1 La profondità del volto Jean-Michel Bouhours La

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1 La profondità del volto Jean-Michel Bouhours La
La profondità del volto
Jean-Michel Bouhours
La storia della rappresentazione della figura umana dall’antico impero egizio a oggi è lunga e
complessa, poiché segue percorsi diversi in base alle religioni e alle organizzazioni sociali.
Le sessanta opere selezionate dalla collezione del Centre Pompidou e presentate in questa mostra
coprono essenzialmente l’arco del Novecento – dunque un lasso di tempo estremamente limitato
durante il quale, tuttavia, la questione della sopravvivenza stessa del ritratto in pittura si è posta più
volte.
Sul piano sociale, l’invenzione della psicoanalisi, la negazione dell’individuo operata dai
totalitarismi, la distruzione dell’identità nei campi di sterminio nazisti, la diffusione della fotografia
messa a servizio della burocrazia per il riconoscimento delle persone (per esempio con le foto
d’identità), l’invasione dell’Io da parte di uno pseudo-immaginario collettivo creato dai media; nella
sfera dell’arte, l’astrazione e la perdita del “soggetto” nell’ideale comune delle avanguardie: tutto
sembra far pensare all’avvento di un mondo acefalo1.
D’altro canto mai come oggi è stata tanto diffusa la frenesia di fotografarsi, qui e ora, altrove e in
ogni occasione, come a voler entrare in prima persona nel vortice dell’ubiquità e dell’immediatezza
dettate dai media contemporanei. L’immagine della propria immagine è diventata imprescindibile.
Nella sua Naturalis historia, Plinio il Vecchio narra che una fanciulla di Corinto inventò la pittura
nel tentativo di tracciare su una parete il contorno dell’ombra del suo fidanzato. “Butade di Sicione,
un semplice vasaio, fu il primo che osò rappresentare la figura umana in argilla. A quanto pare
accadde a Corinto, e fu la figlia a suggerirgliene l’idea. Essendo innamorata di un giovane che la
ricambiava e che era in procinto di partire per un lungo viaggio, ella si mise in mente di conservarne
i lineamenti, tratteggiandoli fedelmente a carbone sulla parete con l’aiuto di una lampada che li
fissava davanti ai suoi occhi. Nacque così questo celebre contorno, che è stato a lungo considerato il
padre della plastica, della pittura, della scultura, e in generale di tutte le arti basate sul tratto”2.
Con le sue teste in fil di ferro, Calder decostruisce il processo descritto da Plinio, procedendo per
sottrazione del materiale scultoreo – la terra o il marmo – e liberando così il disegno e la linea nello
spazio. Le immagini di sintesi contemporanee, in particolare quelle utilizzate nella ricerca
industriale, ci hanno fatto conoscere i modelli “virtuali” (è Dante il primo a utilizzare il termine
“virtualmente” per descrivere il regno dei morti nella Divina Commedia), in cui un disegno rende
un certo volume nelle tre dimensioni dello spazio fenomenologico. Proiettare una luce su uno di
questi ritratti in fil di ferro di Calder è un esercizio esaltante che permette di “ridisegnare” il
soggetto per mezzo dell’ombra portata, riproducendo in un certo senso l’esperienza di Butade e di
sua figlia, ma all’inverso. L’evanescenza della massa opaca che creava l’ombra piatta
nell’esperimento descritto da Plinio consente la proiezione in prospettiva dell’ombra “trasparente”
di un oggetto di cui avremmo conservato solo lo “scheletro”.
Nella prima conferenza sull’arte antica che tenne alla Royal Academy di Londra nel 1801, il pittore
Heinrich Füssli riprese il mito di Butade: “Se esiste una leggenda che merita la nostra attenzione, è
proprio la storia d’amore della fanciulla corinzia che, grazie alla luce di una lampada nascosta,
tracciò i contorni della sagoma del suo amato prima che questi la lasciasse; tale racconto ci spinge a
formulare delle osservazioni sui primi tentativi meccanici di pittura e su questo metodo lineare che,
pur non essendo stato praticamente rilevato da Winckelmann, ha continuato a costituire la base
della prassi esecutiva molto dopo che lo strumento per cui venne ideato era stato accantonato”3.
I procedimenti che Füssli definisce “meccanici” proliferano nel corso del Settecento, quando il mito
di Butade s’impone come “origine della pittura”. I ritratti in silhouette, ottenuti ritagliando la
sagoma di un soggetto dalla sua ombra portata, vengono rapidamente perfezionati grazie alla
physionotrace, uno strumento che utilizzava le proprietà della camera oscura. L’immagine
“oggettiva” si era sufficientemente affermata perché lo svizzero Johann Kaspar Lavater elaborasse
la fisiognomica, una scienza capace di dedurre il carattere dell’individuo sulla base dei tratti fisici.
1
Lavater raccoglie il risultato delle sue ricerche in un’opera intitolata L’arte di conoscere gli uomini,
pubblicata a Parigi nel 1820. Questa pseudoscienza sarà ripresa in Italia dal criminologo Cesare
Lombroso, che tenterà di attribuire delle facies alle varie categorie di reati. Nel contesto di uno
scientismo trionfante, si riscontra curiosamente una convergenza – quasi un accanimento – delle
ricerche scientifiche sul volto, come se proprio lì risiedesse la soluzione dei misteri dell’umanità. Il
futuro fondatore della neurologia, Duchenne de Boulogne, specializzatosi nell’applicazione
dell’elettricità alla fisiologia sperimentale, utilizza impulsi elettrici su un viso colpito da paralisi
facciale per ricreare tutte le espressioni umane, che poi immortala con l’ausilio della fotografia.
Quest’ultima favorirà anche lo sviluppo dell’antropometria, che permetterà ad Alphonse Bertillon,
capo della prefettura di Parigi, di classificare ogni dettaglio del viso (naso, bocca, mento, collo) per
tipologie distintive (Tavola sinottica dei tratti fisiognomici), e al professor Charcot di documentare
le pose orchestrate di Augustine, e più in generale la teatralizzazione del corpo delle isteriche nel
padiglione femminile della Salpêtrière.
Il secolo che ha visto l’invenzione della fotografia e poi del cinema affida al ritratto due istanze
fondamentali: da un lato decifrare la parte nascosta dell’individuo (che la si chiami anima o
inconscio), dall’altro risolvere una volta per tutte l’assillante questione della mimesis, già presente
nella Grecia classica.
Il tema della somiglianza nasce insieme alla parola “ritratto” (“tratto per tratto”). Ancora nel
Medioevo, tuttavia, il verbo “ritrarre” – di cui “ritratto” è il participio passato – significava
“disegnare o rappresentare”; solo più tardi la tassonomia si precisa. Nel XVI secolo, dominato dal
pensiero platonico, il termine è necessariamente collegato al concetto di somiglianza, mentre nel
Seicento è riservato alla rappresentazione della figura umana.
Ma il ritratto non è una copia, e non può sostituire il soggetto. Nel Cratilo di Platone, Socrate
evocava l’eidolon, l’immagine, per limitarne la portata alla sola somiglianza, all’aspetto esteriore.
Se in effetti il ritratto contenesse l’essenza del modello, affermava Socrate, non sarebbe più
possibile distinguerlo dal soggetto4. La questione della somiglianza connessa al ritratto sarà
regolarmente invocata fino al Romanticismo, che riporterà in primo piano il volto e con esso lo
sguardo, sbarazzandolo della sua teatralità5. Anche laddove l’impressionismo di Degas, Manet o
Van Gogh disdegna l’espressione, la somiglianza resta. I ritratti di Modigliani sono la
dimostrazione perfetta che una deformazione dell’elemento plastico non può eliminarla, e Dora
Maar (sarà per via dello sguardo, dell’atteggiamento malinconico o della capigliatura?) rimane
perfettamente identificabile nel ritratto dipinto da Picasso nel 1938. La somiglianza sembra tuttavia
dotata di uno spessore più profondo rispetto alla superficialità del “tratto per tratto”; Giacometti
l’aveva sintetizzato in una formula straordinaria: “Più siamo noi stessi, più diventiamo chiunque”6.
Zoran, dal canto suo, ha espresso lo stesso concetto parlando dei ritratti realizzati a Dachau : “Ho
colto la realtà e ho capito cosa significare arrivare all’essenziale!”7.
La questione del soggetto, presente nella ritrattistica fin dall’antichità, svanisce provvisoriamente
nel Medioevo, periodo in cui la rappresentazione della figura umana è dominata dai codici
aristocratici che privilegiano la linea dinastica o i rapporti di dominio tra signore e vassalli. Il
“soggetto” rientra in scena nel ritratto cinquecentesco, in particolare grazie agli umanisti tedeschi
che riattivano una coscienza dell’“Io”8.
Diceva Oscar Wilde attraverso Dorian Gray, geloso del proprio ritratto dipinto da Basil Hallward:
“Se fossi io a restar sempre giovane e il ritratto a invecchiare! Per questo… per questo darei
qualunque cosa; sì, non c’è nulla al mondo che non sarei disposto a dare! Darei persino l’anima
mia, per questo!”. Il ritratto possiede almeno questo vantaggio rispetto al volto, per natura sua labile
e pronto a sfuggire a qualsiasi cristallizzazione.
La funzione di sostituzione del soggetto assente invocata da Plinio è una caratteristica saliente del
ritratto, che in qualche modo scongiura la scomparsa del soggetto, permette una riattivazione della
memoria contro l’oblio, o ancora – come nel mondo egizio – partecipa all’organizzazione della vita
ultraterrena del defunto. Malgrado tutto ciò, l’idea del trapasso indigna Dorian Gray: se infatti il
2
ritratto è un doppio, perché non scambiarsi i ruoli? Jean-Luc Nancy precisa questo legame fra
soggetto e suo ritratto focalizzandosi sulla questione bipolare della presenza e dell’assenza: “Il
ritratto è fatto per conservare l’immagine di una persona in sua assenza, che si tratti di un
allontanamento o della morte. È la presenza dell’assente, una presenza in absentia che dunque non è
solo incaricata di riprodurne i tratti, ma proprio di presentare la presenza in quanto assente: di
evocarla (se non di invocarla), e anche di esporre, di manifestare il recesso in cui questa presenza si
trova”9. Sostituendosi al corpo assente e assicurando l’eternità del soggetto, il ritratto fondato sulla
mimesis acquista immediatamente una dimensione ontologica10.
La scomparsa del soggetto innesca una dislocazione della rappresentazione. Il ritratto intrattiene un
legame ambiguo con la morte, mercanteggia con essa: Giacometti inaugura la propria opera con
l’immagine del volto di un amico defunto, che ormai avrebbe assimilato a tutti i volti che
incontrava. Anche Bacon evoca un “odore di morte”11. Se la consustanzialità della morte nel ritratto
ha assunto in passato i tratti rasserenati del passaggio del tempo, il Novecento l’ha caricata di
potente violenza esistenziale. Emblematici sono in questo senso gli autoritratti di Antonin Artaud,
in cui il supplizio del tormento interiore affiora in superficie, a segnare il volto sul foglio.
Dopo la prima rivoluzione moderna del ritratto borghese avvenuta nel Cinquecento, la seconda
rivoluzione del ritratto è di matrice modernista e ha luogo quando l’artista smette di prefiggersi
come obiettivo l’espressione del modello per esprimere invece, attraverso il soggetto, il proprio “io”
e le proprie aspirazioni artistiche. Allo stesso tempo, l’artista si è liberato dai vincoli fino ad allora
connessi al ritratto, quelli fissati cioè da committenti che si aspettavano non soltanto una
rappresentazione adulatoria, ma anche la raffigurazione di uno status sociale all’interno di un
sistema di segni perfettamente codificati12. Alla regola generale dell’affrancamento dalla
committenza deroga Alberto Giacometti, che al contrario cercherà una promiscuità con il proprio
modello nel rifiuto di una libertà che sarebbe stata per lui fonte di turbamento.
Sulla scia di Toulouse-Lautrec, i fauves e gli espressionisti deformano i volti, li oltraggiano con
trucchi pesanti, sublimando ciò che la morale borghese liquida come “volgare”: l’universo dei
cabaret, delle prostitute e del demi-monde fornisce agli artisti questi nuovi idoli di una modernità
pagana.
Nel loro testo-manifesto Oltre il cubismo, Amédée Ozenfant e Le Corbusier delineano una
dicotomia fra ritratto fotografico e ritratto pittorico, riassumendo efficacemente la rivoluzione che si
è operata in quel periodo nella sfera della rappresentazione del soggetto. La pittura non rientra più
nel campo dell’imitazione e quindi dell’eidolon (immagine), ma ha a che fare con la trasmissione di
qualcosa di più vago ma non per questo meno reale: una “sensazione totale del soggetto”13.
Henri Matisse risolve la questione attraverso la negazione del genere espressa nella celebre formula
“Io non faccio un ritratto, io faccio un dipinto”. In un articolo intitolato Sul cubismo, pubblicato
nella rivista “Nord Sud”14 di cui è direttore, Pierre Reverdy articola un’argomentazione a sostegno
della posizione di Matisse : “… si capirà perché non ammettiamo che un pittore cubista esegua un
ritratto. Non bisogna confondere. Si tratta di creare un’opera, nella fattispecie un dipinto, e non una
testa o un oggetto costruiti secondo leggi nuove che non giustificherebbero a sufficienza il loro
aspetto finale”.
E se il viso, in quanto erede del Santo volto, contenesse in sé un elemento sacro che lo protegge
dalle “aggressioni”?
La scoperta quasi contemporanea del primitivismo da parte di Picasso, Matisse, Derain e Vlaminck
intorno al 1906-1907 passa in primo luogo attraverso le maschere, oggetti rituali che consentono di
nascondere il volto lasciando visibile il corpo (al contrario della tradizione occidentale in cui il viso
è la sola parte del corpo che viene svelata allo sguardo dell’altro). Queste maschere sono state
invocate per spiegare la stilizzazione dei volti nelle prime opere cubiste; emblematico in questo
senso è la maschera Fang appesa sopra al letto di Vlaminck che lascia sconvolto André Derain,
impaziente come molti altri di riprodurne il motivo. L’arte negra scoperta da Derain al British
Museum di Londra nel 1906, l’influenza dei primitivi spagnoli, e poi la visione delle collezioni
3
africane al museo del Trocadéro fanno parte della consueta esegesi delle fonti picassiane. L’idea di
un mimetismo rispetto a un paradigma formale che avrebbe orientato gli artisti verso un linguaggio
astratto applicato al corpo (superfici concave, assi verticale/orizzontale, forme ovoidali, orbite
cave…) – una spiegazione peraltro respinta con fermezza da Picasso, che considerava queste
maschere come intermediari degli spiriti e non come “sculture” – convince meno della metonimia
della metamorfosi del corpo in un’immagine, come la definisce dal punto di vista antropologico
Hans Belting15. La maschera permette di nascondere la propria identità a vantaggio di una
rappresentazione simbolica. Questa scomparsa dell’io individuale dietro un io tribale non poteva
non sedurre le avanguardie, alla ricerca di un uomo nuovo capace di trascendere i propri sentimenti
egoisti in un io collettivo. La maschera rispondeva a un’aspirazione di supremazia del sistema
sull’elemento soggettivo. Più prosaicamente, infine, era la chiave, quantomeno provvisoria, per
aggirare le difficoltà connesse al volto.
L’esercizio non era tuttavia privo di ostacoli, e Picasso se ne rende conto quando svela Les
Demoiselles d’Avignon a un entourage che ne rimane sconcertato; ad apparire scioccante non è
tanto la geometrizzazione dei corpi, quanto piuttosto le due teste sulla destra del dipinto che
costituiscono una decisa deformazione dei modelli. Anche Jacques Lipchitz lo sperimenta
dolorosamente sulla propria pelle quando nel 1915, in preda a una crisi profonda, non riesce a
conciliare il cubismo verso cui si sente irresistibilmente attratto con la rappresentazione del volto.
Lipchitz ha la sensazione di aver perso il legame con la natura e finisce per distruggere le sue
sculture cubiste, giudicandole prive di umanità. Tentando di seguire il percorso inverso, realizza
allora dei ritratti realisti; ugualmente insoddisfatto del risultato, distruggerà anche questi. Lipchitz si
riconcilia con la sua opera solo con la realizzazione della Testa del 1915, quando acquista la
consapevolezza di essere riuscito ad armonizzare, in uno stesso oggetto, un lessico formale cubista e
l’umanità del soggetto16.
Nel De Pictura, Alberti assimilava l’origine della pittura a quella del riflesso di Narciso, e dunque
all’origine dell’autoritratto: “Però usai dire tra i miei amici, secondo la sentenza de’ poeti, quel
Narcisso convertito in fiore essere della pittura stato inventore… Che dirai tu essere dipingere altra
cosa che simile abbracciare con arte quella ivi superficie del fonte?”17.
Jean-Luc Nancy fa osservare che esiste una differenza fondamentale tra l’immagine prodotta da uno
specchio e il ritratto: se infatti il riflesso può prodursi solo in praesentia del soggetto, il ritratto è in
absentia18 e l’immagine creata perdura oltre la seduta di posa nell’atelier.
Alberti evocava un pittore “narciso”, innamorato della propria immagine. In questa ricerca di sé,
tuttavia, molti artisti riconoscono la difficoltà di un ritratto introspettivo: l’io è senza dubbio il
modello più complesso e refrattario all’analisi. Affermerà Beckmann: “… l’io è il segreto più
grande del mondo; credo all’io nella sua forma eterna e indistruttibile. Per questo mi interesso
all’individuo e cerco in tutti i modi di sondarlo e rappresentarlo”19.
Esaltando l’eros o l’artista demiurgo, gli autoritratti si prestano meglio ai propositi più audaci. La
storia dell’arte ne conta innumerevoli esempi, da Michelangelo che si rappresenta sulla pelle di san
Bartolomeo nel Giudizio universale al cupo autoritratto eseguito da Rembrandt nel 1626,
dall’immagine di Courbet in veste di “disperato” all’Autoritratto con orecchio bendato che Vincent
van Gogh realizza nel 1889. Tutte queste opere danno prova del fatto che l’artista paga la propria
missione in prima persona, e da questo punto di vista il paradigma vangoghiano del “suicidio della
società” conta predecessori e numerosi eredi. Abbiamo accennato al caso di Artaud e al suo
processo di autorappresentazione che fa pensare a un sismografo, a una traduzione grafica della
frammentazione dell’io interiore. In Così parlò Zarathustra Nietzsche evocava l’io “torturante” cui
si richiama anche Herbert Boeckl con il suo Autoritratto non presente in mostra. Pur non trattandosi
di un autoritratto, la Grande testa tragica di Jean Fautrier esprime ugualmente questa volontà di
tradurre plasticamente, con una materia assimilata alla carne, la sofferenza o l’orrore, agli antipodi
di una sintassi di espressioni.
4
Praticato a intervalli regolari, l’autoritratto traccia un bilancio del tempo che passa: “Gli occhi negli
occhi di una grande verità solitaria”, dirà Paula Modersohn-Becker. Da Rembrandt a Roman
Opalka, questo inventario dei danni del tempo rappresenta un altro modo, metodico e maniacale, di
esprimere la presenza della morte nel ritratto. L’Autoritratto del 1646 in cui Johannes Gumpp si
rappresenta di spalle al centro della composizione, come una sagoma scura, a sinistra il suo riflesso
in uno specchio e a destra l’effigie che è intento a dipingere riproducendo “tratto per tratto” la
propria immagine speculare, rievoca una sorta di modalità primitiva dell’esecuzione
dell’autoritratto in studio. La netta simmetria della composizione genera una triade fra la
soggettività di un io di spalle che l’osservatore non può vedere, l’effimera immagine riflessa che
attesta la praesentia dell’artista e il ritratto dipinto, praesentia in absentia destinata alla posterità20.
È interessante osservare come Giorgio de Chirico faccia precipitare questa scena nella sfera
psicoanalitica nell’Autoritratto con la madre. Teoricamente questo dipinto non sarebbe un
autoritratto, visto che il soggetto è la madre dell’artista, tuttavia diversi elementi intervengono a
confondere l’analisi. La donna posa davanti a un autoritratto di De Chirico che questi le ha regalato:
la figura tautologica del ritratto all’interno del ritratto non avrebbe in sé nulla di straordinario se la
somiglianza con una genitrice di cui sono nettamente accentuati i tratti maschili non introducesse
fra il soggetto e il ritratto (e dunque fra la madre e il figlio), una reale ambiguità, un forte
scompiglio, al punto da legittimare un’assimilazione dell’uno all’altra.
Qualche tempo prima di escludere Giacometti dal gruppo dei surrealisti nel 1935, Breton esclamava
con distaccato disprezzo a proposito dei recenti lavori dello scultore: “Una testa? Tutti sanno cos’è
una testa!”. Giacometti si concentra di nuovo in maniera “maniacale” e definitiva sulla
rappresentazione del volto; in questa fase della sua carriera non gli interessano più gli oggetti reali,
ma l’inconsistenza e la trasparenza dei visi. La funzione della scultura non è più la produzione di
oggetti, bensì la costruzione di un’ermeneutica del soggetto: “L’avventura, la grande avventura, è di
veder sorgere qualcosa di ignoto ogni giorno, nello stesso volto: è più grande di qualsiasi viaggio
del mondo”, afferma l’artista.
Volti e ritratti sono sinonimi solo in un’accezione molto approssimativa, come ci ricorda Itzhak
Goldberg22 parlando della volontà di cogliere la fugacità del volto umano nel ritratto. Noi abbiamo
suggerito che la forza della somiglianza resiste alle peggiori profanazioni formali del volto per
marcare una differenziazione tra questo e il ritratto.
In uno straordinario testo sul volto, Emmanuel Lévinas ne affermava il carattere irriducibile e
autonomo (“Il volto è senso da solo”): “Quando lei vede un naso, degli occhi, una fronte, un mento
e può descriverli si rivolge all’altro come se questo fosse un oggetto. Il modo migliore di incontrare
l’altro è di non notare neppure il colore dei suoi occhi!… La relazione con il volto può senz’altro
essere dominata dalla percezione, ma il volto in quanto volto non si riduce ad essa”23.
Conservare la realtà del volto al di là di tutti gli sconvolgimenti dell’epoca, tanto politici quanto
estetici, e immergersi in maniera del tutto inedita negli abissi della figura umana: è stata certamente
questa la grande lezione dell’arte del Novecento.
1
Cfr. il testo di Jean Clair nel presente volume.
Ristampato a Londra presso Guillaume Bowyer, 1725.
3
Ralph N. Wornum (a cura di), Lectures on Painting by the Royal Academicians, Barry, Opie and
Fuseli, London 1848.
4
Cfr. Vasiliki Boura, “La pensée grecque et le portrait antique”, in Fabrice Flahutez, Itzhak
Goldberg e Panayota Volti, Visage et portrait/Visage ou portrait, Presses universitaires de Paris
Ouest, Paris 2010, p. 28.
5
Cfr. Itzhak Goldberg, Portrait et visage, visage et portrait, in Flahutez, Goldberg e Volti 2010, p.
19.
2
5
6
Citato da Jean Clair nel testo “Alberto Giacometti. Le résidu et la ressemblance”, in Jean Clair,
Autoportrait au visage absent. Écrits sur l’art 1981-2007, Gallimard, Paris 2008, p. 155.
7
Citato in Pascal Bonafoux, L’Autoportrait au XXe siècle, Éd. Diane de Selliers, Paris 2004, p. 18.
8
Hans Belting, Pour une anthropologie des images, Gallimard (collana “Le temps des images”),
Paris 2004, p. 176.
9
Jean-Luc Nancy, Le Regard du portrait, Galilée, Paris 2000, p. 54.
10
Belting 2004, p. 242.
11
Cfr. Francis Bacon, L’Art de l’impossible. Entretiens avec David Sylvester, Skira (collana “Les
sentiers de la création”), Genève 1976, rist. 1995, p. 59. Vedi anche Antonin Artaud, Œuvres,
edizione critica, annotata e presentata da Evelyne Grossmann, Gallimard (collana “Quarto”), Paris
2004, p. 1534.
12
A riguardo cfr. il testo di Itzhak Goldberg, “Portrait et visage, visage ou portrait”, in Flahutez,
Goldberg e Volti 2010, p. 15.
13
Amédée Ozenfant e Le Corbusier, Après le cubisme, Éd. Altamira, Paris 1999, p. 88.
14
N. 1, 1916.
15
Cfr. Belting 2004, p. 49.
16
Jacques Lipchitz, My Life in Sculpture, Thames and Hudson, London 1972, p. 34.
17
Leon Battista Alberti, De pictura [1435], a cura di Cecil Grayson, Laterza, Bari 1980.
18
Nancy 2000, pp. 45-46.
19
Beckmann citato in Erika Billeter, L’Autoportrait à l’âge de la photographie: peintres et
photographes en dialogue avec leur propre image, Musée cantonal, Lausanne 1985, p. 21.
20
Cfr. la straordinaria analisi di Pascal Bonafoux su questo dipinto in Pascal Bonafoux, Les peintres
et l’autoportrait, Skira, Genève 1984, pp. 22-23.
21
Alberto Giacometti, Écrits, presentati da Michel Leiris e Jacques Dupin, Hermann, Paris 1990,
p. 84.
22
Goldberg 2010, p. 13.
23
Emmanuel Lévinas, Éthique et infini, Fayard, Paris 1982, pp. 89-90.
6