Tedio e Noia tra Musica e Poesia

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Tedio e Noia tra Musica e Poesia
PRIMO CLASSIFICATO
SEZIONE PROGETTO DIDATTICO
Giacomo Leopardi e Torquato Tasso: Tedio e Noia tra Musica e Poesia
della Prof.ssa Barbara Prevedello e Prof. Leonardo Pasqualetto
Licei "E. Majorana - E. Corner", Mirano (VE)
Introduzione
Questo Progetto Didattico ha come finalità l’acquisizione di una maggiore consapevolezza sul
valore della cultura letteraria in Italia, partendo da un’analisi dettagliata di due “grandi”: Torquato
Tasso e Giacomo Leopardi. Il primo, troppo relegato nell’angusto spazio del programma del IV
anno dei vari indirizzi liceali, rischia sempre di “sparire” fagocitato dalla mancanza di tempo,
dall’urgenza, peraltro legittima, di concludere i programmi. Il secondo, anch’esso, pur rivestendo un
ruolo capitale nello sviluppo della cultura letteraria moderna del nostro Paese, a volte viene
banalizzato e liquidato nella sua “classicità”. Grazie alla collaborazione di molti colleghi del Nostro
Istituto, si è riflettuto sulla possibilità che il primo facesse da “tornasole” per anticipare presso gli
studenti del IV Anno alcuni aspetti “fondanti” del secondo, da riprendere poi in maniera più
approfondita nella fase finale del corso di studi. La tematica presa in considerazione, grazie al
preziosissimo apporto del Prof. Cristiano Gianese, è stata la Musica e il concetto di Musicalità nella
poesia. In seguito agli incontri preparatori al concorso, si è sviluppata questa “direzione” di ricerca
e discussione con metodologie adeguate all’età degli allievi (da quelli del IV anno a quelli del V dei
vari curricula -classico, scientifico e linguistico-). Tali incontri saranno strutturati in modo da
favorire la presa di coscienza dei nodi fondamentali e da fornire una serie di informazioni essenziali
per affrontare il tema con un certo livello di consapevolezza. Attraverso un primo momento di
sensibilizzazione (incontri pomeridiani) e in base alla risposta da parte dei ragazzi, d’intesa con i
docenti si progetta la realizzazione di un percorso articolato in questo modo:
Lezione pomeridiana
Confronto tra alunni e docenti in uno scambio multimediale settimanale
Proposte di tematiche e approfondimenti
Creazione di brevi testi
I materiali prodotti sono stati elaborati dagli studenti in maniera autonoma benché guidata;
successivamente corretti dai docenti così da ottenere un cospicuo numero di testi, che poi, scremati,
corretti e rielaborati in un incontro comune da cui sono emersi il Progetto didattico e la tesina.
Sruttura del Progetto
Il progetto così si articola:
Per Gli studenti del IV Anno del Liceo (Classico, Scientifico, Linguistico)
a) Tasso e la Musica; Tasso e la Musica come riflesso del Tedio esistenziale
b) Leopardi e la Musica; Leopardi e la Musica come riflesso del Tedio esistenziale
Il punto “b” rappresenta l’anticipazione per gli studenti del penultimo anno del tema “Leopardi”, da
riprendere nel suo aspetto del “tedio” nell’Ultimo Anno, come spunto per agganciare una seria di
autori così riassumibili:
c) Baudelaire e lo Spleen → (destinazione privilegiata: Indirizzo di Studi Linguistico)
d) Gozzano e la noia dell’inetto → (destinazione privilegiata: Indirizzo di Studi Classico,
Linguistico e Scientifico)
e) Alle Radici della noia: Lucrezio →(destinazione privilegiata: Indirizzo di Studi Classico,)
f) Seneca e la filosofia contro la noia (con aggiunta di una proposta di lavoro)
→(destinazione privilegiata: Indirizzo di Studi Classico)
g) La Musica “vera” e il tedio ieri: Strauss →(destinazione privilegiata: Indirizzo di Studi
Classico, Linguistico e Scientifico)
h) La Musica “vera” e il tedio oggi: Battisti →(destinazione privilegiata: Indirizzo di Studi
Classico, Linguistico e Scientifico)
A1. Torquato Tasso tra Stile e “Gioco” Musicale
La grandezza di Torquato Tasso e il contenuto profondo che si trova nelle sue opere sta
nell’erudizione che delle sue opere fu un fattore determinante. Scrisse piú di sessantamila versi
creandoli quasi tutti in forma difficilissima. Con l’analisi delle sue opere si vuole avvicinare gli
studenti all’arte rinascimentale, manierista e barocca. Questo autore è assai adatto a rimettere in
luce le connessioni delle cosiddette Muse gemellate. Il modo di vedere figurativo del Tasso, infatti,
ci rende conosciuto ad esempio il mondo del Tintoretto, ma anche la musicalitá delle sue poesie ci
fa avvicinare alla musica del Monteverdi e del Gesualdo: il suo effetto ispirativo fino a Francesco
Liszt e fino alla nostra epoca é cosí naturale.
Nell’opera del Tasso inoltre va riscontrato per esempio a detta di molti critici un ordine matematico,
simile a quello della Divina Commedia. Il delineamento di questo riconoscimento possa interessare
gli studenti, perché l’ordine matematico che si tova nelle opere artistiche, nei componimenti
musicali, negli edifici viene menzionato dai tempi remotissimi; questo fenomeno non é conosciuto
tanto nelle opere letterarie. Anche nelle loro strutture, tuttavia, sono parte organica.
Ecco mormorar l'onde
e tremolar le fronde
e l'aura mattutina e gli arboscelli,
e sopra i verdi rami i vaghi augelli
5 cantar soavemente
e rider l'orïente:
ecco già l'alba appare
e si specchia nel mare,
e rasserena il cielo,
10 e le campagne imperla il dolce gelo,
e gli alti monti indora.
O bella e vaga aurora,
l'aura è tua messaggera, e tu de l'aura
ch'ogni arso cor restaura.1
Dopo la documentata lettura che di questo celebre madrigale spesso antologizzato ha dato Antonio
Daniele2, che informa tra l'altro delle varianti redazionali, oltre che del tema dell'alba nella lirica
romanza (si pensi proprio a L'alba par umet mar...), delle suggestioni petrarchesche (il senhal
l'aura/Laura ecc.) e della testura metrica; dopo i fondamentali studi di Contini sulla lingua del
Petrarca (e dei petrarchisti) sul motivo dell'aura-mot e dell'aura-situation, nonché dopo
l'introduzione di Trombatore all'edizione delle Rime del Tasso da lui curata, e in cui rimandava per
questo testo, con pertinente correttivo, soprattutto al clima atmosferico e verbale del Purgatorio
dantesco, ed infine rammentando le celebri pagine di Auerbach sul motivo biblico dell'ecce...,
sembra che, a meno di voler riprodurre il già detto, non resti altro da fare che tacere e ascoltare
senza ulteriori postille l'incanto musicale di questo esile e felicissimo madrigale: ma forse ancora
una men che minima scheda è reperibile. Come si può rilevare fin da una prima analisi testuale
diciamo “ad orecchio”, non c'è parola, sintagma o giro di frase di questa composizione che non
1
T. TASSO, Rime, a c. di B. Basile, Roma, Salerno, 1994, libro II (Rime d'amore per Laura Peperara), n. 143, vol. I,
pp. 154-155.
2
A. DANIELE, Lettura di un madrigale tassesco, «Giornale Storico della Letteratura Italiana», CXLIX, 1972, pp. 349362
discenda recta via da una delle due Corone poetiche, o, almeno, che non abbia in questi una qualche
cittadinanza: anzi non credo che i rapporti con i soliti due Massimi Sistemi si possano (o si
debbano) né parcellizzare né gerarchizzare più di tanto (si constati il regesto in calce). Solo una
forma però, a rigore, non è riscontrabile né in Dante né in Petrarca: si tratta del lemma verbale
indorare del v. 11: “gli alti monti indora”. I due sommi trecentisti conoscono al più solo dorare,
come in Dante3, e in Petrarca4. Il richiamo più stringente è dunque dal Petrarca più prezioso, che
addirittura esibisce qui un hapax culto come il verbo inostrare5 che Tasso debitamente utilizzerà
altrove nelle sue composizioni. Ma indora è, in poesia, post-trecentesco, e sembra ribadire con quel
prefisso in- l'intensità del precedente “im-perla”, in un contesto fonico tutto all'insegna del surplus
acustico: si prenda la continuata anafora – quasi un “pedale”, un “bordone” – degli e paratattici e
degli ecco ritornellanti, si ammetta l'esornatività a-semantica di molta aggettivazione quale “verdi
rami” (v. 4), “vaghi augelli” (v. 4), ma anche “vaga aurora” (v. 12) ecc., e si ausculti, infine, la
nimia repercussio della “triade” fonica or/aur/ar, che occorre ben 17 volte nel giro di 14 versi di cui
10 settenari, dunque su sole 114 sillabe, e quindi, in percentuale, con una media impressionante di
una apparizione ogni 6/7 sillabe (va sottolineata l'oltranza fonica della chiusa: “ch'ogni arso cor
restaura”). Tutto ciò non si giustifica altro che in termini di mera ricerca di musicalità, di
alleggerimento (la prima redazione era meno pronunciata in tal senso, priva di anafore e
prevalentemente endecasillabica), di timbriche dominanti, di ridondanze ricche su motivi e materiali
già normati (in quanto provenienti dal sincretismo binato della tradizione più alta) e liberamente
componibili e sovrapponibili, semmai appena dilatabili o affinabili. Né “indora” (qui in sinalefe) è
necessitato dal rispetto metrico rispetto all'omosillabico “dora”, quanto semmai dal parallelismo (la
poesia come arte dei parallelismi?) che instaura, lo ripeto, con l'”imperla” del verso precedente,
anch'esso in sinalefe e omotetico (cioè dopo la cesura di 5a) ad esso. Fatto sta che Tasso, come è
noto, nei Discorsi sull'arte poetica, aveva acutamente teorizzato sui composti verbali parasintetici
nella Commedia, definendoli nomi «fatti» o «finti», cioè d'autore, coniati ex novo, e recava come
esemplificazione proprio termini come “intuarsi”, “immiarsi”, “imparadisare”, “insemprarsi” ecc.,
per cui evidentemente confidava nelle possibilità onomatopeicamente espressive, e forse
espressionistiche, di sovraccarico, del prefisso in-. E in ciò va leggermente oltre Dante, come si è
visto, utilizzando un verbo, indorare, che, così espanso, concorre al “largo” degli ultimi versi, e
accostato ad altro analogo composto, vibra e risuona come un armonico. L'esame dunque dei
madrigali del Tasso consente di far emergere certi caratteri dello stile e del contenuto, che sono tutti
tassiani, ma anche già secentisti, come la ricerca di ripetuta musicalità, la concatenazione di
metafore e la metafora concettosa, che “stupisce”, la metafora come gioco speculare che rivela un
contatto ambiguo col mondo, in cui si inseguono più labili parvenze che cose certe. Il mondo appare
dunque un “gioco di specchi”: non detto così ideologicamente, ma “cantato” così nei modi stilistici,
formali. Il madrigale dice anche che l'arte diviene - seicentescamente - gioco; serio sì, sigillo di
un'epoca pure. Ma gioco. Cosa c’è, invero, cosa più giocosa della musica stessa, che nel suo campo
semantico, ad esempio nella lingua inglese, rientra proprio nel “giocare”?
3
Cf. Rime CIII (Così nel mio parlar voglio esser aspro) 64: «... ne' biondi capelli / ch'Amor per consumarmi increspa e
dora» (e anche, nella forma participiale però, Inf. XXIII 64 e Par. XVI 102)
4
Cf. RVF CLI 8 «... i suoi strali Amor dora et affina», e, certo quest'ultimo caso vero e proprio innesco della tassiana
coppia imperla e indora dei vv. 10-11 («e le campagne imperla il dolce gelo / e gli alti monti indora»), RVF CXCII 1-5:
«Stiamo, Amor, a veder la gloria nostra, / cose sopra natura altere et nove: / vedi ben quanta in lei dolcezza piove, / vedi
lume che 'l cielo in terra mostra, / vedi quant'arte dora e 'mperla e 'nostra / l'abito electo...».
5
“imporporare”.
A2. La poesia e la personalità di Tasso tra romantici e malinconici languori musicali
Nella sua famosissima Storia della letteratura italiana6, Francesco De Santis dice del Tasso:
Nella sua vita ci è una poesia martire della realtà, vita ideale nell'amore, nella religione, nella
scienza, nella condotta, riuscita a un lungo martirio coronato da morte precoce. Fu una delle più
nobili incarnazioni dello spirito italiano, materia alta di poesia, che attende chi la sciolga dal
marmo, dove Goethe l'ha incastrata, e rifaccia uomo la statua (p.358).
A giudicare da queste poche righe, si direbbe che il Goethe abbia fatto un torto grandissimo al
Tasso, mummificandolo nel suo dramma Torquato Tasso e che il De Santis rimproveri il genio
tedesco e dopo “rifaccia uomo la statua”. Basta tuttavia leggere con attenzione la cinquantina di
pagine che egli dedica al poeta sorrentino nella sua Storia della letteratura italiana, per capire che
il suo lungo saggio è molto più critico di quanto lo sia il dramma di cui sopra. Si vuole infatti
sottolineare che al povero grande Torquato, nel dramma goethiano viene riservato un trattamento (e
ciò per bocca di Antonio, uno dei protagonisti) analogo a quello che gli riserva il De Santis,
secondo il quale ci troviamo di fronte ad un opera a due dimensioni: è alta, è larga, ma manca di
profondità in ogni senso. “L'intreccio - dice il De Santis - è tutto fondato su questo antagonismo:
passione contro ragione. Egli era un sincero credente e pugnavano in lui due uomini: il pagano e il
cattolico”. Secondo De Santis il Tasso più che un pensatore fu un erudito, e nel momento in cui la
ragione dell'uomo cominciava a scrutare i misteri dell'universo (vedi Copernico), lui rimaneva lì,
fossilizzato in quel punto di transizione storico senza riuscire a scrutare nel nuovo mondo, e
stazionando su vecchi modelli: “un mondo non riconciliato di elementi vecchi e nuovi, gli uni che si
trasformano, gli altri ancora in formazione”7. Il suo carattere, secondo il De Santis, era anche figlio
della sua meridionalità:
…gli abbonda quel senso della musica e del canto, quel dolce fantasticare dell'anima tra le molli
onde di una melodia malinconica insieme e voluttuosa, che trovi nelle popolazioni meridionali,
sensibili e contemplative.8
In realtà, la poesia del Tasso va letta e ascoltata come quella di un pianista che mira a far risaltare la
sua tecnica esecutiva. La sua è una poesia che sfiora la pelle e che tocca l'anima, unita a una
religiosità che tuttavia manca completamente di quella ricerca interiore tipica del mistico o del
santo. La vita che lui propone nella sua opera nulla ha a che vedere con la realtà, ma trascende nelle
note della musica che da essa traspare verso un infinito senso di malinconia. La sua grande maestria
di poeta e la grande musicalità che riesce a riversare nella sua poesia è un
mondo interiore…eco de' languori, delle estasi e de' lamenti di un'anima nobile, contemplativa e
musicale
6
F. DE SANTIS, Storia della Letteratura Italiana, Sansoni, 1965
F. DE SANTIS, id., p.540
8
F. DE SANTIS, id., p.552
7
come in questo caso lo stesso De Santis osserva in maniera opportuna, senza farsi fuorviare da
suggestioni goethiane9. Non vanno assolutamente inoltre dimenticate le parole dello stesso De
Santis:
La letteratura italiana di quel periodo diviene sempre più una forma convenzionale separata dalla
vita, un gioco dello spirito senza serietà, perciò essenzialmente frivolo e rettorico…Di questa
tragedia Torquato Tasso è il martire inconscio
L'Italia non aveva un mondo esteriore: ecco perché la poesia non poteva avere esteriorità! Ora,
Goethe sapeva tutte queste cose, e la sua sensibilità di poeta, il suo acume psicologico, la sua grande
conoscenza di sé e dell'uomo in generale gli permettevano di mettere a nudo l'anima dello
sventurato poeta italiano toccato dalla follia. Le parole che mette in bocca al personaggio di
Antonio vanno lette come una sorta di critica ad un eccessivo idealismo che sganciava il Tasso da
ogni realtà. Non è tuttavia necessario essere severi in questo modo con il Tasso: la sua poesia,
infatti, come si è già detto, va letta e ascoltata come se si ascoltasse musica. L'uomo Tasso, nelle
parole di Goethe medesimo, quello da lui rappresentato, è un tentativo di liberarsi "dei ricordi e
delle afflizioni legati alle impressioni e ai ricordi di Weimar10, che ancora mi rimanevano
appiccicati addosso"11. Goethe, al critico francese Jean Jaques Ampère che affermava esserci del
Werther nel Torquato Tasso, dava dunque ragione. Quando Goethe nel 1786 giunse a Ferrara fu
colto da una sorta di malumore:
Avevo la vita di Tasso, avevo la mia vita, e mescolando due personaggi così singolari con le loro
peculiarità mi creai l'immagine di Tasso, al quale contrapposi, a mo' di contrasto prosaico,
Antonio…12
Ma la verità è che l'idea della tragedia era scaturita in lui in seguito al contrasto fra vita attiva e vita
contemplativa che esacerbava il suo animo. Goethe, della vita del Tasso, sottolinea il periodo
ferrarese, durante il quale veniva accettato ed esaltato il poeta e veniva respinto l'uomo. Il
personaggio di Antonio, quindi, non sembra giudicare il poeta in generale, ma quel poeta, il Tasso.
Approfondendo ancora la figura del Tasso, sembra necessario attingere a ciò che di lui e della sua
opera dice il Leopardi. Il De Santis ha letto bene l'opera di Giacomo Leopardi, e molte cose da lui
dette sono frutto di queste letture, anche se non espressamente citate. Va sicuramente indicato
qualche passo a conferma di quanto detto. Nel suo Zibaldone di Pensieri Leopardi cita Tasso una
sessantina di volte. Ne parla nella Canzone Ad Angelo Mai. Gli dedica un dialogo nelle sue Operette
Morali: Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare. Ne parla in Memorie e disegni
9
F. DE SANTIS, id., p.555.
Il 7 Novembre del 1775 Goethe giunse a Weimar come precettore del figlio del Duca di Sassonia-Weimar-Eisenach,
un tipico tirannello tedesco del tempo, che governa uno staterello formato unicamente dalla stessa Weimar, cittadina di
seimila abitanti, dalla città universitaria di Jena e da alcune “ville di delizia”. I primi dieci anni trascorsi a Weimar,
caratterizzati da una certa povertà nella produzione poetica, mostrarono soprattutto questa sua lenta trasformazione. Vi
furono opere ancora improntate alla sua poesia precedente, poesia nella quale l'anima del poeta lentamente si sostituiva
al cuore capriccioso che aveva dominato la produzione precedente. Nel 1786, all’insaputa di tutti, fuggì in Italia.
11
S. SBARRA, J. W. Goethe, Il Teatro, Mondadori, vol. 19 p. 7.
12
S. SBARRA, id., p. 9.
10
letterari, ove approfondisce la condizione presente delle lettere italiane13e nell'Epistolario. Queste
le citazioni più importanti.
…O Torquato, o Torquato, a noi l'eccelsa
tua mente allora, il pianto
a te, non altro, preparava il cielo.
Oh misero Torquato! Il dolce canto
Non valse a consolarti o a sciorre il gelo
Onde l'alma t'avean, ch'era sì calda,
cinta l'odio e l'immondo
livor privato e de' tiranni…
Al tardo onore non sorser gli occhi tuoi; mercé, non danno,
l'ora estrema ti fu…
Torna torna fra noi, sorgi dal muto
E sconsolato avello,
se d'angoscia sei vago, o miserando
esempio di sciagura….
Chi stolto non direbbe il tuo mortale
Affanno anche oggidì, se il grande e il raro
Ha nome follia.
Né livor più, ma ben di lui più dura
La noncuranza avviene ai sommi…14
In tali versi va colta tutta la compassione che il sommo romantico manifesta per il povero ed
infelice Torquato Tasso, onorato postumo. Pur criticandolo altrove, qui lo incorona “grande” e
“raro”. Ma come non cogliere nella "noncuranza dei sommi" anche un fatto autobiografico? I grandi
vengono apprezzati solo dopo, e Leopardi sapeva di esser grande, così come il Tasso di sé. Quindi
la compassione di Leopardi va riferita all'uomo e al poeta Tasso, ed all'uomo e poeta Leopardi.
Emanuele Severino15 prova, per esempio, che il nichilismo di Nietzsche non è originale perché si
rifà a quello leopardiano che il filosofo tedesco ben conosceva, vedendo a sua volta emergere tale
nichilismo in embrione dalla concezione della noia e del taedium, nati proprio dall’amore, benché
non sempre incondizionato, da parte del poeta recanatese per il Tasso. Nel Dialogo di Torquato
Tasso e del suo genio familiare la compassione del Leopardi per lui e per se stesso è ancora più
evidente: Torquato ha nostalgia di Eleonora e il Genio gli promette che gliela farà incontrare nel
sogno, dopo avergli anche detto che le donne vanno troppo idealizzate, perché non sono angeli ma
umani e che fra le cose reali e le cose sognate non c'è alcuna differenza, essendo anzi quelle sognate
di gran lunga più dolci e più belle di quanto possano mai essere quelle reali. Il Genio spiega poi così
il piacere: nient’altro che
…un subbietto speculativo, e non reale; un desiderio, non un fatto; un sentimento che l'uomo
concepisce col pensiero, e non prova; o per dir meglio, un concetto e non un sentimento.
13
Così facendo dà modo al De Santis di attingere per la sua Storia della Letteratura Italiana (basta andare alla pagina
368 del volume primo delle sue opere edite (op. cit) e leggere il punto 4 Della condizione presente delle lettere italiane.
14
G. LEOPARDI, I Canti, Mondadori, 1985, pag. 8.
15
E. SEVERINO, Il nulla e la poesia - alla fine dell'età della tecnica: Leopardi, Rizzoli, 1990, passim.
Insomma il Genio-Leopardi cerca di spiegare al povero Torquato che la felicità è irraggiungibile e
che pertanto la vita, venendo vissuta ponendo essa qual fine irraggiungibile, diventa violenta. Essa
quindi "è composta e intessuta, parte di dolore, parte di noia", e contro la noia il rimedio è dato dal
sonno, dall'oppio e dal dolore. Alla fine, quando il Genio si accorge che Torquato è quasi preso dal
sonno, mentre si allontana gli dice (e qui il nichilismo leopardiano è straripante):
…me ne vo ad apparecchiare il bel sogno che ti ho promesso. Così, tra sognare e fantasticare,
andrai consumando la vita; non con altra utilità che di consumarla.
E quando Torquato gli chiede dove egli abiti, quello risponde:
Ancora non l'hai conosciuto? In qualche liquore generoso.
Con queste parole finisce il dialogo. Leopardi giudica filosoficamente la vita umana “noia” dalla
sua disperazione, dalla sua infelicità, dalla sua ipersensibilità, dalla sua delicatezza, dalla sua bontà
contrapposta alla cattiveria umana.
B 1. Leopardi e la Musica
In Zibaldone 1935-3616, Leopardi associa gli effetti della luce a quelli del suono, entrambi, dice,
ricreano e dilettano per natura, ma questo diletto non sarebbe né grande né durevole se non
dipendesse dalla combinazione della materia di cui è composta l’opera d’arte, i suoni per la musica,
i colori per la pittura, i marmi per la scultura. Nel caso della musica, il diletto non deriva dalla
“bellezza” della composizione, visto che il giudizio sul bello è estremamente relativo e variabile da
soggetto a soggetto, ma solo dalla “piacevolezza” che il suono riesce a infondere in maniera
naturale e istintiva. Per spiegare come il diletto nella musica provenga dal suono e non
dall’armonia, il poeta ricorre al confronto con odori e sapori, che non è un confronto casuale, ma fa
parte di quella che è stata definita una vera e propria leopardiana teoria degli organi di senso,
nell’uomo e negli animali, basata sull’individuazione di motivi e intuizioni presenti nello Zibaldone
che si spingono ben oltre l’interesse poetico ed estetico, fino ad anticipare alcuni punti dei moderni
studi scientifici sui sensi.17 In particolare, la corrispondenza tra suoni e odori equivale, per
Leopardi, alla capacità che entrambi hanno di risvegliare l’immaginazione e il ricordo, di sollecitare
sensazioni che destano quel desiderio di infinito destinato a rimanere perennemente insoddisfatto:
All’inafferrabilità del piacere, e quindi della felicità, sopperisce la facoltà immaginativa che,
sollecitata da un suono, da un odore, da un oggetto o da un luogo ignoto, da un ostacolo materiale
che restringe la vista, o viceversa, da una veduta senza confini, permette alla mente di procurarsi in
modo fittizio il piacere, proiettando se stessa verso mete che non esistono nella realtà e che perciò
possiedono il fascino dell’infinito, e facendo sì che si immerga in un piacevole stato di trasporto, di
estasi, atto a favorire le condizioni interiori del sentimento e le immagini da cui nasce la poesia:
L’anima s’immagina quello che non vede, che quell’albero, quella siepe, quella torre gli asconde, e
va errando in uno spazio immaginario, e si figura cose che non potrebbe, se la sua vista si
estendesse da per tutto, perché il reale escluderebbe l’immaginario […]
L’immaginazione era la componente principale della poesia degli antichi, ma da quando la scoperta
del vero ha dissolto le illusioni, la fantasia, le ingenue credenze popolari, e quant’altro potesse
favorire l’immaginazione, che cosa tocca rappresentare, secondo Leopardi, al poeta o all’artista
moderno nelle proprie opere d’arte? Nel formulare la propria definizione di Belle Arti, il poeta parte
dall’affermazione del principio che tutte le opere d’arte devono aver come oggetto il «Vero» che si
trae esclusivamente dall’imitazione della natura: Non il Bello ma il Vero o sia l’imitazione della
natura qualunque, si è l’oggetto delle Belle Arti […]. Può apparire contraddittorio il fatto che
Leopardi, da una parte, riconosca come vera poesia solo quella nata all’insegna
dell’immaginazione, dall’altra parte, indichi come oggetto delle opere d’arte il Vero che rappresenta
l’opposto; ma ciò a cui lui si riferisce non è il vero esplorato fino in fondo e reso arido dalla
ragione, e non è nemmeno la Verità superiore che Winckelmann contrappone al Vero scientifico
attraverso il concetto di Bello ideale, il Vero a cui il poeta si riferisce è il reale, così come appare
sotto ai nostri occhi, comprendente il bello e il brutto, poiché ogni distinzione a proposito è
artificiale, creata su misura dall’uomo, e non dalla natura, e perciò ha un valore soggettivo,
mutevole, relativo. L’effetto del suono è uno degli espedienti che il poeta utilizza nelle sue
rappresentazioni poetiche per conciliare la realtà con l’immaginazione. Senza attribuire la
16
L’edizione di riferimento è G. LEOPARDI, Zibaldone di pensieri, edizione critica e annotata a cura di G.
Pacella,Garzanti, Milano 1991, 3 voll., n. 1537.
17
Cf. Introduzione a G. Leopardi, Sulla musica, a cura di F. Foschi, Francisci, Abano Terme, 1987, pp. 16-17.
provenienza del suono a cause misteriose e metafisiche, e considerandolo, al contrario, un
fenomeno naturale e fisico che ha, tuttavia, il potere di evocare immagini poetiche, Leopardi associa
gli effetti prodotti dal suono che funziona, in questo caso, come una sorta di catalizzatore nel
rapporto tra la realtà e la sua rappresentazione poetica, alla sua idea di infinito:
Quello che altrove ho detto sugli effetti della luce o degli oggetti visibili, in riguardo all’idea
dell’infinito, si deve applicare parimente al suono, al canto, a tutto ciò che spetta all’udito. È
piacevole per se stesso, cioè non per altro, se non per un’idea vaga ed indefinita che desta, un
canto (il più spregevole) udito da lungi o che paia lontano senza esserlo, o che si vada appoco
appoco allontanando, e divenendo insensibile o anche viceversa (ma meno) o che sia così lontano
[…], che l’orecchio e l’idea quasi lo perda nella vastità degli spazi; un suono qualunque confuso,
massime se ciò è per la lontananza; un canto udito in modo che non si veda il luogo da cui parte;
un canto che risuoni per le volte di una stanza ec. Dove voi non vi troviate però dentro; il canto
degli agricoltori che nella campagna s’ode suonare per le valli, senza però vederli, e così il
muggito degli armenti ec. […]. È piacevole qualunque suono (anche vilissimo) che largamente e
vastamente si diffonda, […], massime se non si vede l’oggetto da cui parte […]18.
E più avanti, in questo stesso passo dello Zibaldone datato 16 ottobre 1821, Leopardi teorizza le
condizioni di un’“ottica idillica”, passando subito dopo all’individuazione di un’“acustica idillica”,
fondata sulla percezione dei suoni e dei canti come produttori di sensazioni vago-indefinite. Si
giunge allora alla conclusione che il fragore del tuono, lo stormire del vento, l’echeggiare di tutti gli
altri suoni di cui non si vede la fonte, diventano immagini bellissime in poesia e tanto più quanto
più negligentemente son messe, e toccando il soggetto, senza mostrar l’intenzione per cui ciò si fa,
anzi mostrando d’ignorare l’effetto e le immagini che son per produrre19. Per spiegare come il
diletto nella musica provenga dal suono e non dall’armonia, il poeta ricorre al confronto con odori e
sapori, che non è un confronto casuale, ma fa parte di quella che è stata definita una vera e propria
leopardiana teoria degli organi di senso, nell’uomo e negli animali, basata sull’individuazione di
motivi e intuizioni presenti nello Zibaldone che si spingono ben oltre l’interesse poetico ed estetico,
fino ad anticipare alcuni punti dei moderni studi scientifici sui sensi. In particolare, la
corrispondenza tra suoni e odori equivale, per Leopardi, alla capacità che entrambi hanno di
risvegliare l’immaginazione e il ricordo, di sollecitare sensazioni che destano quel desiderio di
infinito destinato a rimanere perennemente insoddisfatto:
Gli odori sono quasi un’immagine de’ piaceri umani. Un odore assai grato lascia sempre un certo
desiderio forse maggiore che qualunqu’altra sensazione. Voglio dire che l’odorato non resta mai
soddisfatto seppur mediocremente: e bene spesso ci accade di fiutar con forza, quasi per
appagarci, e per render completo il piacere senza potervi riuscire.
Nella musica egli distingue due componenti: il suono, che rappresenta la parte «principale e più
essenziale» della musica, e l’armonia che esprime il relativo. L’armonia produce un effetto
subordinato alla convenienza, condizionato, cioè, dal gusto e dai tempi, il suono, che esprime
l’assoluto, produce un effetto immediato, non solo sull’animo umano ma anche su alcuni animali:
18
19
Zib. 1927-28.
Zib. 1929-30.
L’effetto naturale e generico della musica in noi, non deriva dall’armonia, ma dal suono, il quale ci
elettrizza e scuote al primo tocco quando anche sia monotono. Questo è quello che la musica ha di
speciale sopra le altre arti, sebbene anche un color bello e vivo ci fa effetto, ma molto minore.
Questi sono effetti e influssi naturali, e non bellezza. […] Ma l’armonia è bellezza. La bellezza non
è assoluta, dipendendo dalle idee che ciascuno si forma della convenienza di una cosa con un’altra
[…] non è la musica come arte, ma la sua materia cioè il suono che farà effetto su certe bestie
[…]..
Ora, il fatto che la musica possa produrre un certo effetto anche sugli animali, è di per sé prova che
il diletto proviene dal suono, che agisce in maniera immediata sui loro sensi, senza che essi abbiano
percezione dell’idea umana di convenienza o di bello. Viceversa, il canto degli uccelli,
indipendentemente dall’armonia, è in grado di esprimere sentimenti e stati d’animo, e di suscitare
effetti di profonda commozione nell’animo umano, come dimostra il canto dell’usignolo
nell’episodio di Orfeo20, citato nella pagina dello Zibaldone datata 17 ottobre 1820:
Quell’usignolo di cui dice Virgilio nell’episodio di Orfeo, che accovacciato su d’un ramo, va
piangendo tutta notte i suoi figli rapiti, e colla miserabile sua canzone, esprime un dolor profondo,
continuo, ed acerbissimo, senza moti di vendetta, senza cercare riparo al suo male, senza
proccurar di ritrovare il perduto ec. è compassionevolissimo, a cagione di quell’impotenza che
esprime […]21.
Il suono è alieno da ogni convenienza, e in questo è paragonabile con la bellezza umana i cui effetti
appartengono alla sfera del piacere e non quella del bello, infatti, come una «leggera stonazione» in
musica non renderà meno piacevole l’effetto all’orecchio del volgo22, così una sproporzione nella
forma umana non basterà a determinare la bruttezza di una persona. In definitiva, se tutte le altre
arti per dilettare o per commuovere devono riuscire ad imitare la natura il più perfettamente
possibile, solo la musica, per magistero della natura, ha un potere di presa diretta sull’animo umano
e su quello degli animali, perché il suo privilegio legato al suono, che è un elemento naturale e
primitivo, e che la rende l’arte per eccellenza, superiore a tutte le altre arti, è proprio quello di
toccare le corde del sentimento umano in maniera immediata e al di là di qualsiasi contingenza:
….le altre arti imitano ed esprimono la natura da cui si trae il sentimento, ma la musica non imita e
non esprime che lo stesso sentimento in persona, ch’ella trae da se stessa e non dalla natura […]23.
E in modo più o meno analogo ebbe a esprimersi anche Gioacchino Rossini, in una conversazione
del 1836 con il suo amico e biografo bolognese Antonio Zanolini, che così ne riferisce il contenuto:
L’espressione della musica non è quella della pittura e non consiste nel rappresentare al vivo gli
effetti esteriori delle affezioni dell’animo, ma nell’eccitarle in chi ascolta. E questa è la possanza
del linguaggio il quale esprime e non imita […]24.
20
Orfeo, figlio del re tracio Eagro e della Musa Calliope, fu il più famoso poeta e musicista mai esistito. Apollo gli
donò la lira e le Muse gli insegnarono a usarla, e non soltanto egli ammansì le belve, ma anche gli alberi e i massi si
mossero e lo seguirono, incantati dal suono della musica […]. Cf. R. GRAVES, I miti greci, Longanesi, Milano, 1983, p.
99).
21
Zib. 281.
22
Zib. 1663.
23
Zib. 79.
B 2. L’Infinito: infinito verso musicale
Uno dei punti centrali della poetica leopardiana è costituito dall’idea di "infinito"; con esso
s’intende tutto ciò che è illimitato, dunque una dimensione radicalmente opposta a quella umana,
caratterizzata proprio da un'insuperabile finitezza. Sul piano delle immagini, quell’idea orienta la
poesia leopardiana verso la visione degli spazi celesti, dello sterminato pulviscolo di astri e mondi
in esso presenti. Ma essa esercita una considerevole influenza anche sul piano stilistico, inducendo
ad un uso massiccio di quei termini "vaghi" e "indefiniti" di cui il Leopardi asseriva la particolare
poeticità; quanto più larga e tendenzialmente illimitata è infatti la visione, tanto meno precise e
determinate devono essere le parole impiegate per esprimerla. D’altro canto, anche le parole riferite
a contenuti non cosmici finiscono nel poeta per assorbire una traccia della stupefazione e
dell’annichilimento da lui provati di fronte all’infinito. Va però detto che al cospetto dell’infinito
l’uomo è costretto anche a prendere amara coscienza della propria inadeguatezza; creatura finita per
eccellenza, egli potrà infatti solo intuire, ma mai compiutamente razionalizzare ed esprimere
l’illimitatezza di ciò che è infinito. Alla sua portata è tutt’al più l’ "indefinito", ovvero una pallida
controfigura umana di quell’infinità sempre sfuggente. Ciò spiega perché anche in questo caso il
poeta provi quel misto di piacere e angoscia così caratteristico del suo rapporto col mondo.
L’Infinito (I Canti XII)
Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo, ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio;
e il naufragar m’è dolce in questo mare.
VV. 2-3: e questa siepe, che da tanta parte / dell’ultimo orizzonte il guardo esclude
Il colle e la siepe sono il punto d’arrivo di un intrattenimento nella memoria, ma anche il punto di
partenza per una meditazione sull’infinito. Ed è su questi che lo sguardo cessa d’essere fisico, e si
dilata a tutti i sensi, si disaliena dalla sa specifica separatezza per diventare percorso "interiore". Il
limite, sintomo dell’assenza, è condizione perché l’assenza si trasformi in una presenza simbolica, e
si popoli di forme, d’evocazioni, di memoria. Ed è sintomo del desiderio d’infinito, sintomo della
sua non colmabilità; non limite al desiderio, ma sintomo del suo sconfinamento, della sua
24
A. ZANOLINI, Biografia di G. Rossini, Zanichelli, Bologna, 1875, p. 287.
illimitatezza. Il leopardiano “desiderio illimitato” paradossalmente è rappresentato sulla scena da un
limite, che si presenta come caro alla memoria. E’ il confine che definisce le possibilità materiali
del piacere (il piacere dello sguardo), ma che esclude il vero confine. L’assenza del confine produce
l’illusione dell’infinito:
La qualche cosa ci diletta perché l’anima non vedendo i confini, riceve l’impressione i una specie
d’infinità, e confonde l’indefinito coll’infinito, non però comprende ne concepisce effettivamente
nessuna infinità. Anzi nelle immaginazioni le più vaghe e indefinite, e quindi le più sublimi e
dilettevoli, l’anima sente espressamente una certa angustia, una certa difficoltà, un certo desiderio
insufficiente, una impotenza decisa di abbracciar tutta la misura di quella sua immaginazione, o
concezione o idea.
V. 4:Ma sedendo e mirando…
L’esclusione dello sguardo dall’indefinito orizzonte istituisce il viaggio verso il luogo del desiderio:
ma rovescia il limite nella possibilità d’un altro sguardo, dischiude il campo dell’immaginazione,
ch’è il solo nel quale il desiderio dell’infinito può prendere figura, e quasi movimento di immagini,
diventare teatro di conflitti, identificarsi col desiderio del piacere, e dunque sperimentare lo scarto
tra desiderio e piacere. In questa apertura l’ultimo orizzonte non è più l’al di là fisico della siepe, ma
è la scena sulla quale il desiderio d’infinito cerca una risposta nell’esperienza simbolica
dell’infinito, cioè nella liberazione della “forza immaginativa”. Il piacere dell’immaginazione
appare come uno dei “piaceri possibili”. Il tipo di questo bello e di queste idee non esiste nel reale,
ma solo nella immaginazione, e le illusioni sole ce lo possono rappresentare, né la ragione ha un
potere di farcelo. Il desiderio del piacere è “illimitato” la qual cosa non è in opposizione al rapporto
che lo sguardo istituisce con limite, con “una veduta ristretta e confinata in certi modi”,: il
rovesciamento del limite riporta sul piano della immaginazione il desiderio ostacolato:
La cagione è la stessa, cioè il desiderio dell’infinito, perché allora in luogo della vista, lavora
l’immaginazione il fantastico sottentra al reale.
VV. 4-8: Interminati / spazi di là da quella e sovrumani / silenzi, e profondissima quiete / io nel
pensier mi fingo; ove per poco / Il cor non si paura.
Lo sguardo fisico e lo sguardo dell’immaginazione sono unificati nel pensiero, che è il luogo dove
la finzione diventa discorso, dove la rappresentazione ha come solo destinatario il soggetto, che è
richiamato con forza (io…mi), presagendo quasi il suo smarrimento. La ricerca di un eccesso, per
negazione, del limite è anche detta dalla correzione di un infinito (che chiudeva il verso aperto con
Ma sedendo e mirando) con un indeterminato: la parola infinito cancellava la funzione di negazione
detta dall’in, per via dell’assunzione del termine infinito nell’ordine della categorie e nel linguaggio
filosofico; e questa cancellazione è rifiutata da Leopardi perché avrebbe annullato di colpo un
procedimento: l’esperienza dell’eccesso attraverso il passaggio (e la permanenza) del limite. La
riduzione del senso di dilatazione che avrebbe dovuto scontare abbandonando la parola infinito (che
diceva, immediatamente, il tema dell’idillio, e nominava il movimento di fondo: il desiderio
d’infinito) è compensata poi dall’ulteriore variante accettata nell’edizione Starita del ’35 dove
interminato / Spazio diventa interminati / Spazi: il plurale assicura lo sconfinamento, e dice già lo
spaurimento. La presenza-assenza della siepe in questo avventurarsi nell’eccesso (di là da quella)
corrisponde alla presenza del’io nella finzione. La stessa esperienza dell’infinito non è dicibile se
non dopo, ma come illusione, quando il momento della scrittura è già stata, o ci si illude che sia già
stata. Il piacere della scrittura è forse il solo piacere di cui si ha esperienza mentre si scrive.
Nonostante il desiderio d’infinito …l’animo umano o di qualunque vivente non è capace di un
sentimento il quale contenga la totalità dell’infinito25. L’impossibilità di questo “sentimento” è
tutt’uno con l’assenza del piacere, dell’esperienza del piacere: e anche il piacere della speranza,
non è mai piacere presente, nemmeno in quanto speranza26. Il passaggio avviene nel cuore del testo
e nel mezzo d’un verso: la congiunzione in apertura annuncia il sentiero dello smarrimento, dove
l’infinito coincide col nulla, e il piacere con il naufragio del pensiero.
VV. 8-11: E come il vento / Odo stormir tra queste piante, io quello / Infinito silenzio a questa
voce / vo comparando
Gli elementi della finzione – spazi, silenzi, queste – sono riunificati in infinito silenzio (e questa
volta la parola infinito resiste a possibili varianti, perché non deve incorporare il senso del limite):
questa riunificazione nella negazione del suono, nella leopardiana meditazione sul piacere, non è
legato al bello, ma al piacevole: più volte nello Zibaldone il linguaggio musicale sarà riportato al di
qua dell’estetica, nel territorio appunto del piacere. Il piacere del suono deriva sì dalla molteplicità
delle dette sensazioni indefinite ecc. sì dall’inclinazione del legame che la natura arbitrariamente
ha posta fra le sensazioni del suono o canto e l’immaginazione, dalla facoltà che ha dato loro di
afficere piacevolmetnte l’orecchio… Anche le osservazioni dello Zibaldone sulla lontananza,
essenza del vago e dell’indefinito sono sempre connesse al suono. Spazio e tempo sono gli "ultimi"
orizzonti che comprendono il corpo, ma la loro massima dilatazione, come infinito e come eterno,
se trova rispondenza nel desiderio che appartiene al corpo, è anche fonte d’angoscia, per il conflitto
permanente tra brevità del proprio tempo e illimitatezza del tempo “al di fuori di sé”, tra limitatezza
del proprio spazio e sconfinamento dello spazio “al di fuori di sé”. Tuttavia questo conflitto, che
non è cancellato, come nella dottrina epicurea del piacere, è però spostato nell’immaginazione, non
essendo il tempo "una cosa", come dirà nel dicembre del ’26 un frammento dello Zibaldone:
Il tempo […] è un accidente delle cose, e indipendentemente dalla esistenza delle cose è nulla, è un
accidente di questa esistenza; o piuttosto è una nostra idea, una parola Medesimamente delle
spazio…. Sicché, come il tempo è un modo o un lato del considerar l’esistenza delle cose, così lo
spazio non è altro che un modo, un lato, del considerar che noi facciamo il nulla
L’immaginazione dello spazio e l’immaginazione del tempo sono ora unificate nella
contemplazione del conflitto tra il corpo e la morte, tra la stagione e l’eterno, tra il piacere della
ricordanza e la disperazione di non poter fermare questo piacere. Tempo e spazio diventano questa /
Immensità . La parola infinità che era ricomparsa (dopo immensitade dell’autografo) nella stampa
sul Nuovo Raccoglitore e nell’edizione bolognese del ’26 è definitivamente sostituita, dall’edizione
fiorentina in poi, con immensità: sottratta al gioco delle categorie di spazio e tempo, sottratta alla
stessa allusione all’irrealizzabile "desiderio d’infinito", riportata verso la grande classica metafora
del mare che già prende tutto il campo della scena:
V. 13-14: Così tra questa / Immensità s’annega il pensier mio
25
26
Zib. 1553.
Zib. 453.
La ricordanza, che non è in Leopardi la platonica "reminiscenza", riporta alla ripetizione e questa,
come avverrà anche nel testo di Freud, riporta al di là del principio del piacere. La meditazione sul
piacere, avviata con lo sguardo sulla siepe, oltrepassa se stessa, riconoscendo che non c’è un tempo
del piacere, e che ogni instaurazione della dimensione temporale è anche una produzione
d’angoscia. Come oltrepassare questo limite, che non è più esterno, che non è più la cara siepe, e
che appartiene al corpo? Come cancellare questo rapporto col tempo inscritto nel corpo? E questo,
al di fuori del giardino di Epicuro, in assenza della saggezza che sostituisce il senso del tempo con
l’esercizio della filosofia e con la meditazione dei discepoli? Il "riposo dal desiderio " è una mimesi
della morte. Perché ha origine dalla dilatazione delle possibilità del desiderio, e percorre tutti i
sentieri, fino a smarrirsi nel bosco della meditazione. La metafora a questo punto, è obbligata, e tutti
i poeti ci sono passati: il mare. La metafora che unisce il desiderio e l’essere, il corpo e la
metafisica, l’itinerario e l’approdo. Un’esegesi dell’infinito leopardiano può ritrovare, nella finale
metafora del mare, il dantesco e medievale "mar de l’essere", approdo di ogni itinerario della mente.
V. 15: E il naufragar mi è dolce in questo mare
Il naufragio leopardiano, riposo e desiderio, restituisce, sull’affondare del pensiero, l’io dell’ordine
simbolico contro l’io dell’ordine immaginario. Questo desiderio dell’altro, si adempie, ma come
contemplazione del nulla. Il nichilismo è l’orizzonte che può essere guardato dal punto di vista
simbolico, cioè da punto di vista di un’io creativo, dell’io della poesia. Il desiderio “infinito” si
rivela come desiderio del “nulla” e in questa rivelazione espone il massimo legame con la vita, di
cui la metafora del mare è portatrice. Il solo infinito è nulla, e questo è infinito nel linguaggio. Su
questa affermazione s’intrattiene Leopardi in una zona dello Zibaldone nella primavera del ‘26
…il tutto esistente è infinitamente piccolo a paragone della infinità vera, per dir così, del non
esistente, del nulla […]. L‘infinito, così come è concepito dall’uomo è un parto della nostra
immaginazione. […]. Par che solamente quello che non esiste, la negazione dell’essere, il niente,
possa essere senza limiti, e che l’infinito venga in sostanza a essere lo stesso che il nulla. Pare
soprattutto che l’individualità dell’esistenza importi naturalmente una qualsivoglia circoscrizione,
di modo che l’infinito non ammetta individualità e questi due termini siano contraddittori: quindi
non si possa supporre un ente individuo che non abbia limiti.
Osservando, qualche mese dopo, come le categorie di infinito, riferite allo spazio e al tempo, non
sono appunto che categorie, espressione di una nostra idea, così conclude questo appunto teorico
sul tema dell’infinito:
…La infinità del tempo non proverebbe né l’esistenza né la possibilità di enti infiniti, più di quel
che lo provi l’infinità del nulla, infinità che non esiste né può esistere se non nell’immaginazione o
nel linguaggio, ma che è pure una qualità propria e inseparabile dall’idea o dalla parola ‘nulla’, il
quale pur non può essere se non nel pensiero o nella lingua, e quanto al pensiero o alla lingua.
Il desiderio d’infinito è desiderio del nulla, ma questa coincidenza tra il nulla e l’infinito avviene nel
linguaggio. Il linguaggio è il respiro del corpo, del suo limite. Ma come può il limite pensare
l’infinito? Non dunque sui sentieri del pensiero, sui sentieri della finzione nel pensiero, si può
trovare una risposta al desiderio d’infinito. Né si può cercare questa risposta al di fuori di questa
terra, essendo il desiderio materiale. Resta lo sguardo del poeta che dalla siepe rivà verso
l’avventura d’una figurazione positiva dello spazio e del tempo, e da questa ritorna verso una
comparazione tra ciò che è e ciò che non è, tra il tempo del corpo e l’altro tempo, tra il “suonano”
della stagione e l’assenza di ogni suono e di ogni stagione: questo sguardo vede anche il pensiero
annegare, e rinunciare a inseguire teoreticamente il rapporto tra l’infinito e il nulla. Questo sguardo
non è più uno sguardo, ma è il corpo dell’uomo, l’assunzione del su limite prima dell’ultimo
abbandono, la cessazione dell’analisi, il riposo dal desiderio, la fine della finzione. Nel naufragar il
corpo s’abbandona ad una dolcezza che annuncia, nell’assenza del pensiero e nello spegnimento dei
sensi, la possibilità che pensiero e sensi siano per il piacere, e non per la ratio civile. Eros e
Thanatos si uniscono non nel suicidio del corpo, ma nel riposo dal desiderio, non nell’istante della
morte, ma nell’abbandono ad una dolcezza che travolge, infine, anche il soggetto che sa che questa
dolcezza gli appartiene. Il mare invade la scena: un’onda di vita freme in questa mimesi della morte.
Il nichilismo leopardiano grida il desiderio della vita, nell’unico modo che, nella note dei sensi, è
ancora possibile: nel linguaggio simbolico, nel linguaggio della poesia. E’ l’esperienza del piacere?
Leopardi dimostra di saper essere nello stile quanto nel pensiero esigente con se stesso, pur
obbedendo al suo temperamento e anima sognante e come tale s’abbandona a quanto sente o così
scrive senza ricercatezze, senza effetti d’impasti, senza formule ritmiche, ma tutto con semplice
musicalità, con sincerità e con castigatezza.
B 3. Dalla musica alla noia
Dal piacere insoddisfatto nasce la noia: sentimento più di tutti intollerabile, come sostiene il Genio
nell’operetta Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare, non è
altro che il desiderio puro della felicità; non soddisfatto dal piacere, e non offeso apertamente dal
dispiacere. Il qual desiderio ... non è mai soddisfatto
E alla domanda di Tasso su
quale rimedio potrebbe giovare contro la noia?
il Genio risponde:
Il sonno, l’oppio, e il dolore. E questo è il più potente di tutti.
La riflessione zibaldoniana in parte anticipa in parte riprende tali affermazioni, ma il tema è fra i
più presenti nelle opere leopardiane, dagli scritti autobiografici ai Pensieri:
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la continuità è così nemica della noia che anche la continuità della stessa varietà annoia
sommamente [51]
Anche il dolore che nasce dalla noia e dal sentimento della vanità delle cose è più
tollerabile della stessa noia [72]
la noia non è altro che una mancanza del piacere che è l’elemento della nostra esistenza
[172-7]
il popolo accorre agli spettacoli sanguinosi a causa della noia [239]
è possibile assuefarsi anche alla noia [280]
l’amica della verità, la luce per discoprirla, la meno soggetta ad errare è la malinconia e
soprattutto la noia [1690-1]
La noia è la più sterile delle passioni umane [1815]
nessuna cosa può rendere la pura noia meno intollerabile [1988-90]
è l’unico male, non previsto dalla natura, che non abbiamo in comune con gli altri animali
[2219-21]
Solamente della noia non possiamo dolerci mai che sia finita [2242-3]
L’uniformità e noia, e la noia uniformità [2599-602]
colpisce i giovani più che i vecchi [2736-9]
ci sembra più lungo il tempo in cui ci annoiamo [3509-14]
è il desiderio della felicità, lasciato, per così dir, puro [3713-5]
la noia è la semplice vita pienamente sentita, provata, conosciuta, pienamente presente
all’individuo [4043, 4498]
La noia non è sentita che da quelli in cui lo spirito è qualche cosa [4306-7]
La modernità del concetto di noia (come disadattamento al reale ed impotenza) compare nelle
tematiche leopardiane con l'emergere nell'umanità dell'elemento razionale. Si evidenzia cioè con
il trionfo della ragione27. In queste riflessioni si anticipa una delle più importanti acquisizioni
della modernità che vive appunto nella costante polarità irrisolta di conoscenza ed errore, di
coscienza ed impossibile illusione. Tutta la tensione romantica a cogliere l'infinito al di là del
contingente, riconduce al più sublime dei sentimenti umani: la noia.
Poco propriamente si dice che la noia è mal comune . Comune è l'essere disoccupato, o
sfaccendato, per dir meglio; non annoiato. La noia non è se non di quelli in cui lo spirito è
qualche cosa. Più può lo spirito in alcuno, più la noia è frequente, penosa e terribile. la
massima parte degli uomini trova bastante occupazione in che che sia, e bastante diletto in
qualunque occupazione insulsa; e quando è del tutto disoccupata, non prova perciò gran pena.
Di qui nasce che gli uomini di sentimento sono sì poco intesi circa la noia, e fanno il volgo
talvolta maravigliare talvolta ridere, quando parlano della medesima e se ne dolgono con
quella gravità di parole, che si usa in proposito dei mali maggiori e più inevitabili della vita28.
Da non dimenticare poi gli inarrivabili versi del Canto notturno di un pastore errante dell’Asia:
O greggia mia che posi, oh te beata,
Che la miseria tua, credo, non sai!
Quanta invidia ti porto!
Non sol perchè d’affanno
Quasi libera vai;
Ch’ogni stento, ogni danno,
Ogni estremo timor subito scordi;
Ma più perchè giammai tedio non provi.
Quando tu siedi all’ombra, sovra l’erbe,
Tu se’ queta e contenta;
E gran parte dell’anno
Senza noia consumi in quello stato.
Ed io pur seggo sovra l’erbe, all’ombra,
E un fastidio m’ingombra
La mente, ed uno spron quasi mi punge
Sì che, sedendo, più che mai son lunge
Da trovar pace o loco.
E pur nulla non bramo,
E non ho fino a qui cagion di pianto.
Quel che tu goda o quanto,
Non so già dir; ma fortunata sei.
Ed io godo ancor poco,
O greggia mia, nè di ciò sol mi lagno.
Se tu parlar sapessi, io chiederei:
Dimmi: perchè giacendo
A bell’agio, ozioso,
27
Il male intrinseco all'essere originario e permanente delle cose si profila... nella sua costernante evidenza (emerge)
l'identità di progresso e decadenza, di avanzamento e distruzione, di verità ed impotenza, di coscienza e nullità; cf. M.
A. RIGONI, La strage delle illusioni, Milano, 1998, p. 98.
28
Zib. 67.
S’appaga ogni animale;
Me, s’io giaccio in riposo, il tedio assale?29
29
G. LEOPARDI, Canto notturno di un pastore errante dell'Asia, vv. 105-131.
C 1. La noia in musica nello spleen di Baudelaire
Lo spleen è una forma particolare di disagio esistenziale, che si traduce - a livello espressivo - in
una fertile creatività poetica, capace di oggettivizzare le sensazioni e gli stati d'animo in numerose
immagini visionarie, prodotte dall' inconscio baudleriano. Lo spleen è una particolare
caratterizzazione dell'inettitudine, che indubbiamente include elementi di debolezza psicologica e di
mancato adeguamento al reale, ma che - a differenza della noia leopardiana - non produce
argomentazione e pensiero, riflessività sulla condizione umana, ma si gioca tutta a livello artistico
nella resa espressionistica degli effetti devastanti, allucinatori dell'angoscia esistenziale.
Leggendo la poesia rimangono impresse soprattutto le immagini di chiusura opprimente,
materializzate simbolicamente dalla strana analogia del coperchio / cielo che pesa sull'anima
gemente o delle strisce di pioggia assimilate alle sbarre di una prigione. Infine gli effetti di questa
angoscia devastante non sono il perdurare di uno stato d'animo riflessivo e pronto ad accettare
questa condizione mentale e psicologica, ed a sfruttarla come foriera di nuovi approfondimenti
concettuali. Quanto piuttosto un'abdicazione definitiva della Speranza ( personificata appunto ) che
sembra ridurre il soggetto in preda ad un'oppressione crescente e davvero capace di neutralizzare le
energie creative del poeta.
Testo
Traduzione
Quand le ciel bas et lourd pèse comme un couvercle
Sur l'esprit gémissant en proie aux longs ennuis,
Et que de l'horizon embrassant tout le cercle
Il nous verse un jour noir plus triste que les nuits;
Quando come un coperchio il cielo
pesa
grave e basso sull'anima gemente
in preda a lunghi affanni, e quando
versa
su noi, dell'orizzonte tutto il giro
abbracciando, una luce nera e triste
più delle notti;
Quand la terre est changée en un cachot humide,
Où l'Espérance, comme une chauve-souris,
S'en va battant les murs de son aile timide
Et se cognant la tête à des plafonds pourris;
e quando si è mutata
Quand la pluie étalant ses immenses traînées
la terra in una cella umida, dove
D'une vaste prison imite les barreaux,
se ne va su pei muri la Speranza
Et qu'un peuple muet d'infâmes araignées
sbattendo la sua timida ala, come
Vient tendre ses filets au fond de nos cerveaux,
un pipistrello che la testa picchia
su fradici soffitti; e quando imita
Des cloches tout à coup sautent avec furie
la pioggia, nel mostrare le sue
Et lancent vers le ciel un affreux hurlement,
striscie
Ainsi que des esprits errants et sans patrie
infinite, le sbarre di una vasta
Qui se mettent à geindre opiniâtrément.
prigione, e quando un popolo
silente
- Et de longs corbillards, sans tambours ni musique, di infami ragni tende le sue reti
Défilent lentement dans mon âme; l'Espoir,
in fondo ai cervelli nostri, a un
Vaincu, pleure, et l'Angoisse atroce, despotique,
tratto
Sur mon crâne incliné plante son drapeau noir.
furiosamente scattano campane,
lanciando verso il cielo un urlo
atroce
come spiriti erranti, senza patria,
che si mettano a gemere ostinati.
E lunghi funerali lentamente
senza tamburi sfilano né musica
dentro l'anima: vinta, la Speranza
piange, e l'atroce Angoscia sul mio
cranio
pianta, despota, il suo vessillo nero.
Spleen è una parola inglese che inizialmente significava “milza”, quindi “bile”; successivamente il
termine assunse il significato di “malinconia”, “disgusto”, “tedio esistenziale”, sulla base delle
antiche teorie mediche che situavano proprio nella milza la causa della sindrome depressiva. Già dal
semplice titolo si intuisce quale sia il tema principale della poesia, espressione, appunto, di un
malessere esistenziale, di una incapacità di reagire alla noia paralizzante.
C 2. Analisi Tematica e stilistica
La poesia è composta da 5 strofe di quattro versi ciascuna (quartine). I versi sono alessandrini
(verso classico della letteratura francese). Tutta la poesia si articola in due sole proposizioni (o
“frasi”). La prima frase si sviluppa lungo le prime quattro strofe, ed è composta da tre proposizioni
subordinate (strofe 1, 2 e 3) più una proposizione principale. Le subordinate sono molto simili tra
loro: tutte cominciano con lo stesso avverbio di tempo (Quando...) e si sviluppano attraverso vivide
metafore (il coperchio, il pipistrello, la prigione). Questa somiglianza, la ripetitività di una stessa
struttura, insieme al fatto che le subordinate sono poste tutte e tre prima della proposizione
principale (strofa 4), crea un clima di attesa, una certa suspense per quanto riguarda il seguito del
discorso. Questa "attesa" ha un nome ben preciso nel gergo letterario : si tratta di una climax, per
cui la disposizione in modo ascendente di certi elementi sintattici crea un "clima" di tensione, di
aspettativa. La tensione accumulata lungo le tre prime strofe, volutamente pesanti in struttura e
contenuti, esplode nella quarta strofa, nella proposizione principale. L'ultima strofa, che è anche
l'ultima frase della poesia, nonostante abbia una propria indipendenza sintattica (ed anche visiva: c'è
uno spazio bianco tra le varie strofe), è legata alle altre dall'uso del segno tipografico “ – “ e dalla
congiunzione con la quale comincia ( - E... ). Essa rappresenta una conseguenza delle strofe
precedenti, una specie di "rilassamento" finale dopo l'esplosione del climax. Risultano termini
chiave i seguenti:
La claustrofobia: il cielo basso che pesa come un coperchio (strofa 1); l'immagine di una
prigione umida ed altrettanto bassa (il pipistrello vi vola sbattendo le ali sulle pareti e picchiando la
testa sul soffitto) (str. 2); di nuovo l'immagine di una prigione attraverso le strisce di pioggia (str. 3).
L'umidità: la prigione umida e il soffitto marcio (str. 2) ; la pioggia (str. 3) ; ma anche il
pianto (str. 5).
Il suono, il rumore: le campane, le urla, i gemiti (str. 4) ; ma anche l'assenza di rumore, il
silenzio funebre della strofa 5 (senza tamburi né bande).
I colori: la luce nera del giorno (str. 1) e il vessillo altrettanto nero dell'Angoscia.
L'antitesi è presente in maniera interessante in questa poesia, e rappresenta uno dei maggiori tratti
caratteristici della poetica di Baudelaire.
Il “cielo basso e greve” (v. 1) mette in contrasto il nome cielo, normalmente associato ad
una idea di immensità, di infinito, di ascensione, con due aggettivi che, al contrario, indicano
finitudine, decadimento, pesantezza, incapacità di muoversi (e qui, ovviamente, si rimanda al
campo semantico della claustrofobia).
Lo “spirito che geme” (v. 2) mette in contrasto lo spirito, cioè quella parte dell'uomo che è
considerata la più elevata, la più "divina", con il gemere, atto che sottolinea invece una miserevole
condizione da reietto. Difatti, più avanti, nella strofa 4, di nuovo l'idea del lamento viene assimilato
a degli " spiriti vaganti e senza patria".
Il “giorno nero” (v. 4) è una chiara antitesi, nel senso che a “giorno” si potrebbe sostituire
“luce” senza alterare il senso della poesia, mettendo in rilievo il contrasto assoluto di un'espressione
come “luce nera”.
La “timida ala” (v. 7) è pure, in un certo senso, un'antitesi, nel senso che mentre l'ala è
solitamente associata ad una idea di libertà, l'aggettivo timida immediatamente riporta all'idea
dell'impossibilità di fuggire, di liberarsi.
Dal punto di vista generale si possono dunque fare le seguenti osservazioni conclusive:
La struttura della poesia e il suo contenuto tematico si articolano in maniera tale da creare un
ritmo, un movimento particolare : lento e pesante all'inizio (str. 1, 2 e 3), poi improvvisamente forte
(str. 4), infine lentissimo (str. 5), tanto da ricordare uno schema di sonorità secondo l'alternanza
piano-fortissimo-pianissimo30, racconta un'esperienza drammatica vissuta tanto interiormente che
esteriormente.
C'è un forte senso di costrizione nella poesia: tutto porta a mettere l'accento sull'idea della
disperazione dovuta all'incapacità di liberarsi, di respirare. Il poeta esprime così il dramma del
proprio tedio, dello "spleen" che gli impedisce di elevarsi, di toccare il lato divino della propria
esistenza. Questa osservazione ci riconduce alla concezione del poeta propria di Baudelaire. Per lui,
esso è un uomo diverso dagli altri, al contempo benedetto e maledetto : benedetto, perché capace di
cogliere significati superiori, di elevarsi al cielo con la sua poesia ; maledetto, perché nonostante il
suo continuo anelito al divino, rimane pur sempre un uomo, facile preda dello "spleen". Questa
contraddizione della condizione del poeta è una costante nell'opera di Baudelaire, e qui la
ritroviamo espressa, oltre che dall'intera poesia, anche dalla presenza delle frequenti antinomie.
Ma se è vero che il poeta è, per Baudelaire, un eletto (nel bene e nel male), e che perciò la
sua poesia esprime la propria intima condizione, non si può negare che lui rende universale la sua
esperienza. Nella poesia, non soltanto il malessere personale dell'io invade l'intero universo (il cielo
basso e greve versa una luce nera sull'intero giro dell'orizzonte - v. 3), ma il poeta esprime
esplicitamente il suo tentativo di legarsi agli altri uomini attraverso un vincolo di fratellanza quando
parla, al v. 12, dei ragni che tendono le loro reti in fondo ai nostri cervelli.
Lo stile ed i contenuti della poesia di Baudelaire, che per noi non hanno niente di
particolarmente scioccante, sono stati all'epoca del poeta vittime di censure ed incomprensioni
(ricordiamo che le Fleurs du mal sono del 1857). Come mai? I motivi sono molteplici, ma già a
partire da Spleen è possibile accorgersi della profonda originalità di Baudelaire rispetto alla
letteratura precedente: usando parole basse e crude come coperchio (v. 1), parlando di animali che
normalmente sono associati a sentimenti di repulsione, come il pipistrello (v. 6) e il popolo muto
d'infami ragni (v. 11), usando, quindi, metafore altamente vivide (le campane che sbattono con
furia, ecc. ), Baudelaire è il primo poeta a mescolare al simbolismo della propria lirica un realismo
crudo e volutamente scioccante.
30
E' Leo Spitzer, un critico eminente, che ha fatto questa interessante similitudine tra la poesia di Baudelaire e lo schema
musicale a tre tempi; cf. LEO SPITZER, Baudelaire’s “Spleen “, in “The Hopkins Review”, vol. 6, 1953.
D 1. Guido Gozzano: La noia dell’inetto come distacco autoironico dalla vita
L'opera di Gozzano costituisce un interessante esempio di lirica post-dannunziana, nella quale il
pessimismo ironico e la coscienza critica dell'autore appaiono mezzi nuovi di analisi delle
convenzioni borghesi. Componimenti come Le due strade o la più celebre Amica di nonna
Speranza si caratterizzano per l'impiego del dialogo e il ricorso al parlato, che saranno
caratteristici di tutta la poesia successiva. I colloqui pubblicato nel 1911, rappresenta il momento
più importante della produzione poetica gozzaniana. Ripartito in tre sezioni distinte, è una sorta
di poema esistenziale che si apre con gli episodi di “Vagabondaggio sentimentale” del giovenile
errore, in cui l'autore affronta un'ironica riflessione sull'amore. Le poesie seguenti di Alle soglie
(tra cui, notissima, La signorina Felicita) sembrano attraversate da una premonitrice idea di
morte, che nell'ultima sezione, intitolata significativamente Il reduce, si scioglierà in
un'indifferente rassegnazione, raggiunta dal poeta nella resa a un'esistenza vana che nutre solo
l'esperienza della parola poetica. Nell'ambito della crisi della cultura positivistica e nel pieno
successo dei topoi dannunziani spiccano le soluzioni tematiche ed espressive di Guido Gozzano,
l'esponente di maggior importanza della poesia crepuscolare, che propone una risposta nuova
alla modernità incalzante. La risposta di Gozzano appare complessa e non riconducibile ad un
semplice rifugio nostalgico nel passato e nelle buone cose di pessimo gusto che lo
contraddistinguono ( L'Amica di Nonna Speranza). Il suo atteggiamento ironico e in alcuni casi
parodico nei confronti di alcuni miti dannunziani (la donna e l'amore fatale, il superuomo
esteta...), il suo distacco dalla concitazione urbana e dal progresso esaltato dall'età giolittiana
spiegano la sua incapacità (inettitudine) a cavalcare gli idoli della modernità. Egli è inadatto sia
storicamente che esistenzialmente a condividere l'esaltazione futurista per la vita, accesa
dall'energia di macchine, voli, folle plaudenti..... Inadatto è del resto Gozzano ad adottare forme
espressive indirette, intuitive ove trionfi l'analogia arrischiata e proliferante del testo parolibero.
Egli necessita di stabili riferimenti temporali e spaziali, che lo riportano a toni descrittivi anche
se demistificatori. L'esperienza della malattia e la presenza quasi amica della Morte gli fanno
preferire stati d'animo più raccolti, metafore più interiorizzate ( l'esilio, il rifugio, il colloquio,
la poesia...) con le relative oggettivazioni ( il giardino e la cancellata di Cornigliano (Cocotte), la
cucina ed il solaio di Villa Amarena, la faccia buona e casalinga della Signorina Felicita,
l'atmosfera ovattata dell' ottocentesco salotto di Nonna Speranza, ma anche l'isola tropicale
immaginaria di Paolo e Virginia, il silenzio di chiostro e di caserma della villa torinese di Totò
Merumeni, la città morta, Goa, la Dourada del suo viaggio in India...) che denotano un bisogno
di chiusura in spazi privilegiati e isolati dal tempo.
Così le sensazioni possano venir intenzionalmente decantate tramite la parola poetica - da ogni
coinvolgimento troppo intenso con i sentimenti, con le passioni, con le progettualità di vita e la
costruzione di solidi ideali storici o culturali. Questo atteggiamento di rinuncia, di
distanziamento, di abbandono anche autoironico alla memoria di un passato quietamente
inoffensivo e demodé, nella sua spenta e tranquilla purezza, inseriscono l'inettitudine gozzaniana
tra i moderni atteggiamenti della crisi del primo '900.
...Il mio sogno è nutrito d'abbandono
di rimpianto. Non amo che le rose
che non colsi. Non amo che le cose
Che potevano essere e non sono
state...Vedo la casa, ecco le rose
del bel giardino di vent'anni or sono!31
La poesia diviene lo spazio privilegiato dell'esistenza; è l'illusione intessuta di ironia, nel
tentativo di evadere verso la ricostruzione fittizia del reale, che ricomponga - rarefatte dalle
metafore poetiche - le tappe di una vita affiancata dalla malattia. Le tre sezioni de "I colloqui"
ricostruiscono tre tappe ideali della vita di Gozzano. Dal vagabondaggio sentimentale del
giovenile errore amoroso, si passa ad alcuni colloqui intrattenuti con con quella Signora vestita
di nulla32 (Alle soglie), evocati paradossalmente dai rassicuranti e puri contesti del passato
(Agliè, Villa Amarena, l'isola di Paolo e Virginia) attorno ai quali però non riesce a delinearsi
un'autentica nostalgia. Infine nella terza sezione (Il reduce) il poeta così si esprime: ...reduce
dall'Amore e dalla Morte, gli hanno mentito le due cose belle...così rifletterà l'animo di chi ,
superato ogni guaio fisico e morale, si rassegna alla vita sorridendo. Totò Merumeni (felice
italianizzazione della celebre commedia terenziana mutuata a sua volta dal greco Menandro
Heautontimorùmenos, il punitore di se stesso) vive fuori del mondo, nella villa barocca. con la
madre malata, lo zio demente, la prozia decrepita, con la sola compagnia del gatto, della
ghiandaia roca e della bertuccia di nome Makakita. Soltanto in questa solitudine, che è tanto
esteriore, rispetto al mondo che vorrebbe la mercificazione della sua scienza e dei suoi studi,
quanto interiore, in quanto ha bruciato in sé ogni sentimento, si è ridotto come una rovina
inaridita dalle fiamme, cioè nel rifiuto totale di ogni contatto col mondo borghese è possibile la
poesia nell'aridità….come metafora della negazione dei rapporti che, inevitabilmente, appaiono
condizionati dall'inautenticità del mondo borghese.
Testo
Totò Merùmeni
I.
Col suo giardino incolto, le sale vaste, i bei
balconi secentisti guarniti di verzura,
la villa sembra tolta da certi versi miei,
sembra la villa-tipo, del Libro di Lettura
Pensa migliori giorni la villa triste, pensa
gaie brigate sotto gli alberi centenari,
banchetti illustri nella sala da pranzo
immensa
e danze nel salone spoglio da gli antiquari.
31
32
Da I colloqui, Cocotte, vv. 67 - 72.
Si tratta della Morte.
Analisi e Commento
Heautontimoroumenos (Il punitore di se stesso)
L'ambientazione è letteraria più che reale, la villatipo del libro di lettura sembra ricordare il
contesto in cui si realizza la rievocazione
dell'incontro con la Signorina Felicita, la villa
del Meleto ad Agliè. Anche in questo caso gli
spazi della villa (giardino incolto, vaste sale, bei
balconi secentisti..salone spoglio) sono canonici a
definire il raffronto tra un passato felice, in cui
gaie brigate e banchetti illustri animavano questo
spazio di presenze umane e l'abbandono presente.
Ma dove in altri tempi giungeva Casa
Ansaldo,
Casa Rattazzi, Casa d'Azeglio, Casa
Oddone,
s'arresta un'automobile fremendo e
sobbalzando,
villosi forestieri picchiano la gorgòne.
S'ode un latrato e un passo, si schiude
cautamente
la porta...In quel silenzio di chiostro e di
caserma, vive Totò Merumeni con una
madre
inferma,
una prozia canuta ed uno zio demente.
II.
Totò ha venticinque anni, tempra sdegnosa,
molta cultura e gusto in opere d'inchiostro,
scarso cervello, scarsa morale, spaventosa
chiaroveggenza: è il vero figlio del tempo
nostro.
Non ricco, giunta l'ora di "vender
parolette"
(il suo Petrarca!...) e farsi baratto o
gazzettiere,
Totò scelse l'esilio. E in libertà riflette
ai suoi trascorsi che sarà bello tacere.
Non è cattivo. Manda soccorso di danaro
al povero, all'amico un cesto di primizie;
non è cattivo. A lui ricorre lo scolaro
pel tema, l'emigrante per le commendatizie.
Gelido, consapevole di sé e dei suoi torti,
non è cattivo. È il buono che derideva il
Nietzsche
“...in verità derido l'inetto che si dice
buono, perché non ha l'ugne abbastanza
forti...”
Dopo lo studio grave, scende in giardino,
gioca
coi suoi dolci compagni sull'erba che
l'invita;
i suoi compagni sono: una ghiandaia rôca,
un micio, una bertuccia che ha nome
Ora energiche presenze si delineano dall'esterno
attraverso simboli un po' volgari di automobilisti
impellicciati
(un'automobile
fremendo
e
sobbalzando, villosi forestieri picchiano la
gorgone). La porta si schiude cautamente a
ridefinire la chiusura dello spazio antico.
Lì si consuma l'isolamento di Totò ( colui che si
autopunisce in modo grottesco), in una parodia
amara delle antiche ricche relazioni della villa:
...In quel silenzio di chiostro e di caserma
vive Totò Merùmeni con una madre inferma,
una prozia canuta ed uno zio demente.
La parodia continua e questa volta l'obiettivo è il
dannunzianesimo con il suo mito del superuomo,
modellato sulla filosofia di Nietzsche.
Totò si dice vero figlio del tempo nostro: lettore
attento e profondo, curioso delle nuove filosofie,
si atteggia a superuomo, lontano dalla morale,
chiaroveggente interprete del nuovo pensiero: ma
già si intravede il tono demistificatorio!
In realtà la sua vita è un esilio volontario. Lontano
dalle occupazioni sociali di carattere intellettuale
(giunta
l'ora
di
“vender
parolette”
(il suo Petrarca!...) e farsi baratto o gazzettiere…)
ha abdicato ai rapporti e ne conserva solo pochi.
occasionali, che testimoniano il cedimento ai
buoni,
semplici
sentimenti:
è
solidale,
disponibile..la sua è una bontà istintiva che si
alimenta
nell'
inettitudine.
(Non è cattivo. Manda soccorso di danaro
al povero, all'amico un cesto di primizie;
non è cattivo. E' il buono che derideva
Nietzsche…). Qualche animale un po' buffo lo
affianca nel suo giardino a testimoniare la rinuncia
ai
rapporti
di
vita.
(i suoi compagni sono: una ghiandaia rôca,
un micio, una bertuccia che ha nome Makakita...)
Makakita...
III.
La Vita si ritolse tutte le sue promesse.
Egli sognò per anni l'Amore che non venne,
sognò pel suo martirio attrici e principesse
ed oggi ha per amante la cuoca diciottenne.
Quando la casa dorme, la giovinetta scalza,
fresca come una prugna al gelo mattutino,
giunge nella sua stanza, lo bacia in bocca,
balza
su lui che la possiede, beato e resupino...
IV.
Totò non può sentire. Un lento male
indomo
inaridì le fonti prime del sentimento;
l'analisi e il sofisma fecero di quest'uomo
ciò che le fiamme fanno d'un edificio al
vento.
Ma come le ruine che già seppero il fuoco
esprimono i giaggioli dai bei vividi fiori,
quell'anima riarsa esprime a poco a poco
una fiorita d'esili versi consolatori...
V.
Così Totò Merùmeni, dopo tristi vicende,
quasi è felice. Alterna l'indagine e la rima.
Chiuso in se stesso, medita, s'accresce,
esplora,
intende
la vita dello Spirito che non intese prima.
Perché la voce è poca, e l'arte prediletta
immensa, perché il Tempo - mentre ch'io
parlo!
va,
Totò opra in disparte, sorride, e meglio
aspetta.
E vive. Un giorno è nato. Un giorno
morirà.
Il grande amore, fascino e speranza dell'età
giovanile, ha mancato le sue promesse. L'eco delle
donne fatali - di dannunziana memoria - riaccende
la parodia del topos culturale dell'amore come
sentimento unico, sofferto e passionale
Quasi si compiace Totò nel richiamare tutta la
prosaica bassezza di un rapporto occasionale; ma
il tono è ironico, letterario, smitizzante....con una
inflessione di triste ironia.
Ed ora l'introspezione, pur sempre accompagnata
dall'ironia. L'esilio nella villa, la lettura, la
solitudine, la riflessione... hanno inaridito la vita
di Totò. Egli non sa più provare sensazioni e
sentimenti vitali. Solo la poesia può rinascere
come consolazione ad un reduce dall'amore e dalla
morte. Una poesia nutrita di distacco e disincanto
che rivive con leggerezza la privata vicenda
esistenziale, ma si sottrae a compiti più alti,
pubblici, artistici ed intellettuali.
Totò è quasi appagato La sua vita si sdoppia tra la
riflessione e la poesia. La chiusura del suo rifugio
lo aiuta ad esplorare le ragioni del vivere, a
precisarsi, a comprendersi, forse anche a
realizzarsi. Ma il tutto in disparte, mentre la vita
trascorre ed il tempo si snoda inesorabile.
Anche la poesia non realizza però; affianca
semplicemente la vita: è una cosa destinata a
vivere ed a morire - ineluttabilmente - tra le altre
cose. La stessa attività poetica è del tutto
demistificata nell'attesa che si realizzi il destino di
morte.
E 1. Alle radici della noia: Lucrezio, De Rerum Natura III, 1053-1075
Dopo aver considerato che l’uomo teme terribilmente la morte, Lucrezio parla della noia, del
taedium vitae, una macigno malefico che affligge l’uomo. Sebbene questi tenti inutilmente di
evaderla, la noia è interna all’uomo, è un’angoscia esistenziale che lo tortura senza che ne capisca la
ragione. Secondo Lucrezio l’unico rimedio alla noia consiste nell’indagine razionale della natura,
perché solo chiarendo a noi stessi il nostro essere ed il nostro rapporto con il mondo che ci circonda,
potremo raggiungere l’atarassia ed essere immuni dalle angosce della vita e della morte. Il taedium
vitae è la noia e il disgusto per la vita che affligge chi vive un’esistenza che gli appare priva di
significato; Lucrezio sostiene che l’unica soluzione alla noia e al disgusto per la vita è la filosofia,
che assicura all’uomo la sapienza e la felicità.
Testo
Traduzione
Analisi
Si possent homines, proinde ac sentire
videntur
pondus inesse animo, quod se gravitate
fatiget,
e quibus id fiat causis quoque noscere et
unde
tanta mali tam quam moles in pectore
constet,
haut ita vitam agerent, ut nunc
plerumque videmus
quid sibi quisque velit nescire et
quaerere semper,
commutare locum, quasi onus deponere
possit.
exit saepe foras magnis ex aedibus ille,
esse domi quem pertaesumst, subitoque
<revertit>,
quippe foris nihilo melius qui sentiat
esse.
currit agens mannos ad villam
praecipitanter
auxilium tectis quasi ferre ardentibus
instans;
oscitat extemplo, tetigit cum limina
villae,
aut abit in somnum gravis atque oblivia
quaerit,
aut etiam properans urbem petit atque
revisit.
hoc se quisque modo fugit, at quem
scilicet, ut fit,
effugere haut potis est: ingratius haeret
et odit
Se gli uomini potessero, così
come è evidente che sentono di
avere
un peso in fondo all'animo, che
con il suo gravare li affatica,
anche conoscere da quali cause
ciò provenga e perché
un così grande macigno, per
così dire, di male alberghi nel
loro animo,
non condurrebbero così la loro
vita, come per lo più li vediamo
ora:
ognuno non sa che cosa voglia
per sé e cerca sempre
di mutar luogo, quasi potesse
deporre il suo peso.
Esce spesso fuori dal sontuoso
palazzo colui
che lo stare in casa ha tediato, e
subito ‹ritorna›,
poiché sente che fuori non si
sta per niente meglio.
Corre alla villa, sferzando i
puledri, precipitosamente,
come se avesse fretta di
prestare soccorso alla casa in
fiamme;
sbadiglia immediatamente,
appena ha toccato la soglia
della villa,
o greve si sprofonda nel sonno
e cerca l'oblio,
Si ... videmus periodo
ipotetico della realtà
sentire – noscere forte
differenza tra i
significati
animo ablativo, stato in
luogo
gravitate ablativo
strumentale
quoque congiunzione,
sottolinea la necessità
di conoscere la propria
angoscia
exit enfatico a inizio
frase
foras avverbio antico da
fore, forarum (la porta)
domi locativo
nihilo abl. arcaico di
misura
currit enfatico a inizio
frase
praecipitanter
neologismo, usato solo
qui in tutta la letteratura
latina
tectis sineddoche (per
casa)
tetigit cum iperbato
se ironia (fuggire se
stessi)
propterea, morbi quia causam non tenet
aeger;
quam bene si videat, iam rebus quisque
relictis
naturam primum studeat cognoscere
rerum,
temporis aeterni quoniam, non unius
horae,
ambigitur status, in quo sit mortalibus
omnis
aetas, post mortem quae restat cumque
manenda.
o anche parte in fretta e furia
per la città e torna a vederla.
Così ciascuno fugge sé stesso,
ma, a quel suo 'io',
naturalmente,
come accade, non potendo
sfuggire, malvolentieri gli
resta attaccato,
e lo odia, perché è malato e
non comprende la causa del
male;
se la scorgesse bene, ciascuno,
lasciata ormai ogni altra cosa,
mirerebbe prima di tutto a
conoscere la natura delle cose,
giacché è in questione non la
condizione di un'ora sola,
ma quella del tempo senza
fine, in cui i mortali devono
aspettarsi
che si trovi tutta l'età che resta
dopo la morte, qualunque essa
sia.
F 1. Il filosofo unico “medico” per l’inquietudine e l’insoddisfazione
6 Omnes in eadem causa sunt, et hi qui leuitate uexantur ac taedio assiduaque mutatione
propositi, quibus semper magis placet quod reliquerunt, et illi qui marcent et oscitantur.
Adice eos qui non aliter quam quibus difficilis somnus est uersant se et hoc atque illo
modo componunt, donec quietem lassitudine inueniant: statum uitae suae reformando
subinde, in eo nouissime manent, in quo illos non mutandi odium, sed senectus ad
nouandum pigra deprehendit. Adice et illos, qui non constantiae uitio parum lenes sunt,
sed inertiae, et uiuunt non quomodo uolunt, sed quomodo coeperunt. 7 Innumerabiles
deinceps proprietates sunt, sed unus effectus uitii, sibi displicere. Hoc oritur ab
intemperie animi et cupiditatibus timidis aut parum prosperis, ubi aut non audent
quantum concupiscunt aut non consequuntur, et in spem toti prominent. Semper instabiles
mobilesque sunt, quod necesse est accidere pendentibus. Ad uota sua omni uia tendunt et
inhonesta se ac difficilia docent coguntque, et, ubi sine praemio labor est, torquet illos
irritum dedecus, nec dolent praua, sed frustra uoluisse. 8 Tunc illos et paenitentia coepti
tenet et incipiendi timor, subrepitque illa animi iactatio non inuenientis exitum, quia nec
imperare cupiditatibus suis nec obsequi possunt, et cunctatio uitae parum se explicantis
et inter destituta uota torpentis animi situs. 9 Quae omnia grauiora sunt ubi odjo
infelicitatis operosae ad otium perfugerunt ac secreta studia, quae pati non potest animus
ad ciuilia erectus agendique cupidus et natura inquies, parum scilicet in se solaciorum
habens. Ideo, detractis oblectationibus quas ipsae occupationes discurrentibus praebent,
domum, solitudinem, parietes non fert; inuitus aspicit se sibi relictum.
10 Hinc illud est taedium et displicentia sui et nusquam residentis animi uolutatio et otii
sui tristis atque aegra patientia, utique ubi causas fateri pudet et tormenta introrsus egit
uerecundia, in angusto inclusae cupiditates sine exitu se ipsae strangulant; inde maeror
marcorque et mille fluctus mentis incertae, quam spes inchoatae suspensam habent,
deploratae tristem; inde ille affectus otium suum detestantium querentiumque nihil ipsos
habere quod agant, et alienis incrementis inimicissima inuidia (alit enim liuorem infelix
inertia et omnes destrui cupiunt, quia se non potuere prouehere); 11 ex hac deinde
auersatione alienorum processuum et suorum desperatione obirascens fortunae animus et
de saeculo querens et in angulos se retrahens et poenae incubans suae, dum illum taedet
sui pigetque. Natura enim humanus animus agilis est et pronus ad motus. Grata omnis illi
excitandi se abstrahendique materia est, gratior pessimis quibusque ingeniis, quae
occupationibus libenter deteruntur: ut ulcera quaedam nocituras manus appetunt et tactu
gaudent et foedam corporum scabiem delectat quicquid exasperat, non aliter dixerim his
mentibus, in quas cupiditates uelut mala ulcera eruperunt, uoluptati esse laborem
uexationemque. 12 Sunt enim quaedam quae corpus quoque nostrum cum quodam dolore
delectent, ut uersare se et mutare nondum fessum latus et alio atque alio positu uentilari:
qualis ille homericus Achilles est, modo pronus, modo supinus, in uarios habitus se ipse
componens, quod proprium aegri est, nihil diu pati et mutationibus ut remediis uti.
13 Inde peregrinationes suscipiuntur uagae et litora pererrantur et modo mari se, modo
terra experitur semper praesentibus infesta leuitas: "Nunc Campaniam petamus." Iam
delicata fastidio sunt: "Inculta uideantur, Bruttios et Lucaniae saltus persequamur."
Aliquid tamen inter deserta amoeni requiritur, in quo luxuriosi oculi longo locorun
horrentium squalore releuentur: "Tarentum petatur laudatusque portus et hiberna caeli
mitioris et regio uel antiquae satis opulenta turbae.... Iam flectamus cursum ad Vrbem:
nimis diu a plausu et fragore aures uacauerunt, iuuat iam et humano sanguine frui." 14
Aliud ex alio iter suscipitur et spectacula spectaculis mutantur. Vt ait Lucretius:
Hoc se quisque modo semper fugit.
Sed quid prodest, si non effugit? Sequitur se ipse et urget grauissimus comes.
(De Tranquillitate Animi, 2, 6-11; 13-15)
In questo brano Seneca si rivolge all’amico, come un maestro fa con i propri alunni. Il filosofo
tratta, in modo dettagliato lo stato d’animo dell’uomo preda della noia, del tedio, spiegando cause,
conseguenze e rimedi. Seneca si esprime in modo sentenzioso, come chi sa di avere ragione.
Temi:
Cause dell’inquietudine dell’animo: Seneca illustra in modo dettagliato i sintomi e le
manifestazioni dello stato d’animo di Anneo Sereno, che non affligge solo lui ma tutti gli uomini.
Quest’insoddisfazione di sé, secondo Seneca, non è da attribuire al fato, ma a se stessi. Infatti nasce
nel momento in cui gli uomini, che protendono troppo verso la speranza, non riescono a conseguire
ciò che desiderano. Ciò può avvenire perché i nostri desideri sono troppo deboli, oppure perché
siamo instabili, divisi tra molti obiettivi, senza riuscire a raggiungerne nessuno.
Conseguenze del fallimento dei propri propositi: Secondo il filosofo, quando ci si rende conto di
aver fallito, ci si chiude in se stessi, si ha paura di ricominciare, quindi ci si rifugia nello studio,
lontano dalle attività pubbliche, tuttavia chi è abituato a condurre una vita attiva, sopporta
malvolentieri la solitudine che deriva. Da qui nasce la stanchezza di sé e la noia, che portano
all’intolleranza verso i successi altrui.
Inutilità dei viaggi: Molti uomini, insoddisfatti della loro esistenza, cercano, attraverso viaggi
senza mete precise, di sfuggire alla noia e alla depressione, ma ben presto si accorgono che,
malgrado i numerosi spostamenti, si trovano al punto di partenza. Non è sufficiente cambiare città
per risanare il proprio spirito, è necessario cambiare se stessi, avvicinandosi alla filosofia, che
garantisce conoscenza e felicità. Immorale è la vanità della fuga (commutatio loci), ben nota a
Lucrezio e a Orazio, che ammoniva a non cercare di eludere i dolori e gli affanni spronando il
cavallo, perché la nera angoscia, dice il suo verso, siede in groppa dietro il cavaliere che spera di
farle perdere le proprie tracce.
F 2. Proposta di Lavoro
Versione: Seneca, De Tranquillitate animi, 2, 8-10
Nel secondo capitolo del De tranquillitate animi (59 d.C.) Seneca propone all'amico Sereno,
l'interlocutore del dialogo, una minuziosa casistica degli insoddisfatti, di tutti coloro che mancano di
equilibrio interiore, di chi incappa nella displicentia sui, non essere mai in pace con se stesso. Nel
brano proposto i corollari del tedium vitae vengono analizzati psicologicamente: agitazione,
incertezza, frustrazione, invidia.
Seneca,
De
tranquillitate
animi, II, 8-10
[8] Tunc illos et paenitentia
coepti tenet et incipiendi timor
subrepitque illa animi iactatio
non invenientis exitum, quia
nec imperare cupiditatibus suis
nec obsequi possunt, et
cunctatio vitae parum se
explicantis et inter destituta
vota torpentis animi situs. [9]
Quae omnia graviora sunt, ubi
odio infelicitatis operosae ad
otium perfugerunt, ad secreta
studia, quae pati non potest
animus ad civilia erectus
agendique cupidus et natura
inquies, parum scilicet in se
solaciorum
habens;
ideo
detractis oblectationibus, quas
ipsae
occupationes
discurrentibus
praebent,
domum, solitudinem, parietes
non fert, invitus aspicit se sibi
relictum. [10] Hinc illud est
taedium et displicentia sui et
nusquam residentis animi
volutatio et otii sui tristis atque
aegra patientia, utique ubi
causas fateri pudet et tormenta
introrsus egit verecundia, in
angusto inclusae cupiditates
sine exitu se ipsae strangulant;
inde maeror marcorque et ille
fluctus mentis incertae, quam
spes inchoatae suspensam
habent, deploratae tristem; inde
Traduzione di G. Viansino
Traduzione di G. Manca
[8] In quel momento, li afferra il
pentimento di ciò che hanno
intrapreso e la paura di
cominciare e si
avvicina
strisciando quella agitazione
dell'animo che non trova uscita,
poiché essi non sono in grado di
comandare i loro desideri né di
sottostarvi, e l'esitazione di una
vita che riesce troppo poco ad
esternarsi e, fra desideri frustrati,
la muffa di
un animo fatto
torpido. [9] Tutto ciò è più grave,
quando per odio verso un
insuccesso, che è costato fatica, si
sono rifugiati nella vita appartata,
nelle
solitarie
attività
intellettuali, insopportabili per un
animo proteso all'azione politica,
desideroso di agire e per natura
incapace di immobilità, che in sé
evidentemente ha troppo poche
consolazioni. Perciò, tolte di
mezzo le gioie, che proprio gli
impegni offrono a chi si muove di
qua e di là, l'animo di costoro non
sopporta la casa, la solitudine, le
pareti, contro voglia vede di
essere stato lasciato solo con sé
stesso. [10] Di qui nasce quella
noia e quella scontentezza di sé,
quel rivoltolarsi dell'animo, che
non si placa in alcun luogo, quella
sopportazione
malcontenta e
malata
del
proprio
ozio,
[8]Allora li prende il rimorso
per ciò che hanno fatto, e la
paura di rifarlo. E si insinua in
loro quell'agitazione dello
spirito che non trova via
d'uscita, perché non sanno né
dominare le passioni né
sottostarvi; ecco l'incertezza,
tipica di una vita che non può
realizzarsi, e lo squallore di un
animo intorpidito tra speranze
deluse. [9] E tutto questo si
aggrava quando l'irritazione
per qualche insuccesso li
induce a rifugiarsi nel privato e
nella solitudine degli studi,
difficili da sopportare per un
animo portato alla vita
pubblica, amante dell'azione e
irrequieto per natura, che
evidentemente non riesce a
trovare conforto in se stesso.
Perciò, venendo meno gli
stimoli che il lavoro offre a chi
ha tento da fare, risultano
insostenibili la casa, la
solitudine, le stesse pareti
domestiche e diventa un
cruccio sentirsi abbandonati a
se stessi. [10] Ne deriva quella
noia, quella scontentezza di sé,
l'inquietudine dello spirito che
non trova pace in nessun
luogo,
una
rassegnazione
penosa e amara della propria
ille adfectus otium suum
detestantium
querentiumque
nihil ipsos habere, quod agant
et
alienis
incrementis
inimicissima invidia: alit enim
livorem infelix inertia et omnes
destrui cupiunt, quia se non
potuere provehere
soprattutto quando ci si vergogna
di confessarne le cause ed il
pudore ha spinto all'interno i
tormenti: i desideri chiusi allo
stretto e senza via d'uscita, da soli
si strangolano. Di qui nasce la
tristezza ed
il torpore e
quell'ondeggiamento
di
una
volontà incerta, che le speranze
cominciate tengono in bilico,
quelle fallite nell'afflizione; di qui
la disposizione d'animo di coloro
che maledicono la loro vita
appartata e che si lamentano di
non avere personalmente niente
da fare, e l'invidia ostilissima ai
progressi altrui nella carriera:
alimenta infatti il livore un'inerzia
senza frutti, e desiderano che tutti
crollino, perché loro non furono
in grado di fare carriera.
inattività.
Tutto
questo,
soprattutto, quando si ha
pudore di confessare i motivi, e
la vergogna ci fa tener dentro
le nostre angosce; e le passioni
- rinchiuse in poco spazio e
senza via d'uscita - si
soffocano l'un l'altra. Di qui lo
stato d'animo di chi odio il
proprio isolamento e si lamenta
di non aver nulla da fare; di qui
l'invidia verso il successo
altrui.
L'inerzia
infelice
alimenta, infatti, il livore:
coloro che non sono riusciti a
realizzarsi, desiderano solo che
tutto vada male anche agli altri.
Rispondi e completa:
8)
incipiendi:analisi
invenientis: analisi
possunt: qual è il soggetto è sottinteso?
et cunctatio vitae...animi situs: cunctatio e situs sono i soggetti di questa frase coordinata alla
precedente che aveva per verbo___________
Explicantis e torpentis: analisi
9)
Quae: analisi
ubi: introduce una proposizione_____________
odio: complemento di
perfugerunt: ha per soggetto sottinteso
parum...habens: habens è participio attributivo di______________soggetto della relativa introdotta
da_______________
Natura è ablativo di______________
Solaciorum è un genitivo____________________retto da________________
detractis oblectationibus: analisi
discurrentibus: il dativo è retto da_________________
non fert...aspicit: hanno per soggetto sottinteso________________
10)
ubi: introduce due proposizioni___________________espresse dai verbi_____________
soggetto di pudet:____________________
egit: ha per soggetto__________________
inde maeror...et ille fluctus mentis incertae: il verbo sottinteso è_____________
quam...tristem: quam, oggetto di_______________________
detestantium quarentiumque: i due participi che esprimono due complementi di pertinenza
reggono rispettivamente l'oggetto______________e l'infinitiva seguita da un relativa
cupiunt: qual è il soggetto sottinteso?
potuere:analisi
Percorso suggerito:
1 - leggere il testo latino; 2 - leggere la prima traduzione con il testo a fronte ; 3 - leggere la seconda
sempre con il testo a fronte; 4 - comparare le due traduzioni; 5 - rispondere e completare le
domande di comprensione morfo-sintattica; 6 -proporre la propria traduzione; 7 - giustificare le
scelte operate .
Consegne:
A. In 2 ore elaborare una propria traduzione utilizzando un foglio protocollo diviso a metà: a
sinistra la traduzione e a destra la giustificazione delle scelte operate.
B. Sempre nelle 2 ore completare e rispondere alle domande.
Punteggio:
23 p. risposte (1 p. ogni risposta esatta); 10 p. la traduzione (3p. correttezza morfo-sintattica; 4 p.
proprietà lessicale; 3p. originalità); 10 p. la giustificazione della traduzione (3 p. coerenza
argomentativi; 4p. riflessione lessicale; 3p. riflessione morfo-sintattica)
G 1. Musica e Taedium ieri: Richard Strauss, Così Parlò Zarathustra
Così parlò Zarathustra è uno dei poemi sinfonici più noti di Richard Strauss. Composto nel 1896, è
ispirato all’omonima opera poetico-filosofica del filosofo tedesco Friedrich Nietzsche di cui prende
i titoli nei vari movimenti:
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Introduzione: la Creazione o l’avvento della nuova era del superuomo.
Degli uomini che vivono in un mondo dietro il mondo: qui gli ottoni citano il centone
gregoriano Credo in unum Deum, ovvero “Credo in un solo Dio” a rappresentare nel
massimo della sintesi la fede
Del grande struggimento: a rappresentare forse l’epoca della Sturm und Drang. Qui c’è
una citazione liturgica del Magnificat.
Delle gioie e delle passioni: gli archi la fanno da padrone. I tromboni espongono il tema
del Taedium Vitae.
Canto funebre: parte in cui prevalgono gli archi.
Della scienza: a rappresentare scientismo, positivismo, e forse a canzonare la nascente
dodecafonia, è una fuga che ha per soggetto tutte e sole le dodici note.
Il convalescente: porta a compimento la tensione del movimento precedente, poi, dopo
un brusco stacco determinato da uno “strappo” degli archi nel registro basso riparte dal
mistero per dirigersi verso l’atmosfera del brano successivo di cui anticipa ampiamente
lo spirito.
Ballo: viene ripreso il tema del Taedium Vitae trasfigurato sotto forma di valzer.
Canto del sonnambulo: coda in cui il finale viene lasciato in sospeso evitando la cadenza
sulla tonica.
G 2. Musica e Taedium….Oggi: Lucio Battisti, Una Giornata Uggiosa
Testo
Commento
UNA GIORNATA UGGIOSA
BATTISTI-MOGOL
Sogno un cimitero di campagna(1) e io là
all'ombra di un ciliegio(2) in fiore senza età
per riposare un poco 2 o 300 anni
giusto per capir di più e placar gli
affanni(3).
Sogno al mio risveglio di trovarti accanto
intatta con le stesse mutandine rosa
non più bandiera di un vivissimo tormento
ma solo l'ornamento di una bella sposa(4).
Ma che colore ha una giornata uggiosa?
Ma che sapore ha una vita mal spesa?
Ma che colore ha una giornata uggiosa?
Ma che sapore ha una vita mal spesa(5)?
Sogno di abbracciare un amico vero
che non voglia vendicarsi su di me di un
suo momento amaro(6)
e gente giusta che rifiuti di esser preda
di facili entusiasmi e ideologie alla moda.
1) Battisti attesta una condizione di insopportabile
staticità, che lo porta a desiderare di trovarsi altrove,
possibilmente un cimitero di campagna, cioè un luogo
deserto, tranquillo, silenzioso. Il tema bucolico non
muore mai.
2) L'autore desidera intensamente emulare la pacifica
esperienza di Tytire tu patulae recubans sub tegmine
fagi. La scelta di sostituire un anonimo faggio con un
ciliegio è ben emblematica: la si può spiegare in primis
nel buon odore dei fiori di ciliegio hanno un buon odore
e
in
secundis
nella
agilità
metrica.
3) Orazio diceva Vino pellite curas, ma il Battisti
preferisce la versione vergiliana dell'Omnia vincit
Bucolica, perciò sceglie questo panorama di letizia e
serenità per rasserenare il proprio animo turbato.
4) Battisti celebra la purezza matrimoniale e la
necessità di mantenerla intatta.
5) Il taedium vitae Lucreziano impera.
6) Il tema dell’amicitia nel senso oraziono del termine
irrompe nel testo quasi a vagheggiare qualcosa di
positivo di fronte all’amara realtà.
Ma che colore ha una giornata uggiosa?
Ma che sapore ha una vita mal spesa?
Ma che colore ha una giornata uggiosa?
Ma che sapore ha una vita mal spesa(5)?
Ma che colore ha?
Ma che colore ha?
Ma che colore ha?
Sogno il mio paese infine dignitoso - Ma
che colore ha?
e un fiume con i pesci vivi a un'ora dalla
casa Ma che colore ha?
di non sognare la Nuovissima Zelanda - Ma
che colore ha?
Per fuggire via da te Brianza velenosa(7) - 7) Fa discutere soprattutto il desidero di fuggire dalla
Ma che colore ha? - Ma che colore ha?
una giornata uggiosa?
Ma che sapore ha - Ma che sapore ha?
una vita mal spesa? Ma che colore ha?
“Brianza velenosa”, in aperta antitesi con l’immagine
idilliaca della storica residenza di Lucio e del suo
paroliere, stabilitisi lì fin dal 1970. E’ chiaramente un
brano di forte rottura col passato, da considerarsi come
l’epilogo della fortunata collaborazione Battisti-Rapetti.
Ma che colore ha? - Ma che colore ha?
una giornata uggiosa?
Ma che sapore ha - Ma che sapore ha?
una vita mal spesa? - Ma che colore ha?
Ma che colore ha? - Ma che colore ha?
Ma che sapore ha? - Ma che sapore ha?
- Ma che colore ha?
Ma che colore ha? - Ma che colore ha?
Ma che sapore ha? - Ma che sapore ha?
Il 1980 fa registrare la fine di quello che può essere considerato il più felice sodalizio della musica
italiana, la coppia Battisti-Mogol. Una Giornata Uggiosa è il colpo di coda del duo, che si scioglie
dopo ben 13 album realizzati a quattro mani. L’album vede nuovamente la produzione di Geoff
Westley, confermato dopo lo strepitoso successo del precedente album di Lucio, Una Donna Per
Amico, che sfiorò il milione di copie vendute. Sarà proprio la produzione dell’americano l’oggetto
delle critiche maggiori, al quale vengono imputati arrangiamenti eccessivamente elaborati
(soprattutto se confrontati con i demo originali del cantautore) e un sound marcatamente
commerciale. A mio avviso l’album è in linea con lo stile delle ultime produzioni di Battisti e va
necessariamente contestualizzato nel periodo in cui è stato realizzato: poco senso avrebbe infatti
fare paragoni con lo stile dei primi album dell’artista, legati a sonorità radicalmente differenti. Il
disco si mantiene su un buon livello qualitativo e vanta alcuni brani notevoli, confermandosi un
lavoro nel complesso uniforme e piacevole all’ascolto.
Una Giornata Uggiosa è il vertice dell’intero album: ritmo serrato, ottime percussioni e un sapiente
uso della chitarra elettrica fanno da contorno ad un testo di assoluto rilievo che merita una analisi
approfondita. E’evidente l’insoddisfazione dell’autore e la voglia di cambiamento, di trovare una
dimensione alternativa ad una attualità che è ormai inadeguata. Emblematici in tal senso i
riferimenti alla donna desiderata (Sogno al mio risveglio di trovarti accanto) ma anche la terza
strofa, che tra le righe si potrebbe anche interpretare come un accenno ai presunti attriti tra Battisti e
Mogol: “Sogno di abbracciare un amico vero che non voglia vendicarsi su di me di un suo
momento amaro“. Fa discutere soprattutto il desidero di fuggire dalla “Brianza velenosa”, in aperta
antitesi con l’immagine idilliaca della storica residenza di Lucio e del suo paroliere, stabilitisi lì fin
dal 1970. E’ chiaramente un brano di forte rottura col passato, da considerarsi come l’epilogo della
fortunata collaborazione Battisti-Rapetti.
Bibliografia Essenziale
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