Tedio e Noia tra Musica e Poesia
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Tedio e Noia tra Musica e Poesia
PRIMO CLASSIFICATO SEZIONE PROGETTO DIDATTICO Giacomo Leopardi e Torquato Tasso: Tedio e Noia tra Musica e Poesia della Prof.ssa Barbara Prevedello e Prof. Leonardo Pasqualetto Licei "E. Majorana - E. Corner", Mirano (VE) Introduzione Questo Progetto Didattico ha come finalità l’acquisizione di una maggiore consapevolezza sul valore della cultura letteraria in Italia, partendo da un’analisi dettagliata di due “grandi”: Torquato Tasso e Giacomo Leopardi. Il primo, troppo relegato nell’angusto spazio del programma del IV anno dei vari indirizzi liceali, rischia sempre di “sparire” fagocitato dalla mancanza di tempo, dall’urgenza, peraltro legittima, di concludere i programmi. Il secondo, anch’esso, pur rivestendo un ruolo capitale nello sviluppo della cultura letteraria moderna del nostro Paese, a volte viene banalizzato e liquidato nella sua “classicità”. Grazie alla collaborazione di molti colleghi del Nostro Istituto, si è riflettuto sulla possibilità che il primo facesse da “tornasole” per anticipare presso gli studenti del IV Anno alcuni aspetti “fondanti” del secondo, da riprendere poi in maniera più approfondita nella fase finale del corso di studi. La tematica presa in considerazione, grazie al preziosissimo apporto del Prof. Cristiano Gianese, è stata la Musica e il concetto di Musicalità nella poesia. In seguito agli incontri preparatori al concorso, si è sviluppata questa “direzione” di ricerca e discussione con metodologie adeguate all’età degli allievi (da quelli del IV anno a quelli del V dei vari curricula -classico, scientifico e linguistico-). Tali incontri saranno strutturati in modo da favorire la presa di coscienza dei nodi fondamentali e da fornire una serie di informazioni essenziali per affrontare il tema con un certo livello di consapevolezza. Attraverso un primo momento di sensibilizzazione (incontri pomeridiani) e in base alla risposta da parte dei ragazzi, d’intesa con i docenti si progetta la realizzazione di un percorso articolato in questo modo: Lezione pomeridiana Confronto tra alunni e docenti in uno scambio multimediale settimanale Proposte di tematiche e approfondimenti Creazione di brevi testi I materiali prodotti sono stati elaborati dagli studenti in maniera autonoma benché guidata; successivamente corretti dai docenti così da ottenere un cospicuo numero di testi, che poi, scremati, corretti e rielaborati in un incontro comune da cui sono emersi il Progetto didattico e la tesina. Sruttura del Progetto Il progetto così si articola: Per Gli studenti del IV Anno del Liceo (Classico, Scientifico, Linguistico) a) Tasso e la Musica; Tasso e la Musica come riflesso del Tedio esistenziale b) Leopardi e la Musica; Leopardi e la Musica come riflesso del Tedio esistenziale Il punto “b” rappresenta l’anticipazione per gli studenti del penultimo anno del tema “Leopardi”, da riprendere nel suo aspetto del “tedio” nell’Ultimo Anno, come spunto per agganciare una seria di autori così riassumibili: c) Baudelaire e lo Spleen → (destinazione privilegiata: Indirizzo di Studi Linguistico) d) Gozzano e la noia dell’inetto → (destinazione privilegiata: Indirizzo di Studi Classico, Linguistico e Scientifico) e) Alle Radici della noia: Lucrezio →(destinazione privilegiata: Indirizzo di Studi Classico,) f) Seneca e la filosofia contro la noia (con aggiunta di una proposta di lavoro) →(destinazione privilegiata: Indirizzo di Studi Classico) g) La Musica “vera” e il tedio ieri: Strauss →(destinazione privilegiata: Indirizzo di Studi Classico, Linguistico e Scientifico) h) La Musica “vera” e il tedio oggi: Battisti →(destinazione privilegiata: Indirizzo di Studi Classico, Linguistico e Scientifico) A1. Torquato Tasso tra Stile e “Gioco” Musicale La grandezza di Torquato Tasso e il contenuto profondo che si trova nelle sue opere sta nell’erudizione che delle sue opere fu un fattore determinante. Scrisse piú di sessantamila versi creandoli quasi tutti in forma difficilissima. Con l’analisi delle sue opere si vuole avvicinare gli studenti all’arte rinascimentale, manierista e barocca. Questo autore è assai adatto a rimettere in luce le connessioni delle cosiddette Muse gemellate. Il modo di vedere figurativo del Tasso, infatti, ci rende conosciuto ad esempio il mondo del Tintoretto, ma anche la musicalitá delle sue poesie ci fa avvicinare alla musica del Monteverdi e del Gesualdo: il suo effetto ispirativo fino a Francesco Liszt e fino alla nostra epoca é cosí naturale. Nell’opera del Tasso inoltre va riscontrato per esempio a detta di molti critici un ordine matematico, simile a quello della Divina Commedia. Il delineamento di questo riconoscimento possa interessare gli studenti, perché l’ordine matematico che si tova nelle opere artistiche, nei componimenti musicali, negli edifici viene menzionato dai tempi remotissimi; questo fenomeno non é conosciuto tanto nelle opere letterarie. Anche nelle loro strutture, tuttavia, sono parte organica. Ecco mormorar l'onde e tremolar le fronde e l'aura mattutina e gli arboscelli, e sopra i verdi rami i vaghi augelli 5 cantar soavemente e rider l'orïente: ecco già l'alba appare e si specchia nel mare, e rasserena il cielo, 10 e le campagne imperla il dolce gelo, e gli alti monti indora. O bella e vaga aurora, l'aura è tua messaggera, e tu de l'aura ch'ogni arso cor restaura.1 Dopo la documentata lettura che di questo celebre madrigale spesso antologizzato ha dato Antonio Daniele2, che informa tra l'altro delle varianti redazionali, oltre che del tema dell'alba nella lirica romanza (si pensi proprio a L'alba par umet mar...), delle suggestioni petrarchesche (il senhal l'aura/Laura ecc.) e della testura metrica; dopo i fondamentali studi di Contini sulla lingua del Petrarca (e dei petrarchisti) sul motivo dell'aura-mot e dell'aura-situation, nonché dopo l'introduzione di Trombatore all'edizione delle Rime del Tasso da lui curata, e in cui rimandava per questo testo, con pertinente correttivo, soprattutto al clima atmosferico e verbale del Purgatorio dantesco, ed infine rammentando le celebri pagine di Auerbach sul motivo biblico dell'ecce..., sembra che, a meno di voler riprodurre il già detto, non resti altro da fare che tacere e ascoltare senza ulteriori postille l'incanto musicale di questo esile e felicissimo madrigale: ma forse ancora una men che minima scheda è reperibile. Come si può rilevare fin da una prima analisi testuale diciamo “ad orecchio”, non c'è parola, sintagma o giro di frase di questa composizione che non 1 T. TASSO, Rime, a c. di B. Basile, Roma, Salerno, 1994, libro II (Rime d'amore per Laura Peperara), n. 143, vol. I, pp. 154-155. 2 A. DANIELE, Lettura di un madrigale tassesco, «Giornale Storico della Letteratura Italiana», CXLIX, 1972, pp. 349362 discenda recta via da una delle due Corone poetiche, o, almeno, che non abbia in questi una qualche cittadinanza: anzi non credo che i rapporti con i soliti due Massimi Sistemi si possano (o si debbano) né parcellizzare né gerarchizzare più di tanto (si constati il regesto in calce). Solo una forma però, a rigore, non è riscontrabile né in Dante né in Petrarca: si tratta del lemma verbale indorare del v. 11: “gli alti monti indora”. I due sommi trecentisti conoscono al più solo dorare, come in Dante3, e in Petrarca4. Il richiamo più stringente è dunque dal Petrarca più prezioso, che addirittura esibisce qui un hapax culto come il verbo inostrare5 che Tasso debitamente utilizzerà altrove nelle sue composizioni. Ma indora è, in poesia, post-trecentesco, e sembra ribadire con quel prefisso in- l'intensità del precedente “im-perla”, in un contesto fonico tutto all'insegna del surplus acustico: si prenda la continuata anafora – quasi un “pedale”, un “bordone” – degli e paratattici e degli ecco ritornellanti, si ammetta l'esornatività a-semantica di molta aggettivazione quale “verdi rami” (v. 4), “vaghi augelli” (v. 4), ma anche “vaga aurora” (v. 12) ecc., e si ausculti, infine, la nimia repercussio della “triade” fonica or/aur/ar, che occorre ben 17 volte nel giro di 14 versi di cui 10 settenari, dunque su sole 114 sillabe, e quindi, in percentuale, con una media impressionante di una apparizione ogni 6/7 sillabe (va sottolineata l'oltranza fonica della chiusa: “ch'ogni arso cor restaura”). Tutto ciò non si giustifica altro che in termini di mera ricerca di musicalità, di alleggerimento (la prima redazione era meno pronunciata in tal senso, priva di anafore e prevalentemente endecasillabica), di timbriche dominanti, di ridondanze ricche su motivi e materiali già normati (in quanto provenienti dal sincretismo binato della tradizione più alta) e liberamente componibili e sovrapponibili, semmai appena dilatabili o affinabili. Né “indora” (qui in sinalefe) è necessitato dal rispetto metrico rispetto all'omosillabico “dora”, quanto semmai dal parallelismo (la poesia come arte dei parallelismi?) che instaura, lo ripeto, con l'”imperla” del verso precedente, anch'esso in sinalefe e omotetico (cioè dopo la cesura di 5a) ad esso. Fatto sta che Tasso, come è noto, nei Discorsi sull'arte poetica, aveva acutamente teorizzato sui composti verbali parasintetici nella Commedia, definendoli nomi «fatti» o «finti», cioè d'autore, coniati ex novo, e recava come esemplificazione proprio termini come “intuarsi”, “immiarsi”, “imparadisare”, “insemprarsi” ecc., per cui evidentemente confidava nelle possibilità onomatopeicamente espressive, e forse espressionistiche, di sovraccarico, del prefisso in-. E in ciò va leggermente oltre Dante, come si è visto, utilizzando un verbo, indorare, che, così espanso, concorre al “largo” degli ultimi versi, e accostato ad altro analogo composto, vibra e risuona come un armonico. L'esame dunque dei madrigali del Tasso consente di far emergere certi caratteri dello stile e del contenuto, che sono tutti tassiani, ma anche già secentisti, come la ricerca di ripetuta musicalità, la concatenazione di metafore e la metafora concettosa, che “stupisce”, la metafora come gioco speculare che rivela un contatto ambiguo col mondo, in cui si inseguono più labili parvenze che cose certe. Il mondo appare dunque un “gioco di specchi”: non detto così ideologicamente, ma “cantato” così nei modi stilistici, formali. Il madrigale dice anche che l'arte diviene - seicentescamente - gioco; serio sì, sigillo di un'epoca pure. Ma gioco. Cosa c’è, invero, cosa più giocosa della musica stessa, che nel suo campo semantico, ad esempio nella lingua inglese, rientra proprio nel “giocare”? 3 Cf. Rime CIII (Così nel mio parlar voglio esser aspro) 64: «... ne' biondi capelli / ch'Amor per consumarmi increspa e dora» (e anche, nella forma participiale però, Inf. XXIII 64 e Par. XVI 102) 4 Cf. RVF CLI 8 «... i suoi strali Amor dora et affina», e, certo quest'ultimo caso vero e proprio innesco della tassiana coppia imperla e indora dei vv. 10-11 («e le campagne imperla il dolce gelo / e gli alti monti indora»), RVF CXCII 1-5: «Stiamo, Amor, a veder la gloria nostra, / cose sopra natura altere et nove: / vedi ben quanta in lei dolcezza piove, / vedi lume che 'l cielo in terra mostra, / vedi quant'arte dora e 'mperla e 'nostra / l'abito electo...». 5 “imporporare”. A2. La poesia e la personalità di Tasso tra romantici e malinconici languori musicali Nella sua famosissima Storia della letteratura italiana6, Francesco De Santis dice del Tasso: Nella sua vita ci è una poesia martire della realtà, vita ideale nell'amore, nella religione, nella scienza, nella condotta, riuscita a un lungo martirio coronato da morte precoce. Fu una delle più nobili incarnazioni dello spirito italiano, materia alta di poesia, che attende chi la sciolga dal marmo, dove Goethe l'ha incastrata, e rifaccia uomo la statua (p.358). A giudicare da queste poche righe, si direbbe che il Goethe abbia fatto un torto grandissimo al Tasso, mummificandolo nel suo dramma Torquato Tasso e che il De Santis rimproveri il genio tedesco e dopo “rifaccia uomo la statua”. Basta tuttavia leggere con attenzione la cinquantina di pagine che egli dedica al poeta sorrentino nella sua Storia della letteratura italiana, per capire che il suo lungo saggio è molto più critico di quanto lo sia il dramma di cui sopra. Si vuole infatti sottolineare che al povero grande Torquato, nel dramma goethiano viene riservato un trattamento (e ciò per bocca di Antonio, uno dei protagonisti) analogo a quello che gli riserva il De Santis, secondo il quale ci troviamo di fronte ad un opera a due dimensioni: è alta, è larga, ma manca di profondità in ogni senso. “L'intreccio - dice il De Santis - è tutto fondato su questo antagonismo: passione contro ragione. Egli era un sincero credente e pugnavano in lui due uomini: il pagano e il cattolico”. Secondo De Santis il Tasso più che un pensatore fu un erudito, e nel momento in cui la ragione dell'uomo cominciava a scrutare i misteri dell'universo (vedi Copernico), lui rimaneva lì, fossilizzato in quel punto di transizione storico senza riuscire a scrutare nel nuovo mondo, e stazionando su vecchi modelli: “un mondo non riconciliato di elementi vecchi e nuovi, gli uni che si trasformano, gli altri ancora in formazione”7. Il suo carattere, secondo il De Santis, era anche figlio della sua meridionalità: …gli abbonda quel senso della musica e del canto, quel dolce fantasticare dell'anima tra le molli onde di una melodia malinconica insieme e voluttuosa, che trovi nelle popolazioni meridionali, sensibili e contemplative.8 In realtà, la poesia del Tasso va letta e ascoltata come quella di un pianista che mira a far risaltare la sua tecnica esecutiva. La sua è una poesia che sfiora la pelle e che tocca l'anima, unita a una religiosità che tuttavia manca completamente di quella ricerca interiore tipica del mistico o del santo. La vita che lui propone nella sua opera nulla ha a che vedere con la realtà, ma trascende nelle note della musica che da essa traspare verso un infinito senso di malinconia. La sua grande maestria di poeta e la grande musicalità che riesce a riversare nella sua poesia è un mondo interiore…eco de' languori, delle estasi e de' lamenti di un'anima nobile, contemplativa e musicale 6 F. DE SANTIS, Storia della Letteratura Italiana, Sansoni, 1965 F. DE SANTIS, id., p.540 8 F. DE SANTIS, id., p.552 7 come in questo caso lo stesso De Santis osserva in maniera opportuna, senza farsi fuorviare da suggestioni goethiane9. Non vanno assolutamente inoltre dimenticate le parole dello stesso De Santis: La letteratura italiana di quel periodo diviene sempre più una forma convenzionale separata dalla vita, un gioco dello spirito senza serietà, perciò essenzialmente frivolo e rettorico…Di questa tragedia Torquato Tasso è il martire inconscio L'Italia non aveva un mondo esteriore: ecco perché la poesia non poteva avere esteriorità! Ora, Goethe sapeva tutte queste cose, e la sua sensibilità di poeta, il suo acume psicologico, la sua grande conoscenza di sé e dell'uomo in generale gli permettevano di mettere a nudo l'anima dello sventurato poeta italiano toccato dalla follia. Le parole che mette in bocca al personaggio di Antonio vanno lette come una sorta di critica ad un eccessivo idealismo che sganciava il Tasso da ogni realtà. Non è tuttavia necessario essere severi in questo modo con il Tasso: la sua poesia, infatti, come si è già detto, va letta e ascoltata come se si ascoltasse musica. L'uomo Tasso, nelle parole di Goethe medesimo, quello da lui rappresentato, è un tentativo di liberarsi "dei ricordi e delle afflizioni legati alle impressioni e ai ricordi di Weimar10, che ancora mi rimanevano appiccicati addosso"11. Goethe, al critico francese Jean Jaques Ampère che affermava esserci del Werther nel Torquato Tasso, dava dunque ragione. Quando Goethe nel 1786 giunse a Ferrara fu colto da una sorta di malumore: Avevo la vita di Tasso, avevo la mia vita, e mescolando due personaggi così singolari con le loro peculiarità mi creai l'immagine di Tasso, al quale contrapposi, a mo' di contrasto prosaico, Antonio…12 Ma la verità è che l'idea della tragedia era scaturita in lui in seguito al contrasto fra vita attiva e vita contemplativa che esacerbava il suo animo. Goethe, della vita del Tasso, sottolinea il periodo ferrarese, durante il quale veniva accettato ed esaltato il poeta e veniva respinto l'uomo. Il personaggio di Antonio, quindi, non sembra giudicare il poeta in generale, ma quel poeta, il Tasso. Approfondendo ancora la figura del Tasso, sembra necessario attingere a ciò che di lui e della sua opera dice il Leopardi. Il De Santis ha letto bene l'opera di Giacomo Leopardi, e molte cose da lui dette sono frutto di queste letture, anche se non espressamente citate. Va sicuramente indicato qualche passo a conferma di quanto detto. Nel suo Zibaldone di Pensieri Leopardi cita Tasso una sessantina di volte. Ne parla nella Canzone Ad Angelo Mai. Gli dedica un dialogo nelle sue Operette Morali: Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare. Ne parla in Memorie e disegni 9 F. DE SANTIS, id., p.555. Il 7 Novembre del 1775 Goethe giunse a Weimar come precettore del figlio del Duca di Sassonia-Weimar-Eisenach, un tipico tirannello tedesco del tempo, che governa uno staterello formato unicamente dalla stessa Weimar, cittadina di seimila abitanti, dalla città universitaria di Jena e da alcune “ville di delizia”. I primi dieci anni trascorsi a Weimar, caratterizzati da una certa povertà nella produzione poetica, mostrarono soprattutto questa sua lenta trasformazione. Vi furono opere ancora improntate alla sua poesia precedente, poesia nella quale l'anima del poeta lentamente si sostituiva al cuore capriccioso che aveva dominato la produzione precedente. Nel 1786, all’insaputa di tutti, fuggì in Italia. 11 S. SBARRA, J. W. Goethe, Il Teatro, Mondadori, vol. 19 p. 7. 12 S. SBARRA, id., p. 9. 10 letterari, ove approfondisce la condizione presente delle lettere italiane13e nell'Epistolario. Queste le citazioni più importanti. …O Torquato, o Torquato, a noi l'eccelsa tua mente allora, il pianto a te, non altro, preparava il cielo. Oh misero Torquato! Il dolce canto Non valse a consolarti o a sciorre il gelo Onde l'alma t'avean, ch'era sì calda, cinta l'odio e l'immondo livor privato e de' tiranni… Al tardo onore non sorser gli occhi tuoi; mercé, non danno, l'ora estrema ti fu… Torna torna fra noi, sorgi dal muto E sconsolato avello, se d'angoscia sei vago, o miserando esempio di sciagura…. Chi stolto non direbbe il tuo mortale Affanno anche oggidì, se il grande e il raro Ha nome follia. Né livor più, ma ben di lui più dura La noncuranza avviene ai sommi…14 In tali versi va colta tutta la compassione che il sommo romantico manifesta per il povero ed infelice Torquato Tasso, onorato postumo. Pur criticandolo altrove, qui lo incorona “grande” e “raro”. Ma come non cogliere nella "noncuranza dei sommi" anche un fatto autobiografico? I grandi vengono apprezzati solo dopo, e Leopardi sapeva di esser grande, così come il Tasso di sé. Quindi la compassione di Leopardi va riferita all'uomo e al poeta Tasso, ed all'uomo e poeta Leopardi. Emanuele Severino15 prova, per esempio, che il nichilismo di Nietzsche non è originale perché si rifà a quello leopardiano che il filosofo tedesco ben conosceva, vedendo a sua volta emergere tale nichilismo in embrione dalla concezione della noia e del taedium, nati proprio dall’amore, benché non sempre incondizionato, da parte del poeta recanatese per il Tasso. Nel Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare la compassione del Leopardi per lui e per se stesso è ancora più evidente: Torquato ha nostalgia di Eleonora e il Genio gli promette che gliela farà incontrare nel sogno, dopo avergli anche detto che le donne vanno troppo idealizzate, perché non sono angeli ma umani e che fra le cose reali e le cose sognate non c'è alcuna differenza, essendo anzi quelle sognate di gran lunga più dolci e più belle di quanto possano mai essere quelle reali. Il Genio spiega poi così il piacere: nient’altro che …un subbietto speculativo, e non reale; un desiderio, non un fatto; un sentimento che l'uomo concepisce col pensiero, e non prova; o per dir meglio, un concetto e non un sentimento. 13 Così facendo dà modo al De Santis di attingere per la sua Storia della Letteratura Italiana (basta andare alla pagina 368 del volume primo delle sue opere edite (op. cit) e leggere il punto 4 Della condizione presente delle lettere italiane. 14 G. LEOPARDI, I Canti, Mondadori, 1985, pag. 8. 15 E. SEVERINO, Il nulla e la poesia - alla fine dell'età della tecnica: Leopardi, Rizzoli, 1990, passim. Insomma il Genio-Leopardi cerca di spiegare al povero Torquato che la felicità è irraggiungibile e che pertanto la vita, venendo vissuta ponendo essa qual fine irraggiungibile, diventa violenta. Essa quindi "è composta e intessuta, parte di dolore, parte di noia", e contro la noia il rimedio è dato dal sonno, dall'oppio e dal dolore. Alla fine, quando il Genio si accorge che Torquato è quasi preso dal sonno, mentre si allontana gli dice (e qui il nichilismo leopardiano è straripante): …me ne vo ad apparecchiare il bel sogno che ti ho promesso. Così, tra sognare e fantasticare, andrai consumando la vita; non con altra utilità che di consumarla. E quando Torquato gli chiede dove egli abiti, quello risponde: Ancora non l'hai conosciuto? In qualche liquore generoso. Con queste parole finisce il dialogo. Leopardi giudica filosoficamente la vita umana “noia” dalla sua disperazione, dalla sua infelicità, dalla sua ipersensibilità, dalla sua delicatezza, dalla sua bontà contrapposta alla cattiveria umana. B 1. Leopardi e la Musica In Zibaldone 1935-3616, Leopardi associa gli effetti della luce a quelli del suono, entrambi, dice, ricreano e dilettano per natura, ma questo diletto non sarebbe né grande né durevole se non dipendesse dalla combinazione della materia di cui è composta l’opera d’arte, i suoni per la musica, i colori per la pittura, i marmi per la scultura. Nel caso della musica, il diletto non deriva dalla “bellezza” della composizione, visto che il giudizio sul bello è estremamente relativo e variabile da soggetto a soggetto, ma solo dalla “piacevolezza” che il suono riesce a infondere in maniera naturale e istintiva. Per spiegare come il diletto nella musica provenga dal suono e non dall’armonia, il poeta ricorre al confronto con odori e sapori, che non è un confronto casuale, ma fa parte di quella che è stata definita una vera e propria leopardiana teoria degli organi di senso, nell’uomo e negli animali, basata sull’individuazione di motivi e intuizioni presenti nello Zibaldone che si spingono ben oltre l’interesse poetico ed estetico, fino ad anticipare alcuni punti dei moderni studi scientifici sui sensi.17 In particolare, la corrispondenza tra suoni e odori equivale, per Leopardi, alla capacità che entrambi hanno di risvegliare l’immaginazione e il ricordo, di sollecitare sensazioni che destano quel desiderio di infinito destinato a rimanere perennemente insoddisfatto: All’inafferrabilità del piacere, e quindi della felicità, sopperisce la facoltà immaginativa che, sollecitata da un suono, da un odore, da un oggetto o da un luogo ignoto, da un ostacolo materiale che restringe la vista, o viceversa, da una veduta senza confini, permette alla mente di procurarsi in modo fittizio il piacere, proiettando se stessa verso mete che non esistono nella realtà e che perciò possiedono il fascino dell’infinito, e facendo sì che si immerga in un piacevole stato di trasporto, di estasi, atto a favorire le condizioni interiori del sentimento e le immagini da cui nasce la poesia: L’anima s’immagina quello che non vede, che quell’albero, quella siepe, quella torre gli asconde, e va errando in uno spazio immaginario, e si figura cose che non potrebbe, se la sua vista si estendesse da per tutto, perché il reale escluderebbe l’immaginario […] L’immaginazione era la componente principale della poesia degli antichi, ma da quando la scoperta del vero ha dissolto le illusioni, la fantasia, le ingenue credenze popolari, e quant’altro potesse favorire l’immaginazione, che cosa tocca rappresentare, secondo Leopardi, al poeta o all’artista moderno nelle proprie opere d’arte? Nel formulare la propria definizione di Belle Arti, il poeta parte dall’affermazione del principio che tutte le opere d’arte devono aver come oggetto il «Vero» che si trae esclusivamente dall’imitazione della natura: Non il Bello ma il Vero o sia l’imitazione della natura qualunque, si è l’oggetto delle Belle Arti […]. Può apparire contraddittorio il fatto che Leopardi, da una parte, riconosca come vera poesia solo quella nata all’insegna dell’immaginazione, dall’altra parte, indichi come oggetto delle opere d’arte il Vero che rappresenta l’opposto; ma ciò a cui lui si riferisce non è il vero esplorato fino in fondo e reso arido dalla ragione, e non è nemmeno la Verità superiore che Winckelmann contrappone al Vero scientifico attraverso il concetto di Bello ideale, il Vero a cui il poeta si riferisce è il reale, così come appare sotto ai nostri occhi, comprendente il bello e il brutto, poiché ogni distinzione a proposito è artificiale, creata su misura dall’uomo, e non dalla natura, e perciò ha un valore soggettivo, mutevole, relativo. L’effetto del suono è uno degli espedienti che il poeta utilizza nelle sue rappresentazioni poetiche per conciliare la realtà con l’immaginazione. Senza attribuire la 16 L’edizione di riferimento è G. LEOPARDI, Zibaldone di pensieri, edizione critica e annotata a cura di G. Pacella,Garzanti, Milano 1991, 3 voll., n. 1537. 17 Cf. Introduzione a G. Leopardi, Sulla musica, a cura di F. Foschi, Francisci, Abano Terme, 1987, pp. 16-17. provenienza del suono a cause misteriose e metafisiche, e considerandolo, al contrario, un fenomeno naturale e fisico che ha, tuttavia, il potere di evocare immagini poetiche, Leopardi associa gli effetti prodotti dal suono che funziona, in questo caso, come una sorta di catalizzatore nel rapporto tra la realtà e la sua rappresentazione poetica, alla sua idea di infinito: Quello che altrove ho detto sugli effetti della luce o degli oggetti visibili, in riguardo all’idea dell’infinito, si deve applicare parimente al suono, al canto, a tutto ciò che spetta all’udito. È piacevole per se stesso, cioè non per altro, se non per un’idea vaga ed indefinita che desta, un canto (il più spregevole) udito da lungi o che paia lontano senza esserlo, o che si vada appoco appoco allontanando, e divenendo insensibile o anche viceversa (ma meno) o che sia così lontano […], che l’orecchio e l’idea quasi lo perda nella vastità degli spazi; un suono qualunque confuso, massime se ciò è per la lontananza; un canto udito in modo che non si veda il luogo da cui parte; un canto che risuoni per le volte di una stanza ec. Dove voi non vi troviate però dentro; il canto degli agricoltori che nella campagna s’ode suonare per le valli, senza però vederli, e così il muggito degli armenti ec. […]. È piacevole qualunque suono (anche vilissimo) che largamente e vastamente si diffonda, […], massime se non si vede l’oggetto da cui parte […]18. E più avanti, in questo stesso passo dello Zibaldone datato 16 ottobre 1821, Leopardi teorizza le condizioni di un’“ottica idillica”, passando subito dopo all’individuazione di un’“acustica idillica”, fondata sulla percezione dei suoni e dei canti come produttori di sensazioni vago-indefinite. Si giunge allora alla conclusione che il fragore del tuono, lo stormire del vento, l’echeggiare di tutti gli altri suoni di cui non si vede la fonte, diventano immagini bellissime in poesia e tanto più quanto più negligentemente son messe, e toccando il soggetto, senza mostrar l’intenzione per cui ciò si fa, anzi mostrando d’ignorare l’effetto e le immagini che son per produrre19. Per spiegare come il diletto nella musica provenga dal suono e non dall’armonia, il poeta ricorre al confronto con odori e sapori, che non è un confronto casuale, ma fa parte di quella che è stata definita una vera e propria leopardiana teoria degli organi di senso, nell’uomo e negli animali, basata sull’individuazione di motivi e intuizioni presenti nello Zibaldone che si spingono ben oltre l’interesse poetico ed estetico, fino ad anticipare alcuni punti dei moderni studi scientifici sui sensi. In particolare, la corrispondenza tra suoni e odori equivale, per Leopardi, alla capacità che entrambi hanno di risvegliare l’immaginazione e il ricordo, di sollecitare sensazioni che destano quel desiderio di infinito destinato a rimanere perennemente insoddisfatto: Gli odori sono quasi un’immagine de’ piaceri umani. Un odore assai grato lascia sempre un certo desiderio forse maggiore che qualunqu’altra sensazione. Voglio dire che l’odorato non resta mai soddisfatto seppur mediocremente: e bene spesso ci accade di fiutar con forza, quasi per appagarci, e per render completo il piacere senza potervi riuscire. Nella musica egli distingue due componenti: il suono, che rappresenta la parte «principale e più essenziale» della musica, e l’armonia che esprime il relativo. L’armonia produce un effetto subordinato alla convenienza, condizionato, cioè, dal gusto e dai tempi, il suono, che esprime l’assoluto, produce un effetto immediato, non solo sull’animo umano ma anche su alcuni animali: 18 19 Zib. 1927-28. Zib. 1929-30. L’effetto naturale e generico della musica in noi, non deriva dall’armonia, ma dal suono, il quale ci elettrizza e scuote al primo tocco quando anche sia monotono. Questo è quello che la musica ha di speciale sopra le altre arti, sebbene anche un color bello e vivo ci fa effetto, ma molto minore. Questi sono effetti e influssi naturali, e non bellezza. […] Ma l’armonia è bellezza. La bellezza non è assoluta, dipendendo dalle idee che ciascuno si forma della convenienza di una cosa con un’altra […] non è la musica come arte, ma la sua materia cioè il suono che farà effetto su certe bestie […].. Ora, il fatto che la musica possa produrre un certo effetto anche sugli animali, è di per sé prova che il diletto proviene dal suono, che agisce in maniera immediata sui loro sensi, senza che essi abbiano percezione dell’idea umana di convenienza o di bello. Viceversa, il canto degli uccelli, indipendentemente dall’armonia, è in grado di esprimere sentimenti e stati d’animo, e di suscitare effetti di profonda commozione nell’animo umano, come dimostra il canto dell’usignolo nell’episodio di Orfeo20, citato nella pagina dello Zibaldone datata 17 ottobre 1820: Quell’usignolo di cui dice Virgilio nell’episodio di Orfeo, che accovacciato su d’un ramo, va piangendo tutta notte i suoi figli rapiti, e colla miserabile sua canzone, esprime un dolor profondo, continuo, ed acerbissimo, senza moti di vendetta, senza cercare riparo al suo male, senza proccurar di ritrovare il perduto ec. è compassionevolissimo, a cagione di quell’impotenza che esprime […]21. Il suono è alieno da ogni convenienza, e in questo è paragonabile con la bellezza umana i cui effetti appartengono alla sfera del piacere e non quella del bello, infatti, come una «leggera stonazione» in musica non renderà meno piacevole l’effetto all’orecchio del volgo22, così una sproporzione nella forma umana non basterà a determinare la bruttezza di una persona. In definitiva, se tutte le altre arti per dilettare o per commuovere devono riuscire ad imitare la natura il più perfettamente possibile, solo la musica, per magistero della natura, ha un potere di presa diretta sull’animo umano e su quello degli animali, perché il suo privilegio legato al suono, che è un elemento naturale e primitivo, e che la rende l’arte per eccellenza, superiore a tutte le altre arti, è proprio quello di toccare le corde del sentimento umano in maniera immediata e al di là di qualsiasi contingenza: ….le altre arti imitano ed esprimono la natura da cui si trae il sentimento, ma la musica non imita e non esprime che lo stesso sentimento in persona, ch’ella trae da se stessa e non dalla natura […]23. E in modo più o meno analogo ebbe a esprimersi anche Gioacchino Rossini, in una conversazione del 1836 con il suo amico e biografo bolognese Antonio Zanolini, che così ne riferisce il contenuto: L’espressione della musica non è quella della pittura e non consiste nel rappresentare al vivo gli effetti esteriori delle affezioni dell’animo, ma nell’eccitarle in chi ascolta. E questa è la possanza del linguaggio il quale esprime e non imita […]24. 20 Orfeo, figlio del re tracio Eagro e della Musa Calliope, fu il più famoso poeta e musicista mai esistito. Apollo gli donò la lira e le Muse gli insegnarono a usarla, e non soltanto egli ammansì le belve, ma anche gli alberi e i massi si mossero e lo seguirono, incantati dal suono della musica […]. Cf. R. GRAVES, I miti greci, Longanesi, Milano, 1983, p. 99). 21 Zib. 281. 22 Zib. 1663. 23 Zib. 79. B 2. L’Infinito: infinito verso musicale Uno dei punti centrali della poetica leopardiana è costituito dall’idea di "infinito"; con esso s’intende tutto ciò che è illimitato, dunque una dimensione radicalmente opposta a quella umana, caratterizzata proprio da un'insuperabile finitezza. Sul piano delle immagini, quell’idea orienta la poesia leopardiana verso la visione degli spazi celesti, dello sterminato pulviscolo di astri e mondi in esso presenti. Ma essa esercita una considerevole influenza anche sul piano stilistico, inducendo ad un uso massiccio di quei termini "vaghi" e "indefiniti" di cui il Leopardi asseriva la particolare poeticità; quanto più larga e tendenzialmente illimitata è infatti la visione, tanto meno precise e determinate devono essere le parole impiegate per esprimerla. D’altro canto, anche le parole riferite a contenuti non cosmici finiscono nel poeta per assorbire una traccia della stupefazione e dell’annichilimento da lui provati di fronte all’infinito. Va però detto che al cospetto dell’infinito l’uomo è costretto anche a prendere amara coscienza della propria inadeguatezza; creatura finita per eccellenza, egli potrà infatti solo intuire, ma mai compiutamente razionalizzare ed esprimere l’illimitatezza di ciò che è infinito. Alla sua portata è tutt’al più l’ "indefinito", ovvero una pallida controfigura umana di quell’infinità sempre sfuggente. Ciò spiega perché anche in questo caso il poeta provi quel misto di piacere e angoscia così caratteristico del suo rapporto col mondo. L’Infinito (I Canti XII) Sempre caro mi fu quest’ermo colle, e questa siepe, che da tanta parte dell’ultimo orizzonte il guardo esclude. Ma sedendo e mirando, interminati spazi di là da quella, e sovrumani silenzi, e profondissima quiete io nel pensier mi fingo, ove per poco il cor non si spaura. E come il vento odo stormir tra queste piante, io quello infinito silenzio a questa voce vo comparando: e mi sovvien l’eterno, e le morte stagioni, e la presente e viva, e il suon di lei. Così tra questa immensità s’annega il pensier mio; e il naufragar m’è dolce in questo mare. VV. 2-3: e questa siepe, che da tanta parte / dell’ultimo orizzonte il guardo esclude Il colle e la siepe sono il punto d’arrivo di un intrattenimento nella memoria, ma anche il punto di partenza per una meditazione sull’infinito. Ed è su questi che lo sguardo cessa d’essere fisico, e si dilata a tutti i sensi, si disaliena dalla sa specifica separatezza per diventare percorso "interiore". Il limite, sintomo dell’assenza, è condizione perché l’assenza si trasformi in una presenza simbolica, e si popoli di forme, d’evocazioni, di memoria. Ed è sintomo del desiderio d’infinito, sintomo della sua non colmabilità; non limite al desiderio, ma sintomo del suo sconfinamento, della sua 24 A. ZANOLINI, Biografia di G. Rossini, Zanichelli, Bologna, 1875, p. 287. illimitatezza. Il leopardiano “desiderio illimitato” paradossalmente è rappresentato sulla scena da un limite, che si presenta come caro alla memoria. E’ il confine che definisce le possibilità materiali del piacere (il piacere dello sguardo), ma che esclude il vero confine. L’assenza del confine produce l’illusione dell’infinito: La qualche cosa ci diletta perché l’anima non vedendo i confini, riceve l’impressione i una specie d’infinità, e confonde l’indefinito coll’infinito, non però comprende ne concepisce effettivamente nessuna infinità. Anzi nelle immaginazioni le più vaghe e indefinite, e quindi le più sublimi e dilettevoli, l’anima sente espressamente una certa angustia, una certa difficoltà, un certo desiderio insufficiente, una impotenza decisa di abbracciar tutta la misura di quella sua immaginazione, o concezione o idea. V. 4:Ma sedendo e mirando… L’esclusione dello sguardo dall’indefinito orizzonte istituisce il viaggio verso il luogo del desiderio: ma rovescia il limite nella possibilità d’un altro sguardo, dischiude il campo dell’immaginazione, ch’è il solo nel quale il desiderio dell’infinito può prendere figura, e quasi movimento di immagini, diventare teatro di conflitti, identificarsi col desiderio del piacere, e dunque sperimentare lo scarto tra desiderio e piacere. In questa apertura l’ultimo orizzonte non è più l’al di là fisico della siepe, ma è la scena sulla quale il desiderio d’infinito cerca una risposta nell’esperienza simbolica dell’infinito, cioè nella liberazione della “forza immaginativa”. Il piacere dell’immaginazione appare come uno dei “piaceri possibili”. Il tipo di questo bello e di queste idee non esiste nel reale, ma solo nella immaginazione, e le illusioni sole ce lo possono rappresentare, né la ragione ha un potere di farcelo. Il desiderio del piacere è “illimitato” la qual cosa non è in opposizione al rapporto che lo sguardo istituisce con limite, con “una veduta ristretta e confinata in certi modi”,: il rovesciamento del limite riporta sul piano della immaginazione il desiderio ostacolato: La cagione è la stessa, cioè il desiderio dell’infinito, perché allora in luogo della vista, lavora l’immaginazione il fantastico sottentra al reale. VV. 4-8: Interminati / spazi di là da quella e sovrumani / silenzi, e profondissima quiete / io nel pensier mi fingo; ove per poco / Il cor non si paura. Lo sguardo fisico e lo sguardo dell’immaginazione sono unificati nel pensiero, che è il luogo dove la finzione diventa discorso, dove la rappresentazione ha come solo destinatario il soggetto, che è richiamato con forza (io…mi), presagendo quasi il suo smarrimento. La ricerca di un eccesso, per negazione, del limite è anche detta dalla correzione di un infinito (che chiudeva il verso aperto con Ma sedendo e mirando) con un indeterminato: la parola infinito cancellava la funzione di negazione detta dall’in, per via dell’assunzione del termine infinito nell’ordine della categorie e nel linguaggio filosofico; e questa cancellazione è rifiutata da Leopardi perché avrebbe annullato di colpo un procedimento: l’esperienza dell’eccesso attraverso il passaggio (e la permanenza) del limite. La riduzione del senso di dilatazione che avrebbe dovuto scontare abbandonando la parola infinito (che diceva, immediatamente, il tema dell’idillio, e nominava il movimento di fondo: il desiderio d’infinito) è compensata poi dall’ulteriore variante accettata nell’edizione Starita del ’35 dove interminato / Spazio diventa interminati / Spazi: il plurale assicura lo sconfinamento, e dice già lo spaurimento. La presenza-assenza della siepe in questo avventurarsi nell’eccesso (di là da quella) corrisponde alla presenza del’io nella finzione. La stessa esperienza dell’infinito non è dicibile se non dopo, ma come illusione, quando il momento della scrittura è già stata, o ci si illude che sia già stata. Il piacere della scrittura è forse il solo piacere di cui si ha esperienza mentre si scrive. Nonostante il desiderio d’infinito …l’animo umano o di qualunque vivente non è capace di un sentimento il quale contenga la totalità dell’infinito25. L’impossibilità di questo “sentimento” è tutt’uno con l’assenza del piacere, dell’esperienza del piacere: e anche il piacere della speranza, non è mai piacere presente, nemmeno in quanto speranza26. Il passaggio avviene nel cuore del testo e nel mezzo d’un verso: la congiunzione in apertura annuncia il sentiero dello smarrimento, dove l’infinito coincide col nulla, e il piacere con il naufragio del pensiero. VV. 8-11: E come il vento / Odo stormir tra queste piante, io quello / Infinito silenzio a questa voce / vo comparando Gli elementi della finzione – spazi, silenzi, queste – sono riunificati in infinito silenzio (e questa volta la parola infinito resiste a possibili varianti, perché non deve incorporare il senso del limite): questa riunificazione nella negazione del suono, nella leopardiana meditazione sul piacere, non è legato al bello, ma al piacevole: più volte nello Zibaldone il linguaggio musicale sarà riportato al di qua dell’estetica, nel territorio appunto del piacere. Il piacere del suono deriva sì dalla molteplicità delle dette sensazioni indefinite ecc. sì dall’inclinazione del legame che la natura arbitrariamente ha posta fra le sensazioni del suono o canto e l’immaginazione, dalla facoltà che ha dato loro di afficere piacevolmetnte l’orecchio… Anche le osservazioni dello Zibaldone sulla lontananza, essenza del vago e dell’indefinito sono sempre connesse al suono. Spazio e tempo sono gli "ultimi" orizzonti che comprendono il corpo, ma la loro massima dilatazione, come infinito e come eterno, se trova rispondenza nel desiderio che appartiene al corpo, è anche fonte d’angoscia, per il conflitto permanente tra brevità del proprio tempo e illimitatezza del tempo “al di fuori di sé”, tra limitatezza del proprio spazio e sconfinamento dello spazio “al di fuori di sé”. Tuttavia questo conflitto, che non è cancellato, come nella dottrina epicurea del piacere, è però spostato nell’immaginazione, non essendo il tempo "una cosa", come dirà nel dicembre del ’26 un frammento dello Zibaldone: Il tempo […] è un accidente delle cose, e indipendentemente dalla esistenza delle cose è nulla, è un accidente di questa esistenza; o piuttosto è una nostra idea, una parola Medesimamente delle spazio…. Sicché, come il tempo è un modo o un lato del considerar l’esistenza delle cose, così lo spazio non è altro che un modo, un lato, del considerar che noi facciamo il nulla L’immaginazione dello spazio e l’immaginazione del tempo sono ora unificate nella contemplazione del conflitto tra il corpo e la morte, tra la stagione e l’eterno, tra il piacere della ricordanza e la disperazione di non poter fermare questo piacere. Tempo e spazio diventano questa / Immensità . La parola infinità che era ricomparsa (dopo immensitade dell’autografo) nella stampa sul Nuovo Raccoglitore e nell’edizione bolognese del ’26 è definitivamente sostituita, dall’edizione fiorentina in poi, con immensità: sottratta al gioco delle categorie di spazio e tempo, sottratta alla stessa allusione all’irrealizzabile "desiderio d’infinito", riportata verso la grande classica metafora del mare che già prende tutto il campo della scena: V. 13-14: Così tra questa / Immensità s’annega il pensier mio 25 26 Zib. 1553. Zib. 453. La ricordanza, che non è in Leopardi la platonica "reminiscenza", riporta alla ripetizione e questa, come avverrà anche nel testo di Freud, riporta al di là del principio del piacere. La meditazione sul piacere, avviata con lo sguardo sulla siepe, oltrepassa se stessa, riconoscendo che non c’è un tempo del piacere, e che ogni instaurazione della dimensione temporale è anche una produzione d’angoscia. Come oltrepassare questo limite, che non è più esterno, che non è più la cara siepe, e che appartiene al corpo? Come cancellare questo rapporto col tempo inscritto nel corpo? E questo, al di fuori del giardino di Epicuro, in assenza della saggezza che sostituisce il senso del tempo con l’esercizio della filosofia e con la meditazione dei discepoli? Il "riposo dal desiderio " è una mimesi della morte. Perché ha origine dalla dilatazione delle possibilità del desiderio, e percorre tutti i sentieri, fino a smarrirsi nel bosco della meditazione. La metafora a questo punto, è obbligata, e tutti i poeti ci sono passati: il mare. La metafora che unisce il desiderio e l’essere, il corpo e la metafisica, l’itinerario e l’approdo. Un’esegesi dell’infinito leopardiano può ritrovare, nella finale metafora del mare, il dantesco e medievale "mar de l’essere", approdo di ogni itinerario della mente. V. 15: E il naufragar mi è dolce in questo mare Il naufragio leopardiano, riposo e desiderio, restituisce, sull’affondare del pensiero, l’io dell’ordine simbolico contro l’io dell’ordine immaginario. Questo desiderio dell’altro, si adempie, ma come contemplazione del nulla. Il nichilismo è l’orizzonte che può essere guardato dal punto di vista simbolico, cioè da punto di vista di un’io creativo, dell’io della poesia. Il desiderio “infinito” si rivela come desiderio del “nulla” e in questa rivelazione espone il massimo legame con la vita, di cui la metafora del mare è portatrice. Il solo infinito è nulla, e questo è infinito nel linguaggio. Su questa affermazione s’intrattiene Leopardi in una zona dello Zibaldone nella primavera del ‘26 …il tutto esistente è infinitamente piccolo a paragone della infinità vera, per dir così, del non esistente, del nulla […]. L‘infinito, così come è concepito dall’uomo è un parto della nostra immaginazione. […]. Par che solamente quello che non esiste, la negazione dell’essere, il niente, possa essere senza limiti, e che l’infinito venga in sostanza a essere lo stesso che il nulla. Pare soprattutto che l’individualità dell’esistenza importi naturalmente una qualsivoglia circoscrizione, di modo che l’infinito non ammetta individualità e questi due termini siano contraddittori: quindi non si possa supporre un ente individuo che non abbia limiti. Osservando, qualche mese dopo, come le categorie di infinito, riferite allo spazio e al tempo, non sono appunto che categorie, espressione di una nostra idea, così conclude questo appunto teorico sul tema dell’infinito: …La infinità del tempo non proverebbe né l’esistenza né la possibilità di enti infiniti, più di quel che lo provi l’infinità del nulla, infinità che non esiste né può esistere se non nell’immaginazione o nel linguaggio, ma che è pure una qualità propria e inseparabile dall’idea o dalla parola ‘nulla’, il quale pur non può essere se non nel pensiero o nella lingua, e quanto al pensiero o alla lingua. Il desiderio d’infinito è desiderio del nulla, ma questa coincidenza tra il nulla e l’infinito avviene nel linguaggio. Il linguaggio è il respiro del corpo, del suo limite. Ma come può il limite pensare l’infinito? Non dunque sui sentieri del pensiero, sui sentieri della finzione nel pensiero, si può trovare una risposta al desiderio d’infinito. Né si può cercare questa risposta al di fuori di questa terra, essendo il desiderio materiale. Resta lo sguardo del poeta che dalla siepe rivà verso l’avventura d’una figurazione positiva dello spazio e del tempo, e da questa ritorna verso una comparazione tra ciò che è e ciò che non è, tra il tempo del corpo e l’altro tempo, tra il “suonano” della stagione e l’assenza di ogni suono e di ogni stagione: questo sguardo vede anche il pensiero annegare, e rinunciare a inseguire teoreticamente il rapporto tra l’infinito e il nulla. Questo sguardo non è più uno sguardo, ma è il corpo dell’uomo, l’assunzione del su limite prima dell’ultimo abbandono, la cessazione dell’analisi, il riposo dal desiderio, la fine della finzione. Nel naufragar il corpo s’abbandona ad una dolcezza che annuncia, nell’assenza del pensiero e nello spegnimento dei sensi, la possibilità che pensiero e sensi siano per il piacere, e non per la ratio civile. Eros e Thanatos si uniscono non nel suicidio del corpo, ma nel riposo dal desiderio, non nell’istante della morte, ma nell’abbandono ad una dolcezza che travolge, infine, anche il soggetto che sa che questa dolcezza gli appartiene. Il mare invade la scena: un’onda di vita freme in questa mimesi della morte. Il nichilismo leopardiano grida il desiderio della vita, nell’unico modo che, nella note dei sensi, è ancora possibile: nel linguaggio simbolico, nel linguaggio della poesia. E’ l’esperienza del piacere? Leopardi dimostra di saper essere nello stile quanto nel pensiero esigente con se stesso, pur obbedendo al suo temperamento e anima sognante e come tale s’abbandona a quanto sente o così scrive senza ricercatezze, senza effetti d’impasti, senza formule ritmiche, ma tutto con semplice musicalità, con sincerità e con castigatezza. B 3. Dalla musica alla noia Dal piacere insoddisfatto nasce la noia: sentimento più di tutti intollerabile, come sostiene il Genio nell’operetta Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare, non è altro che il desiderio puro della felicità; non soddisfatto dal piacere, e non offeso apertamente dal dispiacere. Il qual desiderio ... non è mai soddisfatto E alla domanda di Tasso su quale rimedio potrebbe giovare contro la noia? il Genio risponde: Il sonno, l’oppio, e il dolore. E questo è il più potente di tutti. La riflessione zibaldoniana in parte anticipa in parte riprende tali affermazioni, ma il tema è fra i più presenti nelle opere leopardiane, dagli scritti autobiografici ai Pensieri: • • • • • • • • • • • • • • • • la continuità è così nemica della noia che anche la continuità della stessa varietà annoia sommamente [51] Anche il dolore che nasce dalla noia e dal sentimento della vanità delle cose è più tollerabile della stessa noia [72] la noia non è altro che una mancanza del piacere che è l’elemento della nostra esistenza [172-7] il popolo accorre agli spettacoli sanguinosi a causa della noia [239] è possibile assuefarsi anche alla noia [280] l’amica della verità, la luce per discoprirla, la meno soggetta ad errare è la malinconia e soprattutto la noia [1690-1] La noia è la più sterile delle passioni umane [1815] nessuna cosa può rendere la pura noia meno intollerabile [1988-90] è l’unico male, non previsto dalla natura, che non abbiamo in comune con gli altri animali [2219-21] Solamente della noia non possiamo dolerci mai che sia finita [2242-3] L’uniformità e noia, e la noia uniformità [2599-602] colpisce i giovani più che i vecchi [2736-9] ci sembra più lungo il tempo in cui ci annoiamo [3509-14] è il desiderio della felicità, lasciato, per così dir, puro [3713-5] la noia è la semplice vita pienamente sentita, provata, conosciuta, pienamente presente all’individuo [4043, 4498] La noia non è sentita che da quelli in cui lo spirito è qualche cosa [4306-7] La modernità del concetto di noia (come disadattamento al reale ed impotenza) compare nelle tematiche leopardiane con l'emergere nell'umanità dell'elemento razionale. Si evidenzia cioè con il trionfo della ragione27. In queste riflessioni si anticipa una delle più importanti acquisizioni della modernità che vive appunto nella costante polarità irrisolta di conoscenza ed errore, di coscienza ed impossibile illusione. Tutta la tensione romantica a cogliere l'infinito al di là del contingente, riconduce al più sublime dei sentimenti umani: la noia. Poco propriamente si dice che la noia è mal comune . Comune è l'essere disoccupato, o sfaccendato, per dir meglio; non annoiato. La noia non è se non di quelli in cui lo spirito è qualche cosa. Più può lo spirito in alcuno, più la noia è frequente, penosa e terribile. la massima parte degli uomini trova bastante occupazione in che che sia, e bastante diletto in qualunque occupazione insulsa; e quando è del tutto disoccupata, non prova perciò gran pena. Di qui nasce che gli uomini di sentimento sono sì poco intesi circa la noia, e fanno il volgo talvolta maravigliare talvolta ridere, quando parlano della medesima e se ne dolgono con quella gravità di parole, che si usa in proposito dei mali maggiori e più inevitabili della vita28. Da non dimenticare poi gli inarrivabili versi del Canto notturno di un pastore errante dell’Asia: O greggia mia che posi, oh te beata, Che la miseria tua, credo, non sai! Quanta invidia ti porto! Non sol perchè d’affanno Quasi libera vai; Ch’ogni stento, ogni danno, Ogni estremo timor subito scordi; Ma più perchè giammai tedio non provi. Quando tu siedi all’ombra, sovra l’erbe, Tu se’ queta e contenta; E gran parte dell’anno Senza noia consumi in quello stato. Ed io pur seggo sovra l’erbe, all’ombra, E un fastidio m’ingombra La mente, ed uno spron quasi mi punge Sì che, sedendo, più che mai son lunge Da trovar pace o loco. E pur nulla non bramo, E non ho fino a qui cagion di pianto. Quel che tu goda o quanto, Non so già dir; ma fortunata sei. Ed io godo ancor poco, O greggia mia, nè di ciò sol mi lagno. Se tu parlar sapessi, io chiederei: Dimmi: perchè giacendo A bell’agio, ozioso, 27 Il male intrinseco all'essere originario e permanente delle cose si profila... nella sua costernante evidenza (emerge) l'identità di progresso e decadenza, di avanzamento e distruzione, di verità ed impotenza, di coscienza e nullità; cf. M. A. RIGONI, La strage delle illusioni, Milano, 1998, p. 98. 28 Zib. 67. S’appaga ogni animale; Me, s’io giaccio in riposo, il tedio assale?29 29 G. LEOPARDI, Canto notturno di un pastore errante dell'Asia, vv. 105-131. C 1. La noia in musica nello spleen di Baudelaire Lo spleen è una forma particolare di disagio esistenziale, che si traduce - a livello espressivo - in una fertile creatività poetica, capace di oggettivizzare le sensazioni e gli stati d'animo in numerose immagini visionarie, prodotte dall' inconscio baudleriano. Lo spleen è una particolare caratterizzazione dell'inettitudine, che indubbiamente include elementi di debolezza psicologica e di mancato adeguamento al reale, ma che - a differenza della noia leopardiana - non produce argomentazione e pensiero, riflessività sulla condizione umana, ma si gioca tutta a livello artistico nella resa espressionistica degli effetti devastanti, allucinatori dell'angoscia esistenziale. Leggendo la poesia rimangono impresse soprattutto le immagini di chiusura opprimente, materializzate simbolicamente dalla strana analogia del coperchio / cielo che pesa sull'anima gemente o delle strisce di pioggia assimilate alle sbarre di una prigione. Infine gli effetti di questa angoscia devastante non sono il perdurare di uno stato d'animo riflessivo e pronto ad accettare questa condizione mentale e psicologica, ed a sfruttarla come foriera di nuovi approfondimenti concettuali. Quanto piuttosto un'abdicazione definitiva della Speranza ( personificata appunto ) che sembra ridurre il soggetto in preda ad un'oppressione crescente e davvero capace di neutralizzare le energie creative del poeta. Testo Traduzione Quand le ciel bas et lourd pèse comme un couvercle Sur l'esprit gémissant en proie aux longs ennuis, Et que de l'horizon embrassant tout le cercle Il nous verse un jour noir plus triste que les nuits; Quando come un coperchio il cielo pesa grave e basso sull'anima gemente in preda a lunghi affanni, e quando versa su noi, dell'orizzonte tutto il giro abbracciando, una luce nera e triste più delle notti; Quand la terre est changée en un cachot humide, Où l'Espérance, comme une chauve-souris, S'en va battant les murs de son aile timide Et se cognant la tête à des plafonds pourris; e quando si è mutata Quand la pluie étalant ses immenses traînées la terra in una cella umida, dove D'une vaste prison imite les barreaux, se ne va su pei muri la Speranza Et qu'un peuple muet d'infâmes araignées sbattendo la sua timida ala, come Vient tendre ses filets au fond de nos cerveaux, un pipistrello che la testa picchia su fradici soffitti; e quando imita Des cloches tout à coup sautent avec furie la pioggia, nel mostrare le sue Et lancent vers le ciel un affreux hurlement, striscie Ainsi que des esprits errants et sans patrie infinite, le sbarre di una vasta Qui se mettent à geindre opiniâtrément. prigione, e quando un popolo silente - Et de longs corbillards, sans tambours ni musique, di infami ragni tende le sue reti Défilent lentement dans mon âme; l'Espoir, in fondo ai cervelli nostri, a un Vaincu, pleure, et l'Angoisse atroce, despotique, tratto Sur mon crâne incliné plante son drapeau noir. furiosamente scattano campane, lanciando verso il cielo un urlo atroce come spiriti erranti, senza patria, che si mettano a gemere ostinati. E lunghi funerali lentamente senza tamburi sfilano né musica dentro l'anima: vinta, la Speranza piange, e l'atroce Angoscia sul mio cranio pianta, despota, il suo vessillo nero. Spleen è una parola inglese che inizialmente significava “milza”, quindi “bile”; successivamente il termine assunse il significato di “malinconia”, “disgusto”, “tedio esistenziale”, sulla base delle antiche teorie mediche che situavano proprio nella milza la causa della sindrome depressiva. Già dal semplice titolo si intuisce quale sia il tema principale della poesia, espressione, appunto, di un malessere esistenziale, di una incapacità di reagire alla noia paralizzante. C 2. Analisi Tematica e stilistica La poesia è composta da 5 strofe di quattro versi ciascuna (quartine). I versi sono alessandrini (verso classico della letteratura francese). Tutta la poesia si articola in due sole proposizioni (o “frasi”). La prima frase si sviluppa lungo le prime quattro strofe, ed è composta da tre proposizioni subordinate (strofe 1, 2 e 3) più una proposizione principale. Le subordinate sono molto simili tra loro: tutte cominciano con lo stesso avverbio di tempo (Quando...) e si sviluppano attraverso vivide metafore (il coperchio, il pipistrello, la prigione). Questa somiglianza, la ripetitività di una stessa struttura, insieme al fatto che le subordinate sono poste tutte e tre prima della proposizione principale (strofa 4), crea un clima di attesa, una certa suspense per quanto riguarda il seguito del discorso. Questa "attesa" ha un nome ben preciso nel gergo letterario : si tratta di una climax, per cui la disposizione in modo ascendente di certi elementi sintattici crea un "clima" di tensione, di aspettativa. La tensione accumulata lungo le tre prime strofe, volutamente pesanti in struttura e contenuti, esplode nella quarta strofa, nella proposizione principale. L'ultima strofa, che è anche l'ultima frase della poesia, nonostante abbia una propria indipendenza sintattica (ed anche visiva: c'è uno spazio bianco tra le varie strofe), è legata alle altre dall'uso del segno tipografico “ – “ e dalla congiunzione con la quale comincia ( - E... ). Essa rappresenta una conseguenza delle strofe precedenti, una specie di "rilassamento" finale dopo l'esplosione del climax. Risultano termini chiave i seguenti: La claustrofobia: il cielo basso che pesa come un coperchio (strofa 1); l'immagine di una prigione umida ed altrettanto bassa (il pipistrello vi vola sbattendo le ali sulle pareti e picchiando la testa sul soffitto) (str. 2); di nuovo l'immagine di una prigione attraverso le strisce di pioggia (str. 3). L'umidità: la prigione umida e il soffitto marcio (str. 2) ; la pioggia (str. 3) ; ma anche il pianto (str. 5). Il suono, il rumore: le campane, le urla, i gemiti (str. 4) ; ma anche l'assenza di rumore, il silenzio funebre della strofa 5 (senza tamburi né bande). I colori: la luce nera del giorno (str. 1) e il vessillo altrettanto nero dell'Angoscia. L'antitesi è presente in maniera interessante in questa poesia, e rappresenta uno dei maggiori tratti caratteristici della poetica di Baudelaire. Il “cielo basso e greve” (v. 1) mette in contrasto il nome cielo, normalmente associato ad una idea di immensità, di infinito, di ascensione, con due aggettivi che, al contrario, indicano finitudine, decadimento, pesantezza, incapacità di muoversi (e qui, ovviamente, si rimanda al campo semantico della claustrofobia). Lo “spirito che geme” (v. 2) mette in contrasto lo spirito, cioè quella parte dell'uomo che è considerata la più elevata, la più "divina", con il gemere, atto che sottolinea invece una miserevole condizione da reietto. Difatti, più avanti, nella strofa 4, di nuovo l'idea del lamento viene assimilato a degli " spiriti vaganti e senza patria". Il “giorno nero” (v. 4) è una chiara antitesi, nel senso che a “giorno” si potrebbe sostituire “luce” senza alterare il senso della poesia, mettendo in rilievo il contrasto assoluto di un'espressione come “luce nera”. La “timida ala” (v. 7) è pure, in un certo senso, un'antitesi, nel senso che mentre l'ala è solitamente associata ad una idea di libertà, l'aggettivo timida immediatamente riporta all'idea dell'impossibilità di fuggire, di liberarsi. Dal punto di vista generale si possono dunque fare le seguenti osservazioni conclusive: La struttura della poesia e il suo contenuto tematico si articolano in maniera tale da creare un ritmo, un movimento particolare : lento e pesante all'inizio (str. 1, 2 e 3), poi improvvisamente forte (str. 4), infine lentissimo (str. 5), tanto da ricordare uno schema di sonorità secondo l'alternanza piano-fortissimo-pianissimo30, racconta un'esperienza drammatica vissuta tanto interiormente che esteriormente. C'è un forte senso di costrizione nella poesia: tutto porta a mettere l'accento sull'idea della disperazione dovuta all'incapacità di liberarsi, di respirare. Il poeta esprime così il dramma del proprio tedio, dello "spleen" che gli impedisce di elevarsi, di toccare il lato divino della propria esistenza. Questa osservazione ci riconduce alla concezione del poeta propria di Baudelaire. Per lui, esso è un uomo diverso dagli altri, al contempo benedetto e maledetto : benedetto, perché capace di cogliere significati superiori, di elevarsi al cielo con la sua poesia ; maledetto, perché nonostante il suo continuo anelito al divino, rimane pur sempre un uomo, facile preda dello "spleen". Questa contraddizione della condizione del poeta è una costante nell'opera di Baudelaire, e qui la ritroviamo espressa, oltre che dall'intera poesia, anche dalla presenza delle frequenti antinomie. Ma se è vero che il poeta è, per Baudelaire, un eletto (nel bene e nel male), e che perciò la sua poesia esprime la propria intima condizione, non si può negare che lui rende universale la sua esperienza. Nella poesia, non soltanto il malessere personale dell'io invade l'intero universo (il cielo basso e greve versa una luce nera sull'intero giro dell'orizzonte - v. 3), ma il poeta esprime esplicitamente il suo tentativo di legarsi agli altri uomini attraverso un vincolo di fratellanza quando parla, al v. 12, dei ragni che tendono le loro reti in fondo ai nostri cervelli. Lo stile ed i contenuti della poesia di Baudelaire, che per noi non hanno niente di particolarmente scioccante, sono stati all'epoca del poeta vittime di censure ed incomprensioni (ricordiamo che le Fleurs du mal sono del 1857). Come mai? I motivi sono molteplici, ma già a partire da Spleen è possibile accorgersi della profonda originalità di Baudelaire rispetto alla letteratura precedente: usando parole basse e crude come coperchio (v. 1), parlando di animali che normalmente sono associati a sentimenti di repulsione, come il pipistrello (v. 6) e il popolo muto d'infami ragni (v. 11), usando, quindi, metafore altamente vivide (le campane che sbattono con furia, ecc. ), Baudelaire è il primo poeta a mescolare al simbolismo della propria lirica un realismo crudo e volutamente scioccante. 30 E' Leo Spitzer, un critico eminente, che ha fatto questa interessante similitudine tra la poesia di Baudelaire e lo schema musicale a tre tempi; cf. LEO SPITZER, Baudelaire’s “Spleen “, in “The Hopkins Review”, vol. 6, 1953. D 1. Guido Gozzano: La noia dell’inetto come distacco autoironico dalla vita L'opera di Gozzano costituisce un interessante esempio di lirica post-dannunziana, nella quale il pessimismo ironico e la coscienza critica dell'autore appaiono mezzi nuovi di analisi delle convenzioni borghesi. Componimenti come Le due strade o la più celebre Amica di nonna Speranza si caratterizzano per l'impiego del dialogo e il ricorso al parlato, che saranno caratteristici di tutta la poesia successiva. I colloqui pubblicato nel 1911, rappresenta il momento più importante della produzione poetica gozzaniana. Ripartito in tre sezioni distinte, è una sorta di poema esistenziale che si apre con gli episodi di “Vagabondaggio sentimentale” del giovenile errore, in cui l'autore affronta un'ironica riflessione sull'amore. Le poesie seguenti di Alle soglie (tra cui, notissima, La signorina Felicita) sembrano attraversate da una premonitrice idea di morte, che nell'ultima sezione, intitolata significativamente Il reduce, si scioglierà in un'indifferente rassegnazione, raggiunta dal poeta nella resa a un'esistenza vana che nutre solo l'esperienza della parola poetica. Nell'ambito della crisi della cultura positivistica e nel pieno successo dei topoi dannunziani spiccano le soluzioni tematiche ed espressive di Guido Gozzano, l'esponente di maggior importanza della poesia crepuscolare, che propone una risposta nuova alla modernità incalzante. La risposta di Gozzano appare complessa e non riconducibile ad un semplice rifugio nostalgico nel passato e nelle buone cose di pessimo gusto che lo contraddistinguono ( L'Amica di Nonna Speranza). Il suo atteggiamento ironico e in alcuni casi parodico nei confronti di alcuni miti dannunziani (la donna e l'amore fatale, il superuomo esteta...), il suo distacco dalla concitazione urbana e dal progresso esaltato dall'età giolittiana spiegano la sua incapacità (inettitudine) a cavalcare gli idoli della modernità. Egli è inadatto sia storicamente che esistenzialmente a condividere l'esaltazione futurista per la vita, accesa dall'energia di macchine, voli, folle plaudenti..... Inadatto è del resto Gozzano ad adottare forme espressive indirette, intuitive ove trionfi l'analogia arrischiata e proliferante del testo parolibero. Egli necessita di stabili riferimenti temporali e spaziali, che lo riportano a toni descrittivi anche se demistificatori. L'esperienza della malattia e la presenza quasi amica della Morte gli fanno preferire stati d'animo più raccolti, metafore più interiorizzate ( l'esilio, il rifugio, il colloquio, la poesia...) con le relative oggettivazioni ( il giardino e la cancellata di Cornigliano (Cocotte), la cucina ed il solaio di Villa Amarena, la faccia buona e casalinga della Signorina Felicita, l'atmosfera ovattata dell' ottocentesco salotto di Nonna Speranza, ma anche l'isola tropicale immaginaria di Paolo e Virginia, il silenzio di chiostro e di caserma della villa torinese di Totò Merumeni, la città morta, Goa, la Dourada del suo viaggio in India...) che denotano un bisogno di chiusura in spazi privilegiati e isolati dal tempo. Così le sensazioni possano venir intenzionalmente decantate tramite la parola poetica - da ogni coinvolgimento troppo intenso con i sentimenti, con le passioni, con le progettualità di vita e la costruzione di solidi ideali storici o culturali. Questo atteggiamento di rinuncia, di distanziamento, di abbandono anche autoironico alla memoria di un passato quietamente inoffensivo e demodé, nella sua spenta e tranquilla purezza, inseriscono l'inettitudine gozzaniana tra i moderni atteggiamenti della crisi del primo '900. ...Il mio sogno è nutrito d'abbandono di rimpianto. Non amo che le rose che non colsi. Non amo che le cose Che potevano essere e non sono state...Vedo la casa, ecco le rose del bel giardino di vent'anni or sono!31 La poesia diviene lo spazio privilegiato dell'esistenza; è l'illusione intessuta di ironia, nel tentativo di evadere verso la ricostruzione fittizia del reale, che ricomponga - rarefatte dalle metafore poetiche - le tappe di una vita affiancata dalla malattia. Le tre sezioni de "I colloqui" ricostruiscono tre tappe ideali della vita di Gozzano. Dal vagabondaggio sentimentale del giovenile errore amoroso, si passa ad alcuni colloqui intrattenuti con con quella Signora vestita di nulla32 (Alle soglie), evocati paradossalmente dai rassicuranti e puri contesti del passato (Agliè, Villa Amarena, l'isola di Paolo e Virginia) attorno ai quali però non riesce a delinearsi un'autentica nostalgia. Infine nella terza sezione (Il reduce) il poeta così si esprime: ...reduce dall'Amore e dalla Morte, gli hanno mentito le due cose belle...così rifletterà l'animo di chi , superato ogni guaio fisico e morale, si rassegna alla vita sorridendo. Totò Merumeni (felice italianizzazione della celebre commedia terenziana mutuata a sua volta dal greco Menandro Heautontimorùmenos, il punitore di se stesso) vive fuori del mondo, nella villa barocca. con la madre malata, lo zio demente, la prozia decrepita, con la sola compagnia del gatto, della ghiandaia roca e della bertuccia di nome Makakita. Soltanto in questa solitudine, che è tanto esteriore, rispetto al mondo che vorrebbe la mercificazione della sua scienza e dei suoi studi, quanto interiore, in quanto ha bruciato in sé ogni sentimento, si è ridotto come una rovina inaridita dalle fiamme, cioè nel rifiuto totale di ogni contatto col mondo borghese è possibile la poesia nell'aridità….come metafora della negazione dei rapporti che, inevitabilmente, appaiono condizionati dall'inautenticità del mondo borghese. Testo Totò Merùmeni I. Col suo giardino incolto, le sale vaste, i bei balconi secentisti guarniti di verzura, la villa sembra tolta da certi versi miei, sembra la villa-tipo, del Libro di Lettura Pensa migliori giorni la villa triste, pensa gaie brigate sotto gli alberi centenari, banchetti illustri nella sala da pranzo immensa e danze nel salone spoglio da gli antiquari. 31 32 Da I colloqui, Cocotte, vv. 67 - 72. Si tratta della Morte. Analisi e Commento Heautontimoroumenos (Il punitore di se stesso) L'ambientazione è letteraria più che reale, la villatipo del libro di lettura sembra ricordare il contesto in cui si realizza la rievocazione dell'incontro con la Signorina Felicita, la villa del Meleto ad Agliè. Anche in questo caso gli spazi della villa (giardino incolto, vaste sale, bei balconi secentisti..salone spoglio) sono canonici a definire il raffronto tra un passato felice, in cui gaie brigate e banchetti illustri animavano questo spazio di presenze umane e l'abbandono presente. Ma dove in altri tempi giungeva Casa Ansaldo, Casa Rattazzi, Casa d'Azeglio, Casa Oddone, s'arresta un'automobile fremendo e sobbalzando, villosi forestieri picchiano la gorgòne. S'ode un latrato e un passo, si schiude cautamente la porta...In quel silenzio di chiostro e di caserma, vive Totò Merumeni con una madre inferma, una prozia canuta ed uno zio demente. II. Totò ha venticinque anni, tempra sdegnosa, molta cultura e gusto in opere d'inchiostro, scarso cervello, scarsa morale, spaventosa chiaroveggenza: è il vero figlio del tempo nostro. Non ricco, giunta l'ora di "vender parolette" (il suo Petrarca!...) e farsi baratto o gazzettiere, Totò scelse l'esilio. E in libertà riflette ai suoi trascorsi che sarà bello tacere. Non è cattivo. Manda soccorso di danaro al povero, all'amico un cesto di primizie; non è cattivo. A lui ricorre lo scolaro pel tema, l'emigrante per le commendatizie. Gelido, consapevole di sé e dei suoi torti, non è cattivo. È il buono che derideva il Nietzsche “...in verità derido l'inetto che si dice buono, perché non ha l'ugne abbastanza forti...” Dopo lo studio grave, scende in giardino, gioca coi suoi dolci compagni sull'erba che l'invita; i suoi compagni sono: una ghiandaia rôca, un micio, una bertuccia che ha nome Ora energiche presenze si delineano dall'esterno attraverso simboli un po' volgari di automobilisti impellicciati (un'automobile fremendo e sobbalzando, villosi forestieri picchiano la gorgone). La porta si schiude cautamente a ridefinire la chiusura dello spazio antico. Lì si consuma l'isolamento di Totò ( colui che si autopunisce in modo grottesco), in una parodia amara delle antiche ricche relazioni della villa: ...In quel silenzio di chiostro e di caserma vive Totò Merùmeni con una madre inferma, una prozia canuta ed uno zio demente. La parodia continua e questa volta l'obiettivo è il dannunzianesimo con il suo mito del superuomo, modellato sulla filosofia di Nietzsche. Totò si dice vero figlio del tempo nostro: lettore attento e profondo, curioso delle nuove filosofie, si atteggia a superuomo, lontano dalla morale, chiaroveggente interprete del nuovo pensiero: ma già si intravede il tono demistificatorio! In realtà la sua vita è un esilio volontario. Lontano dalle occupazioni sociali di carattere intellettuale (giunta l'ora di “vender parolette” (il suo Petrarca!...) e farsi baratto o gazzettiere…) ha abdicato ai rapporti e ne conserva solo pochi. occasionali, che testimoniano il cedimento ai buoni, semplici sentimenti: è solidale, disponibile..la sua è una bontà istintiva che si alimenta nell' inettitudine. (Non è cattivo. Manda soccorso di danaro al povero, all'amico un cesto di primizie; non è cattivo. E' il buono che derideva Nietzsche…). Qualche animale un po' buffo lo affianca nel suo giardino a testimoniare la rinuncia ai rapporti di vita. (i suoi compagni sono: una ghiandaia rôca, un micio, una bertuccia che ha nome Makakita...) Makakita... III. La Vita si ritolse tutte le sue promesse. Egli sognò per anni l'Amore che non venne, sognò pel suo martirio attrici e principesse ed oggi ha per amante la cuoca diciottenne. Quando la casa dorme, la giovinetta scalza, fresca come una prugna al gelo mattutino, giunge nella sua stanza, lo bacia in bocca, balza su lui che la possiede, beato e resupino... IV. Totò non può sentire. Un lento male indomo inaridì le fonti prime del sentimento; l'analisi e il sofisma fecero di quest'uomo ciò che le fiamme fanno d'un edificio al vento. Ma come le ruine che già seppero il fuoco esprimono i giaggioli dai bei vividi fiori, quell'anima riarsa esprime a poco a poco una fiorita d'esili versi consolatori... V. Così Totò Merùmeni, dopo tristi vicende, quasi è felice. Alterna l'indagine e la rima. Chiuso in se stesso, medita, s'accresce, esplora, intende la vita dello Spirito che non intese prima. Perché la voce è poca, e l'arte prediletta immensa, perché il Tempo - mentre ch'io parlo! va, Totò opra in disparte, sorride, e meglio aspetta. E vive. Un giorno è nato. Un giorno morirà. Il grande amore, fascino e speranza dell'età giovanile, ha mancato le sue promesse. L'eco delle donne fatali - di dannunziana memoria - riaccende la parodia del topos culturale dell'amore come sentimento unico, sofferto e passionale Quasi si compiace Totò nel richiamare tutta la prosaica bassezza di un rapporto occasionale; ma il tono è ironico, letterario, smitizzante....con una inflessione di triste ironia. Ed ora l'introspezione, pur sempre accompagnata dall'ironia. L'esilio nella villa, la lettura, la solitudine, la riflessione... hanno inaridito la vita di Totò. Egli non sa più provare sensazioni e sentimenti vitali. Solo la poesia può rinascere come consolazione ad un reduce dall'amore e dalla morte. Una poesia nutrita di distacco e disincanto che rivive con leggerezza la privata vicenda esistenziale, ma si sottrae a compiti più alti, pubblici, artistici ed intellettuali. Totò è quasi appagato La sua vita si sdoppia tra la riflessione e la poesia. La chiusura del suo rifugio lo aiuta ad esplorare le ragioni del vivere, a precisarsi, a comprendersi, forse anche a realizzarsi. Ma il tutto in disparte, mentre la vita trascorre ed il tempo si snoda inesorabile. Anche la poesia non realizza però; affianca semplicemente la vita: è una cosa destinata a vivere ed a morire - ineluttabilmente - tra le altre cose. La stessa attività poetica è del tutto demistificata nell'attesa che si realizzi il destino di morte. E 1. Alle radici della noia: Lucrezio, De Rerum Natura III, 1053-1075 Dopo aver considerato che l’uomo teme terribilmente la morte, Lucrezio parla della noia, del taedium vitae, una macigno malefico che affligge l’uomo. Sebbene questi tenti inutilmente di evaderla, la noia è interna all’uomo, è un’angoscia esistenziale che lo tortura senza che ne capisca la ragione. Secondo Lucrezio l’unico rimedio alla noia consiste nell’indagine razionale della natura, perché solo chiarendo a noi stessi il nostro essere ed il nostro rapporto con il mondo che ci circonda, potremo raggiungere l’atarassia ed essere immuni dalle angosce della vita e della morte. Il taedium vitae è la noia e il disgusto per la vita che affligge chi vive un’esistenza che gli appare priva di significato; Lucrezio sostiene che l’unica soluzione alla noia e al disgusto per la vita è la filosofia, che assicura all’uomo la sapienza e la felicità. Testo Traduzione Analisi Si possent homines, proinde ac sentire videntur pondus inesse animo, quod se gravitate fatiget, e quibus id fiat causis quoque noscere et unde tanta mali tam quam moles in pectore constet, haut ita vitam agerent, ut nunc plerumque videmus quid sibi quisque velit nescire et quaerere semper, commutare locum, quasi onus deponere possit. exit saepe foras magnis ex aedibus ille, esse domi quem pertaesumst, subitoque <revertit>, quippe foris nihilo melius qui sentiat esse. currit agens mannos ad villam praecipitanter auxilium tectis quasi ferre ardentibus instans; oscitat extemplo, tetigit cum limina villae, aut abit in somnum gravis atque oblivia quaerit, aut etiam properans urbem petit atque revisit. hoc se quisque modo fugit, at quem scilicet, ut fit, effugere haut potis est: ingratius haeret et odit Se gli uomini potessero, così come è evidente che sentono di avere un peso in fondo all'animo, che con il suo gravare li affatica, anche conoscere da quali cause ciò provenga e perché un così grande macigno, per così dire, di male alberghi nel loro animo, non condurrebbero così la loro vita, come per lo più li vediamo ora: ognuno non sa che cosa voglia per sé e cerca sempre di mutar luogo, quasi potesse deporre il suo peso. Esce spesso fuori dal sontuoso palazzo colui che lo stare in casa ha tediato, e subito ‹ritorna›, poiché sente che fuori non si sta per niente meglio. Corre alla villa, sferzando i puledri, precipitosamente, come se avesse fretta di prestare soccorso alla casa in fiamme; sbadiglia immediatamente, appena ha toccato la soglia della villa, o greve si sprofonda nel sonno e cerca l'oblio, Si ... videmus periodo ipotetico della realtà sentire – noscere forte differenza tra i significati animo ablativo, stato in luogo gravitate ablativo strumentale quoque congiunzione, sottolinea la necessità di conoscere la propria angoscia exit enfatico a inizio frase foras avverbio antico da fore, forarum (la porta) domi locativo nihilo abl. arcaico di misura currit enfatico a inizio frase praecipitanter neologismo, usato solo qui in tutta la letteratura latina tectis sineddoche (per casa) tetigit cum iperbato se ironia (fuggire se stessi) propterea, morbi quia causam non tenet aeger; quam bene si videat, iam rebus quisque relictis naturam primum studeat cognoscere rerum, temporis aeterni quoniam, non unius horae, ambigitur status, in quo sit mortalibus omnis aetas, post mortem quae restat cumque manenda. o anche parte in fretta e furia per la città e torna a vederla. Così ciascuno fugge sé stesso, ma, a quel suo 'io', naturalmente, come accade, non potendo sfuggire, malvolentieri gli resta attaccato, e lo odia, perché è malato e non comprende la causa del male; se la scorgesse bene, ciascuno, lasciata ormai ogni altra cosa, mirerebbe prima di tutto a conoscere la natura delle cose, giacché è in questione non la condizione di un'ora sola, ma quella del tempo senza fine, in cui i mortali devono aspettarsi che si trovi tutta l'età che resta dopo la morte, qualunque essa sia. F 1. Il filosofo unico “medico” per l’inquietudine e l’insoddisfazione 6 Omnes in eadem causa sunt, et hi qui leuitate uexantur ac taedio assiduaque mutatione propositi, quibus semper magis placet quod reliquerunt, et illi qui marcent et oscitantur. Adice eos qui non aliter quam quibus difficilis somnus est uersant se et hoc atque illo modo componunt, donec quietem lassitudine inueniant: statum uitae suae reformando subinde, in eo nouissime manent, in quo illos non mutandi odium, sed senectus ad nouandum pigra deprehendit. Adice et illos, qui non constantiae uitio parum lenes sunt, sed inertiae, et uiuunt non quomodo uolunt, sed quomodo coeperunt. 7 Innumerabiles deinceps proprietates sunt, sed unus effectus uitii, sibi displicere. Hoc oritur ab intemperie animi et cupiditatibus timidis aut parum prosperis, ubi aut non audent quantum concupiscunt aut non consequuntur, et in spem toti prominent. Semper instabiles mobilesque sunt, quod necesse est accidere pendentibus. Ad uota sua omni uia tendunt et inhonesta se ac difficilia docent coguntque, et, ubi sine praemio labor est, torquet illos irritum dedecus, nec dolent praua, sed frustra uoluisse. 8 Tunc illos et paenitentia coepti tenet et incipiendi timor, subrepitque illa animi iactatio non inuenientis exitum, quia nec imperare cupiditatibus suis nec obsequi possunt, et cunctatio uitae parum se explicantis et inter destituta uota torpentis animi situs. 9 Quae omnia grauiora sunt ubi odjo infelicitatis operosae ad otium perfugerunt ac secreta studia, quae pati non potest animus ad ciuilia erectus agendique cupidus et natura inquies, parum scilicet in se solaciorum habens. Ideo, detractis oblectationibus quas ipsae occupationes discurrentibus praebent, domum, solitudinem, parietes non fert; inuitus aspicit se sibi relictum. 10 Hinc illud est taedium et displicentia sui et nusquam residentis animi uolutatio et otii sui tristis atque aegra patientia, utique ubi causas fateri pudet et tormenta introrsus egit uerecundia, in angusto inclusae cupiditates sine exitu se ipsae strangulant; inde maeror marcorque et mille fluctus mentis incertae, quam spes inchoatae suspensam habent, deploratae tristem; inde ille affectus otium suum detestantium querentiumque nihil ipsos habere quod agant, et alienis incrementis inimicissima inuidia (alit enim liuorem infelix inertia et omnes destrui cupiunt, quia se non potuere prouehere); 11 ex hac deinde auersatione alienorum processuum et suorum desperatione obirascens fortunae animus et de saeculo querens et in angulos se retrahens et poenae incubans suae, dum illum taedet sui pigetque. Natura enim humanus animus agilis est et pronus ad motus. Grata omnis illi excitandi se abstrahendique materia est, gratior pessimis quibusque ingeniis, quae occupationibus libenter deteruntur: ut ulcera quaedam nocituras manus appetunt et tactu gaudent et foedam corporum scabiem delectat quicquid exasperat, non aliter dixerim his mentibus, in quas cupiditates uelut mala ulcera eruperunt, uoluptati esse laborem uexationemque. 12 Sunt enim quaedam quae corpus quoque nostrum cum quodam dolore delectent, ut uersare se et mutare nondum fessum latus et alio atque alio positu uentilari: qualis ille homericus Achilles est, modo pronus, modo supinus, in uarios habitus se ipse componens, quod proprium aegri est, nihil diu pati et mutationibus ut remediis uti. 13 Inde peregrinationes suscipiuntur uagae et litora pererrantur et modo mari se, modo terra experitur semper praesentibus infesta leuitas: "Nunc Campaniam petamus." Iam delicata fastidio sunt: "Inculta uideantur, Bruttios et Lucaniae saltus persequamur." Aliquid tamen inter deserta amoeni requiritur, in quo luxuriosi oculi longo locorun horrentium squalore releuentur: "Tarentum petatur laudatusque portus et hiberna caeli mitioris et regio uel antiquae satis opulenta turbae.... Iam flectamus cursum ad Vrbem: nimis diu a plausu et fragore aures uacauerunt, iuuat iam et humano sanguine frui." 14 Aliud ex alio iter suscipitur et spectacula spectaculis mutantur. Vt ait Lucretius: Hoc se quisque modo semper fugit. Sed quid prodest, si non effugit? Sequitur se ipse et urget grauissimus comes. (De Tranquillitate Animi, 2, 6-11; 13-15) In questo brano Seneca si rivolge all’amico, come un maestro fa con i propri alunni. Il filosofo tratta, in modo dettagliato lo stato d’animo dell’uomo preda della noia, del tedio, spiegando cause, conseguenze e rimedi. Seneca si esprime in modo sentenzioso, come chi sa di avere ragione. Temi: Cause dell’inquietudine dell’animo: Seneca illustra in modo dettagliato i sintomi e le manifestazioni dello stato d’animo di Anneo Sereno, che non affligge solo lui ma tutti gli uomini. Quest’insoddisfazione di sé, secondo Seneca, non è da attribuire al fato, ma a se stessi. Infatti nasce nel momento in cui gli uomini, che protendono troppo verso la speranza, non riescono a conseguire ciò che desiderano. Ciò può avvenire perché i nostri desideri sono troppo deboli, oppure perché siamo instabili, divisi tra molti obiettivi, senza riuscire a raggiungerne nessuno. Conseguenze del fallimento dei propri propositi: Secondo il filosofo, quando ci si rende conto di aver fallito, ci si chiude in se stessi, si ha paura di ricominciare, quindi ci si rifugia nello studio, lontano dalle attività pubbliche, tuttavia chi è abituato a condurre una vita attiva, sopporta malvolentieri la solitudine che deriva. Da qui nasce la stanchezza di sé e la noia, che portano all’intolleranza verso i successi altrui. Inutilità dei viaggi: Molti uomini, insoddisfatti della loro esistenza, cercano, attraverso viaggi senza mete precise, di sfuggire alla noia e alla depressione, ma ben presto si accorgono che, malgrado i numerosi spostamenti, si trovano al punto di partenza. Non è sufficiente cambiare città per risanare il proprio spirito, è necessario cambiare se stessi, avvicinandosi alla filosofia, che garantisce conoscenza e felicità. Immorale è la vanità della fuga (commutatio loci), ben nota a Lucrezio e a Orazio, che ammoniva a non cercare di eludere i dolori e gli affanni spronando il cavallo, perché la nera angoscia, dice il suo verso, siede in groppa dietro il cavaliere che spera di farle perdere le proprie tracce. F 2. Proposta di Lavoro Versione: Seneca, De Tranquillitate animi, 2, 8-10 Nel secondo capitolo del De tranquillitate animi (59 d.C.) Seneca propone all'amico Sereno, l'interlocutore del dialogo, una minuziosa casistica degli insoddisfatti, di tutti coloro che mancano di equilibrio interiore, di chi incappa nella displicentia sui, non essere mai in pace con se stesso. Nel brano proposto i corollari del tedium vitae vengono analizzati psicologicamente: agitazione, incertezza, frustrazione, invidia. Seneca, De tranquillitate animi, II, 8-10 [8] Tunc illos et paenitentia coepti tenet et incipiendi timor subrepitque illa animi iactatio non invenientis exitum, quia nec imperare cupiditatibus suis nec obsequi possunt, et cunctatio vitae parum se explicantis et inter destituta vota torpentis animi situs. [9] Quae omnia graviora sunt, ubi odio infelicitatis operosae ad otium perfugerunt, ad secreta studia, quae pati non potest animus ad civilia erectus agendique cupidus et natura inquies, parum scilicet in se solaciorum habens; ideo detractis oblectationibus, quas ipsae occupationes discurrentibus praebent, domum, solitudinem, parietes non fert, invitus aspicit se sibi relictum. [10] Hinc illud est taedium et displicentia sui et nusquam residentis animi volutatio et otii sui tristis atque aegra patientia, utique ubi causas fateri pudet et tormenta introrsus egit verecundia, in angusto inclusae cupiditates sine exitu se ipsae strangulant; inde maeror marcorque et ille fluctus mentis incertae, quam spes inchoatae suspensam habent, deploratae tristem; inde Traduzione di G. Viansino Traduzione di G. Manca [8] In quel momento, li afferra il pentimento di ciò che hanno intrapreso e la paura di cominciare e si avvicina strisciando quella agitazione dell'animo che non trova uscita, poiché essi non sono in grado di comandare i loro desideri né di sottostarvi, e l'esitazione di una vita che riesce troppo poco ad esternarsi e, fra desideri frustrati, la muffa di un animo fatto torpido. [9] Tutto ciò è più grave, quando per odio verso un insuccesso, che è costato fatica, si sono rifugiati nella vita appartata, nelle solitarie attività intellettuali, insopportabili per un animo proteso all'azione politica, desideroso di agire e per natura incapace di immobilità, che in sé evidentemente ha troppo poche consolazioni. Perciò, tolte di mezzo le gioie, che proprio gli impegni offrono a chi si muove di qua e di là, l'animo di costoro non sopporta la casa, la solitudine, le pareti, contro voglia vede di essere stato lasciato solo con sé stesso. [10] Di qui nasce quella noia e quella scontentezza di sé, quel rivoltolarsi dell'animo, che non si placa in alcun luogo, quella sopportazione malcontenta e malata del proprio ozio, [8]Allora li prende il rimorso per ciò che hanno fatto, e la paura di rifarlo. E si insinua in loro quell'agitazione dello spirito che non trova via d'uscita, perché non sanno né dominare le passioni né sottostarvi; ecco l'incertezza, tipica di una vita che non può realizzarsi, e lo squallore di un animo intorpidito tra speranze deluse. [9] E tutto questo si aggrava quando l'irritazione per qualche insuccesso li induce a rifugiarsi nel privato e nella solitudine degli studi, difficili da sopportare per un animo portato alla vita pubblica, amante dell'azione e irrequieto per natura, che evidentemente non riesce a trovare conforto in se stesso. Perciò, venendo meno gli stimoli che il lavoro offre a chi ha tento da fare, risultano insostenibili la casa, la solitudine, le stesse pareti domestiche e diventa un cruccio sentirsi abbandonati a se stessi. [10] Ne deriva quella noia, quella scontentezza di sé, l'inquietudine dello spirito che non trova pace in nessun luogo, una rassegnazione penosa e amara della propria ille adfectus otium suum detestantium querentiumque nihil ipsos habere, quod agant et alienis incrementis inimicissima invidia: alit enim livorem infelix inertia et omnes destrui cupiunt, quia se non potuere provehere soprattutto quando ci si vergogna di confessarne le cause ed il pudore ha spinto all'interno i tormenti: i desideri chiusi allo stretto e senza via d'uscita, da soli si strangolano. Di qui nasce la tristezza ed il torpore e quell'ondeggiamento di una volontà incerta, che le speranze cominciate tengono in bilico, quelle fallite nell'afflizione; di qui la disposizione d'animo di coloro che maledicono la loro vita appartata e che si lamentano di non avere personalmente niente da fare, e l'invidia ostilissima ai progressi altrui nella carriera: alimenta infatti il livore un'inerzia senza frutti, e desiderano che tutti crollino, perché loro non furono in grado di fare carriera. inattività. Tutto questo, soprattutto, quando si ha pudore di confessare i motivi, e la vergogna ci fa tener dentro le nostre angosce; e le passioni - rinchiuse in poco spazio e senza via d'uscita - si soffocano l'un l'altra. Di qui lo stato d'animo di chi odio il proprio isolamento e si lamenta di non aver nulla da fare; di qui l'invidia verso il successo altrui. L'inerzia infelice alimenta, infatti, il livore: coloro che non sono riusciti a realizzarsi, desiderano solo che tutto vada male anche agli altri. Rispondi e completa: 8) incipiendi:analisi invenientis: analisi possunt: qual è il soggetto è sottinteso? et cunctatio vitae...animi situs: cunctatio e situs sono i soggetti di questa frase coordinata alla precedente che aveva per verbo___________ Explicantis e torpentis: analisi 9) Quae: analisi ubi: introduce una proposizione_____________ odio: complemento di perfugerunt: ha per soggetto sottinteso parum...habens: habens è participio attributivo di______________soggetto della relativa introdotta da_______________ Natura è ablativo di______________ Solaciorum è un genitivo____________________retto da________________ detractis oblectationibus: analisi discurrentibus: il dativo è retto da_________________ non fert...aspicit: hanno per soggetto sottinteso________________ 10) ubi: introduce due proposizioni___________________espresse dai verbi_____________ soggetto di pudet:____________________ egit: ha per soggetto__________________ inde maeror...et ille fluctus mentis incertae: il verbo sottinteso è_____________ quam...tristem: quam, oggetto di_______________________ detestantium quarentiumque: i due participi che esprimono due complementi di pertinenza reggono rispettivamente l'oggetto______________e l'infinitiva seguita da un relativa cupiunt: qual è il soggetto sottinteso? potuere:analisi Percorso suggerito: 1 - leggere il testo latino; 2 - leggere la prima traduzione con il testo a fronte ; 3 - leggere la seconda sempre con il testo a fronte; 4 - comparare le due traduzioni; 5 - rispondere e completare le domande di comprensione morfo-sintattica; 6 -proporre la propria traduzione; 7 - giustificare le scelte operate . Consegne: A. In 2 ore elaborare una propria traduzione utilizzando un foglio protocollo diviso a metà: a sinistra la traduzione e a destra la giustificazione delle scelte operate. B. Sempre nelle 2 ore completare e rispondere alle domande. Punteggio: 23 p. risposte (1 p. ogni risposta esatta); 10 p. la traduzione (3p. correttezza morfo-sintattica; 4 p. proprietà lessicale; 3p. originalità); 10 p. la giustificazione della traduzione (3 p. coerenza argomentativi; 4p. riflessione lessicale; 3p. riflessione morfo-sintattica) G 1. Musica e Taedium ieri: Richard Strauss, Così Parlò Zarathustra Così parlò Zarathustra è uno dei poemi sinfonici più noti di Richard Strauss. Composto nel 1896, è ispirato all’omonima opera poetico-filosofica del filosofo tedesco Friedrich Nietzsche di cui prende i titoli nei vari movimenti: • • • • • • • • • Introduzione: la Creazione o l’avvento della nuova era del superuomo. Degli uomini che vivono in un mondo dietro il mondo: qui gli ottoni citano il centone gregoriano Credo in unum Deum, ovvero “Credo in un solo Dio” a rappresentare nel massimo della sintesi la fede Del grande struggimento: a rappresentare forse l’epoca della Sturm und Drang. Qui c’è una citazione liturgica del Magnificat. Delle gioie e delle passioni: gli archi la fanno da padrone. I tromboni espongono il tema del Taedium Vitae. Canto funebre: parte in cui prevalgono gli archi. Della scienza: a rappresentare scientismo, positivismo, e forse a canzonare la nascente dodecafonia, è una fuga che ha per soggetto tutte e sole le dodici note. Il convalescente: porta a compimento la tensione del movimento precedente, poi, dopo un brusco stacco determinato da uno “strappo” degli archi nel registro basso riparte dal mistero per dirigersi verso l’atmosfera del brano successivo di cui anticipa ampiamente lo spirito. Ballo: viene ripreso il tema del Taedium Vitae trasfigurato sotto forma di valzer. Canto del sonnambulo: coda in cui il finale viene lasciato in sospeso evitando la cadenza sulla tonica. G 2. Musica e Taedium….Oggi: Lucio Battisti, Una Giornata Uggiosa Testo Commento UNA GIORNATA UGGIOSA BATTISTI-MOGOL Sogno un cimitero di campagna(1) e io là all'ombra di un ciliegio(2) in fiore senza età per riposare un poco 2 o 300 anni giusto per capir di più e placar gli affanni(3). Sogno al mio risveglio di trovarti accanto intatta con le stesse mutandine rosa non più bandiera di un vivissimo tormento ma solo l'ornamento di una bella sposa(4). Ma che colore ha una giornata uggiosa? Ma che sapore ha una vita mal spesa? Ma che colore ha una giornata uggiosa? Ma che sapore ha una vita mal spesa(5)? Sogno di abbracciare un amico vero che non voglia vendicarsi su di me di un suo momento amaro(6) e gente giusta che rifiuti di esser preda di facili entusiasmi e ideologie alla moda. 1) Battisti attesta una condizione di insopportabile staticità, che lo porta a desiderare di trovarsi altrove, possibilmente un cimitero di campagna, cioè un luogo deserto, tranquillo, silenzioso. Il tema bucolico non muore mai. 2) L'autore desidera intensamente emulare la pacifica esperienza di Tytire tu patulae recubans sub tegmine fagi. La scelta di sostituire un anonimo faggio con un ciliegio è ben emblematica: la si può spiegare in primis nel buon odore dei fiori di ciliegio hanno un buon odore e in secundis nella agilità metrica. 3) Orazio diceva Vino pellite curas, ma il Battisti preferisce la versione vergiliana dell'Omnia vincit Bucolica, perciò sceglie questo panorama di letizia e serenità per rasserenare il proprio animo turbato. 4) Battisti celebra la purezza matrimoniale e la necessità di mantenerla intatta. 5) Il taedium vitae Lucreziano impera. 6) Il tema dell’amicitia nel senso oraziono del termine irrompe nel testo quasi a vagheggiare qualcosa di positivo di fronte all’amara realtà. Ma che colore ha una giornata uggiosa? Ma che sapore ha una vita mal spesa? Ma che colore ha una giornata uggiosa? Ma che sapore ha una vita mal spesa(5)? Ma che colore ha? Ma che colore ha? Ma che colore ha? Sogno il mio paese infine dignitoso - Ma che colore ha? e un fiume con i pesci vivi a un'ora dalla casa Ma che colore ha? di non sognare la Nuovissima Zelanda - Ma che colore ha? Per fuggire via da te Brianza velenosa(7) - 7) Fa discutere soprattutto il desidero di fuggire dalla Ma che colore ha? - Ma che colore ha? una giornata uggiosa? Ma che sapore ha - Ma che sapore ha? una vita mal spesa? Ma che colore ha? “Brianza velenosa”, in aperta antitesi con l’immagine idilliaca della storica residenza di Lucio e del suo paroliere, stabilitisi lì fin dal 1970. E’ chiaramente un brano di forte rottura col passato, da considerarsi come l’epilogo della fortunata collaborazione Battisti-Rapetti. Ma che colore ha? - Ma che colore ha? una giornata uggiosa? Ma che sapore ha - Ma che sapore ha? una vita mal spesa? - Ma che colore ha? Ma che colore ha? - Ma che colore ha? Ma che sapore ha? - Ma che sapore ha? - Ma che colore ha? Ma che colore ha? - Ma che colore ha? Ma che sapore ha? - Ma che sapore ha? Il 1980 fa registrare la fine di quello che può essere considerato il più felice sodalizio della musica italiana, la coppia Battisti-Mogol. Una Giornata Uggiosa è il colpo di coda del duo, che si scioglie dopo ben 13 album realizzati a quattro mani. L’album vede nuovamente la produzione di Geoff Westley, confermato dopo lo strepitoso successo del precedente album di Lucio, Una Donna Per Amico, che sfiorò il milione di copie vendute. Sarà proprio la produzione dell’americano l’oggetto delle critiche maggiori, al quale vengono imputati arrangiamenti eccessivamente elaborati (soprattutto se confrontati con i demo originali del cantautore) e un sound marcatamente commerciale. A mio avviso l’album è in linea con lo stile delle ultime produzioni di Battisti e va necessariamente contestualizzato nel periodo in cui è stato realizzato: poco senso avrebbe infatti fare paragoni con lo stile dei primi album dell’artista, legati a sonorità radicalmente differenti. Il disco si mantiene su un buon livello qualitativo e vanta alcuni brani notevoli, confermandosi un lavoro nel complesso uniforme e piacevole all’ascolto. Una Giornata Uggiosa è il vertice dell’intero album: ritmo serrato, ottime percussioni e un sapiente uso della chitarra elettrica fanno da contorno ad un testo di assoluto rilievo che merita una analisi approfondita. E’evidente l’insoddisfazione dell’autore e la voglia di cambiamento, di trovare una dimensione alternativa ad una attualità che è ormai inadeguata. Emblematici in tal senso i riferimenti alla donna desiderata (Sogno al mio risveglio di trovarti accanto) ma anche la terza strofa, che tra le righe si potrebbe anche interpretare come un accenno ai presunti attriti tra Battisti e Mogol: “Sogno di abbracciare un amico vero che non voglia vendicarsi su di me di un suo momento amaro“. Fa discutere soprattutto il desidero di fuggire dalla “Brianza velenosa”, in aperta antitesi con l’immagine idilliaca della storica residenza di Lucio e del suo paroliere, stabilitisi lì fin dal 1970. E’ chiaramente un brano di forte rottura col passato, da considerarsi come l’epilogo della fortunata collaborazione Battisti-Rapetti. Bibliografia Essenziale • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • W. BINNI, La protesta di Leopardi , Milano, 1995. T. TASSO, Rime, a c. di B. Basile, Roma, Salerno, 1994, libro II (Rime d'amore per Laura Peperara), n. 143, vol. I. L. BLASUCCI, Leopardi e i segnali dell'infinito , Bologna, 1985. L. 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