Una parola a caso del vocabolario
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Una parola a caso del vocabolario
Una parola a caso del vocabolario di Gianluca Iadecola alla mia famiglia. PARTE PRIMA E’ da quando è morto mio padre che ho iniziato ad interessarmi alle ragazze. Prima di allora in loro presenza mi sentivo a disagio e potrei anche dire che m’inquietavano. Non era il fatto che fossero biologicamente diverse ma ad infastidirmi era l’atteggiamento frivolo e superficiale proprio delle quattordicenni. Cambiai presto idea ma per molto tempo ho avuto un bel da fare per convincere mia madre che non fossi un omosessuale. A quindici anni davo una paghetta settimanale a mia sorella affinché dicesse in casa che mi aveva visto abbracciato alla sua amica Alison o Barbara o Vattelappesca. L’anno successivo finì sul mio libro paga anche Alison. Un paio di volte a settimana si faceva vedere a casa nostra fingendosi tutta un miele con le sue moine che mi davano l’orticaria. Erano soldi ben spesi; mia madre non ebbe più sospetti sulla virilità del suo bambino. In famiglia ci chiamavamo tutti per nome ed erano quasi bandite le parole babbo, mamma, figlio o altre diavolerie. Eravamo solamente Jack, Karen, Mary ed Ernest. Io sono Ernest, Ernest Thorton. Mia madre era molto fiera di noi. La famiglia era tutto e ci si sacrificava anima e corpo, sempre di corsa per casa con la sua andatura traballante per una gamba un poco troppo corta. Quando camminava lentamente era impercettibile ma se suonava il campanello o doveva sbrigare faccende urgenti la sua zoppia usciva fuori con prepotenza, ostacolandola, tirandola indietro per un piede, allora tutto il suo corpo cercava di fare il lavoro che la gamba corta non poteva sostenere e si dimenava come in un ballo sudamericano con le braccia larghe, e le spalle, i fianchi, la testa che oscillando la spingevano in avanti. Con Karen eravamo d’accordo su tutto e mia sorella diceva che ero il cocco di mamma. Mary era molto carina e ancora oggi che ha diversi capelli bianchi, sul suo viso sono rimasti i tratti della bellezza. Non era particolarmente intelligente ma in compenso era molto furba e riusciva sempre a fare quello che desiderava. In special modo era capace di far fare agli altri ciò che voleva, c’era da sbellicarsi dal ridere vedendola persuadere nostro padre che fumando si dimostrava anticomunista, lui che aveva la tessera del partito da ventisette anni ed era arrivato ad essere vicesegretario di sezione. Dopo tre giorni smise di fumare, e dopo quattro settimane stracciò la tessera imprecando come un ossesso, accendendosi un cubano. Casa nostra, un quartierino di tre stanze in tutto, era sempre affollata. Oltre alle visite di Alison, ricevevamo quelle di un gran numero di persone, soprattutto miei amici. Avvolte erano così tanti che s’improvvisavano festicciole con musica e pasticcini. Mia madre adorava il twist e non di rado si univa a noi ballando piuttosto bene mentre Jack batteva le mani ridendo. A quei tempi io ero la principale fonte di reddito della famiglia. Avevo dimostrato fin da piccolo una particolare attitudine mnemonica; a nove anni sapevo le tabelline dal due al novantanove e le capitali del mondo, a dieci imparai tutte le parole del vocabolario che cominciavano con la A e il semestre successivo ne memorizzai il significato. Mio padre, col permesso del preside, mi portava nelle ultime classi a mostrare il miracolo di un figlio che inorgoglisce. Da parte mia amavo mio padre come un Dio. Arrivato al college cominciarono i problemi. Prendevo voti alti solo in matematica, il resto era un disastro. Quando fui bocciato all’esame finale Jack non riusciva a capacitarsi. - per Santo Zapata come fai a sapere tutti i numeri del mondo tutte le parole del vocabolario fino alla R ed essere bocciato Comprò il diploma per mezzo di un suo amico del partito, mi ordinò di imparare tutto il vocabolario e cominciò a portarmi nelle fiere. Si era appositamente fatto costruire da “Simon il falegname”, anche detto Ventotto per una sua particolare caratteristica che non solo la moglie avrà verificato, una specie di palchetto con annesso uno striscione rosso ed una scritta gialla: “Sa tutto il vocabolario a memoria” e più sotto: “Centesimi 20”. I primi tempi non facemmo molti affari, Jack mi rimproverava sempre che ero un buono a nulla e che mi avrebbe trovato un posto in fabbrica. Io non ci vedevo niente di male nel fare l’operaio, quasi tutti quelli che conoscevo lo erano e non mi sembravano così male. Una mattina alla fiera di M. venne anche Mary per aiutarmi a smontare il banchetto alla fine della fiera, mentre nostro padre andava a trattare l’acquisto della farina per l’anno a venire. In realtà si rivelò molto più utile e preziosa. Una coppia di sposini chiese cosa volesse dire la parola amore, quando glielo ebbi detto parvero soddisfatti e lasciarono sette centesimi di mancia. Mary si annoiava molto, Jack non la lasciava allontanare dal nostro banchetto e quella sbruffava ad ogni momento. Poi venne da me chiedendomi se fossi proprio certo di sapere tutte le parole del vocabolario, io dissi di sì. Si mise a fianco a nostro padre e cominciò ad urlare. - Signore e Signori prego di avvicinarsi senza trucchi e senza inganno questo prodigio della specie umana sfiderà chiunque di voi voglia rischiare venti centesimi Qualcuno si avvicinò e altri gli vennero dietro e dopo poco eravamo accerchiati. Mary cominciò a spiegare le regole. - voi gentile pubblico potrete tornare a casa con dieci volte venti centesimi se mio fratello non saprà il significato della parola da voi scelta arbitro imparziale della disputa sarà nostro padre Jack Thorton da tutti conosciuto come uomo onesto e retto che con l’ausilio di questo vocabolario darà vittoria ad una delle parti Dalla prima fila un uomo piccoletto tutto vestito di nero gridò calotta. Mio padre pretese che gli fossero dati i venti centesimi e li pose sul banchetto, vicino ai due dollari di contropartita destinati all’acquisto della farina. Sudava. Sfogliò il vocabolario e trovò la parola richiesta. Io cominciai. - calotta sostantivo femminile singolare ciascuna delle due parti di una superficie sferica divisa da un piano secante oppure ogni struttura o oggetto di forma semisferica o cupoliforme o comunque convessa oppure associazione degli ufficiali subalterni di un reparto Quando ebbi finito Jack fece un largo sorriso e infilò i soldi in tasca. Qualcuno applaudì ma tutto tacque quando un signore distinto con un naso enorme spintosi nei pressi di Jack disse forte labiate. Jack rimise i soldi sul tavolo sfogliò il dizionario e mi fece cenno che potevo cominciare. - labiate sostantivo femminile plurale famiglia di piante dicotiledoni prevalentemente diffuse nelle regioni temperate del vecchio mondo hanno fiori zigomorfi con corolla bilobata quattro o due stami pistillo bicarpellare con ovario supero e frutto tetrachenio La maggior parte dei presenti non aveva capito due parole di fila dell’intera definizione ma quando il nasuto tirò fuori il portamonete, tutti esultarono come se avessero vinto una disputa personale. La sera, smontato il palchetto, contammo quattro dollari e sessantasette centesimi che corrispondevano a due mesi di pensione di mio padre. Quando finimmo di sistemare tutto Jack tornò con la farina e un regalo per ogni membro della famiglia. Un’armonica per me, delle scarpe nuove per Mary e uno scialle magnifico per Karen. Cantammo per tutta la durata del viaggio di ritorno e scoprimmo che Jack conosceva una quantità straordinaria di canzoni d’amore. La mia armonica era bellissima. Karen ci aspettava davanti al portone con le braccia conserte e le gambe divaricate, il vento le saliva su per la gonna di feltro nero, facendone campana. Mary gli raccontò tutto mentre noi scaricavamo la farina. Volle riascoltare la storia almeno dieci volte, non le bastava mai. La faceva ridere il modo in cui Jack imitava il piccoletto vestito di nero o quando mia sorella ripeteva le regole della contesa. Ci furono molte fiere quell’anno, tutti avevano qualcosa da vendere o comprare ma dubito che in molti abbiano fatto affari migliori dei nostri. Dopo un anno e sette mesi d’attività ci potemmo permettere l’acquisto di un frigorifero. Nel nostro caseggiato solo i Mayes, i nostri dirimpettai, lo avevano ma non scorreva buon sangue tra noi. Mettevano a disposizione parte del loro frigorifero agli altri condomini in cambio di un piccolo mensile ma i nostri soldi non li volevano e neanche il nostro cibo bisognoso di frescura. Il furgone della ditta di elettrodomestici parcheggiò sotto il portone con un gran scoppiettio di carburante e sui balconi apparve una matassa di persone. Quelli che non avevano finestre che davano sulla strada si fecero ospitare dai vicini più fortunati, qualora neanche così fossero riusciti a sporgersi abbastanza ruppero gli indugi e scesero in cortile, accogliendo con un grande applauso gli scaricatori del “nuovo frigorifero dei Thorton”. A rigore di logica non poteva definirsi “nuovo” perché non ne avevamo uno vecchio e quello comprato era di seconda mano ma tutti, ciò non di meno, aspettavano di vedere “il nuovo frigorifero dei Thorton”. Mio padre per l’occasione mise il vestito buono e volle che sul contratto di acquisto ci fosse anche la mia firma perché i soldi li hai guadagnati tu mi disse orgoglioso. A furor di popolo il frigorifero fu collocato in cucina, ad angolo col muro, a fianco al lavabo. Grida di giubilo si alzarono quando l’elettrodomestico vibrò raggiunto da una scarica di vitale elettricità. A tutti furono messi a disposizione novantaquattro centimetri cubici, i conti furono fatti dal Signor Smith, a titolo gratuito, ma molti vollero dimostrare la propria riconoscenza con un paio di birre o un dolce ancora caldo. Erano bei tempi. II Fu allora che Alison cominciò a rifiutare i soldi che le spettavano per le sue visite. Veniva più spesso del solito, quasi tutti i giorni, in fine ce la ritrovavamo in casa ogni momento. Non si comportava più come prima, non prendeva le mie mani tra le sue, non mi si accoccolava a fianco sul divano come fanno quei gatti rossi e grassocci mentre fuori piove. Qualcosa era cambiato. Quel piacevole fastidio mi mancava. Mia madre, convinta che fossimo due dolci fidanzatini, si preoccupò molto credendo che fossimo in litigio. La verità era che Alison si era innamorata di me o chissà che altro vattelappesca provava. Cercava il modo di dirmelo ma non era capace, dopo tutti i falsi sentimenti che aveva dovuto dimostrarmi non era sicura che avrei capito la differenza con questi nuovi e prepotenti moti del suo animo. Eravamo giovani. - Ernest - sì - ti piaceva quando ti abbracciavo - qualche volta - ti andrebbe di riabbracciarmi ogni tanto - se vuoi - oggi non ho ancora fumato quando non puzzavi di sigaretta ma non devi aver fumato Mi prese per mano e andammo vicino al vecchio pozzo esaurito da un decennio. Compresi che non ci eravamo mai abbracciati. Lei mi strinse forte, la pressione del seno sul mio petto ebbe immediate ripercussioni più in basso. Tolse la testa dalla mia spalla sinistra e capii che era tutto finito, slegai le mani dietro la sua schiena e fu allora che Alison mi mollò un bacio caldo, (ebbi subito in mente le fornaci della “Mauler cotto e mattoni” dove lavorava lo zio Frank, il fratello di mamma) umido, vischioso. All’inizio fu un contatto tra labbra poi istintivamente aprii la bocca e la sua saliva si unì alla mia. Non potei trovare nulla che avessi mangiato da paragonare alla morbidezza della sua lingua. Da quel giorno ho baciato altre donne ma nessuna aveva la lingua morbida come Alison. Mi sentivo il re del mondo e probabilmente, se mai ce ne sarà uno, dubito che sarà felice come lo sono stato io in quel momento. Continuavo a ripetermi: non dimenticare, non dimenticare, memorizza ogni cosa. Avevo gli occhi chiusi, poi aprendoli vidi i suoi stretti così fortemente che alle commissure laterali si erano formate due piccole pieghe. Rivolsi lo sguardo tutto intorno e scorsi il sole che tramontava seminascosto da una nuvola grigia a forma di pipa, intanto si levavano le grida selvagge dei bambini per un fuoricampo , le cicale urlavano il proprio amore e fiori tropicali arancione inebriavano l’aria con effluvi portati dai venti e poi c’era la lingua morbida di Alison, la lingua e Alison. Tutto doveva essere ricordato, annotato, assolutamente. Quel giorno non l’ho mai dimenticato. Quel giorno è morto mio padre. La cosa peggiore di quando muore una persona è che ti manca subito. Se mi avessero detto che Jack era ancora vivo ma lontano e per molto tempo, mi sarebbe mancato dopo qualche giorno o settimana. Invece era morto. Non era in una terra solitaria e misteriosa, non era a Cuba, era morto. Stava passeggiando con lo zio Frank, il fratello di mamma, quando in un momento è cascato a terra esanime, il cranio sfondato. La tegola arancione che lo aveva colpito gli era rimasta per un terzo conficcata nella testa, il resto si era frantumato in mille pezzi. La capoccia aperta in due come un melograno queste furono le esatte parole dello zio Frank, il fratello di mamma, (precisiamo sempre di quale zio Frank si tratti perché c’è anche lo zio Frank il fratello del nonno, che del resto è morto di tisi da un bel pezzo, ma tutti continuiamo a chiamare zio Frank il fratello di mamma: zio Frank il fratello di mamma, così, per abitudine) quando arrivò di corsa a casa nostra. Allorché ebbe ripreso fiato cercò di consolare Karen ma si ricordò che il corpo era ancora lì, da solo, con una folla di sconosciuti a fianco. Ci precipitammo in Golden road 47. Al numero 47 si stava rifacendo il tetto e la facciata. Come un bel pacco di natale, il palazzo era incartato da una sottile reticella giallina messa a protezione dei passanti. Mancava solo il fiocco. Non mancò la sorpresa. All’obitorio mi permisero di vederlo. Notai sul viso un’espressione incredula, come se, nella frazione di secondo che la tegola ha impiegato per trapassare i parietali, avesse avuto il tempo di pensare. Quanto vorrei sapere cosa ha pensato. Diverse volte nella mia vita mi sono detto: nel momento in cui morirò il mio ultimo pensiero sarà questo… . E "questo” a dodici anni era il nostro cane Ben, poi la bocca di Alison, le sorelle Bouvard, poi Friù, e perlamarina quante altre cose. Quando giungemmo al numero 47 un gran numero di persone era intorno a Jack. A me e Mary non fu permesso di passare. Ci rendemmo conto che Karen era arrivata a vedere il corpo quando un urlo, doloroso a sentirsi, si levò dal centro della calca. Io ero tutto sudato, o forse erano lacrime. Mio padre, il padre che amavo come un Dio, si era spento per colpa della legge di gravità. L’uomo deve rispettare ben poche regole, una di queste è la legge di gravità. Non c’è nulla da fare, è così e basta. Dopo una lunga attesa arrivò un’ambulanza che se lo portò via. Mentre i barellieri lo alzavano dal selciato riuscii a scorgere il suo braccio destro penzoloni dal quale discendeva un rivolo di sangue. Era il 21 maggio 19--. III L’organizzazione del funerale fu completamente opera di Karen. La salma fu ricomposta da lei sola. Mentre lo lavava in camera da letto la sentivamo cantare una vecchia canzone che solevano ballare durante le nostre feste. Tutti li guardavano e loro, come giovincelli, si scambiavano baci e sguardi comprensivi. Con quella canzone si erano incontrati, lui le aveva chiesto di ballare e lei ballando si vergognò di essere zoppa. Vendemmo il frigorifero per poter acquistare un vestito per Jack e affittarne tre per noi. Non fu possibile comprargli anche le scarpe ma ne aveva un paio seminuove, usate pochissimo perché troppo strette. Le corone di fiori, la bara e la vecchia Ford familiare furono scelte da Karen meticolosamente. Alla veglia c’erano diversi ex colleghi di Jack, tutti i parenti e molti compagni di partito. La stanza era affollata e cominciò a riempirsi di fumo, furono aperte le finestre ma l’aria immobile e appiccicosa non migliorò la situazione. Gli amici del bar si erano portati le sedie e per non saper né leggere e né scrivere si fecero una partitina a carte. Lo zio Frank, il fratello di mamma, fremeva; lo aspettavano alla bocciofila Harris per la finale del torneo di boccette. Quando vi arrivò pretese un minuto di silenzio in memoria del cognato. Alle tre erano quasi tutti andati via. Non più di dieci persone accerchiavano il letto matrimoniale su cui giaceva un uomo solo. Non c’era molto da fare e cominciai ad osservarli. Vicino la grande candela posta al lato destro del capezzale c’era Generosa, la nostra dirimpettaia italiana, con due dei dodici figli che aveva messo al mondo. Il bambino più piccolo si è sposato tre anni fa con una cicciona, l’altro è sparito da un pezzo e nessuno sa che fine abbia fatto ma tutti dicono che sia morto sbranato dai cani nel deserto tra Egitto e Libia. Li teneva addormentati tra le braccia, sulle ginocchia, e con le mani snocciolava un rosario d'argento. La faccia di cuoio aveva una rasoiata trasversale dalla quale uscivano sussurrate preghiere. Nello stesso posto, dall’altro lato, c’erano Karen e Mary. Si tenevano per mano. Spesso da lì si levava un lamento acuto seguito da singhiozzi e sussulti. Ogni tanto tendevano lo sguardo verso nonno Ernest che stava seduto su una sedia di paglia, piagnucolante nell’oscurità. Nella sua giacca da camera di flanella a quadri rossa e nera si stringeva a diventare piccolo piccolo, come per scomparire e sottrarsi a quella sofferenza. Non scomparve ma continuò ad aver freddo. Pensai che sopravvivere al proprio figlio è la peggiore condanna che Dio possa infliggere ad un uomo. Alle spalle del nonno c’era Rip, il becchino. Nessuno ricordava più il suo vero nome e anche sulla lapide gli hanno scritto due volte Rip e la data del decesso. Ogni volta che l’aria, perdendo la propria immobilità, gli scompigliava lievemente i capelli, lui si arricciava i baffi. Era convinto di avere i Vittorio Emanuele più eleganti della contea e a dire il vero con la divisa da becchino faceva la sua bella figura. Io ero vicino alla porta e a fianco a me c’era una donna che nessuno di noi aveva mai visto prima. Quando finì il funerale scomparve e non la rivedemmo più. La bara, presa a braccia, uscì dal portone di casa. Lo scroscio delle serrande che si abbassavano avvertiva gli astanti disattenti che c’era un uomo che faceva il suo ultimo viaggio. Quelle serrande, simili a bandiere ammainate a mezz’asta, davano un tragico senso di solennità al lento incedere del feretro. Un sole spietato squagliava i colletti delle camice buone. In chiesa tutti fecero un profondo respiro per rinfrescare i polmoni, l’acqua santa fu ben cosparsa su polsi e nuche infuocate e in un momento finì. Padre Bohumil spiegò che Jack era in un posto migliore e che Dio lo aveva chiamato a se e tutte quelle cose che perlamarina si devono dire ad un funerale. Non fu capace di spiegarci perché avesse preso un buon padre di famiglia ma solo disse le vie del Signore sono imperscrutabili. La bara fu caricata sulla Ford familiare non senza qualche difficoltà. Con estenuante lentezza giungemmo al cimitero, qualcuno tagliò per i campi. Karen, stremata, rimasta indietro, fu chiamata a gran voce per la scelta del loculo. - scegli un posto comodo, dove non avrai il torcicollo quando vieni a trovarlo - le disse il nonno, che di torcicolli se ne intendeva. - prendi questo così tu ti ci metterai a fianco quando toccherà a te - le disse il fratello Frank. Alla fine fu scelto un secondo piano in fondo al corridoio della cappella di famiglia. I tre piani rimanenti erano vuoti. La donna sconosciuta della veglia depose due mazzetti di fiori, afflosciati per il caldo, sulla bara. C’era su ognuno un bigliettino con un nome ma non mi fu possibile leggerli perché le lacrime mi annacquavano la vista. Per fortuna quell’orribile giorno era finito. Appena a casa m’infilai di volata nel letto. Quella notte non riuscii a dormire. Una lunga notte atroce dove il sole non si decideva mai a far capolino, dribblando le imposte della finestra. Avevo sempre lo stesso pensiero, non un pensiero preciso ma sempre lo stesso, come se avessi dimenticato qualcosa senza sapere cosa. Questa sensazione era così forte e reale che mi ritrovai a frugare nei cassetti, sul comodino, tra i panni poggiati sulla sedia. Quando ebbi coscienza di cosa stessi facendo sorrisi e ritornai a letto. Per due giorni quel pensiero nebuloso mi frullò nella mente, come quando si ha un motivetto idiota per la testa e non si riesce a smettere di evocarlo e ci si ritrova a canticchiarlo nel tram o a tavola o mentre si ringrazia il signore per il pane quotidiano. Avevo il corpo come di piombo e non uscii dalla mia camera. Alison non si fece vedere. Mi venne la febbre alta e dissero che avevo delirato ma non lo ricordavo. - cosa stai facendo - sto pescando - possibile che bastino tre giorni di mia assenza per ridurti in questo stato - chi sei Mi arrivò un bacio morbido come il burro. - tua madre mi ha detto che a momenti arriverà il dottore è un brav’uomo ha curato anche mio fratello quando ha avuto la polmonite - ho la polmonite - no scemo mio fratello l’ha avuta ma gli è passata - mi fa piacere Sentivo un forte prurito al capo, dentro. Avrei voluto prendere i ferri da uncinetto di mia madre e ficcarmeli su per il naso e grattarmi, grattarmi a sangue fino all’osso. Quando il dottore finì di visitarmi mi diede un buffetto sul collo e scrisse con la sua grafia da gallina sul ricettario. Diagnosticò una lieve forma di esaurimento, riconducibile alla morte di Jack. La mia mente era uno specchio in cui non mi riconoscevo e che mi faceva apparire distorto al mio stesso sguardo. Così come nella casa degli specchi del Luna Park in cui da bambino mi vedevo alto e magro o grasso o basso e ondulato. Ora però era qualcos’altro che si deformava, non più la testa col tronco e le braccia e le gambe ma tutto ciò che rimaneva; emanando un rumore assordante, un ronzio ottuso, continuo e uniforme. Ah, se avessi avuto quei dannati ferri da uncinetto! Le medicine prescritte non funzionarono, al ronzio si unì un battito profondo. Potevo distinguere ogni globulo rosso che si andava ad infrangere sulle tempie. TUM-tum TUM-tum TUM-tum Tum-tumTUM-tum. Solo le cure amorevoli delle mie tre donne riuscivano a distogliermi da quel supplizio, le loro premure mi rassicuravano, dandomi la tranquillità di una persona in buona compagnia. Karen una notte s’infilò in camera mia con un esorcista o vattelappesca santona di periferia. Mi spogliarono completamente e cosparsero il corpo con una specie di olio contro il malocchio. Ebbi un’erezione e per la vergogna finsi di dormire. La vecchia prese un piattino da caffè, vi fece cadere un chicco di grano dal quale uscì il malocchio sotto forma di bolla d’aria. Serbavo ben poca fede in queste pratiche pseudomagiche ma confesso che la mattina dopo stavo meglio. Tutti i rumori si attenuarono e di lì a tre giorni scomparvero completamente. Quello fu il primo attacco della malattia che mi ha portato in questo posto maledetto da Dio e dagli uomini che sono nel terzo livello del manicomio criminale di K. IV Qui tutti sono gentili con me, tranne Arthur, il responsabile del secondo piano, che è il piano dove sconto la mia condanna. Pena capitale. Sono passati venti anni dal giorno in cui il giudice emise la sentenza, augurandomi che fosse eseguita al più presto. Per ora è morto solo il giudice in un incidente stradale, pace all’anima sua. In appello mi è stato concesso del tempo per degli accertamenti psichiatrici che avrebbero dovuto sostenere l’eventuale revisione della condanna. La mia visita al manicomio criminale di K. doveva durare poche settimane e invece ne sono passate millesettecentocinque. Gli esami non hanno ancora dato risposte certe e intanto sono parcheggiato qui nell’attesa di morire, in un modo o nell’altro. Sono considerato un livello tre, massima pericolosità. Quelli del primo livello se la spassano. Stanno al pianterreno e la domenica mattina possono uscire per il paese di K., che è a solo un chilometro dalle nostre sbarre. Il secondo livello è proprio sotto di noi, al primo piano. Non li fanno uscire ma li sentiamo cantare. Al terzo livello non cantiamo mai. Siamo in cinque, il più anziano è Luther, un negro che di pazzo non ha proprio nulla ma anche lui lo aspetta la sedia. Ha fatto secco un polizioide che si sbatteva la moglie a giorni alterni con un collega. Gli ha infilato un uncino da macellaio nel collo e se l’è portato in giro come un cagnolino al guinzaglio. A fianco alla mia cella c’è quella di Martin, un omicida seriale di merda. Apriva le ragazzine in due con un taglierino, partendo dal pube su per l’ombelico fino alla bocca, poi le violentava. Credo che se avesse la possibilità farebbe lo stesso con ognuno di noi. Di notte rievoca le sue gesta e sento che si masturba, sempre con la finestra aperta. Tra un mese e mezzo ha un appuntamento col becchino. Anche lui è nero. Di fronte vegeta Bob, alla sua età non si dovrebbe stare in un posto come questo, povero ragazzo. Non so perché sia qui, le guardie non ci dicono mai niente di niente e Bob di sicuro è molto malato. Da quando è arrivato, otto mesi fa, ha aperto la bocca solo per mangiare. In fine c’è Paul, un tipo normale, stile medio borghese; tra dieci persone non si distinguerebbe. Non ha voluto dirci perché è qui ma è l’unico cui non sono mai tolti i ceppi. Arthur mantiene un diario dove annota tutto quello che succede al secondo piano. Vi scrive a che ora si sveglia ognuno di noi, quando va al bagno e perché, l’appetito durante i due pasti quotidiani, le parole pronunciate, i tic, le malattie, i farmaci somministrati, in quale dose e per quale via, le visite, il cambio dei turni, le riviste che leggiamo e ogni dannata cosa succeda al secondo piano. Non abbandona mai il posto di lavoro, vive in una cella come la nostra e non riceve visite. Credo sia solo, senza famiglia o amici, senza un ombrello che gli faccia da casa. Ha una lunga cicatrice sul braccio destro, ricordo di un matricida che non ha gradito l’isolamento nel porco. Il porco è la camera con pareti imbottite, senza finestre né luce, in fondo al corridoio. La chiamiamo porco perché è piena di merda e chi vi entra esce sporco come un porco. In venti anni sono entrato nel porco due volte e giuro che m'è bastato. Arthur è di origine ebraica come Reb Meshulan, il vecchio dottore che ha tentato di curare la mia malattia. Quando gli attacchi diventarono più frequenti e gravi la pozione della santona non ebbe più efficacia. Il ricorso alla medicina ufficiale stava a significare la sconfitta del sapere popolare e penso che se sono qui è anche per i malocchi lanciatimi dalle streghe del quartiere. Il buon Reb ce la mise tutta per curarmi. Provò dapprima eliminando le proteine dalla dieta, poi i grassi ed i cibi solidi, l’uso della Cannabis indica coincise col digiuno e sebbene mi trovassi perfettamente rilassato i disturbi continuavano imperterriti, snobbando gli sforzi del dottore. Dopo sedici giorni di digiuno si volle adottare una terapia antitetica alla prima. Ero costretto ad ingozzarmi dalla mattina alla sera con cibi grassi e proteici, nell’acqua fluttuavano globuli di strutto, al posto della Cannabis indica mi somministravano due volte al giorno una specie di miscuglio di sostanze psicotrope e miorilassanti. Ma oltre alla gastrite non ebbi benefici. Il caro Reb Meshulan chiese un consulto ad un esimio collega, professore universitario di grande fama, il Dottor Grimmelshausen. Con fare spiccio mi infilò le mani in ogni orifizio, e in tutti quei posti dove ognuno, per pudicizia o solletico, non vorrebbe mai essere toccato da un estraneo. Fece numerose domande e quando seppe che avevo una certa capacità di memoria la volle subito mettere alla prova. Mi chiese una quantità di termini medici ma anche sciocchezze come cosa fosse una caffettiera o un trattore. Fu immediatamente certo della connessione dei disturbi con le mie capacità. Si sentì così onorato dal mio male che mi fece tanti complimenti per l’originalità della malattia che mi era toccata in sorte. - mai visto niente di simile – disse- ma si sa la mente umana è un posto pericoloso Consigliò digiuno e riposo ed una robusta cura ormonale. Karen era sempre al mio fianco, mai un lamento o una lacrima per le nostre disgrazie. Il conto dei dottori era salato e così cominciò a prestare occhi e mani alla “Sartoria Genkins – abiti su misura”. Lavorava a casa, senza sosta imbastiva giacche e cuciva pieghe, misurava maniche o legava bottoni di osso. Abiti fatti su misura per la “Sartoria Genkins – abiti su misura”. I suoi occhi si cerchiarono presto di carne bluastra dalla consistenza pastosa, le dita resistettero con orgoglio all’artrite ma quando si arresero lo fecero di schianto. Allora era percettibile ad ogni punto croce lo stridio delle falangi che scheggiavano incontrandosi. Karen era divenuto lo scheletro di una donna. Il suo corpo aveva subito tante e tali modifiche che era difficile riconoscere in lei lo stesso essere umano di prima. Mary sentendosi di peso andò via di casa con un camionista di D scomparendo per diversi anni. L’ho rivista il primo giorno del processo seduta in seconda fila con un marmocchio incollato al collo. Ero diventato zio. I miei attacchi erano furiosi, urlavo tutta la notte senza sosta e spesso dovevano legarmi al letto con un bavaglio in bocca. Non era solo dolore fisico quello che provavo ma un forte senso di angoscia, come per qualcosa di ineluttabile e tremendo. Le poche volte che mi era permesso uscire di casa la gente mi guardava con curiosità e si fermava in crocchi per bisbigliare le parole- indiavolato pazzo fuori dalla grazia di Dioe perlamarina chissà quante altre scemenze. Come se avessi una bandiera piantata nel capo attiravo lo sguardo dei passanti. Se un attacco improvviso mi sorprendeva per strada cominciavo a sbattere con le braccia sui muri delle case, il capo ciondoloni urtava maldestramente le persone e i cani cominciavano ad abbaiare ringhiosi. Alison non resistette a tutto ciò e dopo tre anni di malattia mi fece trovare una lettera in cui diceva che non sarebbe più tornata a trovarmi, che aveva conosciuto un aviatore, una persona per bene. Dopo sei anni il male si concesse delle pause. Allora cominciai a frequentare il circolo “Ratafià” dove si giocava a biliardo e si ascoltava musica jazz. Trovai degli amici, ragazzi normali con problemi normali, qualcuno mi prendeva in giro, altri mi rispettavano per come giocavo a scala quaranta. Dopo tre mani sapevo le carte che aveva ognuno. Albert si accontentava del trenta per cento delle vincite, così diventammo inseparabili. Uscivamo con le sorelle Bouvard, l’attività sessuale sembrava giovarmi. Per oltre un mese non ebbi crisi ma i rapporti con Karen cominciarono ad essere insofferenti. Probabilmente m’imputava il suo decadimento fisico, la fuga di Mary e vattelappesca quante altre cose. Ero quasi sempre fuori casa, mi era insopportabile vederla seduta sulla sedia di legno scuro, curva continuamente sull’ago che lacerava i suoi sogni di vecchiaia. Senza sosta borbottava parole insensate, ingiurie o dialoghi scriteriati con Jack, usando la voce roca per imitare quella di mio padre. - Jack ti ricordi il giorno del nostro matrimonio - certo eri bellissima ma oggi lo sei ancora di più - non dire sciocchezze ora sono solo un torsolo di mela masticato e vomitato - mah col cranio sfondato non ti vedo tanto bene - già deve essere difficile avere una buona vista ridotto a quella maniera - non mi lamento tutto sommato poteva andarmi peggio - sei stato sempre un ottimista per questo ti amo - anche io ti amo Quando Albert venne a casa mia per la prima volta ne fu terribilmente colpito. Io avevo fatto l’abitudine alla visione di quella vecchia pallida e stanca, tutta contorta sul grembo ma Albert ne fu terribilmente colpito. Mi chiese se avevo intenzione di rinchiuderla in una clinica, che lui aveva un cugino che ci lavorava in una clinica per vecchi. La settimana successiva andai a visitare la clinica “Barker”. Sam, il cugino di Albert, mi fece vedere la sala mensa, quella ricreativa e una camera. Avevano anche una simpatica sala mortuaria tutta bianca con panche e sedie a sufficienza. Tutto era abbastanza squallido ma pulito. Non dava la sensazione di essere un istituto modello ma era passabile, la retta era di tre dollari e cinquanta al mese. Con le mie vincite e lo stipendio della “Sartoria Genkins - abiti su misura - arrivavamo a sei dollari. Quel giovedì mamma andò a vivere nella stanza 171 della clinica “Barker”. Albert ci accompagnò con la sua automobile. Quando entrammo sul viale reso fangoso dalle ultime piogge Karen si fece il segno di croce e mormorò mi avete portato nel buco del culo del Diavolo bastardi. Lasciammo che piangesse sostenuta da una suorina che continuava a dirle brava smetta di piangere si troverà bene qui abituata. Lei rispondeva bastardi. su da tutti le saranno amici. Presto si sarebbe Per andare a trovarla avrei dovuto prendere tre pullman, svegliarmi piuttosto presto e tornare stanco e sudato dopo le tre, perciò andavo alla clinica Barker solo quando Albert faceva visita a Sam, un paio di volte al mese. La stanza era sempre in penombra, le membra di Karen si confondevano con le lenzuola e i cuscini. Io mi stendevo vicino a lei, lei mi carezzava il capo poi si addormentava, difficilmente ci parlavamo; non avevamo nulla da dirci. Qualche volta le riferivo i pettegolezzi del quartiere ma non prestava attenzione, solo quando le parlavo dei miei attacchi sembrava ridestarsi dal suo stato semincosciente. Faceva domande sui sintomi e sull’efficacia delle nuove cure, voleva sapere come stavo e se il dottore era soddisfatto dei progressi. Quando passeggiavamo lungo il viale circondato da acacie cercava di infilarsi in macchina pregandomi di riportarla a casa, che sarebbe stata buona e non mi avrebbe dato alcun fastidio, presto sarebbe morta e sperava di farlo in casa. Era infelice e rassegnata. Io semplicemente inorridivo al pensiero che lei mi aspettasse a casa, forse, morta. Credendo di fare il suo bene la lasciavo ogni volta alla clinica Barker, camera 171, con la promessa che presto sarei tornato a trovarla. Di notte il pensiero di mia madre ridotta in quello stato mi disgustava, come sassate mi tornavano alla mente tutte le premure, le frasi sciocche e divertenti che mi rivolgeva quando ero bimbo, le merende col pane e pomodoro, il burro di arachidi, i regali per il compleanno, e quelli per il Santo Natale. V Con Albert mi sentivo perfettamente a mio agio. Bruciava sempre dalla voglia di farmi domande e me ne faceva un mucchio. Lo interessavano le cose meno serie e più indecenti. - qual è la definizione di magnaccia - magnaccia o magnaccio magnare che vuol dire mangiare mantenere da essa - e di zoccola sostantivo maschile derivante dal verbo dialettale indica colui il quale sfrutta una prostituta facendosi - zoccola sostantivo femminile dal latino sorex sorecis da cui anche sorca vuol dire topo e in senso spregiativo prostituta - dovresti andare alla televisione al quiz show - a far cosa - a fare i soldi avessi io le tue capacità non sarei più un pidocchioso ma un signore con tanto di lacchè - la malattia dove la metti - con tutti quei soldi ti passa e se non ti passa è meglio essere ricco e malato che malato e povero ti dico che dovresti andarci al quiz show - e se mi viene un attacco di quelli forti mentre devo rispondere - allora saluti tutti e te ne ritorni a casa - già così mi prendete per culo per il resto della vita - e tu sbatti dollari sul muso a tutti Albert era ossessionato dai soldi. Se vedeva una macchina sportiva subito ne diceva il prezzo tasse comprese o quando una bella ragazza attraversava la strada lui, con un rapido calcolo, m’informava di quanti dollari erano necessari per portarla a letto o all’altare; la differenza era sostanziale. Tutto aveva un prezzo. Una sera alla clinica Barker davanti ad un tramonto degno del l’Altissimo mi disse che avrebbe pagato sette dollari e settantacinque per rivederlo, non un centesimo di più. Aveva un coltello magnifico col manico d’avorio intarsiato che mi regalò il giorno del mio ventiseiesimo compleanno. In poche ore lo feci vedere a tutti quelli che conoscevo e tutti si complimentarono per la lama affilatissima o per il magnifico manico in avorio. Era il mio primo coltello. Se Albert mi avesse dato anche la licenza di guida sarei diventato una persona come le altre. In tutta la mia vita ho guidato con buona attitudine non più di sei o sette volte, sempre la macchina di Albert, una vecchia Ford tutta scassata di un colore marroncino indefinito, arricchito dalle strisciate di vernice multicolore provenienti da numerosi autoveicoli. PARTE SECONDA I Nel 19-- la vista di Karen peggiorò molto. Il licenziamento dalla “Sartoria Genkins –abiti su misura” le fu notificato il 23 febbraio, la buonuscita servì per pagare i danni ai tessuti resi inutilizzabili da sforbiciate e cuciture clownesche. Quando andai a trovarla era già sulla soglia della clinica Barker con i bagagli saldamente stretti nelle mani nodose, una coperta sulle spalle per ripararsi dal vento e un cappellino fucsia completamente calato sugli occhi. - da tre giorni vi aspetta- mi disse un dottorino del sud. - riportami a casa- strillò appena gli fui vicino. - perché vuoi tornatene in quel buco quando qui è così bello - se ti piace tanto vienici tu io torno a casa Tremava dalla rabbia, sarebbe crollata a terra da un momento all’altro con le mani nodose, i bagagli, il cappellino fucsia e tutto il resto, e difatti svenne. Il giorno dopo con un carrello da supermercato cominciai a raccogliere carta e cartone dai negozi. Mezzo dollaro a quintale. Per fare un quintale di carta ci vuole un quintale di tempo. Nascondevo sassi in palle di carta o bagnavo il cartone per aumentarne il peso. Talvolta dalla cartaccia sbucavano libri, taglierini, forbici e perfino anelli, dalla loro vendita ricavavo abbastanza soldi da pagare le medicine. Quando riempivo un carrello lo portavo alla cartiera Macheath dove con un’enorme pressa riducevano tutto in un cubo pronto per gli acidi. Da carta nasce carta e così avevo la sensazione di raccogliere sempre la stessa. Per evitare che mi rubassero il carrello durante una crisi presi l’abitudine di legarmi con una fune al suo gancio posteriore. Fu così che in cima a Doris hill, inciampando, cominciò la mia discesa libera. Il carrello pieno di carta prese subito velocità, travolsi un vecchio barbone che mi maledisse lungamente tra il frastuono di cianfrusaglie metalliche e vetro rotto. Ululante per il dolore arrivai in fondo a Doris hill dove orribile gente del Giappone scattò fotografie con il flash. Di tanto in tanto Albert m’accompagnava nei giri, mangiavamo panini al sesamo e bevevamo birra. Due volte la settimana giocavamo a carte, il martedì e il venerdì; fu proprio uno di quei venerdì che decise il mio destino. Quella sera non vinsi. Qualcuno con ogni probabilità barò. Non era comunque prudente lamentarsene pubblicamente e quindi giocai di conserva fino a quando, stufo della commedia, feci finta di sentirmi male. Ero ormai esperto nello strabuzzare gli occhi, dilatare le narici e preda del demonio menare calci a destra e manca colpendomi il cranio energicamente. Mi lasciarono andare con pacche benevole sulle spalle ma tenendosi la metà dei miei soldi. Arrivai a casa incollerito, frustrato. Per rifarmi avrei dovuto raccogliere tre quintali di carta. Questo pensiero mi faceva venire su dallo stomaco ondate di bile. Più ci pensavo e più ne avevo riempita la bocca. Un attacco mi colse sulla soglia di casa. Mi rendevo conto di emettere urla bestiali, articolando insulti e minacce all’imbroglione. - con queste mani ti ammazzo tu possa marcire all’inferno raccolgo tutta la carta di merda e tu mi prendi i soldi porcaccia miseria carogna ti accoltello la faccia carogna accoltello ti ammazzo Le ringhiere evitarono che precipitassi nella tromba delle scale. Nonostante l’ora tarda il baccano fu tale che in molti vennero a verificarne l’origine, mi diedero da bere un whisky e poco dopo potei entrare in casa sulle mie gambe. Si moriva dal caldo. Tolsi le scarpe e i pantaloni, ma giunto in cucina m’investì un odore dolciastro. Molti oggetti erano stati spostati, qualcuno doveva essere entrato in casa. Istintivamente andai con la mano alla ricerca del coltello ma anche quello non era al suo posto, mi maledissi perché non lo avevo portato con me. Rimasi immobile per più di un quarto d’ora, trattenevo il fiato immaginando che l’altro stesse facendo lo stesso dietro la porta. Ogni volta che i fari di una macchina di passaggio creavano ombre minacciose, il cuore mi saltava alla gola, soffocandola. Aspettavo, teso all’ascolto, che l’altro si tradisse con un passo, un sussurro. Dopo mezz’ora mi convinsi che chiunque era entrato se ne fosse già andato, avvertito dal baccano che avevo fatto sul pianerottolo. Spalancai vigorosamente la porta del soggiorno, quell’odore dolciastro mi attaccò alle narici, nauseandomi; qualunque cosa ne fosse l’origine doveva essere ancora in quella stanza. Entrai chino, trafelato, una sostanza vischiosa si appiccicò ai calcagni paralizzandomi, quella doveva essere la fonte delle esalazioni. Mi resi conto di essere al buio così andai verso l’interruttore, lo misi in posizione on, la luce si sparò nelle pupille. Sulla sua sedia di legno scuro giaceva Karen. Le corsi vicino, era immobile, come sempre china sul grembo. - Karen Karen che diavolo ci fai qui mi hai fatto prendere un colpo pensavo fossero i ladri come hai fatto a tornare a casa Quando mi chinai su di lei vidi lo scintillio di una lama farsi strada nel petto, il manico d’avorio intarsiato era stretto tra le mani. Per terra il sangue mi aveva incollato i piedi al pavimento. Urlai. Mi parve che la casa fosse sballottata dalle fondamenta, tutto si fece buio. Panico. Pooot, un clacson dalla strada. DRIIN DRIINDRIIN Qualcuno alla porta suonava il campanello. Silenzio. Rannicchiato a terra facevo silenzio. DRIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIN Il campanello vibrò con insolenza la sua nota, una voce di uomo gridava il mio nome, pugni sul legno del battente. Albert Sentivo i vicini che l’informavano della crisi, se non fossi andato ad aprire avrebbero sfondato la porta. Mi alzai. Camminando emettevo un rumore terribile per via del sangue rappreso sotto i piedi. Rimisi le calze ed i pantaloni, aprii la porta e Albert si precipitò dentro, lo afferrai per la giacca e lui sorrise allargando le braccia. - che c’è non posso entrare - no cioè si entra - cos’è quest’odore stai cucinando - no - peccato ho fame hai della carne - si in freezer - che hai fatto alle mani ti sei tagliato - no - sono piene di sangue Lo portai da Karen. Rientrando nel salotto mi resi conto della straordinaria quantità di sangue che ricopriva i rombi delle mattonelle. Albert imprecò. Avvicinandosi con cautela al cadavere mi sussurrò qualcosa, ma non capii. Poi ripeté ad alta voce sei stato tu. - come io che ti salta in mente no che non sono stato io - come è arrivata qui sei andata a prenderla - no l’ho trovata così - sei stato tu - no l’ho trovata così - ha in corpo il tuo coltello - lo avevo lasciato a casa - se si è suicidata deve aver lascito qualcosa di scritto un biglietto Cercammo dappertutto senza successo. Alla fine concludemmo che era opportuno perquisirle le tasche, che forse il biglietto ce l’ha addosso, suggerì Albert. Per una valida ricerca si decise di stenderla a terra, pancia in su. Albert le prese i piedi, il rigor mortis non era ancora subentrato perché le ginocchia si distesero senza difficoltà. A me spettava tirarla su per le braccia. Le mani artritiche stringevano il manico del coltello infisso nel cuore con una forza straordinaria. Dovetti scardinare quella selva di dita una ad una. Il viscidume del sangue mi complicò non poco il compito. Al tre la portammo, leggera come una scatola vuota, diversi metri più in là, poggiandola sul pavimento pulito. Prendemmo uno strofinaccio bagnato e le lavammo il viso. Aveva un occhio rovesciato, completamente bianco. Cercai nelle tasche, quelle apparenti e quelle nascoste, trovando solo otto bottoni diversi per dimensione e colore, fili con e senza ago e un grandissimo numero di spille. Nessuna lettera, neanche un biglietto. Piansi molto. II Secondo Albert la presenza del mio coltello tra gli atri ed i ventricoli di Karen era sufficiente per accusarmi di matricidio. Con poche parole riuscì a persuadermi di non chiamare la polizia, che se lo avessi fatto mi avrebbero portato dritto in galera, buttando via la chiave. Mi spiegò che un suo cugino di N., entrando in un negozio di tabacco aveva trovato il rivenditore con la pancia squartata da colpi d’ascia, chinatosi per accertarne lo stato di salute e per la naturale curiosità degli uomini verso i visceri, udì la madre del sindaco urlare all’assassinio. Da dodici anni scontava l’ergastolo. Avevo molta paura e questa storia m’impressionò non poco. Era quasi mattina quando Albert se ne andò lasciandomi con il cadavere steso per terra. Pulii il pavimento e la sedia di legno scuro, a fatica perché il sangue non voleva proprio staccarsi. Dormii di un sonno pesante, comatoso. Risvegliandomi udii il campanile che batteva il tocco. Albert era tornato con una grande valigia marrone di cartone pressato. Non servirono spiegazioni. Lasciò le chiavi della vecchia Ford sul tavolo della cucina. Uscendo disse che sarebbe andato a trovare dei parenti della madre che vivono nella contea di C, a presto. Quel giorno il termometro segnò quarantun gradi. Aspettai che rinfrescasse per iniziare il mio lavoro. L’occhio bianco sembrava guardarmi ovunque stessi, nonostante il caldo coprii karen con una coperta. Alle sei aprii la valigia, era vuota, con un buon odore di lavanda. Sollevai le gambe di Karen poggiandole dentro. Il busto era così rigido da non cedere sotto i miei colpi. Dovetti rovesciare il tavolo del salotto e far forza sul collo per riuscire a piegarla. Rimisi le gambe nella valigia, il tronco così piegato entrava perfettamente, la testa tra le ginocchia sembrava fatta apposta. La gamba destra più lunga dell’altra sporgeva di tre centimetri, non di più. Mi venne da ridere. Con un robusto spintone cercai di mettere a posto la canaglia, scricchiolò ma non cedette. Ritentai. Nulla da fare. Provai a chiudere ugualmente il serramento. Impossibile. L’unica soluzione era amputare. Cercai un buon coltello affilato ma il solo adatto all’impresa era già impegnato. Optai per il coltello che usavamo per tagliare il pane, trenta centimetri di lama seghettata. Senza toglierla dalla valigia afferrai la caviglia con la mano sinistra, mentre con la destra cercavo il punto di minor spessore e maggiore morbidezza della gamba. Lo individuai a circa due centimetri dal tarso. Un grosso neo indicava il punto esatto. Mi sforzavo di pensare che fosse una bistecca di maiale o, ancora meglio, un ramo di quercia. Cominciai a segare lentamente, la pelle flaccida sfuggiva da tutte le parti, il neo si aprì in due parti disuguali, subito arrivò l’osso. Impiegai trentacinque minuti per tagliarne una buona parte, il resto lo spezzai con un colpo secco. Non fu necessario resecare tendini e legamenti. La valigia si chiuse perfettamente. La sollevai per provarne il peso. Con poco sforzo la portai fino all’ingresso. Dovetti aspettare le tre e venti prima di poter scendere non visto, per precauzione non accesi le luci delle scale e la valigia andò a sbattere alla ringhiera ma nessuno uscì a lamentarsi del trambusto. Un silenzio spaventoso paralizzava il quartiere. Non un rumore. Il mio respiro sembrava una locomotiva a vapore. Cercai di trattenere il fiato senza riuscirvi. Albert aveva parcheggiato la vecchia Ford dietro l’angolo, dove la luce dei lampioni non arrivava, la strada era deserta. Frugai le tasche in cerca delle chiavi. - maledizione le chiavi Per far presto decisi di lasciare la valigia a fianco la macchina (provai ad infilarla sotto ma era troppo grande). Col cuore in gola salii le scale al galoppo, aprii la porta, presi le chiavi sul tavolo della cucina e ridiscesi in strada, nessuno in vista. Caricai la valigia nel portabagagli e mi sedetti al posto di guida. Avevo visto mille volte armeggiare con pedali, volante e leve ma non avevo mai guidato. A uno come me la patente non si dà. Fortunatamente Albert aveva lasciato un biglietto con le istruzioni. 1) Regolare il sedile con la leva sottostante 2) Regolare gli specchietti 3) Inserire la chiave e ruotarla in avanti (messa in moto) 4) Se buio, accendere i fari con il pulsante alla sinistra del volante 5) Se piove, azionare i tergicristalli con la leva a sinistra del volante 6) Togliere il freno a mano (leva dura a destra) 7) Inserire con la mano destra le marce automatiche, posizione D per andare avanti, R per andare indietro, P per parcheggiare, N per star fermi 8) Spingere il pedale a destra per accelerare, quello a sinistra per frenare 9) Sollevare la leva di destra per segnalare la svolta a sinistra (freccia di sinistra) 10) Abbassare la stessa leva per segnalare la svolta a destra (freccia di destra) 11) Prima di scendere dall’auto posizionare in alto la leva del freno a mano 12) Per spegnere il motore portare la chiave nella posizione iniziale Spero di aver scritto tutto giusto. Che Dio ti aiuti. Seguii le istruzioni scrupolosamente fino al punto 7, ma saltai il 5 perché non pioveva. Quando spinsi il piede destro sull’acceleratore la macchina vibrò tutta e si avviò lungo la strada. Sembrava facile. Provai a frenare, inchiodando sull’asfalto. Ripartii che quasi cantavo, guidavo un’automobile come tutte le persone normali. La provinciale che porta in campagna era deserta e lì un posto tranquillo dove seppellire Karen l'avrei trovato. Un grosso camion mi venne incontro con i fari abbaglianti, sembrava impazzito e per evitarlo dovetti salire sul marciapiede travolgendo una cassetta delle lettere. Un motociclista sfrecciò a destra, un’auto sportiva mi diede la precedenza all’incrocio semaforico. Tutto filava liscio, nessuno incontrandomi aveva sospettato che non avessi la patente, nessuno chiamò la polizia, neanche una suonata col clacson. Alla radio, sui 950 megahertz, Stan Gets cantava Night and Day poi con frenesia Glenn Miller attaccò Perfidia. Aprii il finestrino, accelerai e il vento mi scompigliò i capelli. Quell’estate canicolare e cannibale non sembrava finire mai. Non pioveva da più di tre mesi e da noi è una cosa fuori dall’ordinario, tanto che vennero dei meteorologi a studiare quell’estate crudele. Sul ponte B spinsi l’acceleratore al massimo, a scatti e sobbalzi la macchina prese velocità, ottanta miglia orarie, non mollai la pressione e salì a ottantacinque. Niente male per un novellino. Tutto scorreva fulmineo, i pistoni, efficienti, tamburellavano sotto il cofano allegramente. Come una palla di cannone giunsi dall’altra parte del ponte, lì cominciava la campagna di Nora. Nora era una vecchia signora mezza sciroccata che aveva abitato quelle zone all’inizio della nostra storia, intendo quella patriota. Dormiva sotto le stelle e si cibava di bacche e radici. Persone più savie non hanno una campagna col proprio nome. Oggi la città è arrivata anche lì, con palazzi e supermercati tre per due, gli alberi sotto i quali si andava a far l’amore sono stati spazzati via, sostituiti da squallidi alberghi a ore. Arrivato ad una biforcazione voltai a destra, procedendo lentamente giunsi in un punto che sembrava adatto. Orinai sulla corteccia di un tasso, l’abbaiare di un cane si percepiva appena, l’aria odorava di fiori selvatici ed erba secca. Presi la valigia e mi allontanai dalla strada, il posto sembrava adatto e mi sedetti un attimo sulla valigia per riposare. Avevo un gran sonno, mi ripromisi che sistemata quella faccenda avrei fatto una bella dormita. Soltanto in quel momento mi resi conto di non aver portato una vanga con cui scavare; con la terra indurita a quel modo dal sole era impossibile usare le sole mani. Imprecando ricaricai Karen nel portabagagli e mestamente feci ritorno in città. Giunsi sotto casa che già albeggiava, operai e massaie facevano capolino dalle finestre, qualcuno in strada si godeva il fresco salendo sul tram. Scaricare la valigia non si poteva proprio, sarei stato sicuramente notato, perciò m’infilai con nonchalance nel portone. Bevvi mezza bottiglia di rum regalataci dallo zio Ben, un altro fratello di mamma, per la sua visita a Miami. Alle due cominciò il giro per la raccolta della carta. Quel giorno tutti vollero liberarsi di pacchi e risme di carta. Tre volte andai a scaricare il carrello nella pressa della cartiera Macheat. Lì un operaio, figlio di un amico di Jack, mi procurò una vanga. Tornato a casa feci un bagno bollente, addormentandomi nella vasca. La pelle dei piedi che tirava da tutte le parti mi fece svegliare di soprassalto, con un pensiero Karen come sarà ora la pelle dei suoi piedi. Osservando con attenzione le rughe sui polpastrelli, mi resi conto che formavano archi concentrici di carne chiara, esangue, comunemente definiti mani e piedi da morto. Karen aveva forse gli stessi archi? Poteva sentire anche lei la pelle dei piedi che tirava restringendosi? Sicuramente non quella del piede destro. Troncando la caviglia avevo notato che la sezione dei suoi muscoli era cerulea, stoppacciosa, del tutto simile alla carne di pesce e ciò m’ispirò una domanda: quei muscoli cerulei, l’intestino, le cervella e tutto quanto il resto, che odore avrebbero assunto dopo una giornata torrida passata in un sarcofago di cartone e lamiera? In un attimo ero in strada che mi avvicinavo con lunghi passi alla vecchia Ford. Feci finta di allacciarmi le scarpe appoggiando un piede sul paraurti posteriore e con lunghe inspirazioni verificavo la presenza di odori nauseanti. Avvicinai il naso alla guarnizione senza percepire altro puzzo che le esalazioni di fritto provenienti da una finestra del pianterreno. La fame repressa per tre giorni esplose in un sol colpo, succhi gastrici stagnanti presero a sciacquettare nello stomaco, la saliva con un fiotto mi riempì la bocca. Pavlov ne sarebbe stato orgoglioso. Sull’altro marciapiede “Costa il greco” arrostiva metri di Gyros pita. Adolescenti butterati facevano gare di ingozzamento. La carne, croccante fuori, sanguinolenta dentro, veniva ingollata da fauci voraci, le mani si alternavano sul piatto, le guance si farcivano di resti carnei rosa e neri, succhi speziati di aromi orientali colavano dal mento direttamente sulle camicie bianche da collegio. Il ciccione a capotavola vinse, quello col collo lungo pagò da bere, lamentandosi che a lui il cibo impiegava più tempo a scendere fino allo stomaco. Risa generali, brindisi. Mi misero di buon umore, mangiai a sazietà e bevvi del vino rosso simile al marsala. Cantammo insieme canzoni sconce e qualcuno fece da mimo con movimenti osceni delle anche e della lingua. Tre ore più tardi ero di nuovo alla guida, un poco brillo ma felice. Nello specchietto controllavo la vanga stesa sul sedile posteriore. Davvero una piacevole serata. Passai sul ponte B ma non mi fu possibile ritrovare l’incrocio, nessun posto sembrava altrettanto buono di quello della sera precedente. Vagai due ore su stradine sterrate e alla fine, seccato, ripresi la provinciale per tornare a casa, giusto all’alba. Evacuai feci dure e nere come la pece. La mucosa buccale era rivestita di afte dolenti, rosse in periferia, bianche al centro. Dallo stomaco salivano gorgoglianti emissioni pestifere che giunte alla bocca aggredivano le afte. Uno schifo. Driiin Driiin Al telefono una voce gracchiante comunicò concitatamente che Karen era scomparsa dalla clinica Barker, io la rassicurai dicendole che la mamma era tornata a casa, lei mi chiese di parlargli, le risposi che Karen stava aspettando in macchina per andare al centro commerciale, mandatemi il conto. Al Ratafià bevvi un succo al tamarindo con un uovo crudo per vomitare. Albert non era ancora tornato o almeno lì nessuno lo aveva visto. Mi rendeva nervoso l’idea che andasse in giro per la contea di C raccontando che conosceva uno con la madre chiusa nella valigia. Era un gran chiacchierone ma comunque non c’era niente da fare. Due inglesi lentigginosi vollero provare la mia abilità di pokerista, i soldi che vinsi li spesi per comprare un purgante alla vaniglia, una confezione di profilattici tipo ORO e un coltello serramanico con un drago rosso e verde disegnato sulla lama affilatissima. Era sabato sera e per non rischiare che qualche bifolco tornando dal bingo mi vedesse nel suo campo di patate con la vanga in mano partii più tardi del solito. Con tutti i finestrini aperti percorsi a razzo il ponte B, Karen cominciava a puzzare, sedili e tappetini erano intrisi del suo odore. Dovevo assolutamente liberamene quella notte. La velocità non aumentava nonostante stessi spingendo il pedale di destra fino in fondo, provai ancora a singhiozzo ma niente, la macchina si stava fermando. Scesi per verificare la presenza di qualcosa che avesse potuto frenare la macchina, nulla. I fari di un’automobile venivano nella mia direzione. Un furgone marrone e beige accostò, ne discese un energumeno pelato con una torcia elettrica. Nella tasca dei pantaloni impugnai saldamente il coltello. - cosa ti è successo - non so si è fermata La voce, traditrice, mi tremava. - il motore - fo forse non me ne intendo - sei il nipote di Bob Donan - no no mai sentito nn nominare Miseriaccia, balbettavo come una verginella. - cos’è quest’odore letame - sì pollina p per l’orto - apri il cofano - mi hai sentito ti ho chiesto di aprire il cofano - non non so come si fa - di un po’ l’hai rubata quest’auto - no è che è che l’ho appena comprata Entrò nell’abitacolo e ne uscì ridendo come solo i campagnoli sanno fare. Potevo distinguere nella semioscurità i molari d’oro in quella bocca piena di denti infetti. Mi venne voglia di assestargli un bel pugno sul grugno. - la benzina amico hai finito la benzina ti toccherà andare a piedi fino alla stazione di servizio di Ed Lo convinsi ad accompagnarmi in cambio della confezione di profilattici tipo ORO, insisté nel volere un sacchetto di pollina ma lo dissuasi regalandogli la vanga. Ed versò un gallone di petrolio nella tanica, accettò in permuta la purga ed il coltello. Ritornai a piedi alla macchina, svuotai la tanica e la riportai da Ed. Era giorno fatto quando potei buttarmi sul letto, dormendo all'istante. L’abbaiare poderoso di un cane mi svegliò verso le tre e mezzo. Lavai i denti e cominciai a sbarbarmi, il cane continuava ad abbaiare. Affacciato dalla finestra del bagno scorsi sul marciapiede un grosso cagnaccio rosso che ringhiava e latrava all’indirizzo di Karen. Perdio, sentiva l’odore di ciccia. Scesi di corsa con metà viso ancora barbuto cercai di scacciare il cane ma quello si infervorava sempre di più e ci mancò poco che mi azzannasse. Risalii a prendere le chiavi della macchina, quando scesi il bastardone era ancora lì a far baccano. Sgommai verso la zona industriale, ma quello m’inseguì per più di un chilometro. Pieno e cambio d’olio, così come mi consigliarono di fare alla pompa di Zio Joe, costarono una fortuna. Vollero sostituirmi anche le lampadine dei fari, i tergicristalli, sembrava stesse maturando un acquazzone, e la ruota posteriore sinistra, a giudizio di Zio Joe usurati e pericolosi. Rimasi in macchina tutto il pomeriggio, spostandomi ogni qualvolta un cane cominciasse ad abbaiarci. In un ferramenta dovetti comprare un nuovo coltello e una vanga. Al tramonto m’incamminai verso la solita meta. Purtroppo le nuove lampadine di Zio Joe non funzionavano perciò, in quell'oscurità, sterzai solo all’ultimo momento per evitare un gatto nero che tagliò la strada. La sfortuna fu immediata. Uscii fuori carreggiata. La ruota posteriore sinistra esplose con un botto fragoroso. Il fanale di sinistra si era disintegrato sul tronco di un albero, un bernoccolo mi si gonfiava sulla fronte,. Chino sotto la macchina per verificare i danni alla ruota, una goccia di un liquido sconosciuto mi colpì un occhio, bruciandolo. Urla e bestemmie non furono risparmiate. C’era un pertugio dal quale quel liquido fuoriusciva con sporadiche gocciole pendenti. Benzina, pensai, ma strofinando indice e pollice, per verificare meglio l’odore alifatico, scoprii che non si trattava di tale molecola. Un’altra goccia finì su una guancia, istintivamente andai con la lingua, il pentimento fu immediato. L’odore era organico, anche se nulla di decente poteva avere un tale sapore. A pensarci bene sembrava un distillato del fetido tanfo che aveva impregnato sedili e tappetini della macchina. Urlai dando fondo ai polmoni, uscii alla svelta e sputai ripetutamente, fin quando la saliva finì, allora infilai indice e medio nel faringe. Sprazzi di vomito acido m’imbrattarono pantaloni e scarpe. Un’ora più tardi, quando fui calmo, aprii il portabagagli tenendo la manica della giacca sul naso. Sulla superficie della valigia erano comparse delle bolle grandi come noci, di un marrone più scuro di quello proprio della valigia. In cima ai rigonfiamenti vegetavano floride colonie di microscopici funghi fosforescenti. Cimici e scarafaggi scappavano indaffarati per ogni dove con il pasto caricato sulla schiena o tra le braccine minuscole. Sollevando la valigia involontariamente ruppi una di quelle pustole fungine. Ne uscì un gas verdastro, filamentoso, che giunto alle narici, già fortemente provate, provocò una specie di cortocircuito cerebrale. Un attacco violento mi scaraventò a terra, la testa mi doleva terribilmente, digrignai i denti cercando di resistere. Afferrai un arbusto posto sul ciglio della strada, sradicandosi sollevò un terriccio vivo per la quantità di insetti neri che lì avevano fatto il nido. Questi si unirono agli altri che la tana l’avevano nella valigia, nel frattempo caduta alla mia destra. Guardai quei minuscoli parassiti mentre fraternizzavano, accarezzandosi con le antenne, facendosi riverenze con le zampette. Le meningi mi prudevano come invase da quegli insetti, i polmoni non rispondevano alla mia chiara volontà di respirare. Ossigeno per il mio corpo, ossigeno per quel cervello che faceva i capricci. Pensai ad un ammutinamento suicida delle membra stanche di essere sottoposte a tale martirio ma un solletichio, come un volo di farfalla sul diaframma, stimolò l’uscita di un rigurgito acquoso. Una buona parte la respirai causando una fastidiosa polmonite ab ingestis curata poi in carcere. Presi la ruota di scorta ed il cric nel vano nascosto da un tappetino umidiccio. Pipistrelli apparentemente disorientati battevano le ali timide sul mio capo e tutto intorno un buio inesauribile mi circondava. Con grande fatica sostituii la ruota, insozzandomi le mani e il viso di grasso. Ricaricai tutto nel portabagagli col pensiero che avrei potuto lasciare la valigia in un fosso ma provai subito vergogna di aver avuto un’idea così vigliacca. Ancora una volta avevo fallito. Il temporale tanto atteso cominciò a scudisciare il parabrezza con frustate poderose. I tergicristalli di Zio Joe dovevano essere della stessa partita dei fari perché anche quelli non funzionavano. Per di più non potevo chiudere i finestrini per il gran fetore così che l’acqua entrava copiosa nell’abitacolo. I pochi automobilisti nottambuli che mi vennero incontro dimostrarono scarsa solidarietà collegiale lanciando insulti e torturando il clacson. In fondo non era colpa mia se non avevo i fari, che vadano a lamentarsi da Zio Joe pensai contrariato. Per fortuna il bagliore dei lampi illuminava a sprazzi la strada, io seguivo disciplinatamente la striscia di vernice bianca alla mia destra. Sentivo chiaramente che il bozzo sulla fronte continuava a crescere incontenibile, l’occhio destro anche se ancora dolente ricominciò a funzionare a dovere. Accesi la lucina posta vicino allo specchietto retrovisore, quella usata dalle signore per rifarsi il trucco. Cercai di osservare con metodo il quadro che si presentava, partendo dall’alto e scendendo man mano: i capelli erano zuppi, ripiegati in riccioli intrisi del liquido fuoriuscito dalla valigia e di pioggia, sulla fronte il bubbone stava come un papa sullo scanno. Era rosso e duro come una caramella al lampone, con in cima un taglietto dal quale era uscito dello sciroppo ormai rappreso. L’occhio sinistro era normale, di un nocciola tendente al verde, l’altro pieno di arteriole congeste simili a ragnatele di fuoco, molto più grande del normale, ancora lacrimante. Mi fece venire in mente il mastino dei Baskerville. Il naso era in parte ricoperto da una lunga strisciata di grasso che si spingeva sulla barba sopravvissuta alla rasatura mattutina. La porzione controlaterale era invece liscia e pulita, neanche un graffio. Sul collo alcuni insetti erano imprigionati in un lobulo di grasso, con bracciate poderose cercavano di portarsi in salvo ostacolandosi l’un l’altro. Rimasi ad osservarli con attenzione. Ce n’era uno paffutello, in assoluto quello che più di tutti m’ispirava simpatia, sempre che una bestiolina del genere possa essere considerato gradevole. Si era ribaltato sul groppone mostrando uno scudo attorniato da zampette uncinate. C’era in lui qualcosa di giocoso, se la spassava beatamente nuotando stile dorso in quel laghetto artificiale. Gli altri erano un vero schifo. Si muovevano con scatti scoordinati e robotici, respirando, annaspando volgarmente. Tutti affannosamente pensavano solo a portare a casa la pelle, senza considerare che io ero lì a guardarli. Bestie. A metà del ponte B una luce azzurrina illuminava il selciato. Lasciai gli scarafaggi ai loro affari per concentrarmi su quello scintillio che con regolarità si proiettava tutto intorno. Come il faro a cui lavorava nonna Mary, morta nel 19--, lo stesso anno in cui è nata mia sorella che ne ha preso il nome, su a P.. La luce rimbalzando sull’acqua si diffrangeva in milioni di goccioline luminescenti. Quest’immagine così familiare mi fece avvicinare con sicurezza, sapevo di trovarvi un porto sicuro, nulla di male sarebbe potuto succedere al faro di nonna Mary. Dopo giorni di vero inferno finalmente potevo rilassarmi, abbandonandomi dolcemente alla corrente, confortevole come la resa senza condizioni. Con il mio carico giunsi vicino alla sorgente luminosa dove un uomo magrolino e raffreddato mi salutò con la mano, chiedendomi di scendere. Si passò la manica della giacca sotto il naso starnutendo rumorosamente. Un altro in divisa, col mitra sottobraccio, mi chiese di mostrargli la patente e i documenti della macchina. PARTE TERZA I Posi i documenti nelle mani del mingherlino che sorrise con labbra sottili e sbilenche. Attentamente controllò ogni scritta, poi chiese: - la patente - l’ho dimenticata a casa - hai qualche altro documento di riconoscimento - sì certo - sei anche spiritoso bravo - no scusate agente non volevo fare dello spirito ma ho avuto un incidente e sono un a casa poco scosso - perché vai in giro senza fari accesi - li ho sostituiti oggi ma non funzionano - sei andato da Zio Joe - sì da Zio Joe - e i tergicristalli - Zio Joe - ti sei fatto fregare - già - a cosa hai sbattuto - un tiglio credo - sei ubriaco - no no sto bene va tutto bene ora un gatto mi ha tagliato la strada L’uomo in divisa puntò la torcia sul mio viso. Sapevo cosa avrebbero visto. Gli scarafaggi continuavano a solleticarmi sotto il mento, con la mano cercai di coprirli ma era troppo tardi. Pensai che non era un reato avere sul viso bubboni sanguinolenti, metà barba, grasso per automobile con scarafaggi incastonati e un occhio grosso e rosso. - che ti è successo ragazzo una giornata storta - sì agente - in venticinque anni di servizio non ho mai visto una faccia ridotta così devi aver avuto proprio una brutta giornata Illuminò più in basso, le mani nere e il vestito macchiato dal vomito. - già proprio una brutta giornata - ripeté. Mi perquisirono trovando il coltello e il portafogli nelle tasche dei pantaloni. Nel portafogli la carta di identità dimostrava che la macchina non era mia. Dalla centrale una voce metallica, probabilmente femminile, comunicò che ero sprovvisto di regolare permesso alla guida, inoltre la clinica Barker aveva denunciato la scomparsa di mia madre. Tutti e due diventarono ombrosi, questo m’innervosì molto. Cominciai a spiegargli che la macchina era di un amico ma mi dissero di stare zitto. Parlottarono per cinque minuti poi quello col mitra mi chiese: - tua madre è scomparsa - no è a casa non resisteva più a stare in clinica ed è tornata a casa da sola sembra una vecchietta tanto fragile ma ha l’argento vivo addosso starsene tutto il giorno tra quelle mummie potete controllare alla Barker telefonato ieri o l’altro ieri e gli ho spiegato tutto che facevi in campagna a quest’ora - volevo fare una passeggiata mi hanno non sapevo che avessero fatto una denuncia ma forse è la normale routine non è vero - non ce la faceva a la macchina come un giro in machina Quello magro mise la testa nell’abitacolo attraverso uno dei finestrini aperti. Immediatamente la ritrasse. - da dove viene questo puzzo - il mio amico il padrone della macchina ci trasporta concime - perché hai un coltello - oggigiorno con i delinquenti che ci sono in giro - sei un contadino - no raccolgo carta - perché allora porti una vanga - serve per scaricare il concime Poi arrivarono le parole che non avrei voluto sentire. - apri il portabagagli - hai sentito ragazzo apri il portabagagli - ma no agente facciamola finita va bene guidavo senza patente ma ora non facciamone una tragedia pago - cosa vuoi pagare - la multa - la pagherai ma ora apri il portabagagli - vi avverto che lì dentro c’è un terribile fetore di concime - apri Spalancai il portabagagli con le mani che mi tremavano. - che c’è nella valigia - concime - in venticinque anni di sevizio non ho mai visto mettere il concime in una valigia - aprila Sperando di dissuaderli dal guardare nella valigia ruppi alcune delle bolle che vi stazionavano sopra. Ne fuoriuscì un fetore ripugnante che mi fece guadagnare dieci minuti nei quali spiegai che aprendo la valigia il puzzo ci avrebbe appestato orribilmente i vestiti e a casa la mamma mi avrebbe fatto una ramanzina se fossi tornato a quel modo. Quando i gas verdastri si dispersero nella pioggia i poliziotti m’intimarono di far presto che non avevano tutta la notte da perdere. Aprii sperando di non trovare quello che vi avevo messo e, in un certo senso, fu proprio così. Per pochi istanti un silenzio siderale calò su di noi, il fascio di luce della torcia diede vita ad un’orda muta di grosse mosche dai riflessi metallici che ci assalì. Voraci ci ricoprirono il viso, le mani, passando dalle maniche della giacca o attraverso il colletto della camicia e per ogni dove si potesse poi trovare un pasto edenico, pelle glabra. Le sentivo salire su per i pantaloni, rosicchiarmi la schiena, ronzare sulla testa in una girandola perfida. Simultaneamente ci buttammo a terra rotolano sull’asfalto per sottrarci a quelle bocche fameliche. Potevo percepire sia all’udito che al tatto lo scricchiolio delle bestioline schiacciate, lo scheletro chitinoso si frantumava sotto il peso dei nostri corpi. Ci alzammo spogliandoci completamente con furia, cadaveri minuscoli cadevano a terra rimbalzando, le sopravvissute scappavano disorientate. L’agente in borghese minacciò con l’indice dicendo che questo scherzo me lo avrebbe fatto pagare. Non so perché a questo gesto si sciolsero le lacrime che serbavo per la sepoltura di Karen. Non era colpa mia se nella valigia c’erano tutte quelle mosche, e poi avevano assalito anche me. Lacrime salate precipitavano sull’addome, scivolando sulle gambe. Ogni volta che venivano a contatto con le escoriazioni appena prodotte da quella turba, bruciavano le carni straziate. Mentre i poliziotti si rivestivano mi avvicinai a Karen rompendo in singhiozzi. Potevo intravedere giusto i contorni di quel corpo sfortunato, ammassato su se stesso, distrutto. Poco dopo si posero al mio fianco e la luce rese manifesto l’orrore raccapricciante di una salma violata, privata della dignità di cui godono i morti. Bianche larve facevano capolino dalla pelle martoriata, muscoli e organi dovevano esser pieni di tragitti tortuosi prodotti da quegli animali avidi. La luce inesorabile andò sulla gamba mozzata. Vi albergavano scarafaggi della stessa specie di quelli che avevo sul collo. Frettolosamente si rifugiarono nei cunicoli bui scavati nel corpo di Karen, scomparendo. Il magrolino si allontanò per vomitare, l’altro puntò il mitra nella mia direzione. II Il processo durò solo tre settimane. L’autopsia sui poveri resti di Karen indicò il sette agosto come data del decesso. La causa, seppur evidente, fu ricondotta all’emorragia dovuta ad una ferita penetrante da lama nell’emitorace sinistro con resezione dei grossi vasi alla base del cuore. L’amputazione della caviglia era avvenuta dopo il decesso in modo rudimentale. Mi dichiarai innocente. Furono chiamati a testimoniare dottori e infermieri della Barker, gli inquilini del palazzo, Albert, il Dottor Moskat e alcuni negozianti del quartiere apparentemente informati sui fatti. Una sola cosa accomunava le loro versioni, nessuno aveva visto Karen rientrare in casa. Compatto il personale medico e paramedico della clinica affermò che nelle “rare” visite alla Barker mi ero dimostrato “insensibile e arrogante”, sono state queste le parole usate da un conducente di ambulanza di cui l’unico ricordo che ho è una sigaretta fumata insieme nel corridoio di fronte la camera 171. Voleva a tutti i costi vendermi un vecchio mobile a cassettoni avuto, così diceva, in eredità da una zia. Per togliermelo di torno dovetti regalargli un pacchetto di sigarette e un paio di spintoni. I condomini rammentarono con esattezza le parole deliranti che avevo urlato mentre entravo in casa la notte del sette agosto: con queste mani ti ammazzo tu possa marcire all’inferno raccolgo tutta la carta di merda e tu mi prendi i soldi carogna ti accoltello la faccia ti ammazzo. Naturalmente furono considerate rivolte a Karen e quando spiegai che invece erano riferite a un baro che quella sera mi aveva ripulito il giudice rise scuotendo la testa. Dal banco dove ero seduto potevo vedere Mary e il figlio. Era un bimbo stupendo, con la testa tutta gialla e le mani minuscole e grassotelle. Non ci permisero di parlare ma dal suo sguardo capii che credeva alla mai innocenza. Al suo fianco Albert le faceva forza tenendole la mano fino a quando fu chiamato a deporre. Raccontò di avermi sorpreso con le mani sporche di sangue in stato confusionale, schiarendosi la voce affermò che non trovando il biglietto di addio della suicida lui stesso mi aveva persuaso a non chiamare la polizia. Dichiarò solennemente che ero una persona a posto e pretese che fossi rilasciato immediatamente. Il giudice prima di farlo arrestare per complicità in occultamento di cadavere gli fece riconoscere l’arma del delitto. Dodici persone lo identificarono come coltello di mia appartenenza. Io stesso d’altronde ne denunciai la proprietà. Al Dottor Moskat furono rivolte almeno un centinaio di domande sui sintomi della malattia e circa la mia facoltà di intendere e di volere. Il caro dottore mi difese a spada tratta, senza battere ciglio tenne testa al pubblico ministero che diventò paonazzo dalla rabbia. Spiegò ogni sfumatura dei sintomi, riferì, aiutandosi con un quaderno rosso, di tutte le terapie applicate, dei consulti e dei progressi. Il giudice sembrò ben impressionato, e prima di rimandarlo dai suoi malati volle chiedergli se secondo lui una persona con le mie turbe sarebbe stato capace di un delitto tanto efferato. Il vecchietto si tolse gli occhiali pulendoli col fazzoletto, poi li rimise al loro posto, cavalcioni sul naso, e cominciò a parlare. - signor giudice signori della giuria sul piano strettamente umano posso garantire l’innocenza del signor Thorton seppure reo di altri crimini sul cadavere della madre di cui riconosce la colpevolezza non ne ha cagionato la morte che personalmente ritengo si sia data la stessa signora Thorton sul piano professionale invece non posso escludere che una mente già indebolita da numerose crisi possa aver reagito in modo violento e incontrollabile a particolari stimoli perché si sa il cervello di un uomo è un posto pericoloso Il Pubblico Ministero fece un piccolo balzo di gioia e chiamò gli altri testimoni fregandosi le mani. Furono convocati per testimoniare il venditore di coltelli e sua figlia, Costa il greco e un barbone che viveva nel quartiere chiedendo l’elemosina e rubacchiando. Il coltellaro raccontò di avermi venduto due coltelli in due giorni, uno serramanico d’acciaio, l’altro col manico in osso. Assicurò che prezzi come lui non li faceva nessuno e che perfino da N. la gente veniva a comprare coltelli da “Harry il coltellaro”. Alla figlia che non si voleva girare per guardami il giudice chiese cosa temesse, e quella rispose che l’avevo importunata. Qualcuno le chiese se sessualmente e lei abbassò il capo due volte. Allora “ Harry il coltellaro” saltò in piedi e urlando mi promise che appena fossi uscito dalla galera mi avrebbe fatto fuori col coltello che sfilò istantaneamente da un calzino. Si possono dire tante cose sul mio conto, ma non che abbia mai dato fastidio ad una ragazza. Certo, talvolta con Albert mi sono lasciato andare a qualche fischio forse unito ad apprezzamenti sulla carrozzeria, ma non ho mai molestato sessualmente nessuno, tantomeno quella racchietta che smorfiava sotto gli occhi attoniti della giuria. Le chiesero di voltarsi e riconoscere il suo molestatore e quella sciagurata, con una faccia tosta da premio Oscar, si girò e m’indicò scoppiando in lacrime. Io, al contrario, non l’avevo mai veduta. E’ possibile che da bambini ci siamo anche incrociati da qualche parte, sono addirittura pronto a credere di aver giocato con lei una volta a toccafulmine, ma certamente non l’ho vista dopo la morte di mio padre, data di inizio del mio interessamento alle femmine. Per molto tempo mi sono chiesto perché una sconosciuta abbia trovato piacere nel mentire ad una corte di giustizia riguardo ad un uomo che di problemi ne ha già tanti. La risposta più plausibile è che stesse cercando un poco di fama. Il mio caso era su tutti i giornali e anche molti corrispondenti stranieri spedivano reportage in patria. La foto della “molestata” apparì sulle prime pagine dei quotidiani, corredata da un’intervista con tutti i particolari, non mancavano quelli più piccanti, della molestia. Due mesi dopo seppi da un compagno di cella che l’avevano assunta in una trasmissione televisiva dove, alla fine del programma, lei doveva voltarsi verso il concorrente perdente e scoppiare in lacrime per la sua dipartita. Sigla. Costa il greco raccontò della bisboccia che vide protagonista me ed i ragazzi del collegio. Mostrò alcune polaroid dove io e un ciccione dalla bocca piena di carne e patate cantavamo allegramente. Un fotografo ambulante aveva scaricato un intero rullino su di noi. In una fotografia ero ritratto in piedi, sul tavolo, i pantaloni sbottonati per la pancia gonfia e una bottiglia di vino rosso per mano. In fondo s’intravedeva Costa soffriggere cipolle. Quando gli chiesero se ricordava il giorno in cui avevo fatto visita al suo locale lui rispose sicuro il nove sera. Alla vista di quelle immagini pensai che a due giorni dalla morte di mia madre gozzovigliare con quei sbarbatelli fu a dir poco deplorevole. Dalla faccia delle persone in aula compresi di non essere l’unico a pensarla a quel modo. Il giudice diede voce a questo pensiero rivolgendomi queste parole. - non ti vergogni ragazzo festeggiare l’omicidio di tua madre è gente come te che rovina lo Stato mi auguro che tu muoia presto e che questa giuria composta da sani e giusti cittadini persone che a differenza di te hanno coscienza del bene e del male possa esaudire questo mio desiderio Dio ti maledica Continuò con una ramanzina infinita dove invocò i padri della patria a testimoni di tale sfacelo morale, della turpitudine arrembante, poi parve mancare per il fervore e in una pausa che si concesse per ripigliare fiato io risposi che si, mi vergognavo ma allora sentivo solo fame e perciò mangiai. Macchioline viola gli comparvero sulle guance ma non fu capace di replicare, tale era il disprezzo che provava, solo martellò rabbioso sul tavolo. Per quel giorno la seduta era tolta. Il mattino seguente ascoltarono il barbone. Non ero certo di riconoscerlo ora che lo avevano sbarbato e agghindato con un bel vestito che a giudicare dalla taglia piuttosto abbondante doveva appartenere al Pubblico Ministero. Riferì che lo avevo di proposito investito col carrello pieno di carta sulla salita di Doris Hill, rompendogli un’unghia e un vasetto di miele appena comprato. Disse che solitamente lo guardavo male e che me ne tenevo sempre alla larga. Io allora gridai che non lo avvicinavo perché puzzava sempre come un cane bagnato con la dissenteria e aveva le mani leste e lunghe. Fui ridotto al silenzio dal mio avvocato il quale chiese cosa centrasse tutto questo con l’accusa di omicidio volontario e tutto il resto, e il Pubblico Ministero informò la giuria che il teste serviva per far comprendere la scarsa moralità a me propria, la mutilazione dello spirito che indurendo cuore e mente mi aveva portato a tali aberrazioni comportamentali. Infine furono mostrate le foto del mio arresto, sozzeria e scarafaggi compresi. Soprattutto questi ultimi fecero molta impressione. Alla loro vista si levò un coro di sdegno e ribrezzo così che anche i pochi ancora disposti a credere alla mia innocenza si convinsero che non c’era altro da fare che friggermi su una maledetta sedia elettrica. Il verdetto fu dato in tal senso alle 19 in punto del ventitreesimo giorno di processo. Mary scoppiò a piangere mentre il suo bambino le carezzava i capelli e la fronte. Io non provai nulla. Mi sembrava di essere uno dei tanti spettatori di quella vicenda, come gli altri sarei tornato a casa e avrei raccontato di uno condannato a morte. Cercai con lo sguardo gli occhi del giudice, quando li incrociai spedii un grumo di saliva e catarro che non andò a segno, sporcando però la tonaca. Il giudice urlò qualcosa e tre agenti mi saltarono addosso colpendomi col manganello sul viso e la schiena. Con un cellulare e la scorta fui condotto nel carcere di Stato di A., dove subii il trattamento riservato “alle verginelle”. In molti si batterono per la preda fresca, senza coltelli, a mani nude. Mentre se le davano ebbi un attacco ma nessuno ci badò, presi dalla rissa, dal sangue. Sotto gli occhi di tutti infine fui legato, e i due fratelli vincitori compirono su di me le pratiche più odiose, i giochi morbosi degli omosessuali, le orgette. Mi ridussero al silenzio con la minaccia di torture disumane e io, vile, tacqui. Da lì, alcuni mesi dopo, in appello, l’avvocato mi fece tradurre per accertamenti psichici nel carcere per malati di mente di K. Il pensiero di allontanarmi dai miei due aguzzini, anche solo per poche settimane, mi fece ritornare alla vita. III Quando misi piede la prima volta a K. immediatamente mi tornò alla mente la casa di cura Barker. Simile la struttura a tre parallelepipedi rettangolari, uno centrale e maggiore con un’ampia scalinata, gli altri arretrati con poche finestre, simmetriche, il viale fiancheggiato da gigantesche acacie, l’odore dei corridoi, la disperazione sulla faccia degli ospiti. Da allora sono passati più di venti anni e vivere in questo posto mi è odioso, insopportabile. Lo stato di abiezione che vi domina è ripugnante, farebbe disgustare nel più profondo delle viscere anche un cane. Ho veduto passare uomini di tutti i tipi, qualcuno pazzo, qualcuno innocente, tutti smarriti, afflitti dalla colpa o dalla non colpa. Certi cacavano per terra, dove si trovavano, certi se li mangiano i propri escrementi, altri non fanno altro che piangere e graffiarsi, altri ancora si chiudono nell’immobilismo più completo, alcuni sembrano normalissimi ma poi ti saltano addosso per uno sguardo. Ognuno ha le proprie manie, terribili, penose, o semplicemente buffe, ma mai ridicole. Da quando ho cominciato a scrivere sono passate cinque settimane e molte cose sono cambiate. Fervono i preparativi per l’esecuzione di Martin, in scena il dodici dicembre, salvo la concessione della grazia da parte del governatore B.jr.. Martin è nervoso come una prima donna, ma in generale tutto l’ambiente è molto eccitato e Arthur passeggia continuamente nel corridoio con un'espressione beata. Diviene trattabile, solo in queste circostanze, e noi ne approfittiamo per avere più carne con patate o colloqui più lunghi. Due volte al mese vengono a trovarmi la cara Mary e il figlio Jimmy, ormai laureando in legge. Con loro c’è Albert che, appena uscito dal carcere, ha sposato Mary. Mi raccontano tutto della loro vita, cercano di rendermi partecipe chiedendo consiglio su dove andare al mare o di che colore dipingere la cucina. Io suggerii giallo e la volta successiva Albert aveva le mani schizzate di giallo canarino. Il tempo che passo con loro lo reputo prezioso come la mia stessa vita. Mery è di grande conforto e quando qualche volta piango nel parlatorio lei m’incoraggia e mi dice di pregare Dio. Allora le chiedo se pregare per essere giudicato malato di mente e dover passare il resto della mia vita qui o per essere ritenuto sano e quindi macellato. Lei solamente mi dice prega. A Paul sono stati tolti i ceppi. Abbiamo scoperto che è molto superstizioso e per scacciare il malocchio mette in pratica una tale quantità di espedienti e riti da non credersi. Prima di entrare o uscire dalla cella lo si sente inspirare ed espirare rumorosamente per purificarsi. Porta con se sempre una manciata di sale, tranne il venerdì, giorno in cui sussurra formule e preghiere dalla mattina alla sera. Tiene continuamente indice e mignolo che fanno le corna, anche quando dorme o mangia. Una mattina a colazione tagliuzzavo il pane per fare una zuppa e lui ha scaraventato tutto all’aria perché in quel modo avrei danneggiato le mammelle della vacca, portando scalogna a tutti quelli che avessero bevuto il suo latte. L’altra notte mi ha colto uno dei peggiori attacchi degli ultimi anni, Paul era ancora sveglio, il giorno dopo mi ha dato un pezzo di ferro acuminato come un ago ma più spesso, consigliandomi di conficcarlo su un fianco all’inizio della crisi per far uscire qualche goccia di sangue. In tal modo, mi ha assicurato, avrei avuto istantaneo sollievo. Gli chiesi se funzionasse davvero e lui mi ha risposto si. Ad essere sincero non ho mai potuto sperimentare questo sistema perché persi il ferretto da qualche parte, forse a mensa. La nostra mensa è sul piano. Non è una vera mensa, il cibo non vi é cucinato ma solo consumato. In tutto è di venticinque metri quadri, con due tavoli rettangolari e le panche incorporate ai loro piedi, una finestrella in alto sempre chiusa, neon accesi. Per evitare problemi ci servono cibi frullati o a spezzatino, in modo che l’unica posata sia un cucchiaio di legno di faggio. Lo spezzatino è immangiabile, i cavoli sovente ospitano colonie di vermi e le patate sono fradice. Arthur è sempre a sorvegliare, prendendo appunti, sorridendoci falsamente. Paul gli chiede continuamente di fornirgli delle carte chiamate “Tarocchi” e una coppia di lumache nere senza guscio. Arthur sorride e annota la richiesta. Questo mi fa ricordare che quando ero piccolo con le lumache senza guscio organizzavo insieme agli amici del quartiere corse per lumache. Funzionava così: mettevamo le malcapitate corridrici su una panchina del giardino, ponendo all’arrivo una manciata d’erbetta fresca. Come è solito la prima che arrivava all’erbetta avrebbe vinto. Le urla di incitamento non erano risparmiate, le lumache, ognuna col proprio nome e numero, venivano spronate dapprima con vezzeggiativi e promesse di cibo, poi con improperi e accidenti. In quasi dieci anni di esperienza solo una di quelle atlete è andata nella direzione giusta al primo colpo e come e un razzo. Non era mia, ma la comprai per venticinque centesimi da Scott, suo legittimo manager e allenatore. La battezzai “Cheyenne figlia di cagna” e mi diede tante soddisfazioni, fin quando non diventò grassa e maleodorante, allora la liberai in un prato. Chiesi a Paul cosa ci dovesse fare con le lumache e mi mostrò le mani. Erano ricoperte di porri e verruche, ce n’erano a decine, sulle dita, sul dorso, finanche sulle palme. Alzò la maglietta, la schiena era anche peggio. L’unico modo per toglierle, mi spiegò, è farci passare sopra una lumaca nera senza guscio. Gli raccontai di Cheyenne figlia di cagna e rise molto. Da tre giorni Bob ha cominciato a pronunciare qualche parola. All’inizio sussurrava “ acqua “ poi ha preso ad urlare “merda” e adesso non fa altro che ripeterlo ossessivamente. Arthur è sempre lì a scrivere. Io e Luther siamo diventati abbastanza amici, ci raccontiamo le nostre storie e i nostri sogni. Lui è come una scarpa spaiata. Aveva solo la moglie ma lei non aveva solo Luther. Lo hanno trasferito nella cella di Martin, che ora è in quella destinata agli “Uomini Morti”. La sera ci parliamo attraverso il muro e Arthur trascrive i nostri dialoghi. A noi non interessa e così parliamo di tutto quello che ci viene in mente, anche di quanto è stronzo Arthur. Paul continua a chiedere tarocchi e lumache nere senza guscio e Arthur non scrive più, semplicemente fa un’ics su una colonna dell’ultima pagina. Ho detto a Luther che sono innocente, e lui sembra avermi creduto. Gli ho anche detto che sto scrivendo la mia storia e mi ha consigliato di farlo con lealtà e rigore. Ho pensato tutto il giorno alla lealtà e al rigore. Mi sono reso conto che per conseguire la lealtà bisogna essere franchi con se stesso, ma per ottenere il rigore avrei dovuto riportare le cose giorno per giorno. Perciò oggi 16 novembre 19-- comincio a registrare gli avvenimenti con cronache giornaliere. 16 novembre 19-- Piove. Ha cominciato piano poi è infortito. E’ spiacevole svegliarsi con un temporale in arrivo, sembra che la giornata sia finita prima di dire buongiorno. Quando è così vorrei non alzarmi, rigirarmi su un fianco tirando la coperta fin sopra la testa, continuare a dormire aspettando una giornata di sole. Steso sul letto sento ogni sei minuti la guardia che passa sotto la finestrella della mia cella. Mi dà sicurezza. Marciano di continuo lungo il perimetro, anche nei giorni più caldi e in quelli più gelidi, quando il ghiaccio ricopre il vetro della finestra. In estate dai loro anfibi si leva una coltre di polvere che non raggiunge il nostro piano ma si poggia sulle foglie degli alberi; poi queste cadono, riportano la polvere al suo posto, marciscono nelle pozzanghere, sotto gli stivali. D’inverno gli alberi sono tutti neri, la strada coperta dalla neve è bianca, tranne dove i soldati marciano. Lì anche è nero. Mi affaccio e riesco a vedere l’umidità che esce dalle loro bocche. Sono in due, parlottano, gesticolano. Per un momento penso di essere fortunato a starmene al calduccio, poi torno ad invidiargli la sensazione dell’aria fredda sulla pelle, il vigore dato dagli anfibi chiodati e tante altre cose impossibili da spiegare con le parole. Nel corridoio fervono i preparativi per il trasferimento presso il carcere di Stato di A. dove sarà effettuata l’esecuzione. I giornalisti hanno avuto il permesso di scattare qualche foto ma non credo siano riusciti a strappare un sorriso a Martin. Hanno fotografato anche noi, per mettersi avanti con il lavoro. A Luther è stato chiesto cosa pensa della pena di morte e lui ha sputato sul viso del giornalista che ha voluto farsi fotografare con la saliva che gli colava dal naso. Arthur è stato comprensivo e non ha dato alcuna pena disciplinare, complimentandosi in privato per la mira. Martin è davvero terrorizzato, lo sentiamo singhiozzare dietro la porta d’acciaio che risuona sotto i colpi delle sue mani. Con noi è sempre stato uno spaccone, duro e cattivo ma ora non ha più niente da temere e può piangere tranquillamente. Continua a chiedere perché, perché, perché; così tutto il giorno non si sente altro che merda e perché. Noi lo sopportiamo a stento ma i ragazzi di guardia stanno diventando matti. Uno di loro, il più giovane, ha messo Bob nel porco, ché ha le pareti rivestite di bambagia e i suoni sono attutiti. Martin invece è molto rispettato. Nessuno cerca di disturbarlo, non lo fanno venire a mensa e un prete va a trovarlo quasi tutti i giorni. Deve essere terribile conoscere l’ora e la causa della propria morte. Fuori di qui molti uomini onesti oggi sono deceduti ma non lo sapevano e hanno vissuto la propria giornata con tranquillità. Martin si tormenta senza sosta, immagino che sia la punizione per tutto il male che ha fatto, e non è poco. Se fossi stato il padre o il fratello di una di quelle bambine non avrei esitato un istante a piantargli un coltello in corpo trecento e più volte. 17 novembre 19-- Oggi è stato giorno di visita. Mary mi è sembrata molto eccitata, suo figlio domani sarà il primo laureato della famiglia. Mi ha raccontato ogni cosa circa il buffet, le decorazioni, gli invitati e le sue aspirazioni su Jimmy. Lo vorrebbe avvocato o giudice o notaio o pubblico ministero o governatore o procuratore o amministratore delegato di una multinazionale. Gli ho chiesto perché non Presidente e mi ha risposto che sono uno sciocco . Per un po’ abbiamo riso. Bob è ancora nel porco e quasi non si sente più, Martin invece ha crisi orribili che non mi fanno dormire la notte. I medici non sanno cosa fare, anche se sono buoni medici, non sanno cosa fare. Questa mattina mi hanno visitato. Due volte la settimana mi visitano, ponendo le stesse domande da venti anni. - come ti chiami - Ernest Thorton - perché sei qui - errore giudiziario - con quale accusa - omicidio volontario lesioni e occultamento di cadavere - credi di essere malato di mente - sì - hai avuto degli eccessi nervosi dall’ultima visita - sì - più di uno - no uno soltanto sabato notte - sei cosciente durante le crisi - sì ma non ho nessun controllo sul mio corpo - sai cosa è la sindrome di Kojewnikoff - no - è un tipo di epilessia parziale continua pensi di esserne affetto - non lo so - non lo sappiamo neanche noi puoi andare L’avvocato mi ha assicurato che fin quando non si fa diagnosi di certezza sul mio male non mi possono giustiziare. Lo stato vuole che i propri condannati a morte siano coscienti della pena cui vanno incontro, così soffrono, altrimenti non c’è gusto. 18 novembre19— Questa mattina Jimmy si è laureato con il massimo dei voti, scrivendo una tesi sull’incostituzionalità della pena di morte. Uno dei secondini, quello coi capelli rossi, è venuto a sussurrarmelo mentre stavo alle docce. Che bravo ragazzo! Nel pomeriggio con un permesso speciale mi è stata consegnata una bellissima scatola di cioccolatini e biscotti Danesi di cui ero goloso da bambino. Sul coperchio c’è disegnata una ragazzona con le trecce che sorride maliziosa. Ho pensato che anche Mary deve avere una buona memoria. Arthur è venuto a chiedermene uno e gli ho dato l’intera confezione affinché desse a tutti un dolcetto. Martin è stato servito per primo e dal rumore di carta crespa credo ne abbia preso una bella manciata tanto che alla fine del giro la scatola è tornata vuota. Cosa c’è da meravigliarsi? Non ne hanno mai mangiato, e poco è il tempo per recuperare. Bob nel porco non è stato servito e deve essersi accorto che qualcosa era stato distribuito, allora ha ricominciato a urlare merda a più non posso tanto che dopo un paio d’ore un secondino mi ha richiesto la scatola e vi ha messo dei pezzi di mollica e pane raffermo della mensa e glieli ha portati. Bob afferrando la scatola ne ha controllato il contenuto, poi l’ha scagliata sul berretto del secondino che è caduto a terra privo di sensi. Arthur si è precipitato nel porco ed il rumore di una colluttazione ci ha infervorato tutti. - dai Bob spaccagli il culo fagli male Bob uccidilo Vibrarono nitidi degli schiaffi e ancora schiaffi e calci, qualcuno si lamentava e sputava. Un ultimo calcio è rimbombato e qualcosa è sbattuto pesantemente sul pavimento del corridoio. La voce autoritaria di Arthur si era fatta uno squittio e sussurrava basta basta per carità. Bob con tranquillità si è chinato sul corpo di Arthur sfilandogli dalla cintura le chiavi delle celle, poi si è fermato di fronte la mia porta, io l’ho seguito con lo sguardo dallo spioncino. Ha aperto la serratura mentre del sangue gli colava da un orecchio finendo sul colletto e sulle piastrelle. Mi ha consegnato la scatola di biscotti e cioccolatini Danesi ridotta ad un pezzo di lamiera informe, tanto che non si capiva più se la ragazza sul coperchio stesse ancora ridendo. - mi spiace Ernest volevo solo un biscotto Non ha fatto in tempo a dire altro. Cinque secondini gli erano già addosso e lo martoriavano di colpi. Lui per sfuggire ha cercato di arrampicarsi sul muro, sembrava uno scoiattolo, poi uno gli è salito sulle braccia con i piedi e gli altri lo hanno colpito con i manganelli sui genitali e sul capo. Bob non poteva pararsi, si contorceva sotto le botte e quelli pestavano ancora più forte. Le divise si sono subito macchiate di sangue e giù manganellate, Bob urlava e tutti dalle proprie celle incitavano. - bastonatelo deve morire rompetegli il culo Nessuno ha fatto caso che la mia porta fosse aperta e non so come, mi sono ritrovato cavalcioni su una guardia a menare fendenti a più non posso. Tre denti sono saltati subito poi l’ho voluto colpire in un occhio e sono andato perfettamente a segno. La guardia aveva i capelli rossi, tremava, ululando orribilmente per il dolore e la paura. Urla di tripudio arrivavano dalle celle lungo il corridoio, Bob ormai non potendo più opporre alcuna resistenza era stato trascinato nuovamente nel porco. Tutti si sono rovesciati su di me. Una pedata mi è stata assestata sulle tempie e poi ancora e ancora pugni e bastonate fino a perdere i sensi. Mi sono risvegliato nella mia cella solo perché il porco era già occupato ed è stato un bene perché senza questa risma di carta sarei impazzito. Ora tutti dormono, mi sono affacciato alla finestrella e le guardie dopo pochi secondi sono arrivate sotto di essa e hanno indicato dalla mia parte. Data la differenza di luce non potevano scorgermi ma sono sicuro che stessero parlando del putiferio del terzo livello. Hanno indicato la finestra e quello basso e tozzo si è toccato l’occhio destro due volte, mimando con le dita a cuneo la traiettoria dell’occhio saltato al collega. Devono avermi mandato più di qualche accidente perché subito ho percepito una fitta allo stomaco e mi sono lasciato cadere per terra. 9 dicembre 19— Sono nell’infermeria, bagnato d’urina e feci che emanano un fetore pestilenziale. Mi hanno trasferito la mattina del giorno venti dello scorso mese per un’emorragia interna e ora ho una quindicina di punti di sutura poco al disotto dello stomaco. Non è stato dato il permesso per il trasporto in ospedale ma un medico chirurgo è venuto sin qui per operarmi. La flebo, dalla quale gocciala un liquido incolore, rende assai difficile scrivere, un altro tubicino esce dall’addome e riversa in una bottiglia di Coca-Cola sangue piceo. Ho un gran dolore al torace probabilmente dovuto ad un paio di costole rotte. Il mio letto è d’acciaio tutto bianco, con una rete che cricchia ogni volta che muovo un muscolo, cosa che cerco di evitare data la quantità di tumefazioni che ricoprono ogni centimetro quadrato del mio corpo, e poi non è piacevole sguazzare nei propri escrementi. La luce del giorno entra da un finestrone a strisce e si schianta sul muro dove l’immagine di Maria col pancione sorveglia benevola. Purtroppo ricordo poco di questi giorni nei quali comunque ho soprattutto dormito. Questa mattina un infermiere con degli orribili baffi marroni mi ha chiesto se dovevo fare dei bisogni, ho risposto di sì, e bestemmiando è andato a prendere la padella, dove con estrema fatica, madido di sudore, ho defecato feci sanguinolente. - hai cagato sangue bastardo ti sta bene fosse stato per me ti avrei fatto crepare subito che tanto dopo quello che avete combinato nel giro di un paio di mesi vi arrostiranno tutti e due sulla sedia sicuro - tagliati i baffi ciccione Se n’è andato così com’era entrato, bestemmiando e gridando accecare un bravo giovane con un pugno bastardofiglodiputtana. E’ un ciccione ma ha ragione, ci toccherà sederci su quella dannata sedia, e di fatto non è stata una bella cosa aver tolto un occhio a quel ragazzo, ma ormai è fatta e non c’è più nulla da fare. Forse gli psichiatri non permetteranno la mia esecuzione, ma Bob è spacciato in ogni caso. Sera. Il chirurgo è entrato col camice bianco tre taglie più grande delle sue spallucce mingherline e appresso veniva l’infermiere. Con modi cortesi mi ha spostato in un letto pulito, ha controllato e disinfettato i punti e svuotato la bottiglia di Coca-Cola valutando colore, odore e consistenza del drenaggio. - sei stato fortunato potevano ucciderti non cercare di parlare o peggio di alzarti se ti occorre qualcosa suona la campanella ripasserò più tardi Ho fatto segno con la testa per dire che andava bene e lui se n’è andato portandosi dietro l’infermiere che continuava a borbottare. Un passerotto si è posato sul davanzale della finestra, aveva un nastrino rosso allacciato al collo, come una cravatta. Col beccuccio e le zampette simili a rastrelli ha picchiettato sul vetro, aspettando che qualcuno aprendo la finestra sbriciolasse del pane. E’ tornato a colpire con più decisione ma nessuno ha risposto al suo richiamo. Ho tentato di alzarmi ma lui, vedendomi, è volato via. Il dodici ci sarà l’esecuzione di Martin, perciò ieri deve essere stato trasferito nel carcere di Stato di A. dove si viene accolti nel braccio della morte quattro giorni prima dello show. Sono molto stanco, cercherò di dormire. 10 dicembre 19— Essere inchiodati al letto è una forma di prigionia più restrittiva della cella d’isolamento. Non potersi alzare, non poter quasi parlare e dover espletare ogni funzione fisiologica solo con la presenza e l’aiuto di un estraneo, ed anche la propria madre diviene estranea a certe cose, è una pena, un tormento. Cerco di suonare la campanella il meno possibile e solo per cose urgenti, ma anche così mi sembra di dare troppo fastidio, non all’infermiere sia chiaro, ma al mio amor proprio. Per fortuna sono ancora abbastanza giovane da sapere che uscirò da questo letto con le mie gambe, poveri i vecchi malati senza speranza, dove l’augurio della sera è quello di svegliarsi ancora in quel letto al mattino, per ricominciare a prendere le medicine e urinare tra le braccia di un congiunto. Ieri mi sono addormentato in un momento, le palpebre, come saracinesche, si sono serrate e sono sceso nel buio prima del sogno, ma non ho sognato o almeno non ricordo. Le cose hanno incominciato a sfocarsi dalla periferia, poi il centro, il buio ha seguito lo stesso percorso finché tutto è diventato nero e silenzio. E’ così che immagino la morte: una silenziosa tenebra, per sempre. Devo aver dormito molto profondamente perché nel frattempo il dottore mi ha fasciato il torace, un lavoretto fatto per bene tanto che quando mi alzo sui cuscini le costole non mi dolgono quasi più. All’ora di pranzo è tornato a visitarmi, devo essergli simpatico perché si è trattenuto più del necessario per scambiare due chiacchiere. Mi ha raccontato che lavora all’ospedale della Misericordia ma di abitare poco lontano dal penitenziario, e ritornando a casa si ferma per farmi visita. Con un sussurro gli ho chiesto di procurarmi un quadernetto come questo, lui mi ha domandato cosa stessi scrivendo e io gliel’ho spiegato. E’ parso soddisfatto e anche se non mi ha dato una risposta diretta credo che lo porterà. - le occorre qualcosa prima che vada via - si prego potrebbe sbriciolare un poco di pane sul davanzale della finestra - ah vedo che è venuto a farle visita Friù dal collo rosso - si un uccellino con un cravattino tutto rosso - é il passerotto di Martin veramente lui desiderava un pettirosso ma qui non ve ne appunto sono e allora ha messo un fiocco rosso ad un passero lo ha addestrato a fare ogni genere di acrobazia e poco ci mancava che cominciasse a parlare non lo sapevate - no nessuno di noi lo sapeva Martin non è mai stato un chiacchierone - e cosa credevate che stesse facendo sempre con la finestra aperta - pensavamo si masturbasse - comunque non ci si affezioni troppo Martin si tormenta più per la sua sorte che per la sua stessa morte - non mi affezionerò ma gli dia un poco di pane credo abbia fame Ha sbriciolato tra indice e pollice mezza rosetta coi semi di girasole e dopo qualche minuto un cravattino rosso è apparso cinguettante. Senza degnarmi di uno sguardo si è messo a spilluzzicare le molliche. Finito il pasto aveva il pancino gonfio e solo con visibile sforzo si è alzato in volo, sparendo dalla mia vista. L’infermiere, che risponde al nome di Oscar, entrando lo ha spaventato, spaventando anche me. - allora è fatta è stato tutto deciso - cosa cosa è stato deciso - sarete elettrizzati entro trenta giorni - non è vero chi te lo ha detto - Arthur che ti manda i suoi più cari saluti di buon viaggio Mio Dio! Possibile che abbiano già deciso tutto? Credo di essere sbiancato dalla paura perché Oscar ha continuato. - ah non fai più il gradasso non mi chiami più ciccione eh - sono tutte frottole non possono aver deliberato in così poco tempo - entro trenta giorni - lasciami in pace ciccione - trenta giorni Si è incamminato tra le due brevi fila di letti scimmiottando i movimenti tetanici di un uomo elettrico. Vuole solo farmi paura, gode nel vedermi soffrire, ma so che non è possibile e poi gli psichiatri non lo permetteranno ma Bob è spacciato. 11 dicembre 19— Oggi mi sento molto meglio, sono riuscito ad alzarmi e a fare quei pochi passi che separano il letto dal bagno. Il medico mi ha visitato da capo a piedi, auscultando, tamburellando, misurando e comprimendo ed è parso soddisfatto. Ha portato in regalo un quaderno molto bello e una penna per me, un poco di semi e un osso di seppia per Friù dal collo rosso così starà più tempo sul davanzale e le farà compagnia ha detto aprendo la finestra e posando le regalie bene in vista, tanto che luccelletto è arrivato appena chiusa la finestra, con un gran fragore di batter d’ali. L’abbiamo osservato in silenzio mentre si rimpinzava con evidente soddisfazione, zampettando e facendo capriole per i bocconi più gustosi, quasi per ringraziarci. E allora via con voli velocissimi, le ali aperte a tagliar l’aria, sparendo dietro un'acacia, facendo capolino dall’inferriata della finestra a strisce, zufolando motivetti allegri intervallati da una nota, sempre la stessa, altissima. Qualche volta ci siamo dati di gomito come per dire l’hai visto anche tu guarda guarda ma va' incredibile. Friù dal collo rosso finito il pasto e lo spettacolo, così come un signore di gran classe, si è pulito il beccuccio sull’osso di seppia, ha fatto un grande inchino fino a far sparire la testolina sotto un’ala ed è volato via, satollo, lasciandoci sbalorditi e muti. Poco fa sono venuti a trovarmi Mary e Albert. Mary è molto dispiaciuta per quanto è successo e in un certo qual modo si sente responsabile non avessi mai mandato quella maledetta scatola di biscotti si è rimproverata tutto il tempo torcendosi le dita. - non è colpa tua doveva succedere ed è successo vero Albert - certo certo è successo anche se era da evitarsi è successo dannati danesi Mary è scoppiata a piangere. - ti ammazzeranno entro un mese ti ammazzeranno Albert le ha preso con forza un braccio e lei, stizzosa, si è liberata. - è mio fratello è giusto che sappia come stanno le cose deve prepararsi a morire e nessuno può insegnarglielo - chi ve lo ha detto il mio avvocato o come sanno fare loro una segretaria strepitando al telefono - l’infermiere l’infermiere qui fuori Ho cominciato a ridere piano, poi sempre più forte, tanto che loro mi guardavano attoniti, e io ho riso col diaframma che mi sobbalzava e la bocca che succhiava aria per sparare risate, pensando a quanto sia fragile lo spirito umano nel quale anche Le parole di uno sconosciuto sono capaci di assurgere a verità assoluta, che contraria e perfino rende infelici le persone, spingendo un’angoscia nera fino agli occhi distillanti lacrime. - lo ha detto anche a me ma non è vero lui non ne sa niente è solo un infermiere grasso lo ha fatto per spaventarvi Ci siamo ritrovati a ridere tutti e tre così forte che Oscar è entrato a controllare cosa stesse accadendo, e lì giù risate a più non posso, Albert lo ha indicato cercando di dire qualcosa ma non riusciva a riprendere fiato farfugliando comicamente. Oscar con la mano lo ha minacciato e noi a ridere a crepapelle, con lacrime di gioia che giunte sulle guance si mischiavano alle prime, gocciolando sul collo. E’ uscito mandandoci a fare in culo, sbattendo la porta tra i nostri applausi. Abbiamo parlato allegramente per il resto della visita di cose senza alcuna importanza, sciocchezze che mi hanno fatto bene. Quando sono andati via devono aver incontrato Oscar perché è echeggiato nei corridoi di marmo un riso scherzoso e canzonatorio. 12 dicembre 19— Questa notte è stato ucciso Martin. Come per il Superball nessuno si è perso la diretta radiofonica, tantomeno Oscar. Credo che abbia messo il volume così alto appositamente per farmi sentire, ed ho sentito. Signore e Signori buonasera le nostre trasmissioni vi giungono in diretta dalla camera della morte del carcere di stato di A. dove tra pochi minuti sarà compiuta l’esecuzione del Mostro Nero della Luisiana Martin Proctor tutti voi lo ricorderete per i fatti di sangue e violenza del 19— e 19— quando si rese reo di sette orribili omicidi nei quali al massacro faceva seguire la violenza sessuale le sue vittime erano tutte giovani di età tra i dodici e quattordici anni di cui ricordiamo i nomi Sharon Frany tredici anni Jennifer Gordon dodici anni Madeleine Burton dodici anni Deborah Duke quattordici anni le sorelle Mary e Rose Fromer rispettivamente di dodici e tredici anni Susy Hope dodici anni ci riuniamo al dolore delle famiglie con un minuto di commosso silenzio 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 46 47 48 49 50 51 52 53 54 55 56 57 58 59gentili ascoltatori per chi si fosse appena messo sulle nostre frequenze comunichiamo che stiamo commentando in diretta l’esecuzione del Mostro Nero della Luisiana nell’attesa che le guardie lo portino nella sala dove fa bella mostra la sedia elettrica abbiamo con noi alcuni genitori delle vittime che si sono gentilmente offerti di parlare ai nostri microfoni Signora Gordon buonasera buonasera a lei vuole dirci qualcosa se mi è permesso vorrei solo ringraziare le meravigliose persone che da tutto il paese ci hanno scritto per darci aiuto o semplicemente per offrirci la loro solidarietà siete stati di grande conforto grazie le sue parole sono molto belle Signora Gordon ma in tutti i casi nessuno potrà restituirle Jennifer già nessuno potrà mai ridarmi mia figlia è vero perché è voluta essere presente all’esecuzione giustizia voglia di giustizia di vendetta o cosa io e mio marito vogliamo solo ciò che ci è dovuto giustizia se fosse stata vendetta avremmo fatto a lui e ai suoi familiari ciò che ha fatto alle nostre bambine scusate le urla in sottofondo che forse avete udito sono del Signor Fromer che evidentemente ha qualcosa da dire prego Signor Fromer parli pure torturarlo bisognerebbe torturarlo quel figlio di puttana fino a farlo morire senza alcuna pietà perché lui non ne ha avuta con Mary e Rose e con le altre ragazze soffrendo deve morire quindi Signor Framer se ho capito bene lei non reputa sufficiente una scarica elettrica letale come punizione sarà pure sufficiente ma è insoddisfacente dico quello ha aperto in due le mie bambine e poi Dio solo sa le cose perverse che ha fatto sui corpicini ma in questo modo non crede che si tornerebbe alle crudeli pratiche medioevali alla legge del taglione se non alla giustizia fai da te se lo avesse fatto ai suoi figli come la penserebbe se avesse rapito la sua bambina che impaurita supplica pietà chiede aiuto aiuto poi tutto si fa silenzio il coltello piantato nel pube l’orribile mano che sale lentamente su fino allo sterno dal pancino bianco una sottile scia rossa dopo pochi istanti sangue a secchi e gli organi interni fanno capolino sgusciando fuori per ogni dove frenetico fracassa e accartoccia la testolina con un pugno infine la violenza orribile brutale sovrumana cosa direbbe come la penserebbe se sua figlia fosse stata al posto di Rose io purtroppo non ho figli comunque comprendo il suo dolore e come me tutti i nostri radioascoltatori ma attenzione prigioniero si è aperta la porta dalla quale viene condotto il è scortato da quattro agenti uno su ogni lato ha le lacrime agli occhi il capo delle guardie Signor Bustone gli sussurra qualcosa il condannato si siede sulla sedia questi sono i momenti più pericolosi nei quali talvolta i prigionieri si ribellano o tentano di far del male alle guardie come ultimo atto di malvagità tutto sembra procedere per il meglio rapidamente vengono legate le cinghie ai polsi il medico sta verificando che Martin Proctor conosciuto come il Mostro Nero della Luisiana sia in condizione di morire anche le cinghie alle caviglie sono state ben strette il casco posato e allacciato sul capo rasato una guardia fa cenno che tutto è pronto momento viene aperto il circuito che dà corrente alla sedia in questo si leva un ronzio per l’alto voltaggio attenzione Proctor grida qualcosa non riusciamo a capire cosa urli sembra impazzito il vetro che ci separa dalla camera delle esecuzioni non ci permette di udire bene comunque vi assicuro che è uno spettacolo agghiacciante Friù Friù dal collo rosso Friù dove sei vienimi a prendere gente questa era la voce del Mostro Nero della Luisiana colta dai nostri microfoni probabilmente un’invocazione ad un amico o un complice forse comunista il medico sta cercando di calmarlo tra pochi istanti sarà tirata giù la leva che darà via libera all’elettricità uccidendo Martin Proctor il Mostro Nero della Luisiana intanto ci è appena arriva comunicazione dall’ufficio del direttore circa la rinuncia del prigioniero a parlare attenzione circuito attenzione il Signor Bustone si è avvicinato alla leva che chiuderà il ecco sta per essere calata fatto ora è giù ma ma ma non succede nulla non ha funzionato tutti si guardano imbarazzati il capo delle guardie Signor Bustone sta rispondendo al telefono che è in linea diretta con il direttore Maeght ascolta senza parlare fa cenno di si con il capo e dice che si ricomincia si rifà tutto hanno deciso di ripetere tutto daccapo ricordo un caso analogo nel 19— nel carcere di I. in quell’occasione non si poté effettuare l’esecuzione perché i fili elettrici erano stati rosicchiati da un topolino si dovette attendere l’arrivo di un elettricista comunque sembra che ognuno sia tornato al proprio posto nuovamente aperto il circuito viene pochi secondi ancora e in diretta vi renderemo conto della morte data attraverso sedia elettrica al Mostro Nero della Luisiana il forte sibilo dato dall’intensità della corrente quasi copre la mia voce Bustone riceve in questa momento l’assenso dalle guardie e dal medico si avvicina all’interruttore posto proprio vicino la nostra postazione afferra la leva e con movimento deciso lo spinge giù leva è giù la questa volta tutto sta funzionando a meraviglia senza inceppi o incidenti il condannato si dimena come i legacci gli permettono tra poco tutto sarà finito ancora qualche secondo ed infatti ora il medico fa segno che può bastare viene rialzato l’interruttore cessa il sibilo ma rimane il movimento spasmodico del corpo di Martin Proctor il dottore dovrà verificare ed attestare il decesso ma se si dovessero presentare ancora segni di vita sarà inflitta un’ulteriore scossa il corpo finalmente si ferma il dottor Artarmon si avvicina con il fonendoscopio lo poggia sul torace ci viene chiesto il silenzio l’auscultazione è appena terminata giustiziato ebbene alle 02:43 a.m. Martin Proctor è stato il medico non ha rilevato alcuna attività cardiaca residua e lo ha dichiarato morto il cadavere viene slegato e condotto via sulla barella allora Signor Framer si sente meglio certo anche se torno a dirle che è insoddisfacente prima bisognava torturarlo bene ci ha appena raggiunto il direttore del carcere Signor Maeght mi chiami Bob va bene Bob c’è stato un incidente la sedia elettrica non ha funzionato si un piccolo contrattempo capitato a noi nulla di spiacevole qualche volta capita e questa volta è l’abilità sta nel mantenere i nervi saldi non crede che questo tipo di inconvenienti possa turbare ed innervosire i parenti delle vittime esasperando un momento già pieno di tensione Bob sono contento di questa domanda infatti concordo perfettamente sul fatto che il rituale della sedia elettrica seppur di rado possa in qualche modo andare incontro a disguidi che provocano inquietudine e dolore in persone già fortemente provate ed è per questo che in accordo con il governatore B. ci siamo proposti con successo di fungere da carcere pilota sperimentando tecniche innovative che crediamo diano un maggior margine di sicurezza può farci qualche esempio Bob certo per esempio nelle prossime tre esecuzioni previste nel periodo natalizio almeno una sarà effettuata in una camera a gas ma altre tecniche saranno anche l’iniezione letale il dissanguamento e qualche nostalgico sta anche ipotizzando di tornare al vecchio ma efficace cappio il tempo a nostra disposizione è terminato ringraziamo tutte le persone che questa notte sono intervenute ai nostri microfoni ed in particolare il direttore Maeght perciò vi saluto dandovi appuntamento alla prossima esecuzione in diretta buona notte e arrivederci Addio Martin. 13 dicembre 19— Mio Dio. E’ vero, hanno deciso tutto. Sono morto. Sarò giustiziato il 27 dicembre alle 04:00 a.m. nel carcere di A.. Ora tutto è finito. 14 dicembre 19— Speranza. L’avvocato ha detto che la nostra parola d’ordine deve essere Speranza. Ripete che sono fortunato, che nessuno vuole un’esecuzione durante le feste natalizie, che almeno riusciremo ad ottenere un rinvio, il precedente è durato più di vent’anni, siamo fortunati, molto fortunati, soprattutto lui. Oscar cammina gongolante, va su e giù per il corridoio e fuma un grosso sigaro: sarai il tacchino più grosso e stopposo che sarà cucinato per natale una schifezza ma ti mangerei volentieri. Sono piantonato da due guardie che si danno il turno ogni tre ore, uno ha la barba grigia. Non mi parlano, quasi non mi guardano, se ne stanno tutto il tempo ad aspettare che passi il loro turno, e quello passa. - è un bastardo e sarà punito come merita - gli dice Oscar offrendo sigari- cosa pensavi che te l’avrebbero fatta passare liscia e aspetta di arrivare al cospetto dell’Altissimo allora sì vedrai fulmini e scintille di fuoco che ti usciranno dal culo - non mi scocciare Vorrei dormire tutto il tempo, fin quando mi verranno a prendere per l’ultima passeggiata. Essere sveglio è insopportabile, per fortuna c’è Friù dal collo rosso che allevia questi orribili giorni, i suoi siparietti sono sempre più acrobatici e bizzarri, i canti soavi ed armoniosi, è con questi che cerco di addormentarmi. Martin deve aver sofferto molto quando è stato separato da questa bestiola. Il dottore oggi è venuto a trovarmi senza visitarmi, mi ha sorriso da lontano con evidente imbarazzo. - come sta - molto meglio grazie ha saputo - si ieri - non voglio morire Cristo non voglio morire - si faccia forza forse sarà graziato o rinvieranno le esecuzioni perché troppo vicine quasi non si parla d’altro anche sui giornali alle feste non si perda d’animo - lo dice anche il mio avvocato - e allora vede c’è ancora speranza forza su non pianga - non voglio morire noooo tutto ma non la morte - non morirà ma smetta di piangere Oscar ci gode a vederla così non morirà le ho detto che E invece morirò, me lo sento nelle ossa, come i marinai quando deve arrivare la tempesta, sento che morirò. Porca miseria non voglio morire, non voglio proprio, mi ci sono affezionato a questa vita, a questo corpo, non possono uccidermi. 22 dicembre 19— Mi hanno riportato in cella il quindici, dopo pranzo, sottraendomi il quaderno e la penna. Questa settimana ho avuto tre attacchi, uno terribile, lunghissimo, proprio il quindici. E’ stata l’unica volta in cui ho scorto un accenno di pietà da parte di Oscar che ha tentato di soccorrermi. - ehi per Dio che ti succede non mi crepare tra le braccia stronzo calmati così fermo con la testa mordi questo mordi da bravo così sta calmo fermo tra poco sarà tutto finito non ti agitare ora ci sono io non ti preoccupare ora va meglio hai visto va meglio cazzo mi hai fatto pendere un colpo E un colpo quasi veniva anche a me quando ha cominciato ad accarezzarmi la fronte per calmare la crisi. Questa mattina il dottore mi ha fatto consegnare un centinaio di fogli e una nuova penna con sopra la scritta “Buon Natale e Felice 19—“; probabilmente è convinto che non mi ammazzeranno, almeno non subito. Io invece sono disperato, quasi impazzisco perché non ricevo notizie. Il mio avvocato non si fa vedere da otto giorni, è questa la prova della mia condanna. Le guardie, dopo il casino che è successo, mi trattano malissimo e allora di giorno e quando passano i due giri di controllo notturni faccio finta di dormire. Arthur mi spia di continuo, cerca il pretesto per picchiarmi ma non glielo do, zitto e mosca. Bob continua ad essere tenuto nel porco, piange quasi sempre o ripete “merda” e “perché” così che sembra ritornato Martin. Per farlo star zitto lo hanno frustato con le lenzuola bagnate, che non lasciano segni, tappandogli la bocca con il suo stesso pugno e nastro isolante. Paul ieri notte mi ha consigliato di purificare il corpo prima di lasciare questo mondo prendi l’olio di ricino ma non un cucchiaino molto di più. Domani saremo trasferiti nel carcere di A. dove già è recluso il terzo condannato a morte. Non cedo che sia mai successo, intendo tre esecuzioni in tre giorni. Io sarò il secondo, quello sconosciuto il primo. Su uno di noi verrà sperimentata la camera a gas e non so veramente se augurarmela, ma credo di no, quando ci penso mi manca il respiro. Friù dal collo rosso è riuscito a ritrovarmi, gli ho sbriciolato del pane e l’ho salutato come si saluta un vecchio amico che parte per sempre. Chissà cosa penserà domani, quando non mi potrà più trovare dietro una finestra, forse il dottore gli darà da mangiare, la prossima volta che lo vedo dovrò dirglielo, altrimenti con questo freddo, povero Friù. 23 dicembre 19-- All’alba ci hanno legati con manette e catene ovunque, imbracati come salami ci hanno portato nel braccio della morte del penitenziario di stato di A.. Bob è stato messo proprio qui di fronte, in stato catatonico, rifiuta anche il cibo. Il tempo è scandito da chiavi che girano, cancelli che si aprono e si chiudono, pattuglie di controllo che ci spiano ogni venti minuti. Un prete è venuto a parlarci, è entrato prima da Bob, poi da quello che creperà per primo, infine da me. - come stai figliolo - così - hai pregato - sì un poco - la preghiera è santa continua a pregare rimanendo sveglio nel giorno del Signore e avrai la grazia e prega non solo per te ma anche per i tuoi carnefici e per me affinché Dio ci apra una porta d’espressione perché felice è chiunque cammini per le vie del Signore solo presso di lui è il vero perdono - pregherò - vuoi confessarti - sì Mi sono confessato senza che mai mi interrompesse, quando avevo dei cedimenti o pause lui aspettava paziente, senza far domande, amorevole. Mi sono sentito subito meglio. Quando le guardie lo hanno fatto uscire gli ha detto: - signori continuate a trattare i vostri prigionieri con giustizia ed equità sapendo che anche voi avete un Dio in cielo Tutta la rabbia che avevo di colpo è scomparsa facendo posto ad una cristiana rassegnazione. E’ come se fossi già morto, non devo temere nulla, nulla mi può accadere, nulla. 24 dicembre 19— Mio Dio, no. No. Non farmi questo. Non hanno dato il permesso a Mary, Albert e Jimmy di venirmi a trovare nel giorno del Santo Natale. Questi non sono uomini sono bestie schifose, maledetti, maledetti. Sera Una guardia ed un avvocato del carcere sono venuti a chiedere se voglio prestarmi come volontario per la camera a gas, ho detto di no e così devono aver risposto anche gli altri perché se ne sono andati molto seccati. Poco fa quello che sarà ucciso per primo si è affacciato, cercandomi con lo sguardo tra le sbarre. - ehi come ti chiami - Ernest - sei il secondo quello del ventisette - sì - cosa gli hai risposto ci vai nella camera a gas - no gli ho detto di farla provare al direttore del carcere se ci tiene tanto Ernest Thorton - comunque uno di noi ci dovrà entrare - lo so - hai paura - sì - anche io - tutto il giorno ma sento che mi sta rimontando la rabbia non riesco ad accettarlo molta stai pregando perché devono ucciderci chi gli ha dato il permesso - lo stato - e porca puttana che razza di popolo si è organizzato uno stato del genere - no non è colpa del popolo quello è troppo indaffarato a sopravvivere sono stati i creatori dei popoli balordi di passaggio più vicini alla scimmia che all’uomo animali che mordono con denti rubati e digeriscono con viscere false - sei comunista - anarchico - io sono innocente - io no ma prego lo stesso E’ tornato il prete e mi è sembrato sinceramente addolorato dal fatto che non facessero entrare i parenti dei condannati nel giorno della nascita di Cristo. Abbiamo pregato insieme, io solo il Padre Nostro perché è l’unica preghiera che conosco, e di questo devo ringraziare nonna Mary che me la faceva ripetere ogni sera prima di addormentarmi. E’ andato via lasciandomi un rosario con l’immagine della Madonna e un libretto di preghiere con tante figure di Santi. C’è Santo Stefano lapidato, Santa Lucia accecata, San Pietro martire con la testa spaccata, , San Abbonzio e Santa Barbara decapitati, quest’ultima dal padre, subito incenerito da un fulmine, San Giusto ammarato, San Lorenzo abbrustolito e San Sebastiano trafitto da 8 frecce. Se hanno condannato a morte Cristo e tutti questi Santi forse qualcosa non funziona nell’umanità. 25 dicembre 19— Ore 10:00 a.m. Natale. Avrei voluto avere un figlio. Morire senza lasciare qualcosa di se è triste, si muore male, completamente. Non aver vissuto l’infanzia di un figlio, con i repentini cambiamenti d’umore, la fantasia vergine, Africa e Giappone insieme, festa o funerale senza fine, mi fa sentire incompleto, castrato dalla vita. Lo avrei chiamato Brian, questo mio bimbo mai nato, Brian Thorton. Suona bene. Ore 3: 20 p.m. Per intercessione del prete faranno entrare un parente per prigioniero. Credo che verrà Mary. Quel diavolo di un prete, è veramente una cara persona. A pranzo ho avuto un breve attacco e si è rovesciato il vassoio con tutto il cibo per terra. Mangiamo in cella, quanto vogliamo e possiamo scegliere fra tre menù. Fanno di tutto per tenerci buoni. Mi hanno chiesto cosa voglio per l’ultima cena, gli ho detto cannelloni una bistecca con patate fritte e piselli un gelato al cioccolato e stracciatella con un cucchiaio di miele. Domani ammazzano l’anarchico, l’ultima cena gli sarà servita tra quattro ore. Aragosta. Lui se ne sta nell’angolo e ripete una cantilena, una ninnananna credo. E’ arrivato Albert. Ore 09:00 p.m. Mary non se l’è sentita di venire ed ha mandato una lettera per mezzo di Albert. E’ bellissima ed ho pianto leggendola. Albert ha cercato di tirarmi su, abbracciandomi più volte, tenendomi sempre per mano. - Mary ha scritto al governatore B. c’è ancora speranza ci sarà sempre speranza - non ha mai fermato un’esecuzione - questa volta è diverso ci sono le feste nessuno vuole tre morti dopo Natale la chiesa sta facendo un putiferio e poi ci sono le elezioni chi vuole inimicarsi l’elettorato cattolico si dice che sarete graziati o rinviati ma per questa volta non se ne farà niente sta su non muori hai capito non vi ammazzeranno Jimmy dice che dei tre tu sei quello con più possibilità di avere la grazia ti sei sempre dichiarato innocente sei condannato per un solo omicidio e anche se non hai avuto un’ottima condotta gli altri sono stati dei veri piantagrane soprattutto l’anarchico ma tu tu ti salverai lo so e anche Mary lo sa - vorrei avere un figlio - lo avrai 26 dicembre 19— Ore 07:35 a.m. L’anarchico non è stato graziato. Sono venuti a prenderlo alle quattro in punto, dal ronzio e dai cali di corrente è chiaro che hanno usato la sedia e questo vuol dire che ho il cinquanta per cento di probabilità che mi tocchi la camera a gas. Mentre sbranava l’aragosta mi ha urlato: - Thorton Ernest Thorton ordina l’aragosta ti assicuro che ne vale la pena ha il sapore della manna - adesso è troppo tardi - peggio per te creperai coi cannelloni in corpo Bob si è affacciato e mi ha detto prendila tu. Si riferiva alla camera a gas. - non posso mi fa troppa paura - ti supplico Ernest Ernest digli che ci vuoi andare che hai cambiato idea digli che vuoi la camera a gas te ne prego diglielo lo farai è vero per me fallo per me - non posso farlo sarà la sorte a decidere - e per me chi è stato chi ha deciso Danesi che mi ha fatto arrivare qui schiattare in una schifosa camera a gas di chi era quella dannata scatola di biscotti non rispondi eh è tutta colpa tua e ora mi fai bastardo non puoi farmi questo chiamali e digli che - sta zitto Bob ci andrò - grazie Ernest grazie amico Dio ti perdonerà ogni peccato non andrai all’inferno te lo garantisco io vai tranquillo non morirai mai grazie mille volte grazie Ore 04:00 p.m. Mi sono appena svegliato, dopo la nottata insonne sono crollato appena finito il pranzo. Ho sognato subito, ed è stato orribile. Steso in una cassa, al buio, voglio uscire, tento di sollevare il coperchio ma quello è inchiodato, saldato dall’esterno. Busso e grido aiuto aprite soffoco aprite . Graffio le pareti, scalcio, sgomito ma la cassa non si apre. Unisco le forze, mi accovaccio portando i piedi e le ginocchia in alto e spingo più che posso e finalmente scricchiola, si apre sfondandosi, il coperchio salta per aria. E’ la mia bara. Ne esco disorientato, sono in una cella, le guardie vengono a prendermi, mi spingono nella camera a gas, soffoco, muoio. Il mio corpo è chiuso in una cassa, inchiodata e sigillata dall’esterno, al buio. Aver scelto la camera a gas mi inorgoglisce, significa aver sconfitto la paura, anche quella di Bob. Il prete mi ha detto che questo gesto mi farà morire meglio, che Dio premia i generosi, perdona e ama i perseguitati. Ore 10:20 p.m. La cena era squisita, ed è un peccato che sia stata l’ultima, mi è sempre piaciuto mangiare. Ora Albert, Mary e Jimmy sono qui, nella cella, con me. Li osservo mentre mi guardano scrivere, si tengono per mano, stringendo le mandibole per trattenere il pianto. Riempire questo quadernetto mi ha fatto diventare un osservatore dei fatti, non il protagonista in carne e ossa della storia. Mi sembra impossibile che sarò giustiziato veramente, è come se, scritta la parola Fine, possa infilare l’impermeabile per andare a fare una passeggiata sotto la pioggia, che tutto è esistito solo nella mia immaginazione, senza principio né fine. E invece no, mai più infilerò un impermeabile, mai più sarò bagnato dalla pioggia, chiuso nella mia cassa, giacerò al buio. Le tre. Mancano più secondi che minuti, tra poco verranno a prendermi. Sento già i preparativi, il trambusto dietro la porta, l’eccitazione per una prima in assoluto. Per loro la notte ha un fine. Non ho più paura, non sento più nulla, nulla. L’unica cosa che mi viene in mente è la morte di mio padre. Cosa avrà pensato morendo? Vorrei pensare la sua stessa cosa, così, per solidarietà, per simpatia. E invece l’unica cosa che mi viene in mente è la sua morte. E allora morendo penserò a lui, a quanto mi ha amato quel padre che adoravo come un Dio. Sento un rumore di passi che si avvicina, aprono la porta, sono arrivati, è finita. Questo è il racconto di mio fratello Ernest, giustiziato il 27 dicembre 19— nella prigione di stato di A.. Il governatore B. jr. graziò Bob Ressner al posto di Ernest che si era prestato volontario alla camera a gas. Bob comunque morì di overdose nel carcere di S. l’anno seguente. Luther Bennet è stato giustiziato nell’agosto del 19— mediante iniezione letale, Paul e Arthur sono tutt’ora a K. Albert ed io abbiamo avuto un figlio. Ernest.