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Etruscan Studies
Journal of the Etruscan Foundation
Volume 9
Article 12
2002
Nuovi Rinvenimenti in Toscana
A. Rastrelli
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Recommended Citation
Rastrelli, A. (2002) "Nuovi Rinvenimenti in Toscana," Etruscan Studies: Vol. 9 , Article 12.
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Nuovi Rinvenimenti
in Toscana
by A . R a s t r e l l i
er documentare tutta l’attività della Soprintendenza per i Beni Archeologici della
Toscana negli ultimi cinque anni il tempo a disposizione per questa comunicazione
non sarebbe sufficiente che a esporre un elenco di interventi di natura diversa
cospicuo, ma troppo scarno per apportare alla discussione una problematica concreta. Ho
scelto pertanto di limitare questa relazione ad una sola area della regione, costituita dal bacino idrografico del medio e basso Valdarno, riservandomi di presentare adeguatamente le
altre per la pubblicazione degli atti. Tra gli interventi nelle zone omesse cito solo a titolo di
esempio per la gran quantità di novità emerse, ma anche per una forma di spleen vista la mia
annosa frequentazione dell’area, la prosecuzione dello scavo delle necropoli della Pedata di
Tolle-Castelluccio di Pienza nell’agro chiusino, di cui Giulio Paolucci ha già pubblicato la
fase orientalizzante. I risultati degli scavi più recenti, per lo più ancora inediti, ma visibili
nel nuovo allestimento del Museo Civico delle Acque di Chianciano Terme, offrono nuovi
e importanti dati allo studio non solo , ma anche della ceramografia etrusca. Quale summa
dell’attività della Soprintendenza Archeologica, e non solo negli ultimi anni, presento per il
suo prestigio una iniziativa promossa in collaborazione col Touring Club Italiano e la
Regione Toscana, cioè la pubblicazione della prima guida archeologica d’Italia, dedicata
appunto alla Toscana etrusca e romana, edita quest’anno.
L’area più settentrionale della regione, che negli ultimi cinque anni è stata oggetto
non solo di numerosi rinvenimenti di notevole rilevanza scientifica e storica, insieme ad una
cospicua serie di ritrovamenti meno consistenti, ma non per questo meno significativi ai fini
della ricostruzione della storia del popolamento di questo territorio e dei suoi rapporti
commerciali con le aree limitrofe e in particolare con l’Etruria padana, ma anche dalla edizione di ritrovamenti e ricerche precedenti e di opere di sintesi su aree culturali più o meno
ampie. Va sottolineato come gran parte dei rinvenimenti più rilevanti che verranno elencati,
tra cui alcuni dei più rilevanti, come quello dell’insediamento di Gonfienti, del popolamento antico della piana di Sesto Fiorentino e del padule del Bientina e delle navi di Pisa, sono
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frutto di interventi di tutela non più meramente burocratici, bensì realizzati in maniera scientifica, a seguito di vere e proprie indagini sistematiche preventive in aree a rischio per la
ripresa dell’urbanizzazione legata alle trasformazioni di territori di pianura o per l’esecuzione di grandi opere pubbliche, sempre con la piena collaborazione degli Enti locali.
Le fasi di vita etrusche delle due grandi città di Pisa e Fiesole, situate alle estremità
dell’ area settentrionale della Toscana, sono state recentemente studiate con la consueta perizia dall’amico Stefano Bruni: se nel caso di Pisa egli ha effettuato significativi rinvenimenti, in quello di Fiesole, pur limitandosi a riesaminare dati disponibili da gran tempo, ma
finora trascurati, è riuscito a restituire dignità urbana a questa città, che fino a non molti
decenni fa si considerava sorta solo in epoca ellenistica, a partire almeno dal tardo arcaismo,
con tutti i limiti imposti alla ricerca dalla crescita continua dell’abitato su se stesso.
Il rinvenimento più significativo nei pressi della città, delle cui necropoli arcaiche
finora ben poco si sapeva, è stato effettuato in località Poggio al Vento presso Vincigliata,
ai margini del territorio comunale di Firenze, ma a soli due chilometri in linea d’aria a ovest
di Fiesole, sono state indagate a cura di chi vi parla almeno una dozzina di tombe di tipologie diverse, tutte già devastate dai clandestini, databili solo indicativamente in età orientalizzante, dal momento che non vi sono finora stati rinvenuti materiali di corredo: si tratta di
tombe a camera con dromos coperte da un tumulo munito di tamburo e di tombe a cassa
di pietre, anch’esse coperte da tumuli non sempre con tamburi. Tali tumuli erano costituiti
per lo più dalle scaglie di lavorazione delle pietre utilizzate per la costruzione delle tombe
stesse, che venivano estratte nelle zone circostanti, in cui sono ancor oggi visibili cave di
pietra serena, utilizzate fino al Rinascimento. La stele di tipo fiesolano, recuperata in passato nella vicina chiesa di S. Martino a Mensola, doveva essere pertinente ad una tomba di
questa necropoli, una delle più antiche attribuibili a Fiesole, i cui nuclei sepolcrali di età orientalizzante finora erano attestati solo da alcune fibule conservate nel Museo civico.
La sepoltura meglio conservata è una tomba a piccola camera: il breve dromos con
pareti in filari di pietra serena, la cui copertura in grosse pietre è crollata, dà accesso mediante
una bassa e stretta porta architravata ad un vano lungo e stretto, munito di tre nicchie sulle
pareti, una su quella di fondo e due su quelle laterali, non in asse; il soffitto è costituito da lastre di arenaria disposte ad architrave, una delle quali è stata asportata dai clandestini per accedervi dall’alto. La tomba è coperta da un tumulo munito di tamburo in pietre, all’esterno del
quale sono emersi i resti di un lastricato. Di una seconda tomba a camera sono conservati solo
i resti del dromos e dell’accesso architravato alla camera, purtroppo distrutta.
Nel territorio fiesolano l’area nord orientale del Mugello e della bassa Val di Sieve,
interessata con ogni probabilità da una direttrice di traffico commerciale secondaria con
l’Etruria padana, presenta per lo più insediamenti sparsi di piccole dimensioni a base economica prevalentemente agricola. Tra i rinvenimenti recenti in quest’area, oltre a quello di un
santuario nelle vicinanze dell’insediamento di Poggio Colla presso Vicchio, per cui rimando
alla comunicazione di Warden e Thomas, che ne hanno condotto lo scavo, va segnalata tra le
testimonianze più antiche dell’area occidentale il rinvenimento negli anni 1996 e 2000 in loc.
Podere Stecconata di due pozzi limitrofi, foderati di pietre a secco, al cui interno sono stati
recuperati frammenti ceramici, talora riferibili a vasi interi, databili nel corso del V sec. a.C.
Una mostra tenutasi tra il 1999 ed il 2000 nel museo di Doccia (“Lunga memoria
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della piana. L’area fiorentina dalla preistoria alla romanizzazione”) ha permesso di rendere
noti al grande pubblico i risultati di quasi due decenni di ricerche archeologiche nella piana di
Sesto Fiorentino. Se è vero che i risultati più cospicui riguardano il popolamento di età preistorica a partire dal Mesolitico, non sono mancate novità per l’epoca etrusca, che vanno a integrare il poco che si conosceva della storia dell’area fiorentina. L’area vicina al corso del fiume,
come attestano anche le opere di bonifica della piana, costituite da drenaggi e canali di scolo,
fu densamente e continuamente popolata a partire dall’Età del Ferro fino all’età romana da
gruppi limitati di individui, da riferire presumibilmente a nuclei familiari, distribuiti in piccoli
insediamenti, tracce dei quali sono state individuate anche a sud del corso dell’Arno: uno di
questi, costituito da unità abitative di tipo capannicolo e riferibile ad un periodo compreso fra
la fine dell’ VIII e la seconda metà del VII secolo, è stato individuato nell’area di Madonna
del Piano, in cui già dal 1994 era nota una necropoli villanoviana, in cui si segnalano per il loro
valore rituale le deposizioni di un bovino e un cane. Va inoltre citato il rinvenimento di una
terracotta architettonica a testa di pantera, forse un gocciolatoio, dalla loc. Olmicino, che
potrebbe indiziare la presenza di una regia, cui poi si sarebbe sostituita un’area sacra, come
attesterebbe il rinvenimento di un bronzetto votivo a figura umana.
É recente l’edizione preliminare dello scavo nella seconda metà degli anni 80 del
secolo scorso di una necropoli villanoviana dell’area di Quinto, in loc. Palastreto, in cui
sono venute alla luce quarantadue tombe a pozzetto e a cassone, forse un’area cimiteriale
comune ad una serie di villaggi limitrofi, che presenta tracce di pianificazione a carattere
familiare. Come in altre necropoli della zona vi sono state rinvenuti pozzetti “gemelli” per
la sepoltura della coppia maritale.
Uno dei rinvenimenti più significativi effettuati in Toscana negli ultimi anni è certamente l’insediamento tardo arcaico messo in luce presso Prato, in loc. Gonfienti, cioè in
un’area vicinissima alla zona di Pizzidimonte, dove fu rinvenuto un deposito votivo connesso ad un’area santuariale etrusca, in gran parte disperso, di cui faceva parte il noto offerente conservato fin dal 1899 qui nel British Museum. L’area finora scavata è interessata da
una serie di complessi abitativi che in parte si estendono ortogonalmente ai lati di una
grande strada larga circa m. 10, analoga alle platèiai di Marzabotto, costituita da un selciato
irregolare di piccole pietre pressate su una massicciata composta da pietre di dimensioni
maggiori: il drenaggio era garantito dal profilo convesso e dalle canalette laterali, la cui copertura con grosse lastre di alberese aveva funzione anche di marciapiede. Gli edifici sono
costituiti da muri interni più esigui con fondazione in piccoli blocchi irregolari e ciottoli di
fiume legati con argilla, mentre quelli perimetrali hanno un doppio paramento regolare con
un riempimento interno a sacco, in cui talora sono presenti ampie cavità circolari, che dovevano alloggiare elementi lignei di sostegno per l’alzato in incannicciato. La copertura era a
tegole e coppi. Recentemente sono state rinvenute tre antefisse a testa femminile con nimbo
a lobi, di produzione locale, che dovevano decorare l’atrio di una di queste abitazioni.
L’impianto urbanistico risulta ordinatamente pianificato, come quello di
Marzabotto, con cui l’abitato di Gonfienti presenta più di una analogia. In corrispondenza
del margine occidentale dello scavo è venuta alla luce una struttura in ciottoli, parzialmente
addossata al terreno, che sembra costituire una sorta di limite dell’insediamento. Tra i materiali rinvenuti, con la costante presenza di ceramica da mensa e da dispensa in impasto e in
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argilla depurata vanno segnalati alcuni vasi di bucchero di produzione locale e ceramica attica figurata; fuseruole d’impasto attestano l’attività della filatura e della tessitura, mentre
scarti di lavorazione ceramici documentano l’esistenza di una fornace; assai significativo è
anche il rinvenimento di scorie della lavorazione del ferro. I risultati dello scavo di
Gonfienti confermano i contatti con la zona a nord dell’Appennino, cui il centro era collegata dalla strada che metteva in comunicazione Fiesole con l’Etruria padana, attraverso
Quinto, la piana di Sesto e Settimello da una parte, proseguendo attraverso il corso del
Bisenzio verso i valichi montuosi e le valli del Limentra e del Reno.
Il territorio di Artimino più che da scavi recenti (se si eccettua il rinvenimento di
due tombe a camera nella necropoli di Prato Rosello, una a tramezzo con le pareti costituite da grandi monoliti di pietra ben connessi, della cui suppellettile sono stati recuperati solo
parte dell’ossuario e un grande coltello di ferro, e l’altra mal conservata, in cui il crollo del
soffitto in lastre di pietra ha preservato gran parte del ricco corredo funebre, di cui fanno
parte oltre al cinerario d’impasto decorato a stampiglia con figure di sfingi, coppe su alto
piede ricoperte di stagno e un vaso decorato con elementi plastici a testa di grifo) è stato
interessato da una serie di pubblicazioni, sia pur parziali, delle necropoli e degli insediamenti noti da tempo, tra i più recenti dei quali si segnalano il catalogo della mostra
“Artimino: il guerriero di Prato Rosello” del 1999, “Archeologia 2000. Un progetto per la
provincia di Prato,” Atti della giornata di studio, Carmignano 1999; un’edizione parziale di
materiali dei corredi dei tumuli principeschi è nel catalogo della mostra “Gli Etruschi”
tenutasi a Venezia nel 2000. Il Bruni ha espresso perplessità sull’esistenza o meno di un
grande centro abitato nella zona di Artimino sin dal periodo arcaico, se non addirittura orientalizzante, ipotizzata dal Nicosia. Nei pressi della necropoli di Prato Rosello sono emerse
tracce di un piccolo insediamento ad essa coevo, ma solo a partire da IV sec. a.C. si può parlare di un sinecismo dei piccoli insediamenti della zona in un abitato nell’area della villa
medicea.
Sono ancora in corso i lavori di scavo e restauro nell’insediamento etrusco di
Pietramarina, munito di una cinta muraria di età ellenistica con paramento in lastre e blocchetti di arenaria locale a secco, conservata per oltre due metri d’altezza, all’interno della sono
state identificate almeno tre fasi edilizie: l’abitato più antico, di tipo capannicolo, attestato da
buche di palo e intagli nella roccia, è databile in base ai materiali ceramici tra il VII secolo e
l’inizio dell’arcaismo. La prima fase edilizia di tipo stabile è costituita da edifici con muri a
secco in piccoli blocchi di arenaria, databili in età arcaica, che subirono numerosi rifacimenti,
prima di essere distrutti in un incendio nel V sec. a.C. Vi sono stati rinvenuti numerosi reperti ceramici, alcuni dei quali trovano confronti significativi nelle produzioni dell’Etruria
padana. Tra i materiali della fase ellenistica, che si imposta direttamente sulle strutture perimetrali precedenti, si segnalano frammenti di ceramica suddipinta e a vernice nera.
Non ha trovato conferme l’ipotesi della destinazione santuariale dell’area, mentre
sembra più probabile, almeno per il periodo ellenistico, l’identificazione con un insediamento fortificato d’altura. Questa tipologia insediativa è presente nello stesso periodo in altre aree
dell’agro fiesolano, come quella del Chianti, a sud dell’Arno, compresa tra i corsi della Greve
e della Pesa, dove non sono state rinvenute le cosiddette “pietre fiesolane” (il che potrebbe testimoniare una certa autonomia dei gruppi familiari che seppellivano entro tumuli utilizzati
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sino in età arcaica), bensì i fossili guida sono rappresentati almeno per l’età ellenistica dalla
ceramica acroma e a vernice nera a pasta grigia e dalla cosiddetta granulosa chiara.
Un insediamento di tipologia e cronologia diverse è enuto alla luce presso
Mercatale Val di Pesa, in località Poggio la Croce, dove su un’altura a cavallo tra le valli del
Greve e della Pesa, è in corso di scavo dal 1997 un’area sacra, circondata almeno in parte da
un grosso muro. I resti del santuario, di cui sono state individuate almeno due fasi, e che
purtroppo sono stati oggetto di una sistematica opera di spoliazione, hanno obliterato una
necropoli di tombe a pozzetto e a pozzo, databile in base ai pochi materiali attribuibili con
certezza ai corredi ad un periodo compreso tra l’VIII e la prima metà del VI sec. a.C. Al
centro del sepolcreto, che doveva occupare tutta la sommità dell’altura, è stata individuata
un’area di rispetto, in mezzo alla quale era stata scavata una grande fossa, entro cui sono
stati rinvenuti solo i frammenti di una grande pietra di forma vagamente semicircolare. Non
è escluso che questi resti siano da attribuire ad un eidolon monolitico, riferibile alla utilizzazione più antica di quest’area come zona di culto, risalente forse all’epoca eneolitica.
La prima fase dell’edificio sacro, che ebbe breve vita (costruito nella seconda metà
del VI sec. a. C. fu distrutto da un incendio tra la fine dello stesso secolo e l’inizio del successivo), era costituita da una struttura a pianta rettangolare, con fondazioni in pietra, alzato in incannicciato e copertura in cotto. I resti del tempio furono sepolti in larghe fosse circolari, sigillate dalla nuova struttura, più grande della precedente, connessa con una serie di
edifici di servizio del santuario, di cui rimane solo un’unica assise delle fondamenta in
grosse pietre lavorate disposte a secco. In una fase non anteriore alla metà del II sec. a.C.,
come attesta un frammento pertinente quasi certamente ad un rilievo frontonale, anche
questo secondo edificio fu smantellato ed i resti furono deposti ritualmente entro una serie
di trincee scavate tutt’intorno.
Nell’ultima campagna di scavo sono stati messi in luce i resti di una imponente
struttura semicircolare di pietre, al cui interno sono stati individuati due filari paralleli, culminanti in una depressione ancora non esplorata, la cui natura è da accertare.
Immediatamente all’esterno di questa struttura, ad un livello più basso, è stato individuato
un lastricato, sigillato da uno strato uniforme ricco di resti carboniosi e di materiali ceramici databili tra la fine del VII e gli inizi del VI sec. a. C.
Nel 1998 sui fianchi della collina è stata scavata una grande tomba a camera a pianta
rettangolare, purtroppo già violata, costruita in lastre di pietra e munita di vestibolo e lungo
dromos a cielo aperto. Indagini georadar ne avrebbero individuata una seconda al suo fianco (non vi sono tracce sicure dell’esistenza di un tumulo), mentre resti di strutture affini
affioranti immediatamente a valle hanno permesso di individuare una necropoli di tipo gentilizio, sviluppatasi tra la fine del VII e i primi decenni del VI sec. a.C.
Sono invece villaggi fortificati d’altura, non diversi da quello di Pietramarina, quelli tuttora in corso di scavo a Cetamura, nel comune di Gaiole, da parte della Florida State
University e a Radda in Chianti, loc. Poggio la Croce, e le ricognizioni di superficie in loc.
Salivolpi nel comune di Castellina in Chianti e S. Romolo nel comune di Scandicci.
L’indagine in corso a Poggio la Croce ha messo in luce un insediamento pluristratificato,
delimitato da una cinta muraria di forma indicativamente circolare, costituita da un muro
di terrazzamento esterno con funzione di contenimento e un muro di fortificazione inter– 127 –
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no, fondato su una preparazione in terra e piccole pietre con la funzione di regolarizzare il
piano insediativo. Dell’abitato, sviluppatosi tra la seconda metà del IV e la fine del III sec.
a.C., sono stati individuati diversi edifici caratterizzati da planimetrie articolate, muniti di
spazi ad uso abitativo, drenati da complesse opere di canalizzazione sottofondate, che suggeriscono una pianificazione organica dell’insediamento stesso, ed aree destinate ad attività
produttive e artigianali: si segnala in particolare il rinvenimento di un torchio vinario e di
residui della lavorazione del ferro. I materiali, a parte alcuni frammenti di skyphoi del tipo
Ferrara T 585, sono per lo più di fabbrica locale: tra le presenze più significative, oltre alla
ceramica a pasta grigia, va segnalata quella della ceramica d’impasto chiaro granuloso, che
come l’altra è caratteristica del territorio fiesolano. Non si può escludere che questo riassetto del territorio del Chianti in epoca ellenistica sia stato pianificato proprio da un centro
urbano prevalente da identificare appunto con Fiesole, perché lo ritroviamo in altre aree
dell’agro fiesolano come la Valle della Sieve, quella della Pesa e il territorio del Montalbano.
Questo modello insediativo, che prevede un contrarsi degli abitati sparsi a favore
di villaggi fortificati a scopo difensivo non è comunque esclusivo di quest’area, integrandosi
in maniera articolata con un sistema di abitati di pianura posti in prossimità di vie d’acqua,
che sfruttavano sia le opportunità offerte dalla vicinanza a queste importanti arterie di traffici, sia le risorse agricole del territorio circostante. E’ di questa natura l’abitato di epoca
ellenistica parzialmente indagato tra il 1997 ed il 1998 nella periferia di Scandicci, in loc.
Casellina. L’edificio con pianta ad L a più vani aperti su una corte centrale scoperta, situato a metà strada tra i torrenti Greve e Vingone nei pressi del corso dell’Arno, era verisimilmente una ricca fattoria, legata allo sfruttamento agricolo dell’area circostante, come
attesterebbe il rinvenimento di grandi recipienti, bacili e dolia. Le pareti erano costituite da
uno zoccolo di laterizi murati a secco o con poca malta magra con l’elevato in mattoni crudi,
il pavimento era in terra battuta e la copertura in tegole e coppi. Questa struttura, databile
in base ai materiali rinvenutivi, tra la prima metà del II sec. a.C. e la prima metà di quello
successivo, aveva sostituito un insediamento precedente, frequentato nel corso del III secolo e distrutto da un incendio, e fu a sua volta ricostruito in epoca romana. Se da una parte
resti di scarti di lavorazione fanno ipotizzare la presenza in loco di una fornace, che avrebbe
prodotto tra l’altro ceramica a pasta grigia, fortemente influenzata dalle produzioni di
Fiesole, e anfore avvicinabili al tipo Dressel I A e una fuseruola e un certo numero di pesi
da telaio documentano l’attività della tessitura, attestando che la fattoria era autosufficiente,
dall’altra la presenza di ceramica a vernice nera importata da Arezzo e Volterra e di anfore
greco italiche attestano la vivacità dei commerci nella zona.
In loc. Olmo, sempre nel comune di Scandicci, sono venuti alla luce i resti di una
necropoli databile tra il IV e il II sec. a.C., di cui sono state recuperate una quindicina di
tombe a incinerazione entro ollette coperte da piatti o ciotole. Le sepolture etrusche di
questa necropoli, in cui sono stati recuperati tra l’altro frammenti di almeno cinque crateri
di tipo volterrano, quattro orecchini d’oro, uno dei quali a testa di leone di tipo magnogreco e gli altri ad anello semplice desinente in un globetto di pasta vitrea e uno strigile di ferro,
sono purtroppo state sconvolte da una necropoli tardoromana (III - V sec. d.C.), costituita
anche da sepolture entro anfore da trasporto, per lo più tipiche delle aree costiere aperte ai
traffici, merntre più rare sono quelle come la nostra rinvenute in un territorio dell’interno;
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anche l’insediamento etrusco doveva essere relativo ad un approdo fluviale sull’Arno: non
è forse casuale il fatto che una delle strade che circondano il cantiere si chiami appunto viuzzo del Porto.
Lo scavo effettuato recentemente nella Piazza della Propositura ad Empoli, che ha
messo in luce una stratigrafia monumentale completa delle fasi di vita di un insediamento
organizzato di età romana, nato tra la fine del II e la prima metà del I sec. a.C. come scalo
portuale sull’Arno, da identificare con ogni probabilità con la statio In Portu della Tabula
Peutingeriana, ha restituito anche, sia pure in giacitura secondaria, numerosi materiali di età
etrusca, che fanno presupporre l’esistenza in loco di un insediamento di natura non ancora
precisabile, ma sicuramente legato come quello romano ai traffici lungo l’Arno, totalmente
obliterato dalle fasi di vita successive: ne fanno parte una gran quantità di frammenti di
ceramica databile in epoca ellenistica, acroma, a pasta grigia, a vernice nera, riferibili in piccola parte a vasi di notevole qualità di fabbricazione volterrana, ma anche a produzioni
locali, tra cui una a pasta grigia, che trova i confronti più stretti in area fiesolana. Non mancano però rinvenimenti databili a periodi anteriori, come alcuni frammenti di vasi di bucchero di buona qualità, tra cui alcuni attribuibili ad uno o più kantharoi, gli unici venuti alla
luce finora ad Empoli, mentre ceramica a vernice nera è stata raccolta sporadicamente anche
in altri sondaggi effettuati nel centro abitato.
Un insediamento d’altura di età ellenistica è indiziato dal rinvenimento di
numerosi frammenti di ceramica a vernice nera sulla sommità del colle in località
Monterappoli.
Non lontano da Empoli, in loc. Martignana, sono venuti alla luce i resti di una
necropoli etrusca, purtroppo saccheggiata fino ad un passato piuttosto recente e sconvolta
dai lavori agricoli per l’impianto di un uliveto. Sul terreno sono stati raccolti numerosi
frammenti ceramici di epoche diverse (dal bucchero: un’ansa di kantharos, alla vernice
nera), un pendente in oro e resti di lamina d’oro, che rendono più credibile la notizia raccolta in loco del rinvenimento di un pettorale d’oro, disperso sul mercato antiquario,
numerosi frammenti di bronzo, tra cui anse pertinenti a situle, colini e almeno uno specchio, alcuni alabastra di alabastro forse di fabbrica greco orientale, uno dei quali ancora conservato in una collezione privata sul posto, etc. Frammenti di ziri e tegole sono da riferire
presumibilmente alla presenza del rito inumatorio accanto a quello incineratorio. La
descrizione di un cinerario che si dice recuperato in una delle tombe, ma poi disperso,
farebbe supporre la presenza di tombe di età villanoviana, finora non confermata da rinvenimenti in supericie. L’ampio excursus cronologico della necropoli, attestata ancora nel
periodo imperiale romano, fa presupporre l’esistenza di un insediamento la cui lunga prosperità può essere riferibile sia allo sfruttamento delle risorse agricole del territorio che a
quello di una posizione strategica all’interno di una rete di commerci.
Uno degli oggetti più significativi rinvenuti nella necropoli di Martignana è una
kylix a figure rosse del Gruppo di Chiusi - Volterra attribuibile al pittore di Montediano, le
cui opere sono distribuite fino a Carmignano e S. Martino ai Colli, su cui sono raffigurati
Eracle e Athena, un soggetto assai raro. Altri frammenti rinvenuti nella stessa area sono da
attribuire ad una seconda coppa dello stesso gruppo.
Spostandoci verso ovest, ancora nella parte settentrionale dell’agro Volterrano,
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nella bassa Val d’Elsa va citata la segnalazione nel territorio comunale di Montaione, in loc.
S. Stefano, di una collinetta dal profilo emisferico (d. m. 60), che ha tutto l’aspetto di un
tumulo; in una villa nelle vicinanze sono conservati almeno tre cippi emisferici di arenaria
forse locale del diam. di 40-60 cm., mentre non lontano sulla collina su cui sorgono la chiesa
dedicata a santo Stefano e un castello medievale, sono venuti alla luce i resti di un insediamento d’altura etrusco, il cui sviluppo cronologico è ancora da verificare.
In una recente pubblicazione (Legoli, un centro minore del Volterrano, Quaderno
Pecciolese II, 1999) edita nell’ambito dell’iniziativa “Percorsi archeologici dell’Alta val
d’Era” (di cui fa parte anche l’edizione di una breve guida “Percorsi archeologici dell’Alta e
media Val d’Era dalla Preistoria al Medioevo” nel 2001) in collaborazione con la Provincia
di Pisa e numerosi comuni dell’area, il Bruni nel suo contributo sulla storia del più antico
popolamento del distretto di Peccioli, appartenente al territorio settentrionale di Volterra,
ma in cui, a differenza dell’area di Montaione, sono più evidenti gli influssi pisani, ricostruisce un quadro insediativo sostanzialmente caratterizzato dall’assenza di consistenti
aggregazioni di tipo urbano, in cui l’assenza di resti anteriori all’età arcaica è da imputare
piuttosto alla fase ancora preliminare delle ricerche, che non ad una reale situazione storica.
La più significativa scoperta archeologica in quest’area è certamente quella di una
favissa ad Ortaglia, dove dal 2000 è in corso uno scavo, i cui primi risultati sono stati già
presentati in una mostra. Lo scavo ha interessato un grande pozzo, al cui interno erano stati
deposti ritualmente i materiali relativi alle offerte votive e ai resti di un edificio templare di
dimensioni relativamente grandi, distrutto da un violento incendio intorno alla metà del IV
sec. a.C., ma le cui prime testimonianze risalgono alla metà del VI secolo. Nessuna traccia
rimane del santuario, che doveva occupare la parte settentrionale del rilievo che sovrasta il
casale di Ortaglia, interessato da consistenti fenomeni franosi che hanno cancellato ogni
traccia del tempio; questo doveva essere decorato sulla fronte da un altorilievo in terracotta, di cui sono stati rinvenuti alcuni frammenti, tra cui quello del muso di un cavallo. Tra i
materiali rinvenuti nella favissa, oltre alla cospicua presenza di ceramica attica, tra cui si segnala una grande kylix di Makron, vanno ricordati una kylix etrusca a figure rosse di produzione sttentrionale, i frammenti di un candelabro di bronzo, alcune fibule, elementi di
monili in pasta vitrea, dadi d’avorio, due orecchini d’oro, numerosi vasetti miniaturistici,
alcuni frammenti di coppe del gruppo Sokra e due skyphoi suddipinti di fabbrica falisca,
che segnano il termine più recente del deposito.
Spostandoci nell’agro pisano a nord dell’Arno, vanno segnalati i rinvenimenti di
insediamenti preistorici e protostorici, etruschi e di età romana effettuati nel padule del
Bientina formatosi nella Valle del Serchio, l’antico Auser, emersi nel corso dei secoli e oggetto più recentemente di una esplorazione sistematica, i cui risultati sono stati pubblicati dal
Ciampoltrini in un volume di sintesi, che segue i resoconti già comparsi sulla rivista di Studi
Etruschi. Pur senza novità di rilievo rispetto a quanto già edito, la ricerca è proseguita col
rinvenimento di due nuovi insediamenti: il primo è pluristratificato a partire da un villaggio
palafitticolo dell’età del bronzo finale, in cui sono stati rinvenuti fra l’altro vaghi d’ambra
di fattura padana, rioccupato da una comunità etrusca intorno al 500 a.C. e poi in età
romana, mentre il secondo è una fattoria fortificata tardo repubblicana del 200-175 a.C.
Rimando al già citato il volume del Bruni su Pisa etrusca (2000) per i rinvenimenti
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nel centro urbano, ma, anche se ormai è largamente noto in tutto il mondo scientifico, non
posso esimermi dal parlare del rinvenimento più importante effettuato in Toscana negli ultimi anni, quello delle strutture relative al porto della città etrusca e della colonia romana di
Pisa con i relitti di sedici navigli, oltre ai resti di numerose altre imbarcazioni distrutte con i
loro carichi e corredi di bordo: questo ritrovamento è ben documentato a partire dal catalogo della mostra “Le navi antiche di Pisa. Ad un anno dall’inizio delle ricerche,” Firenze 2000,
attraverso una serie di atti di convegni, fino ad una pubblicazione miscellanea in più volumi
dal titolo “Pisa nei secoli” ancora in corso di stampa, il che giustifica lo spazio inadeguato
che gli riserva questa relazione giunta ormai alla fine. Nei pressi di strutture abitative databili in un periodo compreso tra l’Età del Ferro e quella orientalizzante sono venute alla luce
in loc. S. Rossore le strutture superstiti delle varie fasi di vita del porto etrusco, interrato sullo
scorcio del I sec. a.C. Le più antiche consistono in una palizzata ancora in situ, costituita da
una fila di ventotto tronchi infissi verticalmente nel terreno sabbioso, dietro i quali sono
venuti alla luce altri pali infissi ortogonalmente ai primi. A otto metri da questa palizzata,
che, in mancanza di dati archeologici, è databile in seguito alle analisi al radiocarbonio ancora entro l’età arcaica, e parallela ad essa, è stata messa in luce per una lunghezza di m. 16 una
poderosa banchina, collassata negli anni intorno al 400 a.C., realizzata con un poderoso
muro rettilineo, largo circa m. 1,70, costruito con blocchi di pietra murati a secco, cui si
addossava un avancorpo di forma quadrangolare costruito con pietre più piccole, da cui si
sviluppava una palizzata, anch’essa crollata in antico. Dopo l’interramento di quest’area
furono realizzate nuove strutture portuali, cui deve essere pertinente una porzione di
passerella o pontile, realizzato in assi di abete a incastro, privi di chiodature, distrutto nei
primi decenni del II sec. a.C. dal naufragio di una grande nave, il più antico dei relitti recuperati, presumibilmente originario dell’area campana, che smistava a Pisa anche un carico di
materiali punici provenienti dall’Africa. Di questa nave sono state recuperate solo le ordinate
sciolte, la cui lunghezza permette di affermare che lo scafo era di notevoli dimensioni. Tra i
materiali rinvenutivi si segnalano numerosi frammenti di anfore di tipologie diverse (greco
italiche, puniche, massaliote), di ceramica a vernice nera di fabbrica volterrana, sombreros de
copa iberici, quattro thymiateria di area punica, un frammento di fibula d’oro, etc.
Particolarmente significativi sono i resti ossei di una leonessa, che, con quelli relativi a tre
cavalli, sono da attribuire al carico della nave, come animali da utilizzare in spettacoli
circensi, piuttosto che destinati ad uso alimentare da parte dell’equipaggio.
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