Nel regno degli animali: il cane.

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Nel regno degli animali: il cane.
Un argomento al mese su cui riflettere: Luglio 2010
Nel regno degli animali: il cane.
da “La vita in Cristo e nella Chiesa” – Anno LVI, n°6.
I cani convivono con l'uomo da
quando, circa dodicimila anni fa,
si cominciò ad addomesticare i
piccoli del lupo, antenati delle
odierne variegatissime razze e
sono, da allora, stati usati per
la caccia, per controllare il
bestiame e per fare la guardia.
Se si chiedesse agli uomini
cosa renda il rapporto con il
proprio amico a quattro zampe
tanto importante, avremmo di
solito risposte del tipo «mi fa
compagnia», oppure farebbero
riferimento a quella tanto
riconosciuta dote di fedeltà, che
sembra tra tutte la più ambita.
IIll ccaannee nneellllee rreelliiggiioonnii ee nneeii m
miittii
In uno dei libri più antichi dell'umanità, Zoroastro afferma: «Sull'intelligenza del cane il mondo si regge». A
quest'antica affermazione sembra faccia eco F. Kafka, quando scrive: «L'intero patrimonio di conoscenze,
tutte le domande e tutte le risposte, sono contenute in un cane». L'amore - talvolta addirittura la
venerazione - per il cane è un carattere comune presso molti popoli, tra i quali gli antichi persiani. Presso
gli antichi egiziani, gli dei potevano incarnarsi in qualsiasi animale: nell'aldilà il dio Anubis, rappresentato
come un cane nero o nella figura mista di «testa di cane» e corpo di uomo, responsabile
dell'imbalsamazione, accoglie il defunto, procede alla pesatura del cuore ed è, nello stesso tempo,
signore della necropoli.
Nell'antica Grecia era uso erigere delle statue ai cani e Socrate usava prestare giuramento presso il cane,
anche se, la parola «cane» era considerata ingiuriosa. Alessandro Magno fu così addolorato per la morte
prematura di un suo cane prediletto, che in suo onore fece fabbricare una città con templi; Omero canta
Argo, il cane di Ulisse, in modo davvero commovente e al dio della guerra, gli spartani sacrificavano un
cane. Quando, nel 108 a.C. i cimbri furono vinti dai romani, questi dovettero sostenere una fiera battaglia
anche contro i cani che custodivano le masserizie negli accampamenti delle retrovie.
Prima della nascita della religione islamica, in Arabia uno dei dodici mesi era quello del cane;
successivamente però l'Islam proiettò sul cane tutto ciò che è vile, materiale, rendendolo simbolo
dell'avidità, dell'incontinenza e del disordine.
IIll ccaannee nneellllaa B
Biibbbbiiaa
Nonostante la sua proverbiale fedeltà, il cane, sulle pagine bibliche non gode di buona fama: presso gli
israeliti era considerato un animale non commestibile e, visto che spesso si nutre di rifiuti (cf Es 22,30),
era perciò disprezzato. Esso è annoverato tra gli animali impuri perché si nutre di animali sbranati (dai
quali il sangue non è stato fatto uscire secondo le norme di Dt 12,27).
Essere paragonati ad un cane è oltraggioso (cf 1 Sam 17,43). L'appellativo «cane morto» esprime
estremo disprezzo (cf 1 Sam 24,15; 2 Sam 9,8; 16,9). Essere divorati dai cani era segno di un particolare
giudizio di Dio e ciò venne annunciato in parole profetiche di condanna. Il profeta Elia annuncia infatti ad
Acab che: «Nel luogo in cui i cani hanno leccato il sangue di Nabot, i cani leccheranno anche il tuo
sangue» (1 Re 21,19). E dunque un'onta particolare essere abbandonati ai cani. Nel salmo 22 (LXX 21)
gli avversar! dell'orante sono paragonati a un branco di cani malvagi che circondano l'innocente e
minacciano la sua vita (vv 17.21).
I cani dunque, stante alla documentazione biblica, erano disprezzati e visti come aggressivi e pericolosi
(cf Sal 59,7.15; 68,24; Gb 30,1) e ancor di più, implicando l'idea di impurità e oscenità, «cani» erano
chiamate le prostitute sacre (cf Dt 23,19).
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L'opinione negativa sul conto del cane sembra aver influenzato anche il Nuovo Testamento dove,
l'appellativo «cane», sta ad indicare i pagani (cf Mt 7,6; Ap 22,15) e, nella confutazione postapostolica,
«cani», era la denominazione spregiativa degli eretici. L’unico libro biblico che accenna al cane come
fedele compagno dell'uomo è quello diTobia (cf Tb 6,1; 11,4).
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C''eerraa uunnaa vvoollttaa..... IIll ppeessccee ee iill ccaannee nneell lliibbrroo ddii TToobbiiaa
Nel patrimonio culturale dell'umanità le fiabe costituiscono una produzione letteraria molto vasta, in cui
ricorrono determinati elementi «modello» di composizione che sono una convenzione consapevole e
costante a qualsiasi latitudine. Nelle fiabe infatti ricorrono certe situazioni stereotipate che il narratore è
obbligato, per così dire, ad includere nel suo racconto, come ad esempio l'incipit «c'era una volta...»,
presentando poi i personaggi, con i loro pregi e/o i loro difetti e/o difficoltà che indicano, sin dall'inizio un
equilibrio precario. Non mancano naturalmente i conflitti, le crisi e le soluzioni di essi. Nelle fiabe solitamente
è la crisi la fase centrale della storia, in cui il problema che ne costituisce il nocciolo si presenta in tutta la
sua chiarezza: si definisce chi è il protagonista, qual è il problema da risolvere, chi sono gli alleati su cui
contare, chi sono gli antagonisti, i nemici da combattere e si sviluppano narrativamente tutte le forme e le
soluzioni possibili.
La storia si conclude poi con un «e tutti vissero felici e contenti», raffigurando un nuovo equilibrio, più stabile
e soddisfacente rispetto a quello di apertura. I personaggi delle fiabe sono pochi: generalmente si ha un
protagonista, colui o colei che deve compiere una determinata impresa. Ci sono degli «alleati», persone,
animali o degli oggetti più o meno magici che aiuteranno il protagonista nel compimento della sua opera.
Appaiono anche i «nemici» che possono essere persone, animali, oggetti o circostanze difficili che
naturalmente ostacoleranno il protagonista nella realizzazione della sua impresa.
La storia di Tobia e Sara non sfugge a questo schema ed è costruita sul modello delle fiabe. Vediamo come.
Tobia, figlio unico di ebrei esiliati a Ninive, per mandato di suo padre deve recarsi in un paese lontano. Lo
scopo del viaggio è quello di ritirare la modesta eredità, lasciatagli dal padre presso un parente. Tobia,
munito di precise istruzioni paterne, intraprende il viaggio senza indugio. Avrà per compagno e alleato un
giovane dal nome Azaria (= «YHWH è aiuto»); si rivelerà essere nientemeno che l'angelo Raffaele (12,15), e,
al suo seguito, un cane (6,1): «II giovane partì insieme con Vangelo e anche il cane li seguì e s'avviò con
loro. Camminarono insieme finché li sorprese la prima sera; allora si fermarono a passare la notte sul fiume
Tigri. Il giovane scese nel fiume per lavarsi i piedi, quand'ecco un grosso pesce balza dall'acqua e tentò di
divorare il piede del ragazzo che impaurito si mise a gridare. Ma l'angelo gli disse: Afferra il pesce e non
lasciarlo fuggire. Il ragazzo riuscì ad afferrare il pesce e a tirarlo a riva» (6,1-3).
Nel brano appena letto il fiume Tigri funge da cornice simbolica per il salto di qualità di Tobia, da
protagonista a eroe. Il pericolo, l'attentato alla vita, è presente mediante il «pesce» il quale appare come un
mostro e la sua caratteristica specifica è quella di «divorare», non per fame ma per distruggere. Il pesce,
come il suo ambiente naturale, cioè l'acqua o il mare, incarna qui una potenza malefica che proviene dal
caos, rappresentato appunto dalle acque. La parola «pesce», in ebraico è composta da due lettere: «d»
(daleth) e «g» (ghimel) e si pronuncia dag. La somma numerica di queste due lettere è 7. Tale numero,
come ben sappiamo, indica la perfezione, la totalità. L'antagonista di Tobia è dunque il «grosso pesce» che
voleva «totalmente», «perfettamente» divorare il protagonista. Essendo aggredito, Tobia sfiora la morte ma
la vince, lotta con il pesce e riesce poi a tirarlo a riva. Le forze demoniache, proprio attraverso questo
mostruoso «pesce» ossia 7, si ergevano con violenza assoluta ma il lettore intuisce che Tobia non poteva
essere vinto! Potrà mai essere divorato un protagonista coadiuvato, tra l'altro, da ben due alleati di quella
levatura? L'angelo Raffaele, che gli assicura la protezione divina, e il cane, che, come l'angelo, «cura» dalle
minacce e pericoli del viaggio con la sua fedeltà, il suo fiuto e la sua guardia.
Superata la prima prova, l'eroe vorrebbe proseguire verso Rage e prendere il patrimonio che gli spetta, ma
Raffaele modifica il piano del viaggio, rivelando a Tobia che una sua parente, Sara, è destinata a lui sin
dall'eternità (6,18). Il giovane al sol sentirne parlare se ne innamora a tal punto «da non sapere più
distogliere il suo cuore da lei» (6,19). La futura sposa vive a Ecbatana, antica capitale della Media.
Curiosamente, la città è circondata da «sette mura»; (torna il numero 7) è quindi «perfetta», «totalmente»
inespugnabile. Tobia vorrebbe dunque sposare Sara, ma la giovane, soggiace ad un incantesimo malefico:
sposata già per ben «sette volte», non è mai riuscita a portare a compimento il matrimonio. Come in una
fiaba, Sara è prigioniera di uno stregone, chiamato nella storia Asmodeo (dal verbo smd «distuggere»), il
quale le impedisce l'incontro con il maschile che viene ogni volta, puntualmente, ucciso nella stanza nuziale.
Finché resta in balìa del demonio, essa non potrà avere una sua esistenza autonoma. Nella vita di Sara, la
modalità di azione del demonio cattivo opera seguendo la logica dell'inglobamento distruttivo ed incarna ogni
malignità rispetto all'eroina che, invece, è tutta virtù, descritta infatti come «seria, coraggiosa, graziosa» (Tb
6,12). I sentimenti di Asmodeo sono più che umani e comprensibili: l'invidia e la gelosia lo inducono a
compiere le azioni più ignominiose pur di vincere, privando ogni sposo candidato, cosi come cercherà di fare
anche con Tobia, della «giusta ricompensa», ovvero lo sposalizio con Sara.
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Il nemico di Sara, ma anche di Tobia, è dunque Asmodeo il quale ricopre il ruolo di antagonista per ambedue
i giovani. L'eroe, naturalmente come in ogni fiaba che si rispetti, vincerà cacciando via per sempre il demonio.
Abbiamo inoltre anche un altro elemento tipico della struttura fiabesca, ossia l'oggetto magico, spesso
sottratto alle forze malefiche stesse che lo detenevano e usavano impropriamente. Infatti, se il lettore non lo
ricordasse, quando Tobia superò quella terribile prova contro il «grosso pesce», il suo misterioso compagno,
gli consigliò di «togliere il cuore e il fegato del pesce» per farne uso contro gli spiriti cattivi, mentre il fiele del
pesce servirà per guarire il padre di Tobia dalla sua cecità (6,4.9). Alla fine Asmodeo, il «distruttore», sarà
vinto, i giovani si sposeranno, il padre di Tobia riacquisterà la vista e, come nelle fiabe, ci sarà un lieto fine:
«e vissero felici per lunghi anni» (cf capitolo 14).
Lungo la storia, abbiamo visto che oltre l'angelo Raffaele, anche il cane ha seguito inseparabilmente il
padrone in tutte le sue avventure ed è stato veicolo di messaggi di vicinanza, di affetto e di solidarietà (6,1;
11,4). Il legame con un cane fedele è altrettanto duraturo quanto possono esserlo, in genere, i vincoli fra gli
esseri viventi su questa terra. E con ciò potremmo concludere il nostro commento. Ma a ben pensarci, la
riflessione può essere completata, a partire dall'etimo, ebraico «cane», che si dice klb (vocalizzato kelev).
Scomponendo questa radice triconsonantica, ci accorgiamo che potrebbe essere intesa come kelev, dove la
prima lettera, la «k» (kaph) può indicare il comparativo «come», mentre lev significa «cuore»: quindi kelev,
«cane» potrebbe essere letto «come un cuore» e quale migliore definizione per il cane, l'animale simbolo
della fedeltà? Si dice infatti che il cane è «il fedele amico dell'uomo» e che, al pari del «cuore» non cessa
mai di battere per il padrone. Chi conosce il cane sa fino a che punto può arrivare la sua dedizione e questo
fin dalla notte dei tempi, quando esso affiancò l'uomo nelle sue attività principali di cacciatore, pastore e
coltivatore. Evidentemente le lingue semitiche (ebraico, arabo, aramaico, siriaco), dovendo dare un nome a
questo animale che lo definisse anche per le sue caratteristiche principali, non trovarono di meglio e di più
appropriato che klb «come un cuore».
Ciò sembra confermato da un astrakan trovato a Lachish, tra i resti di un'antica fortezza nel sud di Israele
distrutta dalle armate di Nabucodonosor nel 587 a.C. Su questo astrakan lo scriba, di nome Yoash,
comandante della piazzaforte di Lachish, rivolgendosi al suo re (probabilmente Sedecia), si autodefinisce
come abdekha kelev, ossia «il tuo servo cane» (VI,3) evidentemente intendendo con ciò il «tuo servo
fedele». Tornando alle tre lettere che compongono klb «cane» o «come un cuore» vediamo che la
corrispondenza numerica di questo nome è 52 (k = 20;l = 30; b = 2). II numero 52, a sua volta, potrebbe
essere scomposto in 5 + 2 = 7 e torna il numero della perfezione. Il lettore ricorda che il «pesce», ossia dag
corrisponde al numero 7 e, nella storia di Tobia incarnava le forze negative e alludeva alla distruzione
«perfetta», volendo divorare il protagonista.
Oltre Azaria-Raffaele («YHWH aiuta»; «Dio guarisce») l'eroe della nostra storia poteva contare sull'amico
fedele che non delude mai e accompagna e difende il suo padrone «perfettamente» (come suggerisce il
numero 7) e questo per sempre, finché il suo cuore batterà. La «perfezione» del cane (52 ossia 5 + 2 = 7) è
la sua fedeltà. E tanto ci sarebbe da interrogarsi sul perché sia necessario andare a ricercarla tra i non
umani.
a cura di Sandro Imparato
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