena chiusa la
finestra, con un gran fragore di batter d’ali. L’abbiamo osservato in silenzio mentre si
rimpinzava con evidente soddisfazione, zampettando e facendo capriole per i bocconi più
gustosi, quasi per ringraziarci. E allora via con voli velocissimi, le ali aperte a tagliar l’aria,
sparendo dietro un'acacia, facendo capolino dall’inferriata della finestra a strisce,
zufolando motivetti allegri intervallati da una nota, sempre la stessa, altissima. Qualche
volta ci siamo dati di gomito come per dire l’hai visto anche tu guarda guarda
ma va'
incredibile. Friù dal collo rosso finito il pasto e lo spettacolo, così come un signore di gran
classe, si è pulito il beccuccio sull’osso di seppia, ha fatto un grande inchino fino a far
sparire la testolina sotto un’ala ed è volato via, satollo, lasciandoci sbalorditi e muti.
Poco fa sono venuti a trovarmi Mary e Albert. Mary è molto dispiaciuta per quanto è
successo e in un certo qual modo si sente responsabile non avessi mai mandato quella
maledetta scatola di biscotti si è rimproverata tutto il tempo torcendosi le dita.
-
non è colpa tua doveva succedere ed è successo vero Albert
-
certo certo è successo anche se era da evitarsi è successo dannati danesi
Mary è scoppiata a piangere.
-
ti ammazzeranno entro un mese ti ammazzeranno
Albert le ha preso con forza un braccio e lei, stizzosa, si è liberata.
-
è mio fratello è giusto che sappia come stanno le cose deve prepararsi a morire e
nessuno può insegnarglielo
-
chi ve lo ha detto
il mio avvocato o come sanno fare loro
una segretaria
strepitando al telefono
-
l’infermiere l’infermiere qui fuori
Ho cominciato a ridere piano, poi sempre più forte, tanto che loro mi guardavano
attoniti, e io ho riso col diaframma che mi sobbalzava e la bocca che succhiava aria per
sparare risate, pensando a quanto sia fragile lo spirito umano nel quale anche Le parole di
uno sconosciuto sono capaci di assurgere a verità assoluta, che contraria e perfino rende
infelici le persone, spingendo un’angoscia nera fino agli occhi distillanti lacrime.
-
lo ha detto anche a me ma non è vero lui non ne sa niente è solo un infermiere
grasso lo ha fatto per spaventarvi
Ci siamo ritrovati a ridere tutti e tre così forte che Oscar è entrato a controllare cosa
stesse accadendo, e lì giù risate a più non posso, Albert lo ha indicato cercando di dire
qualcosa ma non riusciva a riprendere fiato farfugliando comicamente. Oscar con la mano
lo ha minacciato e noi a ridere a crepapelle, con lacrime di gioia che giunte sulle guance si
mischiavano alle prime, gocciolando sul collo. E’ uscito mandandoci a fare in culo,
sbattendo la porta tra i nostri applausi. Abbiamo parlato allegramente per il resto della
visita di cose senza alcuna importanza, sciocchezze che mi hanno fatto bene. Quando
sono andati via devono aver incontrato Oscar perché è echeggiato nei corridoi di marmo
un riso scherzoso e canzonatorio.
12 dicembre 19—
Questa notte è stato ucciso Martin. Come per il Superball nessuno si è perso la diretta
radiofonica, tantomeno Oscar. Credo che abbia messo il volume così alto appositamente
per farmi sentire, ed ho sentito.
Signore e Signori buonasera
le nostre trasmissioni vi giungono in diretta dalla
camera della morte del carcere di stato di A. dove tra pochi minuti sarà compiuta
l’esecuzione del Mostro Nero della Luisiana Martin Proctor
tutti voi lo ricorderete per
i fatti di sangue e violenza del 19— e 19— quando si rese reo di sette orribili omicidi nei
quali al massacro faceva seguire la violenza sessuale
le sue vittime erano tutte
giovani di età tra i dodici e quattordici anni di cui ricordiamo i nomi
Sharon Frany tredici anni
Jennifer Gordon dodici anni
Madeleine Burton dodici anni
Deborah Duke quattordici anni
le sorelle Mary e Rose Fromer rispettivamente di dodici e tredici anni
Susy Hope dodici anni
ci riuniamo al dolore delle famiglie con un minuto di commosso silenzio 1 2 3 4 5 6 7 8 9
10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37
38 39 40 41 42 43 44 45 46 47 48 49 50 51 52 53 54 55 56 57 58 59gentili ascoltatori
per chi si fosse appena messo sulle nostre frequenze comunichiamo che stiamo
commentando in diretta l’esecuzione del Mostro Nero della Luisiana nell’attesa che le
guardie lo portino nella sala dove fa bella mostra la sedia elettrica abbiamo con noi
alcuni genitori delle vittime che si sono gentilmente offerti di parlare ai nostri microfoni
Signora Gordon
buonasera
buonasera a lei vuole dirci qualcosa
se mi è permesso vorrei solo ringraziare le meravigliose persone che da tutto il paese ci
hanno scritto per darci aiuto o semplicemente per offrirci la loro solidarietà siete stati di
grande conforto grazie
le sue parole sono molto belle Signora Gordon ma in tutti i casi nessuno potrà restituirle
Jennifer
già nessuno potrà mai ridarmi mia figlia è vero
perché è voluta essere presente all’esecuzione
giustizia
voglia di giustizia di vendetta o cosa
io e mio marito vogliamo solo ciò che ci è dovuto giustizia se fosse stata
vendetta avremmo fatto a lui e ai suoi familiari ciò che ha fatto alle nostre bambine
scusate le urla in sottofondo che forse avete udito sono del Signor Fromer che
evidentemente ha qualcosa da dire prego Signor Fromer parli pure
torturarlo bisognerebbe torturarlo quel figlio di puttana fino a farlo morire senza alcuna
pietà perché lui non ne ha avuta con Mary e Rose e con le altre ragazze
soffrendo
deve morire
quindi Signor Framer se ho capito bene lei non reputa sufficiente una scarica elettrica
letale come punizione
sarà pure sufficiente ma è insoddisfacente
dico
quello ha aperto in due le mie
bambine e poi Dio solo sa le cose perverse che ha fatto sui corpicini
ma in questo modo non crede che si tornerebbe alle crudeli pratiche medioevali alla
legge del taglione se non alla giustizia fai da te
se lo avesse fatto ai suoi figli come la penserebbe se avesse rapito la sua bambina
che impaurita supplica pietà chiede aiuto aiuto poi tutto si fa silenzio il coltello piantato
nel pube l’orribile mano che sale lentamente su fino allo sterno dal pancino bianco una
sottile scia rossa dopo pochi istanti sangue a secchi e gli organi interni fanno capolino
sgusciando fuori per ogni dove
frenetico fracassa e accartoccia la testolina con un
pugno infine la violenza orribile brutale sovrumana cosa direbbe come la penserebbe
se sua figlia fosse stata al posto di Rose
io purtroppo non ho figli comunque comprendo il suo dolore e come me tutti i nostri
radioascoltatori ma attenzione
prigioniero
si è aperta la porta dalla quale viene condotto il
è scortato da quattro agenti uno su ogni lato ha le lacrime agli occhi
il
capo delle guardie Signor Bustone gli sussurra qualcosa il condannato si siede sulla
sedia
questi sono i momenti più pericolosi nei quali talvolta i prigionieri si ribellano o
tentano di far del male alle guardie come ultimo atto di malvagità
tutto sembra
procedere per il meglio rapidamente vengono legate le cinghie ai polsi
il medico sta
verificando che Martin Proctor conosciuto come il Mostro Nero della Luisiana sia in
condizione di morire
anche le cinghie alle caviglie sono state ben strette il casco
posato e allacciato sul capo rasato una guardia fa cenno che tutto è pronto
momento viene aperto il circuito che dà corrente alla sedia
in questo
si leva un ronzio per l’alto
voltaggio attenzione Proctor grida qualcosa non riusciamo a capire cosa urli sembra
impazzito il vetro che ci separa dalla camera delle esecuzioni non ci permette di udire
bene comunque vi assicuro che è uno spettacolo agghiacciante
Friù
Friù dal collo rosso Friù dove sei vienimi a prendere
gente questa era la voce del Mostro Nero della Luisiana colta dai nostri microfoni
probabilmente un’invocazione ad un amico o un complice forse comunista
il medico
sta cercando di calmarlo tra pochi istanti sarà tirata giù la leva che darà via libera
all’elettricità uccidendo Martin Proctor il Mostro Nero della Luisiana intanto ci è appena
arriva comunicazione dall’ufficio del direttore circa la rinuncia del prigioniero a parlare
attenzione
circuito
attenzione il Signor Bustone si è avvicinato alla leva che chiuderà il
ecco sta per essere calata
fatto ora è giù
ma ma ma non succede nulla non ha funzionato tutti si guardano imbarazzati il capo
delle guardie Signor Bustone sta rispondendo al telefono che è in linea diretta con il
direttore Maeght
ascolta senza parlare fa cenno di si con il capo e dice che si
ricomincia si rifà tutto hanno deciso di ripetere tutto daccapo ricordo un caso analogo
nel 19— nel carcere di I. in quell’occasione non si poté effettuare l’esecuzione perché i
fili elettrici erano stati rosicchiati da un topolino si dovette attendere l’arrivo di un
elettricista
comunque sembra che ognuno sia tornato al proprio posto
nuovamente aperto il circuito
viene
pochi secondi ancora e in diretta vi renderemo conto
della morte data attraverso sedia elettrica al Mostro Nero della Luisiana il forte sibilo
dato dall’intensità della corrente quasi copre la mia voce
Bustone riceve in questa
momento l’assenso dalle guardie e dal medico si avvicina all’interruttore posto proprio
vicino la nostra postazione afferra la leva e con movimento deciso lo spinge giù
leva è giù
la
questa volta tutto sta funzionando a meraviglia senza inceppi o incidenti il
condannato si dimena come i legacci gli permettono
tra poco tutto sarà finito ancora
qualche secondo ed infatti ora il medico fa segno che può bastare viene rialzato
l’interruttore cessa il sibilo ma rimane il movimento spasmodico del corpo di Martin
Proctor il dottore dovrà verificare ed attestare il decesso ma se si dovessero presentare
ancora segni di vita sarà inflitta un’ulteriore scossa
il corpo finalmente si ferma il
dottor Artarmon si avvicina con il fonendoscopio lo poggia sul torace
ci viene chiesto
il silenzio
l’auscultazione è appena terminata
giustiziato
ebbene alle 02:43 a.m. Martin Proctor è stato
il medico non ha rilevato alcuna attività cardiaca residua e lo ha dichiarato
morto il cadavere viene slegato e condotto via sulla barella
allora Signor Framer si
sente meglio
certo anche se torno a dirle che è insoddisfacente prima bisognava torturarlo
bene ci ha appena raggiunto il direttore del carcere Signor Maeght
mi chiami Bob
va bene Bob
c’è stato un incidente la sedia elettrica non ha funzionato
si un piccolo contrattempo
capitato a noi
nulla di spiacevole
qualche volta capita e questa volta è
l’abilità sta nel mantenere i nervi saldi
non crede che questo tipo di inconvenienti possa turbare ed innervosire i parenti delle
vittime esasperando un momento già pieno di tensione Bob
sono contento di questa domanda infatti concordo perfettamente sul fatto che il rituale
della sedia elettrica seppur di rado possa in qualche modo andare incontro a disguidi
che provocano inquietudine e dolore in persone già fortemente provate ed è per questo
che in accordo con il governatore B. ci siamo proposti con successo di fungere da
carcere pilota sperimentando tecniche innovative che crediamo diano un maggior
margine di sicurezza
può farci qualche esempio Bob
certo per esempio nelle prossime tre esecuzioni previste nel periodo natalizio almeno
una sarà effettuata in una camera a gas ma altre tecniche saranno anche l’iniezione
letale il dissanguamento e qualche nostalgico sta anche ipotizzando di tornare al
vecchio ma efficace cappio
il tempo a nostra disposizione è terminato ringraziamo tutte le persone che questa notte
sono intervenute ai nostri microfoni ed in particolare il direttore Maeght perciò vi saluto
dandovi appuntamento alla prossima esecuzione in diretta
buona notte e arrivederci
Addio Martin.
13 dicembre 19—
Mio Dio. E’ vero, hanno deciso tutto. Sono morto. Sarò giustiziato il 27 dicembre alle
04:00 a.m. nel carcere di A..
Ora tutto è finito.
14 dicembre 19—
Speranza. L’avvocato ha detto che la nostra parola d’ordine deve essere Speranza.
Ripete che sono fortunato, che nessuno vuole un’esecuzione durante le feste natalizie,
che almeno riusciremo ad ottenere un rinvio, il precedente è durato più di vent’anni, siamo
fortunati, molto fortunati, soprattutto lui.
Oscar cammina gongolante, va su e giù per il corridoio e fuma un grosso sigaro: sarai il
tacchino più grosso e stopposo che sarà cucinato per natale
una schifezza
ma ti
mangerei volentieri.
Sono piantonato da due guardie che si danno il turno ogni tre ore, uno ha la barba
grigia. Non mi parlano, quasi non mi guardano, se ne stanno tutto il tempo ad aspettare
che passi il loro turno, e quello passa.
-
è un bastardo e sarà punito come merita - gli dice Oscar offrendo sigari- cosa
pensavi
che te l’avrebbero fatta passare liscia
e aspetta di arrivare al cospetto
dell’Altissimo allora sì vedrai fulmini e scintille di fuoco che ti usciranno dal culo
-
non mi scocciare
Vorrei dormire tutto il tempo, fin quando mi verranno a prendere per l’ultima
passeggiata. Essere sveglio è insopportabile, per fortuna c’è Friù dal collo rosso che
allevia questi orribili giorni, i suoi siparietti sono sempre più acrobatici e bizzarri, i canti
soavi ed armoniosi, è con questi che cerco di addormentarmi. Martin deve aver sofferto
molto quando è stato separato da questa bestiola.
Il dottore oggi è venuto a trovarmi senza visitarmi, mi ha sorriso da lontano con evidente
imbarazzo.
-
come sta
-
molto meglio grazie ha saputo
-
si ieri
-
non voglio morire Cristo non voglio morire
-
si faccia forza forse sarà graziato o rinvieranno le esecuzioni perché troppo vicine
quasi non si parla d’altro anche sui giornali
alle feste non si perda d’animo
-
lo dice anche il mio avvocato
-
e allora vede c’è ancora speranza forza su non pianga
-
non voglio morire noooo tutto ma non la morte
-
non morirà ma smetta di piangere Oscar ci gode a vederla così
non morirà
le ho detto che
E invece morirò, me lo sento nelle ossa, come i marinai quando deve arrivare la
tempesta, sento che morirò. Porca miseria non voglio morire, non voglio proprio, mi ci
sono affezionato a questa vita, a questo corpo, non possono uccidermi.
22 dicembre 19—
Mi hanno riportato in cella il quindici, dopo pranzo, sottraendomi il quaderno e la penna.
Questa settimana ho avuto tre attacchi, uno terribile, lunghissimo, proprio il quindici. E’
stata l’unica volta in cui ho scorto un accenno di pietà da parte di Oscar che ha tentato di
soccorrermi.
- ehi per Dio che ti succede non mi crepare tra le braccia stronzo calmati così fermo
con la testa mordi questo mordi da bravo così sta calmo fermo tra poco sarà tutto finito
non ti agitare ora ci sono io non ti preoccupare ora va meglio hai visto va meglio cazzo
mi hai fatto pendere un colpo
E un colpo quasi veniva anche a me quando ha cominciato ad accarezzarmi la fronte
per calmare la crisi.
Questa mattina il dottore mi ha fatto consegnare un centinaio di fogli e una nuova
penna con sopra la scritta “Buon Natale e Felice 19—“; probabilmente è convinto che non
mi ammazzeranno, almeno non subito. Io invece sono disperato, quasi impazzisco perché
non ricevo notizie. Il mio avvocato non si fa vedere da otto giorni, è questa la prova della
mia condanna. Le guardie, dopo il casino che è successo, mi trattano malissimo e allora di
giorno e quando passano i due giri di controllo notturni faccio finta di dormire. Arthur mi
spia di continuo, cerca il pretesto per picchiarmi ma non glielo do, zitto e mosca. Bob
continua ad essere tenuto nel porco, piange quasi sempre o ripete “merda” e “perché” così
che sembra ritornato Martin. Per farlo star zitto lo hanno frustato con le lenzuola bagnate,
che non lasciano segni, tappandogli la bocca con il suo stesso pugno e nastro isolante.
Paul ieri notte mi ha consigliato di purificare il corpo prima di lasciare questo mondo
prendi l’olio di ricino ma non un cucchiaino molto di più. Domani saremo trasferiti nel
carcere di A. dove già è recluso il terzo condannato a morte. Non cedo che sia mai
successo, intendo tre esecuzioni in tre giorni. Io sarò il secondo, quello sconosciuto il
primo. Su uno di noi verrà sperimentata la camera a gas e non so veramente se
augurarmela, ma credo di no, quando ci penso mi manca il respiro.
Friù dal collo rosso è riuscito a ritrovarmi, gli ho sbriciolato del pane e l’ho salutato come
si saluta un vecchio amico che parte per sempre. Chissà cosa penserà domani, quando
non mi potrà più trovare dietro una finestra, forse il dottore gli darà da mangiare, la
prossima volta che lo vedo dovrò dirglielo, altrimenti con questo freddo, povero Friù.
23 dicembre 19--
All’alba ci hanno legati con manette e catene ovunque, imbracati come salami ci hanno
portato nel braccio della morte del penitenziario di stato di A.. Bob è stato messo proprio
qui di fronte, in stato catatonico, rifiuta anche il cibo. Il tempo è scandito da chiavi che
girano, cancelli che si aprono e si chiudono, pattuglie di controllo che ci spiano ogni venti
minuti. Un prete è venuto a parlarci, è entrato prima da Bob, poi da quello che creperà per
primo, infine da me.
-
come stai figliolo
-
così
-
hai pregato
-
sì un poco
-
la preghiera è santa continua a pregare rimanendo sveglio nel giorno del Signore e
avrai la grazia e prega non solo per te ma anche per i tuoi carnefici e per me affinché Dio
ci apra una porta d’espressione perché felice è chiunque cammini per le vie del Signore
solo presso di lui è il vero perdono
-
pregherò
-
vuoi confessarti
-
sì
Mi sono confessato senza che mai mi interrompesse, quando avevo dei cedimenti o
pause lui aspettava paziente, senza far domande, amorevole. Mi sono sentito subito
meglio. Quando le guardie lo hanno fatto uscire gli ha detto:
-
signori continuate a trattare i vostri prigionieri con giustizia ed equità sapendo che
anche voi avete un Dio in cielo
Tutta la rabbia che avevo di colpo è scomparsa facendo posto ad una cristiana
rassegnazione. E’ come se fossi già morto, non devo temere nulla, nulla mi può accadere,
nulla.
24 dicembre 19—
Mio Dio, no. No. Non farmi questo. Non hanno dato il permesso a Mary, Albert e Jimmy
di venirmi a trovare nel giorno del Santo Natale. Questi non sono uomini sono bestie
schifose, maledetti, maledetti.
Sera
Una guardia ed un avvocato del carcere sono venuti a chiedere se voglio prestarmi
come volontario per la camera a gas, ho detto di no e così devono aver risposto anche gli
altri perché se ne sono andati molto seccati. Poco fa quello che sarà ucciso per primo si è
affacciato, cercandomi con lo sguardo tra le sbarre.
-
ehi come ti chiami
-
Ernest
-
sei il secondo quello del ventisette
-
sì
-
cosa gli hai risposto ci vai nella camera a gas
-
no gli ho detto di farla provare al direttore del carcere se ci tiene tanto
Ernest Thorton
-
comunque uno di noi ci dovrà entrare
-
lo so
-
hai paura
-
sì
-
anche io
-
tutto il giorno ma sento che mi sta rimontando la rabbia non riesco ad accettarlo
molta
stai pregando
perché devono ucciderci chi gli ha dato il permesso
-
lo stato
-
e porca puttana che razza di popolo si è organizzato uno stato del genere
-
no non è colpa del popolo quello è troppo indaffarato a sopravvivere sono stati i
creatori dei popoli balordi di passaggio più vicini alla scimmia che all’uomo animali che
mordono con denti rubati e digeriscono con viscere false
-
sei comunista
-
anarchico
-
io sono innocente
-
io no ma prego lo stesso
E’ tornato il prete e mi è sembrato sinceramente addolorato dal fatto che non facessero
entrare i
parenti dei condannati nel giorno della nascita di Cristo. Abbiamo pregato
insieme, io solo il Padre Nostro perché è l’unica preghiera che conosco, e di questo devo
ringraziare nonna Mary che me la faceva ripetere ogni sera prima di addormentarmi. E’
andato via lasciandomi un rosario con l’immagine della Madonna e un libretto di preghiere
con tante figure di Santi. C’è Santo Stefano lapidato, Santa Lucia accecata, San Pietro
martire con la testa spaccata, , San Abbonzio e Santa Barbara decapitati, quest’ultima dal
padre, subito incenerito da un fulmine, San Giusto ammarato, San Lorenzo abbrustolito e
San Sebastiano trafitto da 8 frecce. Se hanno condannato a morte Cristo e tutti questi
Santi forse qualcosa non funziona nell’umanità.
25 dicembre 19—
Ore 10:00 a.m.
Natale.
Avrei voluto avere un figlio. Morire senza lasciare qualcosa di se è triste, si muore male,
completamente. Non aver vissuto l’infanzia
di un figlio, con i repentini cambiamenti
d’umore, la fantasia vergine, Africa e Giappone insieme, festa o funerale senza fine, mi fa
sentire incompleto, castrato dalla vita. Lo avrei chiamato Brian, questo mio bimbo mai
nato, Brian Thorton. Suona bene.
Ore 3: 20 p.m.
Per intercessione del prete faranno entrare un parente per prigioniero. Credo che verrà
Mary. Quel diavolo di un prete, è veramente una cara persona.
A pranzo ho avuto un breve attacco e si è rovesciato il vassoio con tutto il cibo per terra.
Mangiamo in cella, quanto vogliamo e possiamo scegliere fra tre menù. Fanno di tutto per
tenerci buoni. Mi hanno chiesto cosa voglio per l’ultima cena, gli ho detto cannelloni una
bistecca con patate fritte e piselli un gelato al cioccolato e stracciatella con un cucchiaio
di miele.
Domani ammazzano l’anarchico, l’ultima cena gli sarà servita tra quattro ore. Aragosta.
Lui se ne sta nell’angolo e ripete una cantilena, una ninnananna credo.
E’ arrivato Albert.
Ore 09:00 p.m.
Mary non se l’è sentita di venire ed ha mandato una lettera per mezzo di Albert. E’
bellissima ed ho pianto leggendola. Albert ha cercato di tirarmi su, abbracciandomi più
volte, tenendomi sempre per mano.
-
Mary ha scritto al governatore B. c’è ancora speranza ci sarà sempre speranza
-
non ha mai fermato un’esecuzione
-
questa volta è diverso ci sono le feste nessuno vuole tre morti dopo Natale la
chiesa sta facendo un putiferio e poi ci sono le elezioni chi vuole inimicarsi l’elettorato
cattolico
si dice che sarete graziati o rinviati ma per questa volta non se ne farà niente
sta su non muori hai capito non vi ammazzeranno Jimmy dice che dei tre tu sei quello
con più possibilità di avere la grazia
ti sei sempre dichiarato innocente
sei condannato
per un solo omicidio e anche se non hai avuto un’ottima condotta gli altri sono stati dei veri
piantagrane soprattutto l’anarchico ma tu tu ti salverai lo so e anche Mary lo sa
-
vorrei avere un figlio
-
lo avrai
26 dicembre 19—
Ore 07:35 a.m.
L’anarchico non è stato graziato. Sono venuti a prenderlo alle quattro in punto, dal
ronzio e dai cali di corrente è chiaro che hanno usato la sedia e questo vuol dire che ho il
cinquanta per cento di probabilità che mi tocchi la camera a gas.
Mentre sbranava l’aragosta mi ha urlato:
-
Thorton Ernest Thorton
ordina l’aragosta ti assicuro che ne vale la pena
ha il
sapore della manna
-
adesso è troppo tardi
-
peggio per te creperai coi cannelloni in corpo
Bob si è affacciato e mi ha detto prendila tu.
Si riferiva alla camera a gas.
-
non posso mi fa troppa paura
-
ti supplico Ernest Ernest digli che ci vuoi andare che hai cambiato idea digli che
vuoi la camera a gas te ne prego diglielo lo farai è vero per me fallo per me
-
non posso farlo sarà la sorte a decidere
-
e per me chi è stato chi ha deciso
Danesi che mi ha fatto arrivare qui
schiattare in una schifosa camera a gas
di chi era quella dannata scatola di biscotti
non rispondi eh è tutta colpa tua e ora mi fai
bastardo non puoi farmi questo chiamali e digli
che
-
sta zitto Bob ci andrò
-
grazie Ernest grazie amico Dio ti perdonerà ogni peccato non andrai all’inferno te lo
garantisco io vai tranquillo non morirai mai grazie mille volte grazie
Ore 04:00 p.m.
Mi sono appena svegliato, dopo la nottata insonne sono crollato appena finito il pranzo.
Ho sognato subito, ed è stato orribile. Steso in una cassa, al buio, voglio uscire, tento di
sollevare il coperchio ma quello è inchiodato, saldato dall’esterno. Busso e grido
aiuto
aprite soffoco aprite . Graffio le pareti, scalcio, sgomito ma la cassa non si apre. Unisco
le forze, mi accovaccio portando i piedi e le ginocchia in alto e spingo più che posso e
finalmente scricchiola, si apre sfondandosi, il coperchio salta per aria. E’ la mia bara. Ne
esco disorientato, sono in una cella, le guardie vengono a prendermi, mi spingono nella
camera a gas, soffoco, muoio. Il mio corpo è chiuso in una cassa, inchiodata e sigillata
dall’esterno, al buio.
Aver scelto la camera a gas mi inorgoglisce, significa aver sconfitto la paura, anche
quella di Bob. Il prete mi ha detto che questo gesto mi farà morire meglio, che Dio premia i
generosi, perdona e ama i perseguitati.
Ore 10:20 p.m.
La cena era squisita, ed è un peccato che sia stata l’ultima, mi è sempre piaciuto
mangiare.
Ora Albert, Mary e Jimmy sono qui, nella cella, con me. Li osservo mentre mi guardano
scrivere, si tengono per mano, stringendo le mandibole per trattenere il pianto. Riempire
questo quadernetto mi ha fatto diventare un osservatore dei fatti, non il protagonista in
carne e ossa della storia. Mi sembra impossibile che sarò giustiziato veramente, è come
se, scritta la parola Fine, possa infilare l’impermeabile per andare a fare una passeggiata
sotto la pioggia, che tutto è esistito solo nella mia immaginazione, senza principio né fine.
E invece no, mai più infilerò un impermeabile, mai più sarò bagnato dalla pioggia, chiuso
nella mia cassa, giacerò al buio.
Le tre.
Mancano più secondi che minuti, tra poco verranno a prendermi. Sento già i preparativi,
il trambusto dietro la porta, l’eccitazione per una prima in assoluto. Per loro la notte ha un
fine.
Non ho più paura, non sento più nulla, nulla. L’unica cosa che mi viene in mente è la
morte di mio padre. Cosa avrà pensato morendo? Vorrei pensare la sua stessa cosa, così,
per solidarietà, per simpatia. E invece l’unica cosa che mi viene in mente è la sua morte. E
allora morendo penserò a lui, a quanto mi ha amato quel padre che adoravo come un Dio.
Sento un rumore di passi che si avvicina, aprono la porta, sono arrivati, è finita.
Questo è il racconto di mio fratello Ernest, giustiziato il 27 dicembre 19— nella prigione
di stato di A.. Il governatore B. jr. graziò Bob Ressner al posto di Ernest che si era prestato
volontario alla camera a gas. Bob comunque morì di overdose nel carcere di S. l’anno
seguente.
Luther Bennet è stato giustiziato nell’agosto del 19— mediante iniezione letale, Paul e
Arthur sono tutt’ora a K. Albert ed io abbiamo avuto un figlio. Ernest.