Rassegna stampa del 9 gennaio 2015

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Rassegna stampa del 9 gennaio 2015
RASSEGNA STAMPA
venerdì 9 gennaio 2015
L’ARCI SUI MEDIA
INTERESSE ASSOCIAZIONE
ESTERI
INTERNI
LEGALITA’DEMOCRATICA
RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
SOCIETA’
BENI COMUNI/AMBIENTE
INFORMAZIONE
CULTURA E SCUOLA
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IL MESSAGGERO
IL MANIFESTO
AVVENIRE
IL FATTO
PANORAMA
L’ESPRESSO
VITA
LEFT
IL SALVAGENTE
INTERNAZIONALE
L’ARCI SUI MEDIA
Da Corriere.it del 08/01/15 (Roma)
«Je suis Charlie», dopo la strage
rose e fiaccole in piazza Farnese
Fiori bianchi e rossi sulle transenne davanti all’ambasciata francese,
torce e cartelli. Centinaia i manifestanti che a un certo punto hanno
intonato la Marsigliese
di MANUELA PELATI
ROMA - Rose bianche e rosse sulle transenne davanti all’ambasciata francese, fiaccole in
mano e cartelli in aria per centinaia di manifestanti. «Je suis Charlie» è scritto sui fogli
stampati, alcuni corredati dalle foto dei giornalisti di Charlie Hebdo uccisi a Parigi.
All’indomani del terribile attentato al settimanale satirico, in molti hanno manifestato il
proprio orrore e la propria indignazione partecipando alla fiaccolata in piazza Farnese,
L’iniziativa è stata indetta dalla Federazione nazionale della stampa, dall’Ordine dei
giornalisti e da altre organizzazioni di categoria in difesa della libertà di espressione e di
informazione. Una risposta a un massacro - 12 i morti - che diversi commentatori hanno
già etichettato come l’11 settembre europeo, il giorno più nero per la stampa francese.
Lo sdegno
Franco Siddi, segretario della Fnsi, ha letto l’elenco delle decine di testate giornalistiche,
associazioni e gruppi che hanno portato solidarietà in piazza. Tra i presenti Abdellah
Redouane, presidente del centro islamico di Roma: «La nostra cultura non prevede
violenza, isoleremo gli estremisti». L’Arci, precisando che «in nessun modo bisogna
cedere ad atteggiamenti islamofobi», ha sottolineato: «La matrice forse qaedista o
comunque legata all’Is mette in luce ancora una volta il pericolo che queste organizzazioni
costituiscono per la civile convivenza umana e per la pace». «Un atto gravissimo e
intollerabile», ha commentato il Forum nazionale del terzo settore.
Occhi gonfi e volti tirati
Orrore e indignazione i sentimenti dominanti. «Solidarietà contro ogni forma di violenza e
terrorismo» le parole usate dai rappresentanti delle associazioni, partiti politici, giornali e
comunità. Tra la folla molti i francesi con gli occhi gonfi e i volti tirati. «Ho portato mio figlio
di nove anni perché è importante che cresca con una coscienza morale e civile» ha detto
una mamma che teneva il bambino per mano. «Per noi Charlie Hebdo significa libertà». In
piazza c’erano molti politici fra i quali Giovanni Toti e Marco Pannella, i sindacalisti Cgil e
Uil, Sussanna Camusso e Carmelo Barbagallo, i rappresentanti Uil. Presente l’assessore
alla Scuola Alessandra Cattoi in rappresentanza di tutto il Campidoglio. Il presidente della
Comunità del Mondo Arabo in Italia Foad Aodi ha dichiarato: «Dobbiamo lavorare con
l’Onu per ricostruire un clima di pace e fratellanza».
http://roma.corriere.it/notizie/cronaca/15_gennaio_08/fiaccolata-piazza-farnese-l-attentatoabominio-bb48c5a6-9753-11e4-b51b-464ae47f8535.shtml
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Da Repubblica.it del 08/01/15 (Roma)
Charlie Hebdo, in piazza Farnese la
manifestazione per la libertà di stampa
A promuovere l'iniziativa sono stati, tra gli altri, la Federazione
Nazionale Stampa Italiana e Articolo 21. Decine i sindacati, i partiti e le
associazioni che hanno aderito. Sospesi per un'ora i lavori alla Camera.
Un minuto di silenzio, fiaccole e matite alzate
Matite nel taschino, candele, fiaccole, cartelli "Je suis Charlie". Piazza Farnese, che ospita
l'ambasciata francese a Roma, si è rimpiata di centinaia di giornalisti, vignettisti, esponenti
politici, sindacalisti, cittadini, tutti in nome della libertà di stampa, e per condannare
l'attentato di ieri al giornale satirico francese.
A promuovere l'iniziativa, dopo una prima mobilitazione spontanea già ieri, sono stati, la
Federazione Nazionale Stampa Italiana e Articolo 21. "Il futuro è Charlie" recita lo
striscione più grande.
Tanti anche i musulmani romani presenti alla fiaccolata, per esprimere solidarietà alle
vittime, alla Francia, ma soprattutto, come spiega uno di loro, "per prendere le distanze
dall'attentato, per far capire la differenza tra Islam e terrorismo. Iniziamo ad avere paura
anche noi, spesso si generalizza e si strumentalizzano questi attacchi, per predersela con
gli stranieri, con gli immigrati. Immigrazione e terrorismo sono due cose diverse, molto
diverse".
Tra le adesioni quelle dei sindacati come la Fiom, la Filcams Cgil e la Uil nazionale, i partiti
come Sel, Pd, FdI-An, le organizzazioni giovanili come l'Udu e la Rete degli studenti, il
Circolo di cultura omossesuale Mario Mieli, Amnesty Italia, Legambiente, l'Ordine
nazionale dei giornalisti, Se Non Ora Quando, Acli, Arci, European Alternatives, Libera
informazione, Ossigeno, Associazione Stampa Romana, Ordine dei giornalisti del Lazio.
Anche i lavori della Camera sono stati sospesi un'ora per consentire ai deputati di
partecipare alla manifestazione. La richiesta è arrivata dal capogruppo di Sel, Arturo
Scotto, ed è stata condivisa anche da Fi con Rocco Palese. La presidente della Camera,
Laura Boldrini, ha sospeso la seduta dalle 18 alle 19 e ha comunicato che alla ripresa i
lavori andranno avanti fino alle 21.
Il segretario del sindacato dei giornalisti Franco Siddi ha parlato di "una manifestazione di
cordoglio di fronte ad un atto terroristico orrendo", prima di invitare i partecipanti a un
minuto di silenzio. L'ambasciatrice della Francia in Italia Catherine Colonna ha ringraziato
"tutti i francesi che sono qui con noi ma anche in generale tutto il popolo francese. Siamo
qui - ha continuato - in questo giorno triste, determinati in difesa della libertà di
espressione. Ringrazio il popolo italiano per la solidarietà" ha concluso. Il presidente della
Comunità del mondo arabo in Italia, Fouad Aodi, ha portato la solidarietà dei musulmani,
aggiungendo che "questi movimenti terroristici vanno combattuti prima da noi". Presente
anche il segretario della Cgil Susanna Camusso con un cartello in mano con la scritta "je
sui Charlie", il segretario della Fiom Maurizio Landini, Barbagallo della Uil ed esponenti
politici: molti i parlamentari di Pd e Sel, poi per Forza Italia Maurizio Gasparri, Mara
Carfagna e Giovanni Toti, Antonio Tajani, vice presidente vicario del Parlamento europe, e
Giorgia Meloni di Fdi-An.
Intanto Palazzo Senatorio in piazza del Campidoglio, su volontà del Comune di Roma, si è
illuminato con il bianco, rosso e blu della bandiera francese. "Nous sommes Charlie" ha
scritto su Twitter il sindaco Marino.
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http://roma.repubblica.it/cronaca/2015/01/08/news/charlie_hebdo_i_piazza_farnese_la_ma
nifestazione_per_la_libert_di_stampa-104552151/
Da Repubblica.it del 08/01/15 (Roma)
"Il futuro è Charlie Hebdo", in piazza a Roma
per la libertà di stampa
"Il futuro è Charlie Hebdo", in piazza a Roma per la libertà di stampa "Il futuro è Charlie
Hebdo, siamo tutti Charlie Hebdo". 'Siamo tutti Charlie Hebdo'. Fiaccole, fiori e tantissime
matite a Roma in piazza Farnese davanti alla sede dell'Ambasciata di Francia. Giornalisti,
romani, turisti e cittadini sono scesi in strada per partecipare alla manifestazione indetta,
tra gli altri, dalla Fnsi per testimoniare solidarietà alle vittime dell'attentato terroristico di
Parigi e schierarsi a difesa della libertà di espressione e di informazione. Tra le
organizzazioni che hanno aderito alla manifestazione ci sono Cgil (con il segretario
Susanna Camusso in piazza), Cisl, Uil, Acli, Arci, Ordine dei giornalisti, l'Associazione
della stampa estera, Ast, Pagine ebraiche, Fiom, Mediacoop, Forum nazionale del terzo
settore, Comitato romano di solidarietà con il popolo siriano, Legambiente. Molte anche le
delegazioni di partiti politici da Sel a Forza Italia e le associazioni studentesche
Link alla fotogallery
http://roma.repubblica.it/cronaca/2015/01/08/foto/charlie_hebdo_in_piazza_farnese_per_la
_libert_di_stampa-104555209/1/#1
Da Redattore Sociale del 08/01/15
Charlie Hebdo, iniziative in Italia contro la
violenza e per la libertà di espressione
Giornalisti e associazioni manifestano alle 18 davanti alla sede
dell’Ambasciata di Francia in solidarietà alle vittime dell’attentato
terroristico e in difesa della libertà di stampa ed espressione. Forum
terzo settore: "Atto gravissimo ed intollerabile". Arci: "Non cedere ad
atteggiamenti islamofobi"
ROMA - Orrore e profonda indignazione. Sono questi gli stati d'animo più ricorrenti
all'indomani del vile attentato a colpi di kalashnikov alla redazione di Charlie Hebdo a
Parigi ad opera di terroristi. Al grido di "Allah u Akbar" , due uomini sono entrati sparando
nella sede del settimanale satirico (noto per aver pubblicato alcune vignette contro l'Islam)
e hanno ucciso 12 persone, tra cui il direttore. Un attentato alla libertà di informazione che
in molti hanno etichettato come l'11 settembre europeo, e che verrà ricordato come il
giorno più nero della stampa francese. Per esprimere cordoglio e solidarietà alle vittime
dell'attentato, l'Fnsi (Federazione Nazionale Stampa Italiana) ha organizzato per oggi alle
ore 18 a Roma una fiaccolata in difesa della libertà di espressione e di informazione in
Francia, in Europa ed ovunque nel mondo.
L’appuntamento è in piazza Farnese, davanti alla sede dell’Ambasciata di Francia. A
promuovere l’iniziativa sono, tra gli altri: Federazione Nazionale Stampa Italiana (Fnsi),
Ordine nazionale dei giornalisti, Se Non Ora Quando, Articolo 21, Acli, Arci, European
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Alternatives, Libera informazione, Ossigeno, Associazione Stampa Romana, Ordine dei
giornalisti del Lazio, Sindacato giornalisti della Calabria, #giornaLista, Stampa Libera e
Indipendente, giornalistitalia.it, Unci Nazionale. "Un attentato alla libertà di informazione commenta Franco Siddi, Presidente Fnsi - che, ad ora, è costato la vita a dodici persone e
causato non meno di venti feriti. Un vero abominio che condanna durissimamente e che,
assieme alla Federazione Internazionale dei Giornalisti (Ifj) saprà essere vicina ai colleghi
del settimanale così orrendamente colpiti e a tutti i giornalisti di Francia".
Tra coloro che hanno aderito all'iniziativa ci sono anche l'Arci e il Forum Nazionale del
Terzo Settore. Entrambe condannano fermamente il feroce attacco terroristico al giornale
satirico parigino Charlie Hebdo. "Con una violenza inaudita si è voluta così colpire la
libertà di espressione e di stampa - afferma l'Arci - .Tra le vittime compaiono celebri
vignettisti e intellettuali noti a livello mondiale. Una perdita per tutto il mondo della cultura e
del giornalismo. La matrice forse alqaedista o comunque legata all’Is dell’attentato mette in
luce ancora una volta il pericolo che queste organizzazioni costituiscono per la civile
convivenza umana e per la pace.
"In nessun modo però - conclude l'Arci - bisogna cedere ad atteggiamenti islamofobi, che
confondono l’islam con il terrorismo, alimentati dalla destra europea e italiana, che non
fanno altro che alimentare un clima di intolleranza i cui frutti sono sempre drammatici".
"L’attentato che ha sconvolto ieri la redazione parigina del settimanale satirico Charlie
Hebdo - commenta il Forum Nazionale del Terzo Settore - è un attacco alla libertà di
pensiero e di espressione. Un atto gravissimo ed intollerabile che è costato la vita di 12
persone, tra giornalisti, vignettisti e agenti della polizia, suscitando lo sdegno di tutto il
mondo." Così il Portavoce del Forum, Pietro Barbieri. "Condanniamo duramente questo
attacco e come Forum Nazionale del Terzo Settore e insieme alla redazione del Giornale
Radio Sociale aderiamo alla fiaccolata indetta dalla Fnsi - Federazione Nazionale della
Stampa Italiana - per oggi pomeriggio alle 18 a Roma in piazza Farnese, in solidarietà alle
vittime dell’attentato terroristico e in difesa della libertà di stampa e di espressione nel
mondo intero, contro ogni forma di terrorismo e intimidazioni".
A Firenze, presidio al consolato. A Prato flash mob. Un presidio di solidarietà davanti al
Consolato francese, in piazza Ognissanti a Firenze. "Nous somme tous Charlie" e'
l'iniziativa promossa alle 18 di questo pomeriggio da Cgil, Cisl, Uil, Arci, Anpi e
Assostampa Toscana in risposta "all''attacco terroristico che ha decimato la redazione di
Charlie Hebdo, 12 i morti, giornalisti e poliziotti, molti i feriti". Invece, alle 19 a Prato c'e' un
flash mob organizzato spontaneamente dai cittadini.
Il David all'ingresso di Palazzo Vecchio ha esibito una fascia nera a lutto per la strage di
Parigi. Quella strage "e un fatto terribile che lascia davvero sgomenti. È una tragedia che
riguarda tutti e tocca un nodo vitale: la libertà di espressione, un diritto fondamentale che
per nessuna ragione deve essere messo in discussione", dice il sindaco Dario Nardella,
che questa mattina ha telefonato alla console onoraria di Francia a Firenze Isabelle
Mallez, per esprimere il proprio cordoglio e solidarietà al popolo francese per il massacro
nella redazione del giornale satirico. "È forte il mio dolore- continua il sindaco- e sono
vicino a tutti i francesi e al sindaco di Parigi Anne Hidalgo". Lo stesso Nardella che invita
"tutta la cittadinanza" alla fiaccolata di domani alle 19, in piazza Ognissanti, davanti alla
sede del Consolato onorario di Francia e dell''Istituto francese di Firenze a cui invita "per
esprimere vicinanza e solidarietà al popolo francese e condannare la barbarie". Per il
sindaco la strage di Charlie Hebdo "e'' un colpo a tutta l''Europa e alla libertà. Firenze si
unisce all''indignazione e allo sgomento espresso da più parti in queste ore. In questo
momento ci sentiamo tutti francesi e soprattutto tutti coinvolti come italiani ed europei nella
difesa dei valori democratici". E esorta: "Da Firenze, città universale simbolo di cultura e di
bellezza e capitale del dialogo interreligioso, si levi più forte che mai un richiamo alle
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coscienze di tutto il mondo, a partire dai paesi islamici, ad estirpare la radice dell''odio che
alimenta il fondamentalismo religioso e la violenza, consapevoli che non si debba
rispondere con l'odio all''odio".
Bologna, al flash mob in Piazza Maggiore. Sabato 10 gennaio, alle ore 15.30,
appuntamento in Piazza Maggiore per esprimere solidarietà contro “un episodio di
repressione violente della libertà di stampa e di espressione”, spiegano gli organizzatori. Il
flashmob #JeSuisCharlie, lanciato dagli istituti superiori della città (Liceo classico Galvani,
Liceo scientifico Righi, Liceo scientifico Copernico, ITT Ettore Majorana, Istituto Aldini
Valeriani), sarà ispirato a quello dei giornalisti parigini in piazza de la République: “saremo
tutti con delle matite in mano, per dimostrare l’importanza delle parole, della circolazione di
idee diverse e la nostra indignazione per questo gesto di violenza”.
A Roma Palazzo Senatorio in Campidoglio sarà illuminato dai colori blu, bianco e rosso,
della bandiera francese, in memoria delle 12 persone che ieri hanno perso la vita
nell’attentato di Parigi. A partire dalle 18.30 e per tutta la notte. L’iniziativa, possibile grazie
al contributo di Acea, è un gesto di condanna per chi, ieri, ha messo in pericolo la libertà
individuale e collettiva, ma anche un omaggio doveroso e un gesto di vicinanza della
nostra città alla Capitale francese, alle sue vittime, ai suoi cittadini e agli amministratori,
con i quali Roma è legata da uno storico e unico gemellaggio.
Da Vita.it del 08/01/15
Fiaccolata a Roma: #SiamotuttiCharlieHebdo
di Redazione
«Un atto gravissimo e intollerabile» così il Portavoce del Forum del
Terzo Settore che ha aderito alla manifestazione indetta da Fnsi e
Articolo21 per le ore 18 di giovedì 8 gennaio in piazza Farnese a Roma
Si annuncia densa di partecipanti la fiaccolata indetta per questa sera, giovedì 8 gennaio,
alle ore 18, in piazza Farnese a Roma. Una manifestazione di solidarietà per le vittime
dell'attentato che ieri a Parigi ha portato la morte nella redazione di Charlie Hebdo. Una
fiaccolata, un flashmob che, con lo slogan #SiamotuttiCharlieHebdo ha anche un altro
obiettivo: difendere la libertà di espressione e di informazione.
Tra i numerosi soggetti che hanno aderito alll'appuntamento di oggi a Roma,promosso
dalla Fnsi (Federazione Nazionale Stampa Italiana) e da Articolo21, l'Ordine nazionale dei
giornalisti, Associazione Stampa Estera, Associazione stampa romana, Usigrai, Cgil, Cisl,
Arci, Acli, Amnesty Italia, Se Non Ora Quando, GiULiA Giornaliste, European Alternatives,
Libera informazione, Comitato Romano di Solidarietà con il Popolo Siriano, Redazione del
portale dell’ebraismo italiano www.moked.it e di Pagine Ebraiche, Uisp, Ossigeno per
l’Informazione, Ordine dei giornalisti del Lazio, Rivista Confronti, Federazione delle Chiese
Evangeliche in Italia (Fcei), Giornale Radio Sociale e il Forum nazionale del Terzo Settore.
Il Portavoce del Forum del Terzo Settore, Pietro Barbieri ha detto: «L’attentato che ha
sconvolto ieri la redazione parigina del settimanale satirico Charlie Hebdo è un attacco alla
libertà di pensiero e di espressione. Un atto gravissimo ed intollerabile che è costato la vita
di 12 persone, tra giornalisti, vignettisti e agenti della polizia, suscitando lo sdegno di tutto
il mondo».
Che ha aggiunto: «Condanniamo duramente questo attacco e come Forum Nazionale del
Terzo Settore e insieme alla redazione del Giornale Radio Sociale aderiamo alla fiaccolata
indetta dalla Fnsi, in solidarietà alle vittime dell’attentato terroristico e in difesa della libertà
di stampa e di espressione nel mondo intero, contro ogni forma di terrorismo e
intimidazioni».
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Da Dire del 08/01/15
Charlie Hebdo, piazza Farnese gremita per la
fiaccolata organizzata da Fnsi e Articolo21
ROMA - 'Siamo tutti Charlie Hebdo'. Fiaccole, fiori e tantissime matite in piazza Farnese
davanti alla sede dell'Ambasciata di Francia. Giornalisti, romani, turisti e molte altre
persone stanno riempiendo la piazza per partecipare alla manifestazione indetta dalla Fnsi
e da Articolo 21 per testimoniare solidarieta' alle vittime dell'attentato terroristico di Parigi e
a difesa della liberta' di espressione e di informazione in Francia, in Europa ed ovunque
nel mondo.
Tra le organizzazioni che hanno aderito alla manifestazione ci sono Cgil, Cisl, Uil, Acli,
Arci, Ordine dei giornalisti, l'Associazione della stampa estera, Ast, Pagine ebraiche, Fiom,
Mediacoop, Forum nazionale del terzo settore, Comitato Romano di Solidarieta' con il
Popolo Siriano, Legambiente.
http://www.dire.it/lazio/9744-charlie-hebdo-francia-piazza-farnese.dire
Da Fanpage .it del 08/01/15
Charlie Hebdo, fiaccolata di solidarietà a
Piazza Farnese
Associazioni e sindacati oggi in piazza a Roma a partire dalle ore 18.00
di fronte l'ambasciata francese a Piazza Farnese. Una fiaccolata " in
difesa della libertà di espressione e di informazione in Francia, in
Europa ed ovunque nel mondo". Stasera Palazzo Senatorio in
Campidoglio s'illuminerà dalle 18.30 e per tutta la notte di blu, rosso e
bianco, i colori del tricolore francese.
Poche righe e un evento Facebook per convocare oggi pomeriggio a partire dalle 18 in
Piazza Farnese, una fiaccolata si solidarietà alle vittime dell’attacco nella redazione del
settimanale satirico Charlie Hebdo a Parigi, una manifestazione in “difesa della libertà di
espressione e di informazione in Francia, in Europa ed ovunque nel mondo”.
L’appuntamento davanti l’ambasciata francese è promosso da associazioni per la tutela
dei diritti umani come Amnesty International, da chi si occupa di promuovere la libertà di
stampa e di espressione come Articolo 21; dalla Federazione Nazionale Stampa Italiana,
dall’Ordine nazionale dei giornalisti, dall’Associazione Stampa Estera e dall’Associazione
stampa romana. In piazza ci saranno anche i sindacati Cgil, Cisl e Uil, l’associazionismo di
base laico con l’Arci e quello cattolico delle Acli; la Redazione del portale dell’ebraismo
italiano www.moked.it e di Pagine Ebraiche, l’Unione Italiana Sport Per tutti (Uisp), e il
Forum nazionale del Terzo Settore.
“Ancora una volta la scure dell’intolleranza si abbatte sull’informazione e miete vittime:
l’Associazione Stampa Romana manifesta il proprio sdegno per il vile attentato messo a
segno oggi da tre uomini contro la sede del settimanale satirico Charlie Hebdo, a Parigi.
L’Asr esprime rabbia e cordoglio per i 12 martiri innocenti fra i quali due agenti, il direttore
del settimanale, Stephan Charbonnier, detto Charb, e i tre più importanti vignettisti: Cabu,
Tignous e Georges Wolinski. Si tratta di un attentato alla libertà, come ha dichiarato il
presidente Hollande che va respinto con fermezza e razionalità. L’Asr invita i colleghi a
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listare a lutto i propri profili Facebook”. Così in una nota delll’Associazione stampa
romana.
E il Campidoglio s’illumina con il tricolore francese
In segno di solidarietà oggi a partire dalle 18.30 e per tutta la notte, Palazzo Senatorio in
Campidoglio si tingerà di blu, bianco e rosso. Il tricolore francese colorerà i palazzi di
Roma Capitale in memoria delle 12 persone che ieri hanno perso la vita nell’attentato di
Parigi. “L’iniziativa – possibile grazie al contributo di Acea – è un gesto di condanna per
chi, ieri, ha messo in pericolo la libertà individuale e collettiva, ma anche un omaggio
doveroso e un gesto di vicinanza della nostra città alla Capitale francese, alle sue vittime,
ai suoi cittadini e agli amministratori, con i quali Roma è legata da uno storico e unico
gemellaggio”.
http://roma.fanpage.it/charlie-hebdo-fiaccolata-di-solidarieta-a-piazzafarnese/#ixzz3OJzfHhg5
Da Meridiana Notizie del 08/01/15
Charlie Hebdo, piazza Farnese si riempie di
fiaccole in solidarietà dei giornalisti morti
In piazza giornalisti, politici, sindacalisti, associazioni, Ong, semplici
cittadini e anche esponenti dell’Islam moderato.
(Meridiana Notizie) Roma, 8 gennaio 2015 – Matite, fiaccole e volantini con su scritto “Je
suis Charlie Hebdo”, piazza Farnese si è gremita di uomini e donne che hanno voluto
portare la loro solidarietà alle vittime colpite dall’attacco terroristico contro la redazione del
giornale satirico Charlie Hebdo.charlie1
Davanti l’Ambasciata francese, giornalisti, politici, sindacalisti, associazioni, Ong e
semplici cittadini si sono dati appuntamento per manifestare il proprio rifiuto nei confronti
della violenza espressa contro la libertà di parola. A scendere in piazza anche esponenti
della comunità mussulmana, che hanno invitato a non generalizzare. L’Islam moderato sia
francese che italiano ha infatti già pubblicamente condannato i fatti di Parigi.
A promuovere l’iniziativa, dopo una prima mobilitazione spontanea già ieri, sono stati, la
Federazione Nazionale Stampa Italiana e Articolo 21. Tra le adesioni quelle dei sindacati
come la Fiom, la Filcams Cgil e la Uil nazionale, i partiti come Sel, Pd, FdI-An, le
organizzazioni giovanili come l’Udu e la Rete degli studenti, il Circolo di cultura
omossesuale Mario Mieli, Amnesty Italia, Legambiente, l’Ordine nazionale dei giornalisti,
Se Non Ora Quando, Acli, Arci, European Alternatives, Libera informazione, Ossigeno,
Associazione Stampa Romana, Ordine dei giornalisti del Lazio.
Anche i lavori della Camera sono stati sospesi un’ora per consentire ai deputati di
partecipare alla manifestazione. La richiesta è arrivata dal capogruppo di Sel, Arturo
Scotto, ed è stata condivisa anche da Fi con Rocco Palese. La presidente della Camera,
Laura Boldrini, ha sospeso la seduta dalle 18 alle 19 e ha comunicato che alla ripresa i
lavori andranno avanti fino alle 21.
http://www.meridiananotizie.it/2015/01/cronaca/video-charlie-hebdo-piazza-farnese-siriempie-di-fiaccole-in-solidarieta-dei-giornalisti-morti/
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Da Repubblica.it (Firenze) del 08/01/15
Con un foglio e una matita in piazza per
Charlie Hebdo
In centinaia in piazza Ognissanti al presidio davanti al consolato
francese.Domani la fiaccolata organizzata dal Comune di Firenze
Un foglio con la scritta: "Je suis Charlie". Una matita, una penna, alzata in silenzio. In
centinaia sono scesi in piazza Ognissanti, a Firenze, davanti al consolato francese in
solidarietà alle vittime della strage di Parigi. Fiorentini, turisti, giornalisti, lavoratori,
sindacati, scout e associazioni. Un presidio sotto lo slogan "Siamo tutti Charlie".
organizzato da Cgil, Cisl, Uil, Arci, Anpi e Associazione stampa toscana e che, presto, si è
allargato a tutti i fiorentini.
Durante la manifestazione il presidente della Regione Enrico Rossi ha annunciato che
domani, con il sindaco di Firenze Dario Nardella, sarà in una visita ufficiale per portare la
solidarietà della Toscana al console Isabelle Mallez. In piazza della Signoria invece il
David con il lutto al braccio mentre ai piedi della statua è stata posizionata una bandiera
francese.
Presidio anche in piazza a Prato, dove questa mattina, nelle scuole, ci sono stati momenti
di riflessione e discussione. A Livorno un presidio spontaneo "per la libertà di satira e di
critica e di pensiero" si è riunito nel pomeriggio sotto la sede del 'Vernacoliere', il mensile
satirico livornese diretto da Mario Cardinali. Nessuna bandiera, nessun colore, ma solo
matite in mano rivolte al cielo, per una cinquantina di partecipanti, in un ideale abbraccio
per le vittime dell'attentato alla redazione del settimanale francese 'Charlie Hebdo'. Il
sindaco di Livorno Filippo Nogarin ha fatto invece esporre a Palazzo Municipale la
bandiera della città a mezz'asta, in segno di lutto, a fianco del vessillo francese, aderendo
così all'appello del presidente dell'Anci Nazionale Piero Fassino. "Un piccolo gesto - ha
dichiarato Nogarin - con cui vogliamo esprimere la nostra vicinanza e solidarietà al popolo
francese, dopo la strage al giornale satirico Charlie Hebdo a Parigi. Un gesto per
esprimere non soltanto orrore e sdegno per quello che è successo, ma anche una
testimonianza istituzionale a favore della libertà di stampa e contro ogni forma di
limitazione a tale libertà".
VIGILANZA RAFFORZATA Rafforzate le misure di vigilanza su tutti gli obiettivi sensibili
anche a Firenze. Quanto stabilito oggi nel corso di una riunione tra i vertici delle forze
dell'ordine, convocata stamani dal prefetto Luigi Varratta dopo l'attentato a Charlie Hebdo.
Sorveglianza aumentata in particolare verso gli obiettivi francesi, tra cui l"Institut Francais'
di piazza Ognissanti e il consolato francese, e anche verso le sedi dei giornali locali e tv.
"Sono stati aumentati i sistemi di sicurezza e in generale il livello di allerta in relazione ai
fatti accaduti in Francia - spiega il questore Raffaele Micillo -. Anche se al momento non
sussistono elementi concreti che indichino imminenti fattori di rischio concreto a Firenze".
Le misure assunte a Firenze fanno seguito a una circolare inviata ieri a questori e prefetti
dal Dipartimento della Pubblica Sicurezza, in cui si chiede di rafforzare le misure di
vigilanza a tutte le sedi istituzionali, con particolare a quelle di Stati Uniti, Francia e Israele.
Attenzione anche a luoghi di culto, stazioni, aeroporti e luoghi di aggregazione in generale.
DOMANI Dopo aver espresso, già nella serata di ieri, il suo cordoglio per la tragedia,
stamani il sindaco Dario Nardella ha telefonato alla console onoraria di Francia a Firenze
Isabelle Mallez esprimendo solidarietà al popolo francese e alla Francia. "Questo colpo al
cuore della Francia - ha detto il sindaco - è un colpo a tutta l'Europa e alla libertà. Firenze
si unisce all'indignazione e allo sgomento espresso da più parti in queste ore. In questo
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momento ci sentiamo tutti francesi e soprattutto tutti coinvolti come italiani ed europei nella
difesa dei valori democratici. Da Firenze, città universale simbolo di cultura e di bellezza e
capitale del dialogo interreligioso, si levi più forte che mai un richiamo alle coscienze di
tutto il mondo, a partire dai paesi islamici, ad estirpare la radice dell'odio che alimenta il
fondamentalismo religioso e la violenza, consapevoli che non si debba rispondere con
l'odio all'odio. Per questo - ha concluso il sindaco - invito tutta la cittadinanza ad esprimere
vicinanza e solidarietà al popolo francese e condanna della barbarie di ieri a Parigi con
una fiaccolata domani alle 19 in piazza Ognissanti, sede del consolato onorario di Francia
e dell'Istituto francese di Firenze".
PISA "Condanniamo l'atto criminale contro la redazione del noto giornale satirico Charlie
Hebdo senza se e senza ma", afferma l'Imam di Pisa Mohammad Khalil a nome della
comunità musulmana locale dopo la strage jihadista. "Non abbiamo nessun bisogno di
dissociarci, perché qualsiasi forma di violenza contro civili innocenti è estranea alla nostra
religione e alla nostra etica e pratica civile".
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"Esprimiamo - aggiunge - il nostro cordoglio e la nostra vicinanza alle famiglie delle vittime,
così come la nostra rabbia nei confronti di chiunque abbia pianificato e messo in atto
questo sanguinoso gesto a dir poco bestiale. Speriamo che i molti milioni di musulmani di
Francia e d'Europa non subiscano l'ennesima ingiusta criminalizzazione e che quanto
prima venga fatta piena luce su questa drammatica vicenda".
Il Comune di Pisa ha invece esposto stamani le bandiere a mezz'asta in segno di lutto.
"Pisa - sottolinea il sindaco Marco Filippeschi - è contro gli assassini, contro il fanatismo e
l'intolleranza, per la libertà e l'impegno a unire le forze contro la violenza jihadista".
SIENA Bandiera francese listata a lutto esposta alle trifore del palazzo pubblico di Siena
per commemorare le vittime dell'attentato terroristico alla redazione di Charlie Hebdo.
"Quello di ieri - commenta il sindaco Bruno Valentini - è stato un atto barbarico che ha
colpito tutti noi, in quanto cittadini di un'Europa che fonda i propri diritti civili, sociali e
politici sulla libertà di pensiero e di espressione, di cui la satira è uno strumento
essenziale". Il sindaco spiega poi il gesto simbolico della bandiera francese accanto a
quella della balzana "per trasmettere vicinanza e solidarietà al popolo francese, con il
quale ci lega il rapporto di gemellaggio con Avignone e il ricordo del generale De
Monsabert, uno degli artefici della Liberazione della nostra città nel 1944, al quale
dobbiamo la salvaguardia del patrimonio storico e artistico di Siena".
http://firenze.repubblica.it/cronaca/2015/01/08/news/firenze_stasera_in_piazza_davanti_al
_consolato_francese-104526045/
Da Repubblica.it (Bologna) del 08/01/15
Strage di Parigi, venerdì fiaccolata al Nettuno
assieme alla Comunità islamica
Sit-in di associazioni e sindacati "per esprimere solidarietà alle vittime".
Il sindaco Merola invita la cittadinanza in Consiglio comunale. La Lega
Nord chiede di affiggere un cartello sulla facciata di Palazzo d'Accursio
BOLOGNA - "Ancora una volta viene duramente colpito il diritto all' informazione, alla
libertà di espressione e di pensiero che stanno alla base della democrazia e del modello
culturale, politico e sociale europeo". Con queste parole il sindacato dei giornalisti FNSI10
ASER Emilia-Romagna, i sindacati Cgil, Cisl e Uil, Anpi, Arci, Libera, la Comunità Islamica
di Bologna, Assopace Palestina, Emergency, e il Forum del Terzo Settore lanciano per
venerdì, alle 17.30, un presidio con fiaccolata in piazza Nettuno.
"Per esprimere tutti insieme la nostra forte solidarietà alle vittime dell'attentato terroristico,
contro ogni forma di violenza, per la libertà' di informazione, per la pace e la convivenza
fra i popoli" si legge nella nota inviata nel pomeriggio.
Il sindaco di Bologna Virginio Merola, intanto, invita la cittadinanza a partecipare, venerdì
mattina, all'apertura del Consiglio comunale "per manifestare la presenza della città in
questo momento", dopo l'attentato alla redazione del giornale Charlie Hebdo, a Parigi. Lo
rende noto l'assessore alle Relazioni internazionali Matteo Lepore che oggi, insieme alla
presidente del Consiglio comunale Simona Lembi, si è recato all'Alliace Francaise per
osservare un minuto di silenzio in memoria delle vittime.
Ieri sera, con una nota, la Comunità islamica di Bologna ha condannato duramente
l'attentato nella capitale francese. "Sincero ed affettuoso cordoglio per le vittime della
strage terroristica" compiuta ieri a parigi è stato espresso all'ambasciatrice di Francia in
Italia, Catherine Colonna, dal presidente della Regione Emilia-Romagna, Stefano
Bonaccini, insieme alla vicepresidente Elisabetta Gualmini.
La Lega Nord, invece, chiede di affiggere sulla facciata di Palazzo d'Accursio un cartello
con la scritta "Siamo tutti Charlie Hebdo". A formulare la proposta la consigliera comunale
Lucia Borgonzoni. Che dice: "Occorre tornare ad effettuare un'analisi politica approfondita,
perché vi sono troppi 'segnali' anche in città che, purtroppo, si tendono a sottovalutare".
http://bologna.repubblica.it/cronaca/2015/01/08/news/strage_di_parigi_il_sindaco_invita_i_
bolognesi_in_consiglio_comunale-104541113/
Da Repubblica.it (Milano) e Omnimilano del 08/01/15
STRAGE PARIGI, DOMANI ASSOCIAZIONI E
MOVIMENTI IN PIAZZA DUOMO: "STIAMO
INSIEME"
"Stare insieme", questo l'invito dei promotori della manifestazione in programma domani
alle 15.30 in piazza Duomo dopo la strage alla redazione di Charlie Hebdo a Parigi. Acli,
Arci, Camera del Lavoro, Emergency e numerose altre realtà dell'associazionismo e della
politica saranno domani in piazza Duomo con la convinzione di rifiutare "la logica di chi
divide il mondo in base alla religione, al colore della pelle, alla nazionalità. Rifiutiamo la
logica di chi specula sulla morte per i propri interessi, alimentando una spirale di odio e
violenza". "La strage di Parigi ci ha lasciati addolorati, sgomenti, arrabbiati. Tutti sentiamo
il bisogno di reagire. Ricordiamo quello che il premier norvegese Stoltenberg disse dopo la
strage di Utoya del 2011: "Reagiremo con più democrazia, più apertura e più diritti". Non
vogliamo cedere alla paura e all'odio", spiegano annunciando l'iniziativa. "È il momento di
stare insieme, di far sentire la voce di tutti quelli, e sono tanti, che di fronte alla morte e alla
violenza rispondono con il dialogo, la solidarietà e la pratica dei diritti. Tutti quelli che non
fanno distinzione tra le vittime di Utoya e Peshawar, di Baqa, di Baghdad, e Parigi, nel
Mediterraneo e a New York. Tutti quelli che credono che diritti, democrazia e libertà siano
l'unico antidoto alla guerra, alla violenza e al terrore. Dove l'odio divide, i diritti possono
unire". L'iniziativa è promossa da Acli, Arci, Altra Europa Milano, Associazione Città
Mondo, Azione Civile Milano, Associazione Enrico Berlinguer Milano, Camera del Lavoro
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Milano, Chiesa Pastafariana Italiana, Comitato No Muos Milano, Comunità Kurda Milano,
Coordinamento Associazioni Islamiche di Milano, Emergency, Forum Diritti Pd Lombardia,
Giovani Musulmani d'Italia, Italia-Cuba Milano, Link Sindacato universitario milanese,
Partito Democratico Milano, Partito della Rifondazione Comunista Milano, Partito
Socialista Italiano Milano, Rete Antifascista Milanese, Rete della conoscenza Milano,
Sinistra Ecologia e Libertà Milano, Sentinelli di Milano, SISA Sindacato Indipendente
Scuola e Ambiente, Studenti AE Milano, Unione degli Studenti Milano, Unione degli
Universitari Milano, Università Statale di Milano "Unisì-Uniti a Sinistra". (Omnimilano.it)
http://milano.repubblica.it/dettaglio-news/-/17760
Da Repubblica.it (Genova) del 08/01/15
Genova per Charlie Hebdo, Doria,
"sensibilizzare le coscienze"
Il sindaco al presidio di solidarietà dopo il massacro a Parigi. Circa
trecento persone a De Ferrari
Le matite spezzate come simbolo, tanti cartelli "Je suis Charlie" e un pensiero comune:
all'aggresisone contro la libertà si rispodne anmdando avanti per la propria strada. "E' un
momento per sensibilizzare le coscienze di tutti su quanto di inaccettabile è accaduto a
Parigi, un attacco alla libertà di tutti. Questa è una risposta che non vuol separare ma che
unisce tutti quelli che rifiutano ogni forma di violenza". Lo ha detto il sindaco di Genova,
Marco Doria, in piazza per aderire al presidio di solidarietà per il massacro al Charlie
Hebdo di Parigi. "La xenofobia è una maledizione che non può che alimentare una spirale
di terrore, odio e separazione degli individui - ha sottolineato Doria - qui c'è una ferma
difesa della libertà e della tolleranza. Siamo preoccupati per la violenza, per la xenofobia e
siamo qui per difendere la libertà e lottare contro ogni forma di intolleranza e di razzismo".
In piazza De Ferrari si sono radunate circa trecento persone, tra cui giornalisti, esponenti
dei sindacati e della politica, gli assessori regionali Claudio Montaldo e Renzo Guccinelli, il
vicesindaco Stefano Bernini, i presidenti di Amiu, Marco Castagna, e della Fiera Sara
Armella, l'ex sindaco di Genova Beppe Pericu. "La nostra - ha spiegato Luca Borzani,
presidente della Fondazione Palazzo Ducale - è una testimonianza nel momento in cui si
capisce che l'integralismo colpisce le libertà culturali. Qui c'è stato un salto di qualità su cui
dobbiamo riflettere e l'elemento fondante è quello di evitare semplificazioni. Evitare che
tutto l'Islam venga condannato, che non venga affrontato il nodo delle periferie e delle
seconde generazioni". L'iniziativa è stata promossa da Arci Liguria - Anpi - Comunità di
San Benedetto, Palazzo Ducale e Associazione Ligure dei Giornalisti.
http://genova.repubblica.it/cronaca/2015/01/08/news/genova_per_charlie_hebdo_doria_se
nsibilizzare_le_coscienze-104563508/
Da Ansa del 08/01/15
Charlie Hebdo, presidio oggi a Genova
Alle 17.30 in piazza De Ferrari davanti a palazzo Ducale
(ANSA) - GENOVA, 8 GEN - Per unirsi al "dolore e all'indignazione" per l'attacco contro il
settimanale francese Charlie Hebdo nel quale sono state uccise dodici persone fra le quali
quattro noti vignettisti, associazioni e sindacati aderiranno oggi al presidio di solidarietà
12
alle 17.30 davanti a Palazzo Ducale. All'iniziativa indetta da Arci, Anpi, l'Associazione
ligure dei giornalisti, Comunità di san Benedetto, aderiranno Cgil, Cisl e Uil, Pd.
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ESTERI
del 09/01/15, pag. 1/17
Rapimenti, distruzione L’avanzata degli
estremisti
di Michele Farina
Il regno di Boko Haram nel Nordest della Nigeria comprende 18 città: costruito su
rapimenti e distruzioni, si estende lungo la frontiera con Camerun e Chad. Baga è l’ultima
conquista: la base militare alla periferia della città doveva diventare il quartier generale di
una forza africana che mettesse paura allo Stato Islamico.
Chi volesse cercare le oltre 200 studentesse di Chibok, rapite il 14 aprile 2014 la notte
prima degli esami, dovrebbe setacciare un territorio vasto almeno quanto Lombardia e
Veneto messi insieme. Il regno di Boko Haram nel Nordest della Nigeria comprende 18
città, si estende lungo la frontiera con Camerun e Ciad.
Baga è l’ultima conquista: la base militare in cemento armato alla periferia della città
doveva diventare il quartier generale di una forza africana che mettesse un po’ di paura
allo Stato islamico proclamato l’anno scorso da Abubakar Shekau. Sta accadendo
l’opposto: l’ex raccoglitore di lattine al mercato di Maiduguri ha appena minacciato in un
video di far cadere il governo del Camerun per ampliare il Califfato. È come l’avanzata
irrisoria dell’Isis in Iraq, senza la riscossa dettata dai bombardieri di Obama e dai
peshmerga curdi armati dall’Occidente.
La Nigeria è l’economia più ricca dell’Africa, anche se il crollo del prezzo del petrolio
(l’80% delle sue entrate) riduce la fiducia e le riserve monetarie. Metà del bilancio federale
(6 miliardi di dollari) va comunque a finanziare la Difesa. Com’è possibile che Boko Haram
stia trionfando in una guerra che il presidente Good-luck Jonathan a ogni discorso
promette di vincere?
Volontà politica, inefficienza, corruzione. Gli Stati del Nord, a maggioranza islamica, hanno
storicamente avuto un rapporto complicato con il potere centrale e con il Sud a
maggioranza cristiana, specie dopo la scoperta del petrolio nel Delta del Niger. Jonathan è
un ex governatore del Sud, alle elezioni del prossimo 14 febbraio cerca un secondo
mandato alla testa del Partito Democratico del Popolo (al potere dalla fine della dittatura
militare nel 1999), contravve-nendo alla legge non scritta dell’alternanza che vorrebbe un
musulmano sulla prima poltrona del Paese. Il presidente in questi anni ha accusato
l’opposizione nel Nord di soffiare sul fuoco di Boko Haram. Anche se le milizie di Shekau
devastano soprattutto il Nord (dove è già in vigore la sharia, la legge islamica) colpendo
chiese e moschee, e facendo strage anche negli Stati del Centro fino alla capitale Abuja
intorno ai ministeri e ai comandi centrali delle forze armate.
La debolezza dell’esercito è cruciale per spiegare lo strapotere di Boko Haram. È vero
che, dopo il ritorno alla democrazia, ad Abuja si è cercato di impedire che le forze armate
diventassero abbastanza forti da far venire a qualcuno la tentazione di un colpo di Stato. I
generali sono più interessati alla torta delle commesse che alla poltrona di presidente o
all’equipaggiamento dei loro uomini. Le ronde di sicurezza nello Stato del Borno,
controllato ormai all’80% da Boko Haram, sono affidate a squadre armate di civili a volte
armati di soli machete. I soldati scappano o non si palesano all’arrivo dei pick-up dei
miliziani: è successo a Chibok la notte del rapimento, è successo sabato scorso a Baga.
Come l’esercito iracheno in fuga da Mosul.
14
La differenza è che la (pur blanda) collaborazione con Gran Bretagna (ex potenza
coloniale) e Stati Uniti in Nigeria non ha prodotto risultati. Un ex ufficiale delle forze
speciali britanniche ha raccontato alla Bbc di un generale nigeriano che non riusciva a
capire perché mai Londra non offrisse al suo esercito strumenti speciali per individuare e
neutralizzare i terroristi tra la folla.
La parabola dei droni nei cieli nigeriani è altrettanto istruttiva. La task-force inviata da
Barack Obama per aiutare la caccia ai rapitori delle ragazze di Chibok è tornata a casa. I
rapporti tra Washington e Abuja sono ai minimi storici. Gli americani, secondo fonti citate
dal New York Times , non si sono mai fidati interamente a passare informazioni di
intelligence ai servizi nigeriani, sospettando infiltrazioni di Boko Haram. E anche quando le
ricognizioni degli aerei senza pilota (centinaia di missioni in otto mesi) hanno prodotto
dritte utili (per esempio sull’avvistamento di possibili prigioni delle ragazze), secondo fonti
Usa dell’Africa Command i nigeriani pur allertati non hanno mosso un dito.
L’estate scorsa Washington ha impedito a Israele di vendere alla Nigeria elicotteri
d’attacco Cobra di fabbricazione americana, fornendo invece camion da trasporto,
strumenti di comunicazione e giubbotti antiproiettile. Troppo difficili i Cobra da gestire,
paura che vengano usati in «operazioni sporche» in spregio al rispetto dei diritti umani. O
che magari finiscano nelle mani del califfo con il pon-pon. Un giullare sanguinario che
impone la sua legge e si fa beffe del Paese più ricco dell’Africa.
del 09/01/15, pag. 4
Al Qaeda batte un colpo
Michele Giorgio
Jihadismo. Non c'è ancora una rivendicazione ma l'organizzazione
legata al nome di Osama bin Laden è, con ogni responsabilità,
responsabile dalla strage di due giorni fa. La "vendetta" contro i
giornalisti e vignettisti francesi rientra anche nello scontro in atto tra al
Qaeda e l'Isis per il controllo del Jihad globale
Si attende di capire se i due attentatori di Parigi facciano parte, come loro stessi avrebbero
urlato due giorni fa, di al Qaeda in Yemen, oppure dello Stato Islamico (Isis). Manca
ancora una rivendicazione ufficiale. La radio dell’Isis ieri ha descritto come “eroi” gli autori
della strage compiuta nella redazione di Charlie Hebdo, tuttavia l’ipotesi che al Qaeda sia
tornata a colpire in Europa resta la più credibile. La sanguinosa vendetta contro il giornale
satirico francese con ogni probabilità ha avuto anche lo scopo di diffondere segnali di vita
di al Qaeda, dopo gli ultimi 1–2 anni passati dall’organizzazione a limitare i danni della
scissione operata dallo Stato Islamico del “califfo” Abu Bakr al Baghdadi. Il carattere
“movimentista” dell’Isis si è dimostrato vincente rispetto alla posizione mantenuta
dall’emiro di al Qaeda, Ayman al Zawahry. Il successore di Osama Bin Laden resta fedele
all’idea di una formazione segreta, guidata da pochi uomini fidati, impegnata a pianificare
attentati clamorosi, piuttosto che dare vita subito a un califfato, come ha invece fatto al
Baghdadi. Zawahry, astuto ma senza carisma, e con uno sguardo troppo rivolto, dal punto
di vista arabo, ad Afghanistan e Pakistan, ha perduto l’appeal che aveva fino a qualche
anno fa. Non ha più la fedeltà di diverse organizzazioni jihadiste che, dopo la
proclamazione del califfato nel nord dell’Iraq e della Siria, si sono affiliate all’Isis. Persino il
Fronte al Nusra, l’espressione (in Siria) più concreta sul terreno di al Qaeda in questo
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momento, ogni giorno perde combattenti e comandanti che passano dalla parte del
“califfo” al Baghdadi.
Da qui la necessità di Zawahry di tornare a “fare notizia”, con un attentato clamoroso,
approfittando delle prime importanti difficoltà che incontra la macchina da guerra dell’Isis,
bloccata dai guerriglieri kurdi a Kobane, frenata dal riorganizzarsi delle forze di sicurezza
in Iraq e dai bombardamenti della “Coalizione” capeggiata dagli Stati Uniti. Al Baghdadi
ora deve anche amministrare le città che ha conquistato e non solo combattere. Il match
tra Al Qaeda e l’Isis, si svolge ad ogni livello, anche su quello della comunicazione. Ad
esempio, nell’ultimo numero di Dabiq, la rivista on line dello Stato Islamico, i seguaci di al
Baghdadi mettono al centro del loro discorso le differenze esistenti con al Qaeda. La storia
principale ha per titolo “Al-Qaeda del Waziristan,” ed è stata scritta da un presunto
disertore di al Qaeda, noto come Abu Jarir ash-Shamali, impegnato a dimostrare che
l’eredità di Abu Musab al Zarqawi appartiene solo all’Isis.
Zarqawi, ucciso da un raid statunitense nel giugno 2006, era stato il leader della Jamaat
al-Tawhid wal Jihad, poi divenuta lo Stato Islamico in Iraq (Isi), e infine, con l’avvento di al
Baghdadi, Stato Islamico in Iraq e in Siria (Isis). Nel dicembre 2004 giurò fedeltà ad
Osama bin Laden che lo nominò “emiro” in Iraq. Senza pietà, determinato, animato da un
profondo odio più per i “rafida”, gli sciiti, che per i soldati americani che occupavano l’Iraq,
Zarqawi è stato uno dei maggiori sostenitori del “takfirismo”, (takfir ” empietà massima”),
che prevede la “scomunica” non solo dei governi ma anche della maggioranza delle
comunità islamiche. In sostanza per Zarqawi erano eretici tutti i musulmani che non
condividevano il suo punto di vista. Perciò fino a quando è rimasto in vita, l’emiro dell’Isi ha
passato il suo tempo a massacrare e tagliare teste fra gli sciiti e anche fra i sunniti a suo
giudizio “peccatori” e, quindi, non più musulmani. La macabra eredità di Zarqawi, un mito
per i jihadisti, al Baghdadi la rivendica tutta. E il racconto di Abu Jarir a-Shamali serve
proprio per quello. E non manca di segnalare le difficoltà organizzative di al Qaeda dopo
l’uccisione di due dirigenti di primissimo piano, Atiyyah Abd al Rahman e Abu Yahya al
Libi, in attacchi di droni americani.
Il “quadro negativo” della situazione di al Qaeda fatto da a-Shamali non trova però
conferma nelle indiscrezioni che filtrano dalla complessa galassia jihadista. Al Zawahri
avrebbe istituito un comitato di gestione, denominato “Lajnat Bukhara”, molto efficiente,
per ridare slancio ad al Qaeda. Soprattutto starebbe spostando dall’Asia uomini e armi per
affermare nuovamente la sua presenza in Iraq. Perciò la strage di Parigi è una potente
inserzione pubblicitaria sulle televisioni di tutto il mondo, necessaria al leader di al Qaeda
per vincere la delicata partita che sta giocando con Abu Bakr al Baghdadi e per il favore di
decine di migliaia di miliziani del jihad globale. E qualcosa si sta già muovendo. Nuovi,
forse, sostenitori di al Qaeda ieri hanno postato un ringraziamento per coloro che «hanno
vendicato il Profeta» e una immagine con una X rossa sul volto del vignettista Charb
ucciso due giorni fa. E citano “The Dust will never settle down”, uno dei più celebri discorsi
dell’imam Anwar al Awlaki Awlaki, delfino di Osama bin Laden, ucciso in Yemen da un
drone Usa nel 2011.
del 09/01/15, pag. 4
L’inchiesta. I miliziani dell’Isis sfruttano l’estrazione di greggio, i reperti
archeologici e le estorsioni nei territori che sono sotto il loro controllo
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Petrolio e racket, così si finanzia il nuovo
terrorismo
Nessuno lo dice, ma la realtà è che tredici anni di sforzi per tagliare i
finanziamenti al terrorismo islamista non hanno prodotto grandi
risultati. Anzi.
Claudio Gatti
La rete fondata da Osama bin Laden o nata da una sua costola è oggi finanziariamente
più ricca che mai.
Che le organizzazioni terroristiche islamiste siano oggi più ricche di prima dell’11
settembre 2001 non è un’esagerazione giornalistica. Lo ha dichiarato la persona che su
questa materia ne sa più di qualsiasi altra al mondo. Parliamo di David Cohen,
sottosegretario per il Terrorismo e l’intelligence finanziaria del Tesoro americano. In una
seduta tenutasi in un’aula del Congresso il 14 novembre scorso, Cohen non solo ha
ammesso che al-Qaeda continua a trovare finanziatori, ma ha fatto due clamorose
concessioni sull’erede siriano-iracheno della “rete” di bin Laden, il cosiddetto Stato
islamico, o Isis. La prima: «Isis ha accumulato un patrimonio senza precedenti (…) ed è
l’organizzazione terroristica meglio finanziata di sempre». La seconda: «Non abbiamo
soluzioni miracolose, né armi segrete per svuotare le sue casse. I nostri sforzi per
contrastare le sue attività di finanziamento richiederanno tempo. E siamo solo alle fasi
iniziali».
Insomma, Isis non è solo l’organizzazione terrorista più grande al mondo. È anche la più
ricca. Così ricca che, quando ancora vi erano contatti tra loro, al-Qaeda gli aveva chiesto
un prestito di 100mila dollari. Così ricca da avere caveau pieni di denaro e metalli preziosi.
Dopo la conquista di Mosul, nell’Iraq del nord, le sue truppe hanno infatti preso il controllo
di centinaia di milioni di dollari depositati in banca e di altre centinaia in beni di diversa
natura.
Insomma, dal punto di vista della potenza di fuoco economico-finanziario Isis è una sorta
di al-Qaeda 2.0. Oltre al supporto dei benefattori dell’area del Golfo, i cui fondi continuano
ad aggirare i filtri creati in questi anni dalla comunità finanziaria e dalle autorità
internazionali, Isis ha costruito una macchina da soldi senza precedenti nella storia del
terrorismo mondiale.
Sul primo fronte, quello più “convenzionale” dei ricchi benefattori del Golfo, Matthew Levitt,
direttore del “Programma su antiterrorismo e intelligence” del Washington Institute for Near
Policy, stima che nel 2013 e 2014 Isis abbia ottenuto oltre 40 milioni di dollari in
finanziamenti provenienti dai Paese del Golfo Persico, in particolare Arabia Saudita, Qatar
e Kuwait. Ma mentre i finanziamenti sauditi sarebbero stati recentemente arginati in
seguito alle pressioni fatte da Stati Uniti e Paesi europei, gli esperti americani ritengono
che Qatar e Kuwait si siano per ora limitati a prendere misure solo formali. Il Qatar ha per
esempio passato una nuova legge con la quale ha costituito una nuova agenzia di
vigilanza sulle associazioni di beneficenza, solitamente usate come schermo dai
finanziatori. Ma secondo Levitt questa misura non basta: «Sfortunatamente il Qatar ha una
lunga storia di iniziative legislative annunciate con grande fanfara e poi lasciate cadere a
vuoto».
Ma il grande salto di qualità di Isis rispetto ad al-Qaeda è dovuto alla diversificazione delle
fonti di finanziamento dovuta alle sue conquiste territoriali. Secondo Cohen, i fondi
provenienti da benefattori esteri costituiscono una fetta quasi insignificante. Una ben
maggiore fonte di alimentazione finanziaria è data dal contrabbando di greggio prodotto
nei pozzi siriani e nord-iracheni. «A metà giugno calcolavamo che Isis fosse in grado di
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generare dal petrolio circa un milione di dollari al giorno. Dopo i bombardamenti riteniamo
che la produzione sia fortemente scesa», ha detto Cohen nel novembre scorso. Scesa,
ma non interrotta, perché secondo le stime fatte a ottobre dall’Agenzia internazionale per
l’energia, la produzione si è stabilizzata sui 20mila barili al giorno.
Per monetizzare quel greggio, l’Isis ha saputo dotarsi delle necessarie infrastrutture.
Incluso primitive raffinerie basate in Siria dove il greggio estratto nei pressi di Mosul viene
trasportato per essere trattato. Una parte torna poi indietro per servire i 2 milioni di abitanti
di Mosul. Un’altra finisce invece contrabbandato in Turchia: dalla cittadina siriana di
Ezmerin si diramano circa 500 micro-oleodotti che arrivano al di là del confine, dove poi il
petrolio viene venduto alla popolazione locale oppure caricato su autobotti per la vendita
altrove.
Altra importante fonte di finanziamento per Isis viene dal contrabbando di reperti
archeologici. «Oltre un terzo delle aree archeologiche irachene sono ormai sotto il suo
controllo. E il commercio illegale dei reperti razziati da quelle aree costituisce oggi per Isis
la seconda maggiore fonte di sostentamento economico», dice Matthew Levitt.
Isis si finanzia poi anche attraverso i riscatti sui rapimenti, che si calcola abbiano prodotto
20 milioni di dollari solo nel 2014, e il racket estorsivo, con il quale, secondo Cohen,
«raccoglie svariati milioni di dollari al mese». Nel territorio controllato, oltre a chiedere “il
pizzo” a commercianti e imprenditori, ha imposto tasse su tutti i beni commerciati e i mezzi
di trasporto. Così come ha prima espropriato e poi messo in vendita migliaia di beni
immobili dei cristiani e degli sciiti costretti alla fuga.
A differenza di al-Qaeda, Isis ha indubbiamente una priorità interna: tenere in vita e
rafforzare il proprio califfato tra Siria e Iraq. Ed è lì che sta concentrando i propri sforzi
militari e le proprie risorse economiche. Ma secondo gli esperti questo non limita il suo
raggio d’azione. Si è infatti venuti a sapere di contatti in Pakistan e in Afghanistan con i
talebani, nelle Filippine con i separatisti di Abu Sayyaf Group e nel Sinai con il gruppo
Ansar Beit al-Maqdis.
«Isis può senza dubbio permettersi un takeover di gruppi islamisti minori da usare per
operazioni in giro per il mondo», avverte Patrick Johnston, esperto della Rand
Corporation.
del 09/01/15, pag. 4
Il nemico interno. Sono almeno tremila gli europei partiti verso la Siria
per combattere nelle fila dell’Isis: molti di loro sono tornati, addestrati e
pronti a tutto
Un esercito di reduci dalle guerre in Medio
Oriente
È un esercito di aspiranti jihadisti. Partiti dai Paesi europei alla volta di Siria e Iraq con un
preciso intento, arruolarsi nelle file dei gruppi estremisti. Diversi sono caduti sul fronte, in
molti sono rimasti nelle aride piane assolate controllate dall’Isis, ma non pochi sono
rientrati. E sono proprio questi, i retournés, a far paura. Impregnati di un cieco fanatismo,
indottrinati all’intolleranza, ma anche addestrati militarmente nei campi degli estremisti,
sono capaci di tutto, anche di atti efferati contro chiunque, a loro avviso, metta in
discussione la rigidissima versione dell’Islam che hanno eletto a pilastro della loro vita.
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Il loro numero è impressionante e senza precedenti nei passati conflitti: più di 3mila
europei partiti per la Siria e arruolatisi nelle file dell’Isis (numero che include anche chi è
deceduto e chi è rientrato) aveva annunciato a fine settembre il coordinatore europeo
contro il terrorismo, Guilles De Kerchove.
Ma quali sono gli Stati con più aspiranti jihadisti arruolatisi nelle file dei gruppi estremisti
siriani (il 90% finisce nell’Isis)?
Il primo è la Francia e forse non stupisce più di tanto: Perché un paese con una tradizione
coloniale, con solidi legami con Tunisia e Algeria, e soprattutto perché ospita la più grande
comunità musulmana in Europa. Ma, ancora una volta, stupisce l’ampiezza del loro
numero: oltre mille jihadisti. Tra di loro c’era anche Mehdi Nemmouche. Si unì alle milizie
siriane dell’Isis, vi restò un anno a combattere, e una volta rientrato in Francia, l’anno
scorso, ha messo in atto il suo folle gesto: parte per Bruxelles dove uccide quattro persone
dentro al museo ebraico.
La seconda fucina di aspiranti miliziani decisi a combattere per lo Stato islamico è il Regno
Unito, con 750 persone. La terza fabbrica europea di jihadisti è invece la Germania, paese
scosso negli scorsi giorni da manifestazioni xenofobe e antiislamiche senza precedenti.
Sarebbero 600 i cittadini tedeschi arruolatisi nello Stato islamico; 60 hanno perso la vita e
addirittura 180 sono rientrati, ha precisato in dicembre Thomas de Maizière, ministro degli
Interni tedesco, aggiungendo che le autorità hanno già mosso azioni legali nei confronti di
alcuni di loro, mentre altri sono sotto strettissima sorveglianza.
Ma il dato che sorprende di più riguarda un Paese piccolo, per quanto ricco e con un
solido passate coloniale; il Belgio, 400 partenze. Dalla vicina Olanda sono comunque 120.
Anche i paesi scandinavi hanno dato il loro contributo: cento jihadisti partiti dalla
Danimarca, 50 dalla Finlandia, un numero simile anche dalla Norvegia e 300 dalla Svezia.
Perfino dalla piccola Svizzera ne sono partiti 40-50. E altri 20 dal Portogallo, in questo
caso tutti portoghesi, e non di origine araba, provenienti da famiglie cattoliche e convertitisi
all’Islam.
Un fenomeno europeo, eppure poco italiano. Perché dal nostro Paese sarebbero partiti in
poco più di 50, e peraltro quasi nessuno sarebbe cittadino italiano. Le ragione la conosce
bene Lorenzo Vidino, autore di un e-book - Il jihadismo autoctono in Italia - pubblicato
dall’Ispi. «In Italia il flusso di radicalizzati non coinvolge immigrati musulmani di prima
generazione, soprattutto perché sono arrivati qui con 10-20 anni di ritardo rispetto ai Paesi
dell’Europa centro-settentrionale. Per cui il fenomeno dei giovani di seconda-terza
generazione è ancora marginale. Così come quello dei cosiddetti facilitatori, i mediatori
che li mettono concretamente in contatto con l’Isis».
Il punto più problematico per contrastare il fenomeno è quello normativo. Quasi nessun
paese europeo prevede misure legali forti contro chi è partito a combattere per l’Isis, a
meno di prove inconfutabili.
Alla maggior parte di coloro che sono rientrati in Germania è stato sequestrato il
passaporto, ed è stata ristretta la libertà di movimento. Ma nulla di più. E non basta. Così il
ministro tedesco degli Interni si è augurato che il Parlamento ratifichi quanto prima la legge
che revoca la cittadinanza tedesca a coloro che hanno partecipato alla jihad.
Questi i retournés. Ma c’è anche una nuova minaccia. Ancor più pericolosa, perché meno
prevedibile. Sono i lupi solitari, i cani sciolti, cittadini dei Paesi europei, con tanto di
passaporto, indottrinati dal fanatismo attraverso la rete. Pericolosi “dilettanti”. Sicuramente
meno letali militarmente rispetto agli attentatori di Parigi, però disposti a emulare i crimini
efferati dell’Isis. E quasi invisibili per le intelligence dei paesi occidentali. Ma questa è
un’altra storia.
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Del 09/01/2015, pag. 1-2
Una guerra in Europa
Errori nella sicurezza, indagini ancora in alto mare e previsioni
dell’Intelligence spesso smentite
Il Vecchio Continente scopre di non essere pronto alla sfida lanciata dai
terroristi. I dodici morti in pieno giorno, nel cuore di una grande
capitale, sono il segno di un conflitto che le società democratiche non
sanno davvero come affrontare
BERNARDO VALLI
PARIGI
L’EUROPA è smarrita, perché si sente impreparata, dopo l’attentato di mercoledì, 7
gennaio, al settimanale Charlie Hebdo. È significativa la confessione di un uomo
dell’intelligence preso dal panico nel vedere il presidente della Repubblica francese
muoversi tra automobili di sconosciuti e non controllate dalla polizia, a pochi metri dalla
casa in cui neppure due ore prima era avvenuta la strage. Un’imprudenza inconcepibile.
Una tattica ben conosciuta dei terroristi è quella di attirare soccorritori e autorità sul luogo
appena insanguinato da un attentato e di fare esplodere automobili o altri congegni per
moltiplicare le vittime. L’uomo dell’intelligence ha avuto la pelle d’oca nel vedere François
Hollande cosi esposto, senza che i servizi incaricati di proteggerlo se ne preoccupassero.
E l’ha raccontato ai giornalisti (di Le Monde) per spiegare come la guerra dichiarata dai
jihadisti colga l’Europa impreparata.
Eppure non si può dire che la Francia non abbia cercato di aggiornare gli strumenti
incaricati di prevenire il terrorismo. Il 2 maggio dello scorso anno la vecchia Direzione
centrale di informazione interna (DCRI) è stata sostituita dalla Direzione generale della
sicurezza interna (DGSI). Pare che la riforma, oltre al cambio delle sigle, dovesse rendere
più efficienti i servizi incaricati del territorio nazionale, e fino allora secondari rispetto quelli
impegnati all’estero. Ma il terrorismo è bicefalo in un paese che conta un’importante
comunità musulmana. I dodici morti in pieno giorno, nel cuore di una grande capitale la cui
sicurezza era ed è affidata a una polizia e a servizi di informazione di lunga esperienza,
sono apparsi le vittime, i caduti, di un conflitto che le società democratiche non sanno
come affrontare. La strage ha colto di sorpresa, benché tanti segnali, non soltanto in
Francia, annunciassero attentati imminenti. Ma dove ? Quando? Preparati da chi? Le varie
capitali erano e sono coscienti di dover combattere un fenomeno jihadista sempre più
intenso, diffuso, e spesso imparabile. La guerra è di tipo asimmetrico, perché i belligeranti
non usano le stesse armi e gli stessi metodi. I terroristi si annidano nella popolazione e
non hanno regole. Gli organismi istituzionali degli Stati democratici hanno regole che non
è facile violare. Come è un’ardua impresa coordinare le politiche economiche, nell’Unione
europea è altrettanto laborioso stabilire uno scambio regolare di informazioni sul
terrorismo tra i vari governi. La volontà esiste ed è ribadita nei frequenti incontri tra gli
addetti ai lavori, ma le leggi non sono le stesse. E la sensibilità morale cambia secondo il
colore del governo. La strage nella redazione di Charlie Hebdo ha probabilmente segnato
una svolta. Il 19 gennaio, al prossimo Consiglio europeo dei ministri il terrorismo sarà
all’ordine del giorno. E una settimana prima, il 12 gennaio, ci dovrebbe essere un dibattito
in Parlamento. C’è anche chi chiede una riunione straordinaria dei capi di Stato e di
governo. L’Europa del XXI secolo non è fatta per i conflitti. Non solo per quelli
convenzionali. Ed è una fortuna. Anzi una conquista. Non le vanno neppure decisioni che,
sebbene proposte per motivi di sicurezza, e senza una carattere offensivo, potrebbero
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ledere le libertà civili. La commissione incaricata a Bruxelles di difendere queste ultime ha
ad esempio respinto l’idea di applicare il PNR (Passage name record), vale a dire la
schedatura dei dati riguardanti i passeggeri di trasporti aerei. Schedatura che dovrebbe
permettere di individuare coloro che vanno o ritornano dalle zone in cui il jihadismo
imperversa. E si calcola che circa quattromila combattenti islamisti siano ritornati dalla
Siria. Suscita perplessità anche il progetto di limitare la propaganda terroristica su Internet.
Ed altrettanto quello di rendere più frequenti, cioè quasi sistematici, i controlli di frontiera
nell’area Schengen. Abbiamo paragonato la strage nell’11esimo arrondissement parigino,
all’11 settembre newyorkese. Sul piano simbolico l’accostamento calza, ma le reazioni
europee non saranno come quelle di Bush, allora alla Casa Bianca. Certo, non ne
abbiamo i mezzi, ma non vogliamo comunque cedere nulla della nostra democrazia. Se la
lotta al terrorismo implicasse una rinuncia a dei diritti civili sarebbe una sconfitta. Una
battaglia perduta per l’Europa. Il problema della sicurezza non sarà tuttavia di agevole
soluzione. Benché traumatizzata, la Francia ha reagito con dignità ai morti di Charlie
Hebdo . Nelle prime ore si è creata un’esemplare unione nazionale. Nicolas Sarkozy,
adesso capo dell’UMP, il maggior partito di centro destra all’opposizione, si è consultato
all’Eliseo, di primo mattino, con François Hollande, il rivale socialista che tre anni l’ha
sfrattato dalla presidenza della Repubblica. Persino Marine Le Pen non ha approfittato
troppo della strage jihadista ed è stata prudente nel ribadire le sue tesi contro
l’immigrazione. Ha persino espresso stima per i cittadini musulmani che rispettano le leggi.
L’union sacrée rischia tuttavia di avere una vita corta. Sia Sarkozy, sia Le Pen hanno
chiesto misure più ferme per la sicurezza. Una richiesta che implica una denuncia della
mollezza del governo socialista. Un dirigente del Front National ha chiesto il ripristino della
pena di morte. Che del resto era nel programma elettorale di Marine, presidente del suo
partito. Disegnare una strategia difensiva senza conoscere bene l’avversario, e soprattutto
senza poter valutare le sue reali ramificazioni sul territorio francese, non è semplice. Gli
assassini dei giornalisti di Charlie Hebdo si sono dichiarati uomini di Al Qaeda. Ma il loro
modo di agire fa pensare che appartengano a un gruppo collegato o influenzato da Daesh,
il califfato, che è un concorrente di Al Qaeda. Ma quest’ultima umiliata dal successo in
Siria e in Iraq dal califfato ha creato un’organizzazione, il gruppo Khorassan, il cui compito
sarebbe quello di promuovere il terrorismo in Europa, in concorrenza con quelli del
califfato. Gli americani lo sanno e per questo hanno bombardato in Siria i campi del
gruppo Khorassan, giudicando i suoi uomini ancor più pericolosi di quelli di Al Qaeda e del
califfato. Il rischio è che l’Europa diventi, oltre che vittima, un campo di battaglia tra
terroristi rivali. Intanto la Francia cerca di capire a chi sono affiliati gli assassini dei
giornalisti di Charlie Hebdo.
Del 09/01/2015, pag. 8
La storia
Chérif Kouachi, uno dei due killer di Parigi, nel 2005 si esibiva in rime di
suo conio. “John” il boia dell’Is è un dj Ed è di pochi giorni fa il brano
controverso di Médine che però si dissocia dal massacro
I giovani rapper tra Islam e violenza diventati
eroi delle banlieue
ADRIANO SOFRI
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IL GIORNO dopo, mentre la caccia agli assassini continua, ci si affaccia a dare
un’occhiata, dall’orlo, al loro mondo di sotto. Oltretutto, non ne sappiamo la lingua. Né le
parole, né la musica. Parliamo, da orecchianti, delle banlieue, dei francesi di seconda o
terza generazione, per aver letto qualcosa, aver visto un buon film, e poco più.
Argomentiamo — per rassicurarci — che è la scarsezza di quella trafila generazionale a
rendere meno impellente il pericolo da noi: e il cielo ce la mandi buona. Io sono
ascoltatore cauto di rap, e mi pare di aver capito questo: che la progenie di più antica
immigrazione, come in Francia, cresce in un ambiente famigliare o sociale musulmano, di
un Islam “normale”, più o meno praticante ma abitudinario, sicché l’incontro col creduto
“vero Islam” è per loro una scoperta, di più: una conversione. Il passaggio da quello che gli
si rivela ora come un Islam compromissorio e tradito a una fede esigente che investe e
travolge la loro intera vita. Un tramite dei più importanti, se non il principale, di questa
“conversione” dal “banale” al “totale” Islam, autoindulgente il primo esigente fino alla morte
il secondo, è il rap. La parola “Jihad”, che usiamo ormai come sinonimo di “guerra santa”,
vuole avere anche il significato di una “lotta contro se stessi”. Dall’11 settembre, a sedurre
a questa conversione è stata la grandiosità di obiettivi e di successi della jihad
internazionale, culminati nella pretesa restaurazione del califfato, terra promessa non al
pellegrinaggio, ma alla gloria del martirio. È il percorso che da ieri riconosciamo nella
vicenda personale di Chérif Kouachi, uno dei due fratelli assassini, oggi trentaduenne,
dopo che è venuto fuori il filmato in cui si esibiva nel 2005 in un rap di suo conio e
raccontava l’incontro di moschea che gli aveva svelato quanto bene facciano gli attentati
suicidi — «è scritto nei testi…» — e quanto bene avrebbe fatto a lui la decisione di andare
a morire — «prima avevo paura ». Era sopravvissuto grazie all’arresto: ed è
sopravvissuto, almeno fino a quando scrivo, anche alla sacra missione di uccidere Charlie
Hebdo. Si capisce che il filmato abbia eccitato i commenti: era la conferma del fatto che gli
assassini erano noti, candidati confessi al martirio jihadista. E poi c’è il rap.
Fra i boia dell’Is hanno fatto la loro gran figura i rapper e dj venuti dal Regno Unito — il
decapitatore di Foley, si è detto — dalla Germania, dalla stessa Italia (il ventenne Anas El
Abboubi, da Brescia alla Siria: «Il martirio mi seduce, voglio morire a mano armata…»).
Sospettato fin dall’origine di essere la lingua misterica e minacciosa del sottomondo
afroamericano e musulmano e violento — ne sono ignorante, ma ammiro il talento che vi
si profonde — il rap è il genere letterario prima che musicale che più avvicina all’idea
sballata che «siamo tutti poeti». Succede che pochi giorni prima dell’eccidio a Charlie
Hebdo il più famoso rapper francese, e piuttosto il profeta dei giovani islamisti, Médine
(Médine Zaouiche), franco-algerino di Le Havre, aveva fatto uscire un nuovo brano,
intitolato, con un gioco di parole sulla laicità, «Don’t Laïk» — e con un richiamo al suo
pezzo più celebre, «Don’t panic (I’m muslim)». Ora si passano al setaccio le sue parole,
per rintracciarvi facilmente l’incitamento all’odio e addirittura all’omicidio: sul filo del
paradosso, di censurare la libertà di parola nel momento in cui la si rimpiange ed esalta
nei veri martiri di Charlie Hebdo. Médine è del resto stretto sodale di quel Dieudonné, i cui
spudorati spettacoli antisemiti (antisionisti, direbbe lui) furono, ricordate, vietati dal
ministero di Valls. Ieri Médine, non so quanto ipocritamente, ha pubblicato una
dissociazione risentita dal massacro parigino. «…Tengo a testimoniare tutto il mio
sostegno alle famiglie delle vittime. Condanno profondamente questo genere di azioni
come faccio da dieci anni nella mia carriera artistica. Mi batto proprio contro questa deriva
estrema e la denuncio nei miei brani fin dal 2004. Vi esorto a fare altrettanto quali che
siano le vostre appartenenze, in nome del carattere sacro della vita umana…». Ho letto il
testo del rap di Médine nello stato d’animo nostalgico delle canzoni francesi
anarchicheggianti dell’età d’oro, che al confronto sembrano bonarie. Ma la differenza
essenziale non sta nella violenza, a meno che si pensi che possa esistere davvero una
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violenza più radicale che nei versi di Rimbaud: sta nella religione. Quei nostri affabili
cantautori controcorrente irri- devano la religione, e almeno le sue cerimonie mondane, e
gli autori di Charlie Hebdo ne erano eredi: il rap, cui piace che le parole abbiano un suono
di raffica, rivendica contro la società costituita il suo Dio.
«Dio è morto, secondo Nietzsche. Nietzsche è morto, firmato: Dio», così comincia la
raffica di Médine. «Crocifiggiamo i laicastri come sul Golgota». La laicità è il nemico
numero uno, denunciata come un feticcio bigotto. «Je suis la mauvaise herbe», diceva
Brassens, «Je porte la barbe j’suis de mauvais poil», dice il guru jihadista, e ha buon gioco
— era già un cavallo di battaglia di Dieudonné — nel rivendicare la poligamia, «meglio
dell’amico Strauss-Kahn». Tira il grilletto ma nasconde la mano, per così dire: «Se ti sparo
in sogno ti chiedo scusa al risveglio». La libertà delle donne? «Marianna è una Femen
tatuata “fanculo Dio” sulle mammelle. E dov’era nell’affare dell’asilo? » (L’affare dell’asilo è
l’infinita sequela di polemiche e processi seguita al licenziamento di un’educatrice che
voleva lavorare coperta dal fazzoletto islamico…).
Denunciandovi un’istigazione all’odio, con argomenti peraltro intelligenti, un commentatore
concludeva ieri che: «Tutto ciò che vuole uccidere la capacità di Ridere discutendo di tutto,
per imporre una Serietà indiscutibile, merita la nostra critica più sottile e più forte». È vero,
ma anche i guru della verità indiscutibile e delle sue traduzioni, fino allo show delle
decapitazioni, riescono a ridere e far ridere. È inevitabile che “noi” gliene diamo qualche
buona occasione. Qualcun’altra è evitabile. Tuttavia il nostro côté-Strauss-Kahn,
chiamiamolo così, non è una ragione per porgere il collo al coltello. Più probabilmente
conoscete il nome di Diam’s, Mélanie Georgiades, franco-cipriota oggi 34enne: i suoi rap
erano stati venduti a milioni di copie, si era fatta paladina delle donne, avversaria fiera di
Marine Le Pen, poi si è convertita all’Islam, poi ha lasciato il rap, poi ha indossato il velo
più ortodosso. Ora vive nella grazia. La domanda più angosciosa rimane: quando
succederà che un ragazzo, una ragazza di una qualunque banlieue canterà in un rap
trascinante l’orrore per le sue coetanee e correligionarie assassinate e stuprate in nome di
Allah in Yemen, in Siria, in Iraq, in Nigeria, e per quelle cui è fatto divieto di cantare e far
rumore coi propri passi in Afghanistan?
del 09/01/15, pag. 9
Sale la tensione. Attacchi alle moschee
Una granata a Le Mans. Proiettili e scritte minacciose su alcuni simboli
della comunità islamica
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE PARIGI Dopo le grida «Allah Akbar» e «Abbiamo
vendicato il profeta», l’estremismo opposto ha preso di mira la comunità e i luoghi di culto
musulmani. Senza vittime. Episodi di gravità infinitamente inferiore alla strage di Parigi,
per fortuna, ma che destano timore per il rischio di nuove vendette.
Mercoledì intorno alle 20, a Port-la-Nouvelle, sono stati sparati alcuni colpi di pistola verso
una sala musulmana, vuota dopo che la preghiera si era conclusa circa un’ora prima. Più
meno alla stessa ora, a Caromb, piccolo villaggio del Sud, è stata crivellata di colpi l’auto
parcheggiata e priva di occupanti di una famiglia musulmana.
Nella notte di mercoledì a Le Mans tre granate sono state lanciate contro la moschea del
quartiere popolare dei Sablons. Una sola è esplosa, senza fare troppi danni. Sul vetro di
una finestra al primo piano gli investigatori hanno individuato il buco fatto da un proiettile.
Giovedì all’alba una bomba è esplosa davanti al negozio di kebab annesso alla moschea
di Villefranche-sur-Saône.
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Ancora ieri, sul muro della moschea di Poitiers è apparsa la scritta «Charlie. Morte agli
arabi, i francesi sono in guerra, vergogna per il vostro popolo». L’autore, un uomo di 38
anni, individuato, ha chiesto scusa dicendo di essere rimasto sconvolto dalle immagini
della strage di Parigi.
«Ci aspettavamo questo genere di reazioni ma non così rapide», dice Abdullah Zekri, alla
guida dell’Osservatorio sull’islamofobia. «I responsabili dell’attentato a Charlie Hebdo sono
terroristi, fanatici, non hanno niente a che vedere con la religione musulmana. Nel Corano
non si trova la giustificazione a una barbarie simile».
I responsabili del culto musulmano stanno facendo il possibile per allontanare dalla loro
comunità l’associazione con quel che è successo a Parigi. La presa di distanze dal
terrorismo è totale. Dalil Boubakeur, rettore della Grande moschea di Parigi e presidente
del Consiglio francese del culto musulmano, ha chiesto che «gli imam condannino gli
attentati durante la preghiera del venerdì e che i fedeli si radunino all’uscita delle moschee
per mostrare la loro solidarietà, e infine che partecipino, non in quanto musulmani ma
come cittadini francesi, alla manifestazione di domenica».
S.Mon.
Del 09/01/2015, pag. 4
Destra e sinistra unite nella Francia in lutto
Ma la Le Pen rilancia “Ora pena di morte”
Hollande e Sarkozy all’Eliseo. Domenica vertice antiterrorismo
La Ue: da febbraio nuove regole per migliorare Schengen
ALBERTO D’ARGENIO
In una Francia sotto choc per la strage jihadista al Charlie Hebdo, la parola d’ordine che
circola per Parigi è unità nazionale. Ma non senza qualche polemica, fomentata dal Front
National di Marine Le Pen. La capitale e le altre città francesi si mobilitano. La Torre Eiffel
spegne le sue luci in segno di lutto, a metà giornata suonano le campane di Notre Dame
che accompagnano il minuto di silenzio che cala su Parigi mentre di buon mattino il
presidente Francois Hollande, proprio nei minuti in cui la caccia ai killer impazza, riunisce
all’Eliseo il gabinetto di crisi con i ministri in prima linea nella gestione dell’emergenza.
Quindi Hollande riceve per mezz’ora il suo predecessore, Nicolas Sarkozy, e telefona agli
ex presidenti Valéry Giscard d’Estaing e Jacques Chirac.
È questa l’unità nazionale voluta dal presidente, con il primo ministro Manuel Valls che
invita anche l’Ump di Sarkozy alla marcia repubblicana organizzata per domenica a Parigi
su iniziativa proprio dei socialisti e del resto della gauche. «Bisogna mostrare un fronte
unito — commenta a caldo Sarkò — ho incontrato Hollande per mostrare la nostra unità
nazionale contro fanatici che hanno dichiarato guerra alla nostra civiltà che ora ha la
responsabilità di difendersi». Anche i dirigenti del Consiglio francese del culto musulmano
chiedono ai tre milioni e mezzo di islamici francesi di sfilare dopodomani per Parigi per
ripudiare il terrorismo. Ma se Parigi si ferma per un minuto e centinaia di membri
dell’Assemblea nazionale cantano la Marsigliese sotto la pioggia battente, Marine Le Pen
manda in corto circuito il clima unitario del lutto francese. La leader del Front National
lancia la proposta choc: «Voglio offrire ai francesi un referendum sulla pena di morte». Poi
Marine getta benzina sul fuoco dicendo di non essere certa di partecipare alla marcia
repubblicana accusando Hollande di non averla coinvolta. «Sono indignata dal mancato
invito — dice a Le Monde — si tratta di una manovra politica miserabile, vogliono mettere
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da parte il solo movimento che non ha alcuna responsabilità nella situazione attuale, se
non mi invitano non imporrò la mia presenza perché al minimo incidente diranno che è
colpa mia». A farla infuriare sono anche le parole di François Lamy, incaricato dal Ps di
organizzare la marcia, che ha spiegato il mancato invito del Front perché «fa parte delle
organizzazioni che dividono il Paese, stigmatizzano i nostri concittadini musulmani e
giocano con la paura». Nonostante le polemiche in serata Place de la République si
riempie di parigini solidali con le vittime della strage jihadista. Anche qui si canta la
Marsigliese e l’atmosfera è commossa. Su Parigi per tutto il giorno piovono le dichiarazioni
di condoglianze dei leader mondiali, i partner si mobilitano e il ministro dell’Interno
Cazeneuve annuncia che domenica ospiterà una riunione d’emergenza con i colleghi
europei (per l’Italia ci sarà Alfano) e gli americani Eric Holder (Giustizia) e Jeh Johnson
(Interni). La strage scuote anche la vicina Bruxelles, con le istituzioni comunitarie che
abbassano a mezz’asta le bandiere. Il presidente della Commissione, Jean Claude
Juncker, annuncia per febbraio nuove regole Ue contro il terrorismo, in particolare contro i
“foreign fighters”, un miglioramento di Schengen e una più proficua collaborazione tra
Europol e le intelligence nazionali. Si pensa di punire con pene severe i viaggi all’estero
(vedi Siria e Iraq) per compiere attività terroristiche o per l’addestramento nelle basi della
jihad, così come il finanziamento o l’organizzazione di queste attività. Inoltre per
individuare i foreign fighters (almeno 2.500 europei) potrebbe essere riproposta la
normativa sulla raccolta dei dati dei passeggeri aerei (Pnr) che Strasburgo ha bocciato per
ragioni di privacy. Si lavora anche su standard comuni per il training della sicurezza
privata, un controllo più efficace sui materiali chimici, biologici e nucleari che potrebbero
essere usati negli attentati e ad una policy contro la radicalizzazione delle società
europee.
Del 09/01/2015, pag. 1-10
Tra i superstiti di Charlie Hebdo “Scriveremo
con le lacrime”
Mercoledì prossimo uscirà un numero speciale con una tiratura da un
milione di copie. Grazie alla mobilitazione di tutti i media francesi da
“Libé” a “Le Monde”
ANAIS GINORI
PARIGI
La riunione di redazione si terrà stamattina. Quarantotto ore e dodici vittime dopo.
«Abbiamo ucciso Charlie Hebdo » hanno urlato i fratelli Kouachi prendendo la fuga. Il
giornale invece non è morto. I superstiti dell’attentato di mercoledì si ritroveranno oggi
negli uffici di Libération , circondati da una mobilitazione inedita nella storia della stampa
francese. «Non abbiamo più mezzi, non una matita, non un computer. Non abbiamo più
niente» spiega Richard Malka, da vent’anni avvocato del settimanale che ha dovuto
affrontare molti processi. «Ma per fortuna — prosegue — abbiamo la solidarietà e la
speranza in un angolo del nostro cuore». Libération ha messo la sede. Radio France,
France Television e Le Monde hanno dato un aiuto logistico. L’Unione degli editori di
giornali e Google contribuiranno con 250mila euro ciascuno. La ministra francese della
Cultura, Fleur Pellerin, ha annunciato che ha intenzione di «sbloccare d'urgenza » circa un
milione di euro. Il gruppo di distribuzione PressTalis ha deciso di rinunciare a tutte le
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commissioni sulla diffusione delle copie. È un’amara ironia del destino. Tre mesi fa, Charb,
il direttore del settimanale ucciso, aveva lanciato una sottoscrizione popolare: il giornale
vendeva sempre meno, le copie erano scese sotto le 20mila. Il numero speciale della
settimana prossima avrà una tiratura eccezionale di un milione di copie. Nei locali di
Libération ci saranno rinforzi di polizia e quasi tutti i superstiti di Charlie Hebdo sono
adesso sotto scorta. «Ma non importa». Patrick Pelloux avrebbe dovuto essere in
redazione mercoledì. È arrivato in ritardo perché, come medico volontario nelle
emergenze, partecipava a una riunione istituzionale su come organizzare meglio i soccorsi
a Parigi. Non smette di piangere. «Ci sono momenti in cui penso: ora mi sveglio e scopro
che non è davvero successo». Ha trovato i suoi amici a terra, in un bagno di sangue. Le
Monde ha pubblicato ieri una foto insostenibile della stanza dopo la sparatoria. «Non vi
descrivo quello che ho visto» racconta Pelloux. «Vi dico invece quello che Charb avrebbe
voluto sentire: non ci fermeremo. E quello che Cabu avrebbe aggiunto: dobbiamo fare un
giornale ancora migliore. E quindi lo faremo, non so ancora come. Lo scriveremo con le
nostre lacrime».
Sono quarant’anni che Charlie Hebdo si beffa di politici, fanatici religiosi, potenti e
benpensanti di ogni sorta, vincendo censure e fatwa. Ora dovrà riuscire a scherzare sulla
propria tragedia, facendo rimanere vivo lo spirito anarchico e irriverente dei colleghi
assassinati. Nel novembre 1970, dopo una strage in discoteca con 146 giovani vittime e la
morte di Charles De Gaulle, il settimanale satirico Hara Kiri titolava «Tragico ballo a
Colombey (città dov’è sepolto De Gaulle, ndr ): un morto». Il ministro dell’Interno aveva
ordinato di vietare la pubblicazione. Nasceva così l’indomito Charlie Hebdo , omaggio a
Charlie Brown ma anche al generale che il settimanale aveva deriso. Nel 2011, dopo aver
già ricevuto minacce per la pubblicazione delle vignette danesi di Maometto cinque anni
prima, il giornale rilanciava con Charia Hebdo . Passati pochi giorni, la sede del ventesimo
arrondissement bruciava nella notte in un incendio doloso. Anche allora Libération aveva
offerto ospitalità. Charlie Hebdo era diventata una testata senza fissa dimora fino all’estate
scorsa quando è approdata negli uffici in rue Nicolas- Appert dove, per motivi di sicurezza,
non c’era alcuna insegna esterna. Il numero speciale sarà in versione ridotta: otto pagine,
anziché sedici. «Un’edizione di superstiti » spiega l’avvocato Malka. Mancheranno Cabu,
Wolinski, Tignous, Honoré, il correttore di bozze cabilo Mustapha Ourrad, che aveva
ottenuto la nazionalità francese un mese fa. Alcuni disegnatori hanno già promesso di
partecipare, come il belga Philippe Geluck. Anche Philippe Val, direttore della redazione
tra il 1992 e il 2009, si è mobilitato. Era andato via in polemica con i colleghi, ma la
tradizionale riottosità dei giornalisti satirici è stata per una volta messa da parte.
Ci dovrebbero essere il redattore Laurent Léger e Corinne Rey, alias Coco, la vignettista
presa in ostaggio che ha materialmente aperto agli attentatori. Entrambi sono riusciti a
nascondersi sotto al tavolo ovale attorno a cui si svolgeva la riunione. La giornalista
Sigolène Vinson è ancora sotto shock. Uno dei fratelli Kouachi le ha puntato il fucile alla
tempia. «Non uccidiamo le donne — ha detto — ma ti devi convertire all’Islam e mettere il
velo». Una distinzione di genere che non è valsa per la psicanalista Elsa Cayat, autrice
della rubrica satirica Il Divano, uccisa sul colpo. Tra i sopravvissuti c’è anche un giornalista
di Libération, Philippe Lançon, che collaborava con il settimanale. Ferito alla mascella, si è
salvato perché gli è caduto addosso il corpo dell’economista Bernard Maris che l’ha
protetto dalle altre raffiche. Lançon è in ospedale insieme al giornalista Fabrice Nicolino e
al direttore della redazione, Laurent Sourisseau, in arte Riss. La prognosi più grave è per
Simon Fieschi, il tecnico che si occupava di moderare il sito, compito non facile visto che
da anni arrivavano insulti e minacce. Poi ci sono quelli che per un caso della vita erano
assenti e ora ci sono ancora. Antonio Fischetti aveva un funerale, la giornalista Zineb era
in vacanza in Marocco. Il vignettista Luz che aveva firmato la prima di Charia Hebdo —
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«Cento frustate se non siete morti dal ridere» — era semplicemente in ritardo, cosa che
nel settimanale capitava spesso. Il disegnatore Willem era nel treno al momento della
sparatoria. Aveva previsto di arrivare nel pomeriggio a Parigi per un antico vezzo ribelle:
non partecipa mai alle riunioni. «Non mi piacciono. Per questo mi sono salvato la vita».
del 09/01/15, pag. 5
Le vere vittime dei jihadisti
Giuliana Sgrena
L’angoscia e lo smarrimento suscitati dalle immagini che arrivavano da Parigi, lasciano ora
spazio a interrogativi e considerazioni.
Innanzitutto la freddezza e la preparazione militare dei terroristi segna un salto di qualità
nel terrorismo islamico globale. Persino l’urlo di «Allah u Akbar» così nitido è apparso
privo di emozione e di fanatismo. L’obiettivo stesso appare simbolico più che frutto di una
reazione a vignette anti-islamiche, che sarebbe stato più comprensibile in occasione della
pubblicazione di quelle più dissacranti. Le vignette contro Maometto pubblicate da un
giornale danese nel 2005 avevano provocato mobilitazioni anti-occidentali in vari paesi
musulmani, mentre l’attacco di Parigi è stato condannato con rare eccezioni di plauso.
L’obiettivo scelto è infatti molto «sofisticato» per le masse arabe, si è voluto colpire la
laicità nella sua espressione più radicale: Charlie Hebdo in nome della libertà dissacrava e
sbeffeggiava la religione come la politica o il sesso.
L’obiettivo sembra quindi più una scelta dell’islamismo francese o europeizzato. Chi può
odiare tanto un simbolo della laicità se non un islamista francese?
Questo attentato è il frutto avvelenato dell’islam globalizzato, un’ideologia sostenuta anche
da intellettuali occidentali che hanno convinto molti europei della loro intenzione di
modernizzare l’islam mentre il vero obiettivo era ed è quello di islamizzare l’Europa. È la
stessa ideologia che ha generato il califfato di al Baghdadi, che in nome dell’islam globale
vuole abbattere le frontiere coloniali in Medioriente.
La coincidenza con l’uscita del provocatorio romanzo di Houellebecq Sottomissione
(traduzione letterale di Islam) sulle conseguenze della diffusione dell’islam in Europa – i
musulmani sono già e saranno sempre più una presenza importante e financo
preponderante – ha scatenato ipotesi drammatiche sul nostro futuro. Questo ci deve
spaventare? No, ma non possiamo ignorare le contraddizioni vissute da chi, di origine
musulmana, è cresciuto in un paese più o meno laico (l’Italia non lo è) e apprezza questa
laicità ma non è disposto a mettere in discussione i principi dell’islam (secondo una
versione integralista) soprattutto rispetto alle donne. Sono contraddizioni più laceranti nei
giovani che negli adulti.
Lo scontro più duro tra un mondo sostanzialmente laico e la volontà di imporre una visione
più ortodossa dell’islam si è verificato di recente proprio in un paese musulmano come la
Tunisia. Non a caso i due fratelli franco-algerini ritenuti responsabili dell’attentato – Chérif
e Said Kouachi – sono legati alla filiera jihadista Buttes-Chaumont di Boubaker al Hakim,
franco-tunisino, che ha rivendicato nel dicembre scorso, l’assassinio dei due noti
esponenti del Fronte popolare, Chokri Belaid e Mohamed Brahmi. La rivendicazione, a
nome dello Stato islamico (Isil), è avvenuta alla vigilia del secondo turno delle presidenziali
tunisine e faceva appello al boicottaggio.
Sebbene i due giovani siano stati indicati dai testimoni come appartenenti ad al Qaeda in
Yemen, il loro passato è più legato ad al Qaeda in Iraq che sarebbe poi diventata Isil. E
questo dimostra come il terrorismo globale non risponda più a una sigla ma molti gruppi
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possono agire in nome del Jihad. Kouachi era stato arruolato nel 2004 da Farid Benyettou,
autoproclamatosi imam. I due erano stati arrestati nel 2005 mentre Kouachi era in
partenza per Damasco. Boubaker al Hakim, arrestato in Siria dove ha passato un anno in
carcere, è stato estradato in Francia nel 2005, dove nel 2008 è stato condannato a sette
anni, ma nel 2011 è stato liberato.
Sono solo alcune storie di jihadisti che dimostrano come personaggi già noti alla giustizia
possano continuare a organizzare attentati tra una missione e l’altra sui terreni di guerra. È
questo il terrorismo globale, che non può essere combattuto solo con misure di sicurezza:
ancora più importante è combattere l’ideologia portata alle estreme conseguenze dai
terroristi. Il «successo» in Iraq e Siria di al Baghdadi ha fatto proliferare i suoi sostenitori
nel nord Africa e anche in occidente.
Ora si chiede alla comunità musulmana di condannare il terrorismo, di farlo più
esplicitamente. Questo indubbiamente serve a isolare i jihadisti, ma non basta farlo
quando c’è l’emergenza, la paura, occorre prestare maggiore attenzione a quelle forze, a
quei religiosi, che dentro il mondo islamico si battono, a loro rischio e pericolo, per una
secolarizzazione dell’islam. Non serve condannare le atrocità commesse in nome
dell’islam solo quando toccano l’occidente, perché le principali vittime del fanatismo non
siamo noi ma i musulmani moderati e laici.
del 09/01/15, pag. 6
“Non in nome dell’Islam”
LE POSIZIONI MUSULMANE CORRONO ANCHE SU TWITTER, DOVE
SPOPOLA “IO SONO AHMED”
di Salvatore Cannavò
La reazione del mondo musulmano all’attacco contro Charlie Hebdo c’è stata ed è stata
abbastanza diffusa. La comunità islamica francese ha preso posizione con le sue
massime cariche: “Ci inchiniamo davanti a tutte le vittime di questo dramma orribile” ha
detto il presidente del Consiglio francese per il Culto musulmano, Dalil Boubakeur . Il
rettore della grande moschea di Parigi ha condannato “nella maniera più assoluta”
l’attentato e il tentativo di presentarlo come legato all’Islam: “si tratta di uno choc per tutti i
musulmani come per tutta la società francese”. Il segretario della Lega araba, Nabil alArabi, ha ricordato che “l’Islam è contro ogni violenza” mentre per il segretario generale
dell’Unione delle moschee di Francia, Mohammed Mraizika , “nulla, assolutamente nulla,
può giustificare o scusare questo crimine”. Una presa di posizione originale, e allo stesso
tempo autorevole, è quella di quattro imam francesi ricevuti ieri in Vaticano dal cardinale
Jean-Louis Tauran, presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo interreligioso: “Siamo
scioccati per l’odioso attentato a Parigi” hanno affermato in una dichiarazione congiunta al
termine dell’incontro presso la Santa Sede.
OLTRE LE DICHIARAZIONI ufficiali, molte prese di posizioni individuali sono stati
espresse tramite l’immancabile strumento dei “socia - li”, Twitter in particolare. L’hashtag
molto diffuso tra i musulmani che hanno voluto prendere posizione è quello di #Not in my
name, “Non in mio nome”, attivato da persone contrarie a vedere la propria fede
strumentalizzata dall’attacco ai diritti civili. Una posizione ben espresse dalla scrittrice e
giornalista Igiaba Scego, dalle colonne di Internazio - nale: “Oggi – scrive – mi hanno
dichiarato guerra. Hanno usato il nome di dio e del profeta per giustificare l’ingiustificabile.
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Da afroeuropea e da musulmana io non ci sto”.
Ma a testimonianza di quelle sfumature che rendono molto complicato il rapporto
interculturale, su Twitter si è diffuso un altro hashtag. Al posto di #Je - suischarlie, “Io sono
Charlie”, che ieri è stato tra i più gettonati, molti utenti musulmani hanno preferito
#jesuisahmed. La spiegazione l’hanno fornita gli stessi promotori: “Non sono Charlie, sono
Ahmed, il poliziotto ucciso. Charlie mi ha mancato di rispetto e ha ridicolizzato la mia fede
e la mia cultura e io sono morto per difendere il suo diritto di farlo”. Una circonlocuzione
complessa che vuole esprimere la condanna dell’atten - tato, ma anche la distanza dalle
vignette di Charlie che nella dissacrazione religiosa si è spinta, a parere di molti
osservatori, spesso ai confini del dileggio. Io sono Ahmed è un modo per rendere esplicita
questa complessità anche se il rapporto tra mondo musulmano e i gruppi jihadisti non può
dirsi mai risolto. Come testimoniano diversi analisti – c’è un dossier dell’Istituto italiano di
politica internazionale in tal senso – i nuovi combattenti operano con la modalità della
“catena umana”: “Chi parte, attratto dalla guerra in Iraq o in Siria, recluta anche fratelli,
amici e colleghi. Ma non tutti decidono di partire, per molti il jihad si combatte dentro i
confini europei”. La nuova insidia sembra essere questa.
Del 09/01/2015, pag. 12
LA STRAGE DI PARIGI
Mostrare o censurare i disegni di Charlie
Hebdo ora i media si dividono
Il Washington Post: “Non intendiamo offendere l’Islam” Ma il Pulitzer
Carl Bernstein lo critica. Il Times: “Siamo codardi”
ENRICO FRANCESCHINI
Siamo tutti Charlie Hebdo: lo dicono i cartelli della gente nelle strade di tutta Europa, lo
affermano i titoli dei giornali di tutto l’Occidente. Ma non tutti i giornali occidentali — pur
condannando come barbaro l’attacco di Parigi e difendendo il diritto del settimanale
francese di fare satira come vuole su quello che vuole — hanno ripubblicato le vignette
messe sotto accusa dagli estremisti islamici. Il mondo dei media si è per il momento diviso
fra chi non pubblica nulla o soltanto vignette che non ritraggono Maometto e chi invece ha
pubblicato proprio il materiale che ha fatto infuriare gli islamisti, come la famosa copertina
di Charlie Hebdo in cui il Profeta ammonisce: «Vi farò dare 100 frustate se non morite dal
ridere!» Adesso un appello lanciato da Timothy Garton Ash, docente di relazioni
internazionali a Oxford, columnist del Guardian e di Repubblica, autore di saggi di
successo, chiede a tutti i giornali d’Europa di pubblicare le vignette più “forti” del
settimanale francese come gesto collettivo in difesa della libertà di stampa. Ma le opinioni
in materia appaiono contrastanti. In Gran Bretagna nessun quotidiano ha pubblicato le
vignette di Charlie Hebdo . «Siamo dei codardi», scrive amaramente un columnist del
Times. Viceversa Tony Barber, commentatore del Financial Times , definisce
«editorialmente stupida» la scelta del settimanale parigino di provocare consapevolmente
l’ira dei musulmani e lo giudica «non il miglior campione di libertà di espressione»: uscito
prima sul sito, il suo articolo è stato ritoccato ieri sera, cancellando questi due severi
giudizi, che hanno scatenato sdegno sui social network, ma li ha ripristinati nella versione
cartacea pubblicata ieri mattina. Non finisce qui. In America il Washington Post afferma:
«Non pubblichiamo mai immagini che possono offendere qualunque religione» e il New
York Times segue la stessa linea. Ma il quotidiano del Watergate deve incassare le
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critiche di una delle sue firme di punta, Carl Bernstein, che con Bob Woodword fece
esplodere quello scandalo. In Danimarca alcuni giornali hanno pubblicato le vignette e altri
no. L’ Huffington Post, il Daily Beast, Slate e altre testate online le hanno pubblicate; la
Bbc e la Cnn no. D’altra parte, come denuncia il blog statunitense Gawker, considerato in
patria una sorta di “tempio” della controinformazione, il Daily Telegraph britannico e il New
York Daily News hanno pensato bene di “pixelare”, quindi rendendole irriconoscibili, le
copertine più controverse contro il Profeta e l’Islam. Stephen Pollard, direttore del Jewish
Chronicle, un giornale britannico, pone il dilemma in questi termini: «Il mio istinto
giornalistico mi dice di pubblicare tutto, ma che diritto ho di rischiare la vita dei miei
redattori?».
Del 09/01/2015, pag. 16
L’intervista.
Dopo la strage e lo shock, lo scrittore riflette sulle cause
dell’assalto:“La Francia ha esportato il conflitto in paesi come Mali e
Afghanistan, credendo che gli estremisti non avrebbero colpito. C’è un
solo rimedio: combattere sempre violenza e intolleranza”
Pennac: “Solo ora capiamo che per le nostre
guerre lontane rischiamo di morire qui a
casa”
FABIO GAMBARO
«SONO tristissimo. Conoscevo bene Tignous e Bernard Maris. E poco tempo fa avevo
cenato con Charb e Cabu. Mi era anche capitato d’incontrare Wolinski. Di fronte alla loro
morte sono senza parole». Appena avuta la notizia dell’attacco a Charlie Hebdo , l’altra
sera Daniel Pennac si è recato alla manifestazione sulla Place de la Republique, dove
insieme a migliaia di altre persone ha protestato contro la barbarie di un odio
ingiustificabile. «Erano persone coraggiose, capaci di continuare a fare il loro lavoro
nonostante le molte minacce ricevute. Ma al di là delle qualità professionali erano persone
adorabili, lontanissime da ogni violenza e aggressività. Grazie al loro entusiasmo, Charlie
Hebdo ha sempre rappresentato la forza e il piacere di un’assoluta libertà di pensiero, che
certo poteva scioccare chi preferisce trincerarsi dietro certezze incrollabili. I terroristi
hanno voluto assassinare la loro libertà».
Gli assalitori gridavano «abbiamo ammazzato Charlie». Ci sono riusciti per
davvero?
«Assolutamente no. Charlie Hebdo continuerà a vivere. Io, come molti altri, farò di tutto
per aiutarli. Troveremo il modo di far sopravvivere lo spirito libero e irriverente del giornale,
scrivendo, disegnando, abbonandosi, aiutando finanziariamente la redazione. L’ironia e
l’autoironia sono sempre necessarie: un’anima senza ironia diventa un inferno ».
A chi parla dei limiti della satira, cosa risponde?
«È tutta la vita che ne sento parlare. Chi invoca questo tipo di limiti in realtà vuole solo
imporre i propri limiti agli altri. I cattolici, i musulmani, i tradizionalisti, ciascuno vuole far
prevalere le proprie regole. Ma ciò non ha senso. Solo una convinzione ottusa e
prigioniera di certezze ideologiche e religiose può sentire il bisogno d’imporre un limite
all’ironia. Gli unici limiti concepibili sono quelli che l’umorista, l’artista si pone da solo. Io so
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che ci sono ambiti su cui non scriverò mai, ma questo lo decido io. Nessuno potrà mai
impormi gli argomenti su cui scrivere o meno».
La situazione, però, è diventata da guerra.
«La Francia è in guerra, solo che finora il campo di battaglia era geograficamente lontano,
in Mali, in Afghanistan. Quindi ci siamo illusi che gli estremisti contro cui stavamo
combattendo non avrebbe mai potuto colpirci. Oggi sappiamo che non è vero. E temo che
in futuro assisteremo ad altri attacchi di questo tipo».
Come spiega la radicalizzazione di certi giovani che imboccano la strada del
terrorismo?
«È il risultato di molti fattori, tra cui il capitalismo odierno che fa la guerra ai poveri e non
alla povertà. In questo modo marginalizza una parte della popolazione che si sente
esclusa e isolata dalla società. Se a ciò si aggiungono le discriminazioni subite, si
comprende come certe persone possano progressivamente radicalizzarsi al punto da
odiare la società in cui vivono. Spesso manipolati, costoro diventando disponibili alla
violenza e alla follia del terrorismo».
Per la società francese, quali saranno le conseguenze di quanto è accaduto?
«Purtroppo le vittime simboliche di questa strage sono innanzitutto i musulmani di Francia
che si ritrovano presi tra due fuochi. Da un lato, ci sono gli assassini che pretendono di
parlare in loro nome. Dall’altra, un’opinione pubblica che chiede loro di dimostrare
continuamente di essere diversi e lontani dagli assassini. Per i musulmani è una
situazione molto difficile. Se i terroristi incarnano una malattia mortale, a modo suo anche
l’estrema destra è una malattia mortale, sebbene di un altro tipo. Ma possiamo produrre
degli anticorpi».
Come fare?
«Non dobbiamo cedere alla paura degli altri. Non cedere al terrore è il migliore degli
anticorpi ».
La cultura può contribuire?
«Mi piacerebbe rispondere di sì, ma purtroppo l’esperienza del passato c’insegna che non
è vero. La cultura non ha mai evitato le catastrofi. La Germania aveva la cultura più
avanzata, ma questa non ha potuto evitare la Shoah. La cultura può alimentare le
coscienze, non può disarmare gli assassini. Il che naturalmente non significa che non si
debba continuare a battersi e a lottare contro tutte le forme d’intolleranza e di violenza».
( L’ultimo libro di Daniel Pennac è Storia di un corpo , pubblicato come gli altri da
Feltrinelli)
Del 09/01/2015, pag. 16
Questo è il nostro 11 settembre e gli
intellettuali non se ne accorgono
MICHEL ONFRAY
COME tutti i francesi, sapevo che si stavano preparando attentati, che alcuni erano stati
sventati. Ciò nonostante, sono rimasto sbigottito quando ho ricevuto sul mio iPhone la
notifica di allerta per la sparatoria a Charlie Hebdo. Senza sapere altro, ho capito subito
che si trattava di qualcosa di grave, di terribile. Alle 12.50 ho twittato “Mercoledì 7 gennaio
2015: il nostro 11 settembre”, perché in effetti credo proprio che questo attentato diventerà
uno spartiacque. Questo è soltanto l’inizio.
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Tuttavia, se nella sostanza mi aspettavo una cosa del genere, nella forma no. E poi non
collegherei l’attentato all’uscita di Sottomissione. Nel suo romanzo Houellebecq annuncia
ciò che bolle in pentola da anni, ma proiettandolo nel futuro. Il fatto è che questa guerra
civile, che egli annuncia come un’ipotesi da romanzo, si regge su numerosi focolai
individuabili da anni, ma meticolosamente soffocati dai media col pretesto di evitare,
secondo un’espressione ormai ratificata, di «fare il gioco di Le Pen». Anch’io penso che
l’Europa sia morta. E non esistono azioni politiche che possano metterci al riparo dal
fondamentalismo. Si sarebbero potute evitare di dichiarare guerra all’Islam in modo
planetario da anni — Iraq, Libia, Afghanistan, Mali… E poi affrancarsi da queste guerre
che combattiamo con i nostri eserciti tradizionali contro una guerriglia che permette a due
uomini armati di due kalashnikov e con due o tre automobili rubate di mettere un paese
intero in ginocchio e di farlo cadere in uno stato di terrore assoluto.
E gli intellettuali non hanno più un peso. Sono anni che non fanno il loro lavoro, dicendo
che questo pericolo non esiste o biasimando coloro che dicono che il pericolo esiste.
Scommetto che continueranno a comportarsi con ancora maggiore aggressività,
difendendo le loro tesi e accusando altri di essere responsabili dell’accaduto: per alcuni i
musulmani, per altri quelli che contrastano i musulmani. E questa si chiama “guerra civile”.
Ricordiamoci che i due (o tre) assassini sono stati addestrati alla guerriglia. La
preparazione, il sangue freddo mantenuto durante l’operazione da commando, il modo di
sparare, la calma, la determinazione e la fuga: tutto dimostra che si tratta di uomini
agguerriti. Sono stati addestrati su un terreno di operazioni militari? Può darsi.
Probabilmente andranno avanti fino a morire da martiri. E poi altri raccoglieranno da loro il
testimone.
(Testo raccolto; traduzione di Anna Bissanti)
Del 09/01/2015, pag. 17
Il vero complesso di inferiorità dei
fondamentalisti fragili e confusi
SLAVOJ ZIZEK
ORA che siamo tutti sotto shock, dopo la carneficina negli uffici di Charlie Hebdo, è il
momento giusto per trovare il coraggio di ragionare. Naturalmente dobbiamo condannare
senza ambiguità gli omicidi come un attacco contro l’essenza stessa delle nostre libertà, e
condannarli senza nessun distinguo mascherato. Ma questo afflato di solidarietà
universale non è abbastanza. Il ragionamento di cui parlo non ha assolutamente nulla a
che vedere con le relativizzazioni da quattro soldi di questo crimine (il mantra del «Chi
siamo noi occidentali, che abbiamo compiuto massacri terribili nel terzo mondo, per
condannare atti come questi? »). E ha ancora meno a che fare con la paura patologica di
tanti liberali progressisti occidentali di macchiarsi di islamofobia. Per questi finti
progressisti, qualsiasi critica dell’islam viene additata come espressione dell’islamofobia
occidentale: Salman Rushdie è stato accusato di aver provocato gratuitamente i
musulmani, e quindi di essere responsabile (almeno in parte) della fatwa che lo condanna
a morte, e via così.
Il risultato di posizioni del genere è quello che ci si può aspettare in questi casi: più i
progressisti occidentali rovistano nel loro senso di colpa, più vengono accusati dai
fondamentalisti islamici di essere ipocriti che cercano di nascondere il loro odio per l’islam.
Questa costellazione riproduce alla perfezione il paradosso del superego: più obbedisci a
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quello che l’Altro pretende da te, più ti senti colpevole. In pratica, più tollerate l’islam, più
forte sarà la pressione su di voi… Molto tempo addietro Friedrich Nietzsche percepiva che
la civiltà occidentale stava avanzando verso l’Ultimo Uomo, una creatura apatica, senza
grandi passioni o grandi impegni. Incapace di sognare, stanco della vita, non si prende
rischi, cerca soltanto comfort e sicurezza, una manifestazione di tolleranza reciproca: «Un
po’ di veleno ogni tanto, per fare sogni piacevoli. E tanto veleno alla fine, per una morte
piacevole ». In effetti può sembrare che la spaccatura fra il permissivo primo mondo e la
reazione fondamentalista contro di esso coincida sempre più con la contrapposizione fra
una vita lunga e soddisfacente, piena di benessere materiale e culturale, e una vita
dedicata a qualche Causa trascendente. “I migliori” non sono più capaci di impegnarsi fino
in fondo, mentre «i peggiori» si impegnano in un fanatismo razzista, religioso, sessista.
Ma i terroristi fondamentalisti corrispondono esattamente a questa descrizione? La cosa di
cui mancano con ogni evidenza è una qualità che è facile discernere in tutti i
fondamentalisti autentici, dai buddisti tibetani agli Amish americani: l’assenza di
risentimento e invidia, la profonda indifferenza verso il modo di vivere dei non credenti. Se
i cosiddetti fondamentalisti dei nostri giorni sono convinti davvero di aver trovato la via
verso la Verità, perché dovrebbero sentirsi minacciati dai non credenti, perché dovrebbero
invidiarli? Quando un buddista incontra un edonista occidentale, non lo condanna di certo:
si limita a osservare benevolmente che la ricerca di felicità dell’edonista è
controproducente. Al contrario dei veri fondamentalisti, gli pseudofondamentalisti terroristi
sono profondamente infastiditi, intrigati, affascinati dalla vita peccaminosa dei non
credenti: si ha la sensazione che combattendo il peccatore stiano combattendo la loro
stessa tentazione di peccato. Il terrore del fondamentalismo islamico non è radicato nella
convinzione dei terroristi della propria superiorità, in un desiderio di preservare la propria
identità cultural-religiosa dal furibondo assalto della civiltà consumistica globale. Il
problema dei fondamentalisti non è che li consideriamo inferiori a noi, ma al contrario che
loro stessi si considerano segretamente inferiori. È per questo che quando li rassicuriamo,
pieni di condiscendenza e political correctness, che non ci sentiamo assolutamente
superiori a loro non facciamo altro che farli inferocire ancora di più e alimentare il loro
risentimento. Il problema non è la differenza culturale (il loro sforzo per preservare la
propria identità), ma il contrario, il fatto che i fondamentalisti sono già come noi, che
segretamente hanno già interiorizzato i nostri parametri e misurano se stessi in base a
essi. Il fondamentalismo è una reazione — una reazione falsa e mistificatrice,
naturalmente — contro un difetto reale del liberalismo, ed è per questo che il liberalismo lo
genera, ripetutamente. Affinché questa tradizione fondamentale possa sopravvivere, il
liberalismo necessita dell’aiuto fraterno della sinistra radicale. È il solo modo per
sconfiggere il fondamentalismo, tagliargli l’erba sotto i piedi.
Ragionare in risposta agli omicidi di Parigi significa mettere da parte il compiacimento
autocelebrativo del liberale permissivo e accettare che il conflitto tra la permissività liberale
e il fondamentalismo in definitiva è un conflitto falso. Quello che Horkheimer aveva detto
riguardo a fascismo e capitalismo, e cioè che chi non è disposto a parlare in modo critico
del capitalismo non dovrebbe contestare neppure il fascismo, andrebbe applicato anche al
fondamentalismo dei nostri giorni: chi non è disposto a parlare in modo critico della
democrazia liberale non dovrebbe contestare neppure il fondamentalismo religioso.
Traduzione di Fabio Galimberti
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del 09/01/15, pag. 16
Massacri in Nigeria, cadaveri per le strade
Offensiva degli islamici di Boko Haram, cadono numerosi villaggi.
«Temiamo che i morti siano duemila» Anche il confinante Camerun
chiede aiuto alla comunità internazionale: «Serve una risposta globale»
Cadaveri ovunque e case bruciate, macerie e puzza di morte: è quel che resta di Baga, la
località nigeriana affacciata sul lago Ciad rasa al suolo dai miliziani di Boko Haram.
Duemila gli abitanti uccisi, ipotizza un funzionario locale con la Bbc. Un’ecatombe.
«L’inferno è vuoto e tutti i diavoli sono qui» reagiscono su Twitter alcuni nigeriani eruditi
che, a corto di parole per dire l’orrore, le prendono in prestito da Shakespeare. Baga, già
messa ferro e fuoco all’inizio del 2013, era una delle poche località del Borno non ancora
passate sotto il controllo del gruppo islamista.
L’assedio è iniziato lo scorso fine settimana quando i fondamentalisti hanno espugnato la
base militare della città, il quartier generale della forza multinazionale africana chiamata a
contrastare gli estremisti. Almeno 100 i morti e migliaia gli sfollati di questa prima
incursione, tra il 3 e il 4 gennaio, riferisce un responsabile del distretto. Quanti sono tornati
poi nelle proprie case, mercoledì sono stati vittime di un secondo efferato attacco: con il
ritiro dei soldati, i miliziani hanno avuto campo libero. Una strage in realtà dai contorni
ancora poco definiti. Difficile sapere quanti abitanti siano effettivamente morti e quanti
siano fuggiti: durante l’attacco del 2013, per dire, i 10 mila residenti erano scappati fuori
città.
Ieri il premier del Ciad, Kalzeubet Pahimi, ha rivolto un appello alla comunità
internazionale per le migliaia di nigeriani che hanno varcato il confine per sfuggire ai
miliziani islamisti. Anche lui parla di duemila persone rifugiatisi nel suo Paese negli ultimi
giorni, che si sommano ai mille già arrivati nei mesi scorsi.
C’è un altro Paese confinante che ieri ha chiesto aiuto, il Camerun. Il presidente, Paul
Biya, ha rivolto un appello dopo che Boko Haram ha minacciato un’escalation di attacchi
sul suo territorio. «Dal Mali alla Somalia, questi terroristi hanno la stessa agenda, davanti
a una minaccia globale serve una risposta globale» ha invocato, visto che ancora non si è
costituita la forza multinazionale annunciata a maggio a Parigi al summit anti Boko Haram.
L’attacco a Baga è stato l’apice di una delle più massicce offensive del gruppo integralista,
che in questi giorni ha raso al suolo altri 16 villaggi nella regione. Da venti mesi il
presidente Goodluck Jonathan ha proclamato lo stato di emergenza nel Borno e negli stati
di Yobe e di Adamawa, sguinzagliando l’esercito, ma senza risultati. E la strage non gli ha
impedito ieri di iniziare la sua campagna elettorale in vista delle elezioni di febbraio.
Alessandra Muglia
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INTERNI
del 09/01/15, pag. 13
Salvini critica Farnesina e Papa: «Siamo in
guerra No al dialogo»
Il leghista: i migranti, un problema
ROMA È un crescendo polemico quello di Matteo Salvini, il giorno dopo la strage di Parigi.
Comincia criticando il ministro Gentiloni, ospite di Agorà. «Mi preoccupano le parole di
Gentiloni — dice il segretario della Lega —. Io non voglio avere paura. Quanti dopo le
immagini di ieri hanno avuto paura? Tutti. Qui c’è un problema culturale, non bisogna più
retrocedere. Io cerco di prevenire, non di essere etichettato come islamofobo». Gentiloni
aveva detto che occorre «reagire duramente al terrorismo che diventa Stato», ma che non
bisogna confondere «il terrorismo con il problema dell’immigrazione e dei rifugiati».
Per Salvini invece le due cose stanno insieme. Ed è una scazzottata. Tira un colpo: «È
chiaro che non tutti gli immigrati sono delinquenti ma se apri le porte del tuo Paese a
centomila fantasmi puoi solo farti il segno della croce»; prosegue con un altro attacco: «È
in atto un tentativo di occupazione militare e culturale da parte di una comunità arrogante
e ben organizzata che ha facilità nell’affondare il coltello nel burro di un Occidente senza
valori e identità». Va avanti così a Radio Padania. «Siamo dentro a una guerra vera e
propria, rispondere con l’accoglienza e la tolleranza è un suicidio»; «L’Islam è pericoloso,
è un problema, nel nome di Allah si uccide, si sgozza, non è vero che la religione non
c’entra». Nessun dialogo è possibile e persino il Papa sbaglia: «Va bene la pace, ma il
capo della Chiesa cattolica non fa un buon servizio dialogando con l’Islam, si preoccupi
piuttosto dei cristiani sterminati in giro per il mondo».
Ne ha per tutti Salvini, anche per il sindaco di Milano. A margine dei lavori del Consiglio
comunale, sbotta: «Non è il momento di aprire nuove moschee, spero che Pisapia blocchi
qualsiasi concessione». Ad Alfano che aveva ironizzato sulle sue «chiacchiere da bar»,
ribatte livido: «È l’uomo sbagliato nel posto sbagliato, si dimetta». Attonito, il mondo
politico ascolta Salvini. Ed è un coro di indignazione. «Delirio populista e demagogico»
(Laura Bianconi, Ncd-Udc). «Indegno, totalmente fuori controllo» (Federico Gelli, Pd). «Il
populismo di Matteo Salvini non conosce limiti» (Renato Schifani, Ncd-Udc).
Mariolina Iossa
Del 09/01/2015, pag. 14
Salvini attacca anche il Papa “Dialoga con
l’Islam, sbaglia” Bufera sull’informazione Rai
La Vigilanza a Gubitosi: “Perché niente speciali sulla strage?”. Leone si
scusa M5S, ipotesi complottista: “C’è puzza di bruciato, i conti non
tornano”
In Italia la strage francese finisce in meno di 24 ore nel calderone della polemica politica.
Ad accenderla, Matteo Salvini, sodale di Marine Le Pen e del Fronte nazionale francese:
per i leghisti «siamo in guerra» e il leader se la prende anche col Papa e il suo pacifismo.
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Grillo invece preferisce adombrare una teoria del «complotto». In Rai scoppia la bufera
sulla mancata copertura in prima serata della tragedia, il direttore generale Gubitosi
interviene, il direttore di Raiuno Leone si scusa.
Salvini non va per il sottile: «Questa è una vera e propria guerra, quindi rispondere con
tolleranza e buonismo è un suicidio». E rincara su Radio Padania, rivolgendosi a Papa
Francesco: chiedendo di «dialogare con l'Islam, Bergoglio non fa un buon servizio ai
cattolici. Va bene la pace, ma sei il portavoce dei cattolici, preoccupati di chi ti sta
sterminando in giro per il mondo». In tanti lo criticano («Fermate Salvini») dal Pd a Ncd.
Roberto Calderoli, già protagonista nel febbraio 2006 di uno scontro tutto personale col
mondo islamico (la t-shirt anti-Islam con tanto di rivolta e morti a Bengasi, in Libia) si
supera: «È in corso una guerra e dunque io mi arruolo come volontario per combatterla
costi quel che costi, non solo con le parole, ma anche con i fatti». Le gerarchie cattoliche
non replicano alla provocazione leghista. Il cardinale Angelo Bagnasco, presidente dei
vescovi italiani, afferma però in Rai che «il mondo islamico moderato, quello vero, deve
prendere le distanze in modo netto da questo atto», anche per «superare il rischio di
reagire in modo violento ». Forza Italia accende i riflettori sull’immigrazione di massa.
«Triton deve cambiare ragione sociale perché stiamo accogliendo centinaia di migliaia di
immigrati — dice Giovanni Toti, che invoca una mobilitazione del Ppe — dobbiamo
difendere i nostri valori: il multiculturalismo buonista non ha portato a grandi risultati nella
nostra Europa». Beppe Grillo invece dal suo blog avanza sospetti su una regìa dietro
l’attentato: «Come in tutti i grandi casi, Kennedy, piazza Fontana, 11 settembre, morte di
Osama bin Laden, anche in questo i conti non tornano », scrive Aldo Giannuli sulla pagina
del leader M5s. La pista jihadista è quella privilegiata, continua, «ma questo non vuol dire
che nella questione non possano esserci altre manine di ben altra qualità». Altre verità «da
tenere nascoste». In commissione di Vigilanza Rai, i rappresentanti di tutti i partiti
lamentano l’insufficiente copertura delle tre reti sulla strage di Charlie Hebdo. «Una brutta
pagina, si apra una riflessione», attacca il renziano Michele Anzaldi. Il presidente della
commissione, Roberto Fico, in una lettera chiede chiarimenti al dg Luigi Gubitosi. Il
direttore si era già fatto sentire in giornata con il responsabile di Raiuno, Giancarlo Leone:
una reprimenda durissima, a quanto si apprende, soprattutto sul pasticcio della mancata
messa in onda dello speciale Porta a Porta in prima serata. Chiarimento concluso con le
scuse di Leone.
Del 09/01/2015, pag. 18
Il premier frena il toto-Colle e bacchetta la
minoranza dem “Serve un presidente per le
riforme”
FRANCESCO BEI
«Uno come Napolitano», un capo dello Stato autorevole in Italia e all’estero, che spiani le
montagne di fronte al governo. «Un presidente per le riforme», è l’identikit che Renzi ha
iniziato a far uscire nei suoi colloqui. Che si ponga in continuità con il mandato del
predecessore e aiuti la maggioranza a completare il percorso riformatore appena iniziato.
Una pista che può portare a diversi nomi con cui il premier intende comporre la sua rosa.
Da ieri tuttavia uno dei petali, quello di Romano Prodi, agli occhi dei renziani appare un po’
più appassito. Dopo l’uscita di Pierluigi Bersani le quotazioni del fondatore dell’Ulivo
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appaiono infatti in drammatica discesa. Scandagliando gli umori dei democratici più vicini
al capo del governo non è difficile veder affiorare un grumo di risentimento e di sospetto
per una candidatura subita come una «provocazione». Dai Civati a Vendola, da Bindi a
Bersani, tutti i principali sponsor del Professore in Parlamento appaiono oggi sul fronte
degli oppositori del segretario Pd. Per questo un renziano della prima ora si spinge a
definire l’endorsement di Bersani a Prodi come «il bacio della morte», l’affossamento
definitivo di un nome gettato nella mischia in palese contrapposizione al patto del
Nazareno. «Due identikit — spiega infatti uno degli esponenti del giglio magico — al
momento si possono tranquillamente scartare. Uno è quello di un presidente-scendiletto,
perché non passerebbe mai. E l’altro è quello di un presidente-giustiziere, che abbia come
prima missione quella di opporsi a Renzi ». E di certo non aiuta il fatto che, nel novero dei
sostenitori occulti di Prodi, figurino a torto o a ragione anche tutti i nemici del Nazareno
annidati in Forza Italia, da Minzolini a Fitto. A questo punto poco importa capire la ragione
vera per cui Bersani, di certo non uno sprovveduto, abbia rilanciato con tanto candore il
nome di Prodi sul proscenio. L’ex segretario del Pd, in Transatlantico ieri giurava che non
ci fossero secondi fini: «Io sulla storia di Prodi sono andato a casa, cosa volete che dica
se mi chiedono un parere? È ovvio che per me bisogna ripartire da lì». Ma in questa fase
anche le intenzioni più genuine rischiano di ingenerare dubbi, retropensieri e fuochi
preventivi di sbarramento. In ogni caso, più che quello che rivela sul grado di
apprezzamento di Prodi, l’uscita di Bersani è importante come segnale dello stato dei
rapporti interni al Pd. Tornati al grado zero nonostante i tentativi di distensione delle
scorse settimane. A sentire la minoranza bersaniana allo stato infatti manca qualunque
presupposto per un accordo che tenga unito il Partito democra- tico. A pochi giorni dalle
dimissioni di Napolitano, i gruppi dem sono infatti percorsi da una tensione sempre più
forte. Emblematico il caso di Massimo Mucchetti, arrivato ieri a pretendere che il premier
riferisca in aula sull’incidente del “salva-Silvio”, tra gli applausi dei grillini e l’imbarazzo dei
colleghi dem come Giorgio Tonini. Per non parlare del muro contro muro sulle riforme.
Dall’assemblea dei deputati di due giorni fa non è emersa infatti alcuna disponibilità di
Renzi a inserire nella riforma costituzionale le proposte di modifica della minoranza. A
partire dal controllo preventivo di costituzionalità sulla legge elettorale. Anche sull’Italicum i
margini per rimettere in discussione i capilista bloccati e le pluricandidature sono prossimi
allo zero. «Non è accettabile, dopo anni di Porcellum, che oltre il 60 per cento degli eletti
sia composto da nominati», insiste il senatore dem Vannino Chiti.
Il cammino della legge elettorale, così intrecciato al calendario del Quirinale, ieri ha subito
una battuta d’arresto: si ricomincerà a discutere in aula da martedì, sperando che il fine
settimana possa portare a un’intesa. Appare chiaro comunque che la sponda su cui conta
il capo del governo resta quella di Forza Italia. E proprio per rassicurare Berlusconi e i
forzisti sul rispetto degli accordi sulla clausola di garanzia, quella che dovrebbe rinviare al
2016 l’entrata in vigore della legge elettorale, nella serata di ieri si è fatta strada una
soluzione a prova di bomba. Si sta trattando su un emendamento congiunto, firmato dai
capigruppo della maggioranza “allargata”, per mettere nero su bianco la clausola di
garanzia. Un emendamento che avrebbe la benedizione ufficiale del governo. Contro
questa ipotesi si sono scagliati ieri i ribelli forzisti ostili al patto con Renzi. E sono volate
parole grosse tra il capogruppo Paolo Romani e alcuni dei firmatari degli emendamenti
azzurri. «Voi — ha ingiunto Romani — dovete ritirare tutti gli emendamenti all’Italicum.
Così il governo darà via libera alla clausola di garanzia». «Niente affatto», gli hanno
risposto i ribelli, «prima si vota la clausola di garanzia e poi, forse, ci pensiamo ». Si parla
di 1600 emendamenti solo di parte forzista, firmati da Minzolini e dall’area fittiana. Mentre
si avvicinano il 15 gennaio e le dimissioni di Napolitano, la battaglia continua.
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del 09/01/15, pag. 13
Espulsioni, controllo del web e militari
Nuovo reato contro i viaggi della jihad
Le misure italiane per fermare i combattenti: ritiro del passaporto e
pene più severe
Fiorenza Sarzanini
ROMA Espulsioni veloci e misure di sorveglianza speciali per i sospetti. È composto da
cinque articoli il provvedimento antiterrorismo che il ministro dell’Interno Angelino Alfano
porterà a Palazzo Chigi per contrastare il fenomeno dei «lupi solitari» e così cercare di
prevenire atti estemporanei, ma anche attacchi pianificati come quello contro la rivista
Charlie Hebdo a Parigi. Misure d’urgenza che il governo deciderà se approvare addirittura
per decreto.
I combattenti stranieri
Modifiche al codice penale che — senza stravolgere le attuali norme — inseriscono una
serie di procedure per «combattere le organizzazioni, che hanno minacciato il compimento
di attentati anche ai danni di Stati europei, tra cui l’Italia, ed esercitano una forte capacità
di proselitismo e attrazione, incrementando il fenomeno dei cosiddetti foreign fighters ,
cioè dei soggetti che, senza essere cittadini o residenti, si recano in Paesi dove agiscono
questi sodalizi per combattere al loro fianco o per commettere azioni terroristiche».
Il titolare del Viminale ribadisce che sono «53 quelli censiti che non sono italiani ma hanno
avuto a che fare con l’Italia nella partenza o nel transito. Conosciamo la loro identità e
sappiamo dove si trovano», anche se la cifra appare in continua evoluzione e il timore è
che in realtà qualcuno possa essere sfuggito al controllo o comunque sia in grado di
organizzare azioni anche dall’estero. Non a caso in queste ore si stanno ricontrollando le
liste, confrontandole con quelle fornite dagli apparati di intelligence stranieri.
Viaggi ed esplosivi
Il testo messo a punto dai tecnici del Viminale con l’accordo della Giustizia integra
l’articolo 270 quater sull’arruolamento con finalità di terrorismo «per rendere punibile
anche il soggetto che viene arruolato per le predette finalità» ma soprattutto per punire con
la reclusione da tre a sei anni «l’organizzazione, il finanziamento e la propaganda di viaggi
finalizzati al compimento di condotte con finalità terroristiche».
Una nuova sanzione penale riguarda invece «il soggetto che si “autoaddestra” all’utilizzo
di armi, esplosivi, sostanze chimiche o nocive ovvero alle tecniche e ai metodi per
commettere atti di violenza o sabotaggio con finalità di terrorismo». Quello sugli esplosivi è
un aspetto che si è deciso di perseguire in maniera più efficace prevedendo l’arresto fino a
18 mesi per «chiunque, senza averne titolo, introduce nel territorio dello Stato, detiene,
usa o mette a disposizione di privati le sostanze o le miscele che le contengono indicate
come precursori di esplosivi» e fino a 12 mesi per «chiunque omette di denunciare il furto
o la sparizione delle materie indicate come precursori di esplosivi».
Espulsioni e Internet
Per tenere sotto controllo i «sospetti» e impedire i viaggi di addestramento verso i teatri di
guerra, ma anche per garantire la procedura di espulsione, il provvedimento prevede che
«nei casi di necessità e urgenza, il questore, all’atto della presentazione della proposta di
applicazione delle misure di prevenzione della sorveglianza speciale e dell’obbligo di
soggiorno nel Comune di residenza o di dimora abituale, può disporre il temporaneo ritiro
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del passaporto e la sospensione della validità ai fini dell’espatrio di ogni altro documento».
Chi non rispetta i divieti rischia la reclusione da uno a tre anni.
Norme più severe anche per quanto riguarda la rete internet, ritenuta dagli analisti il
veicolo più efficace di propaganda tra i jihadisti.
Per questo «se sussistono concreti elementi che consentano di ritenere che la
propaganda terroristica avviene per via telematica, il pubblico ministero ordina ai fornitori
di servizi o ai soggetti che comunque forniscono servizi di immissione e gestione,
attraverso i quali il contenuto relativo alle medesime attività è diffuso al pubblico, di
provvedere alla rimozione» e ciò deve avvenire entro 48 ore.
Militari e agenti
Alle forze dell’ordine viene concessa la possibilità di accedere ai dati personali in maniera
più elastica. Una misura che certamente potrebbe creare polemiche, perché consente di
effettuare «per finalità di polizia i trattamenti di dati personali direttamente correlati
all’esercizio dei compiti di polizia di prevenzione dei reati» e quindi anche quando non ci
siano contestazioni già effettuate ma un semplice sospetto.
Sulla necessità di utilizzare strumenti straordinari insisterà Alfano che già ieri ha ribadito
come «nessuno possa escludere che in Italia accadano fatti drammatici, anche se stiamo
facendo tutto il possibile per evitarlo».
Al suo fianco avrà il ministro della Difesa Roberta Pinotti che evidenzia il pericolo di
emulazione e insisterà sulla necessità di abolire i «tagli» previsti mantenendo il numero dei
militari a presidio degli obiettivi sensibili uguale a quello del 2014.
del 09/01/15, pag. 3
Non ci vuole un Patriot Act
Massimo Villone
Terrorismo . La risposta degli Usa o della Gran Bretagna ha compresso
diritti e libertà e ostacolato la via della convivenza multiculturale
La solidarietà alla Francia per il massacro di Parigi non è di maniera. È stato colpito un
paese a noi stretto da profondi e antichi legami, e sappiamo che potrà accadere anche a
noi.
In molti paesi la comunità musulmana è di gran lunga la più forte delle minoranze, e
difende la propria cultura e la propria fede. È ormai un lontano ricordo il melting pot che,
fino agli ultimi decenni del secolo scorso, era simbolo di integrazione nel mainstream del
paese ospitante. Oggi l’unica via è quella di un multiculturalismo che la minaccia
terroristica assoggetta a una pressione crescente. Ancor più perché — a quanto si dice —
migliaia di cittadini europei vanno a combattere per il califfato. Torneranno? Con quali
intenzioni? Terrorismo di importazione e terrorismo domestico si confondono. Questo
sembra appunto il caso per la strage di Charlie Hebdo. E corriamo due gravi rischi.
Il primo è che per prevenire attacchi si comprimano i diritti e le libertà. È già successo.
Negli Usa lo dimostrano Guantanamo, il Patriot Act e lo spionaggio di massa della Nsa.
Casi come Holder v. Humanitarian Law Project, 561 U.S. 1 (2010), in cui la Corte
Suprema discute se esprimere una opinione politica può configurarsi come aiuto materiale
ai terroristi, ci dicono che nemmeno il più solido pilastro del costituzionalismo americano
— il free speech — è al sicuro. In Gran Bretagna vediamo analoghe vicende con il
Terrorism Prevention and Investigation Measures Act del 2011 e l’ampio ricorso agli Asbo
(Anti-social Behaviour Orders), con i quali un giudice può vietare in pratica qualsiasi
comportamento o attività sia ritenuto sospetto o socialmente pericoloso. In Francia e in
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altri paesi si discute di limiti alla libertà di espatrio e di ritiro del passaporto per chi ha
simpatie per l’Isis. E non dimentichiamo che per noi brigate rosse e legislazione di
emergenza sono storia recente.
Il secondo rischio è che la ricerca di risposte sul piano della repressione penale renda
impraticabile la via di una convivenza multiculturale già di per sé difficile. Terrorismo ed
eversione sono noti al codice penale italiano (in specie, cod. pen., art. 270, 270 bis, ter,
quater, quinquies e sexies). Ma il punto è se le norme vigenti siano adeguate nella
repressione di un terrorismo che non assume la forma di organizzazioni complesse volte a
obiettivi strategici, ma si realizza in atti isolati da parte di individui o piccoli gruppi
spontanei. Un terrorismo diffuso e molecolare, come forse mostrano le rinnovate uccisioni
in Francia. Come si può prevedere, chi, dove, quando? Quanto deve essere pervasiva e
occhiuta la vigilanza per acquisirne consapevolezza? il rischio di risposte orwelliane e da
inquisizione è chiaro. Ed è altresì chiara la contraddizione tra un multiculturalismo
indispensabile e politiche repressive parimenti necessarie.
È una contraddizione che richiede strumenti politici, non il codice penale. Chi ha vissuto gli
anni di piombo ricorda come decisiva non solo la risposta giudiziaria, ma ancor più quella
data dalla politica e dalle istituzioni. Fecero muro contro l’attacco terroristico, anche se non
mancarono lacerazioni gravi, come in occasione del rapimento e dell’uccisione di Moro. Fu
una grande rete di protezione che avvolse il paese.
Ma qui è il punto. Quella politica era forte, perché fondata su corpi intermedi — partiti e
sindacati — di massa e profondamente radicati, in grado di costruire consenso intorno alle
politiche di contrasto al terrorismo. Le istituzioni erano forti perché compiutamente
rappresentative, espressione vera del paese e del suo popolo, luoghi di confronto reale in
cui definire scelte di governo condivise.
Vediamo invece oggi un punto di debolezza. Un premier palesemente allergico a corpi
intermedi, che riesce a vedere solo come ostacolo al proprio potere. Partiti dissolti,
sindacati emarginati, istituzioni non rappresentative, subalterne all’uomo solo al comando
e ridotte a simulacro. Una politica fatta di tweet, conferenze stampa e comparsate
televisive. È una condizione drammaticamente negativa, che le proposte di riforma in
discussione — anche incostituzionali — peggiorano e consolidano. Possiamo solo
aggiungere il tentativo di imbavagliare la stampa e ancor più le forme nuove di
comunicazione che potrebbero contribuire alla costruzione del consenso. Basta leggere il
testo approvato in Senato, il 29 ottobre 2014 (AS 1119 e connessi), con modifiche alla
legge sulla stampa, applicabili anche alle testate giornalistiche on line.
Quali istituzioni per la lotta al terrorismo? Quali istituzioni per la crisi? Due domande cui
viene oggi data la medesima risposta, sbagliata. Una primaria parola d’ordine allora,
anche per il terrorismo, è: invertire la rotta. Aprire la politica e le istituzioni, non emarginare
ed escludere. Dare spazio a tutte le voci, non mettere bavagli. Ricostruire il radicamento
delle forme organizzate della politica e i luoghi delle decisioni collettive, non proseguire
sulla strada del populismo leaderistico e del potere personale esercitato in solitudine.
Solo così potremo scommettere sulla speranza, e non sulla paura. Solo così potremo
evitare risposte orwelliane e ondate lepeniste. E soprattutto potremo vincere. Perché il
terrorismo si sconfigge nelle coscienze, prima che nei tribunali.
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del 09/01/15, pag. 9
Il mistero dei decreti scomparsi: «Sono
pronti», ma non arrivano
Massimo Franchi
Jobs Act. Ancora nessun provvedimento è arrivato in Parlamento.
Damiano: i primi due testi siano simultanei Sui licenziamenti sono
necessarie almeno tre modifiche
La disoccupazione continua a mietere record. E a chi chiede conto di numeri vergognosi, il
governo non può far altro che invocare gli effetti del Jobs act per migliorarli. Ma i testi del
decreto che cancella l’articolo 18 e che dovrebbe far aumentare l’occupazione tardano a
prendere la strada dell’approvazione definitiva, allungando a dismisura i tempi di
attuazione.
In realtà si tratta solo del primo dei sei decreti previsti: quello sul cosiddetto contratto a
tutele crescenti, che di crescente ha solo la monetizzazione dell’indennità in caso di
licenziamento senza giusta causa. Il secondo decreto, quello sulla sciarada di nuovi
ammortizzatori — Naspi, Asdi, Dis-coll — è bloccato dalla Ragioneria generale che non lo
“bollina” per mancata copertura. Mentre i restanti quattro — o tre — compreso quello sulla
possibile riduzione dei contratti precari — non saranno pronti prima di mesi — la scadenza
prevista nella delega è di «sei mesi dall’approvazione».
Approvati dal consiglio dei ministri lo scorso 24 dicembre non sono ancora stati trasmessi
al Parlamento. Con le commssioni Lavoro di Camera e Senato che devono esprimere un
parere consultivo sul testo che poi tornerà al consiglio dei ministri per l’approvazione
definitiva e la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. Stimare i tempi non è facile. Ma di
certo anche nel caso del solo primo decreto non si parla di prima di metà febbraio. Sempre
che non servino decreti attuativi.
Anche ieri i presidenti delle commissioni lavoro di Camera e Senato erano in attesa di
ricevere almeno il testo del primo decreto. Ma nulla. Dal ministero del Lavoro si fa sapere
che dovrebbe essere questione di ore o tutt’al più giorni. Ma si sottolinea come il compito
di presentarli spetti al ministro per i rapporti con il Parlamento Maria Elena Boschi. «Il
governo ha detto fin dall’inizio che il Jobs act era una revisione del mercato del lavoro in
cui ad un evidente indebolimento delle tutele contro il licenziamento faceva da contraltare
un rafforzamento degli ammortizzatori per i lavoratori precari. Per questo è indispensabile
che il governo trasmetta al Parlamento in modo contestuale i due decreti», tuona Cesare
Damiano, presidente di quella della Camera.
Le commissioni hanno 30 giorni di tempo dalla trasmissione dei testi per esprimere il
parere, che sarà molto probabilmente assai diverso. Il governo si aspetta tempi celeri, ma
il vero problema sarà sul merito. Damiano infatti non cambia idea sulla necessità di
cambiare il testo su almeno tre punti: «eliminazione dell’estensione delle norme ai contratti
collettivi, ripristino del riferimento alle tipizzazioni dei contratti collettivi per le sanzioni
conservative in caso di licenziamento disciplinare e innalzamento da 4 a 6 mesi
dell’indennità minima in sostituzione della reintegra». Sul secondo decreto invece, se per
Damiano la mancata copertura oltre i 2,2 miliardi previsti per i nuovi ammortizzatori è di
«400 milioni per il 2015», sebbene partano dal 1° maggio, per la Ragioneria riguarda il
2017, quando il numero dei disoccupati da coprire sarà massimo. Difficile però che il
governo accontenterà tutte le richieste di Damiano.
Un quadro complesso che toglie fiducia alla stesse imprese che attendono l’entrata in
vigore del contratto a tutele crescenti per valutare se rinnovare i contratti a tempo
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determinato — fatti col decreto Poletti — nei nuovi — e dal punto di vista delle tutele
praticamente identici — contratti. Con la postilla non trascurabile che l’effetto
sull’occupazione sarà nullo: non nuovi contratti, ma semplice trasformazione dei vecchi.
del 09/01/15, pag. 9
Sbarcano al Senato il reddito minimo e di
cittadinanza
Roberto Ciccarelli
Nuovo Welfare. La Commissione Lavoro è chiamata a incardinare le
proposte di legge di Sel e del Movimento 5 Stelle. Nell'unico paese
europeo dove non esiste una tutela universale contro la disoccupazione
gli interessati potrebbero essere fino a 9 milioni
I disegni di legge sul «reddito di cittadinanza», presentato dal Movimento 5 Stelle, e sul
«reddito minimo», presentato da Sel a seguito della raccolta firme per una legge di
iniziativa popolare, sono finalmente all’esame della commissione lavoro del Senato. La
proposta dei pentastellati prevede una soglia per il «reddito di cittadinanza» pari a 780
euro mensili a persona e costa 17 miliardi all’anno. Questo reddito, si legge nel disegno di
legge, è stato calcolato in base all’indicatore ufficiale di povertà monetaria dell’Unione
europea, pari ai 6/10 del reddito mediano equivalente familiare, quantificato per il 2014 in
9.360 euro annui. Andrà erogato sia ai cittadini italiani che agli europei residenti
maggiorenni, come agli stranieri provenienti da paesi che hanno sottoscritto con l’Italia gli
accordi sulla reciprocità della previdenza sociale.
Per i lavoratori autonomi, l’importo è calcolato mensilmente sulla base del reddito
familiare, comprensivo del reddito da lavoro autonomo«certificato» da professionisti
abilitati che sottoscrivono apposita convenzione con l’Inps per l’assistenza ai beneficiari.
«Nei casi di crisi aziendale, previa chiusura della partita Iva – si legge ancora nel
provvedimento — si attiva per l’imprenditore un piano di ristrutturazione del debito a
trent’anni e l’imprenditore diviene soggetto beneficiario del reddito». Per finanziare una
misura totalmente assente in Italia anche nella forma riduttiva e condizionata del «reddito
minimo» – siamo gli unici in Europa insieme alla Grecia – secondo i Cinque Stelle le
risorse sarebbero reperibili dai tagli alle spese militari e alle pensioni d’oro, dal pagamento
dell’Imu da parte della Chiesa cattolica e da una maggiore tassazione del gioco d’azzardo.
Diversa è la proposta sul «reddito minimo» presentata da Sel dopo la campagna che ha
registrato tra il 2012 e il 2013 la partecipazione di 170 associazioni. La proposta prevede,
per inoccupati, disoccupati e precari, un beneficio individuale di 7.200 euro l’anno da
corrispondere in importi mensili di 600 euro, rivalutati annualmente sulla base degli indici
sul costo della vita dell’Istat. L’importo cresce se si hanno dei familiari a carico. Se il
nucleo familiare è di due persone il coefficente sale e il reddito minimo diventa di mille
euro; tre persone 1.330 euro; quattro 1.630 euro; cinque 1.900 euro.
Oltre al reddito minimo erogato in contanti, la proposta di legge prevede anche, per chi ne
ha diritto, un «contributo parziale o integrale per fronteggiare le spese impreviste, secondo
i criteri e le modalità stabilite dal regolamento d’attuazione». Ovvero bus, libri, prestazioni
sanitarie gratis o aiuti per pagare l’affitto. Il finanziamento di questa misura sarebbe a
carico della fiscalità generale, attraverso la creazione di un fondo presso l’Inps. La durata
del sussidio è di dodici mesi. Alla scadenza del periodo indicato il beneficiario che intenda
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continuare a percepire il reddito minimo garantito è tenuto a ripresentare la domanda. Il
governo viene inoltre delegato entro novanta giorni dall’approvazione della legge, a
riformare la disciplina degli ammortizzatori sociali in un unico sussidio.
I Cinque Stelle sostengono di avere chiesto l’audizione in commissione di Don Luigi Ciotti,
delle associazioni oltre che dei responsabili Istat. La relatrice, Annamaria Parente (Pd) ha
confermato che una delle possibili fonti del finanziamento potrebbe essere l’aumento della
tassazione sui giochi. Resta solo da capire quale sarà il testo finale e se il governo Renzi,
che ha appena esteso l’Aspi ai soli collaboratori, intende proseguire su questa strada.
del 09/01/15, pag. 14
Primarie inquinate, lo storico
di destra firma per la renziana
di Ferruccio Sansa
da Genova
Arrigo Petacco. Lo storico è la goccia che rischia di far traboccare il vaso delle primarie
liguri. Poche settimane fa sul blog di Beppe Grillo aveva rivisto la morte di Giacomo
Matteotti “assolvendo” Mussolini e adesso appoggia il candidato Raffaella Paita alle
primarie Pd di domenica contro Sergio Cofferati. È bastato questo per far esplodere una
tensione che covava da settimane nel partito. Sono intervenuti perfino i partigiani con un
appello firmato da ex combattenti guidati dal vicepresidente dell’Anpi genovese, Gianni
Ponta: “A tutto eravamo preparati, ma mai avremmo pensato che i nostri rappresentanti
politici di centrosinistra si potessero alleare con questi figuri…tra questi ci sono anche ex
picchiatori fascisti che ogni anno anziché la Liberazione festeggiavano il loro rito recandosi
a Predappio in onore della ‘buonanima‘ di Mussolini. È un affronto che non possiamo
accettare e useremo la sola arma che ci resta: quella della democrazia che abbiamo
contribuito a riconquistare. Sarà il nostro voto, o non voto, a dire che non accetteremo mai
di confonderci con gli eredi diretti e indiretti dei fascisti di Salò e dei missini di Almirante”.
Era solo questione di tempo perché il bubbone scoppiasse: le primarie del Pd (e quindi la
vittoria alle regionali di maggio) rischiano di essere decise dagli scajoliani e dal
centrodestra. Come settimane fa ha denunciato Il Fatto Quotidiano, non si contano più gli
ex esponenti Pdl-An scesi in piazza per appoggiare l’ala renziana del Pd rappresentata da
Raffaella Paita (la candidata sostenuta fortissimamente da Claudio Burlando, governatore
uscente). Prima Pierluigi Vinai, già candidato sindaco di Genova con il Pdl e il sostegno
della Curia di Bagnasco (nonché uomo Pdl nella fondazione della banca Carige). Poi ecco
Roberto Avogadro, ex sindaco di Alassio (centrodestra). Pochi giorni fa arriva un
sostenitore che suscita clamore. Quell’Alessio Saso, oggi Ncd, così definito dagli stessi
vertici Pd: “Oltre a essere un ex esponente di An, Saso è indagato (voto di scambio, ndr)
nell’in - chiesta Maglio 3 sulle infiltrazioni della criminalità organizzata nel ponente ligure”.
Fino agli ultimi pezzi grossi: da Eugenio Minasso (Ncd, in passato fotografato mentre
festeggia con membri di famiglie calabresi al centro di inchieste) a Franco Orsi, prima Dc,
quindi Forza Italia, infine Pdl. A lungo sostenitore doc di Claudio Scajola, ma impegnato
anche per Luigi Grillo (entrambi i leader liguri del centrodestra sono stati arrestati
quest’anno). Non una manovra di corridoio, ma un’alleanza siglata davanti a centinaia di
persone nel palazzetto dello sport di Albisola (Savona). Nelle speranze di Paita e Burlando
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doveva essere la mossa finale contro Cofferati. Ora rischia di ritorcersi loro contro.
Dipenderà dall’affluenza alle urne: se sarà bassa, il peso del centrodestra e degli apparati
sarà decisivo.
E RENZI? TACE. Non ama né il duo Burlando- Paita (pur se renziani), né Cofferati. Strane
primarie, quelle liguri. Dimostrazione dei travagli del Pd più che della forza del partito. Da
una parte si teme l’astensionismo degli elettori – quelli veri – del centrosinistra, dall’altra si
prevede di registrare tutti i votanti per evitare infiltrazioni. E strano destino per la Liguria
Rossa, regione amministrata dalla sinistra dal Dopoguerra. Oggi il suo futuro è nelle mani
dei vecchi “ne - mici”, dopo che Paita e scajoliani hanno siglato il Nazareno di Albisola.
Proprio a pochi chilometri da Stella, paese di Sandro Pertini. Chissà cosa avrebbe detto il
Presidente-partigiano…
del 09/01/15, pag. 14
Lo Stato paga i debiti ma Chil di papà Renzi
non aveva i requisiti
L’AZIENDA NON COMUNICÒ IL TRASFERIMENTO DI SEDE
A GENOVA PER NON PERDERE LA COPERTURA DI FIDI TOSCANA
di Davide Vecchi
Tiziano Renzi avrebbe dovuto comunicare il trasferimento della sede della sua azienda, la
Chil Post, da Firenze a Genova alla finanziaria Fidi Toscana, come prevede lo statuto del
fondo di garanzia da cui ha ricevuto i fondi per coprire parte dei debiti contratti. Il cambio di
regione avrebbe ovviamente comportato la decadenza del beneficio. Per carità: si sarà
sicuramente trattato di una dimenticanza. Il dato emerge dagli atti custoditi in Regione
relativi all’azienda di casa Renzi, poi fallita e per cui il padre del premier è indagato per
bancarotta fraudolenta dalla procura ligure. E non è l’unico elemento interessante.
RICOSTRUENDO la vicenda emerge che la Chil è una delle pochissime aziende per cui il
ministero dell’Economia ha coperto il fondo di garanzia toscano. Creato nel febbraio 2009
per volere dell’allora governatore Claudio Martini e finalizzato ad aiutare le imprese
regionali ad affrontare la crisi economica, il fondo “emergenza economia misura liquidità”
in cinque anni ha sottoscritto garanzie per un miliardo e 126 milioni di euro a 5.687
aziende toscane. E ne ha dovuto effettivamente elargire solamente 16 milioni di euro.
Nulla, rispetto alla cifra complessiva garantita. Di questi 16 milioni lo Stato, attraverso il
fondo centrale di garanzia costituito presso il Mef, ha restituito a Fidi Toscana appena un
milione di euro, tra cui proprio i 236.803,23 deliberati a giugno 2014. Ed è così che lo
Stato guidato da Renzi ha pagato parte del debito della società di casa Renzi.
A spiegare l’iter seguito dalla Chil Post è Simonetta Baldi, dirigente della Regione
responsabile del settore politiche orizzontali a sostegno delle imprese, l’ufficio che
gestisce il fondo di garanzia e tiene i rapporti con Fidi Toscana, la finanziaria controllata
per il 49% dall'ente guidato da Enrico Rossi. Baldi non svela nulla: si limita a confermare le
informazioni in nostro possesso. “Il fondo è stato creato nel febbraio 2009 e la Chil è stata
tra le prime a rivolgersi a noi appena un mese dopo” ed è stata “anche tra le prime ad
andare in sofferenza”, ricorda Baldi. Di “5.687 aziende che sono ricorse a noi non
sappiamo quante poi sono fallite ma decisamente poche” an - che perché “il fondo ha
funzionato molto bene per la quasi totalità delle imprese”. Su un miliardo e 200 milioni
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garantiti “siamo intervenuti per appena 16 milioni, come sa”. Baldi conferma anche le cifre
ricevute dal ministero dell’Economia: “Sì, poco più di un milione di euro”. E spiega che non
è affatto scontato che il rimborso avvenga, “anzi”. Funziona così: “Al ministero
dell’Economia c'è il fondo centrale che serve come contro-garanzia ma può essere attivato
solo a determinate condizioni” e comunque viene rimborsato “con tempi piuttosto lunghi,
tra il pagamento che effettuiamo noi per l’azienda e quello che riceviamo dal Mef c’è un
gap di anni”. Per la Chil Post “sono arrivati in sei mesi, sì. Ma è stata una delle prime
pratiche a essere aperta e ad andare in sofferenza”.
SECONDO il regolamento, inoltre, la Chil Post non avrebbe potuto beneficiare del fondo di
garanzia perché nel frattempo ha cambiato sede e proprietà. Baldi, ancora una volta,
conferma: “C’è stato un difetto di informazione, i passaggi di proprietà Fidi Toscana li ha
saputi successivamente”, dopo il fallimento. Va detto che la società non ha cambiato
partita Iva o forma, rimanendo una srl, ma “se ricevessi una domanda da un’impresa di
Genova gli dico di no, ovviamente”, garantisce Baldi. Quando la Chil fece domanda era
una società toscana, quindi al momento dell’ammissione alla garanzia l’impresa aveva
tutte le caratteristiche in regola.
È IL 16 MARZO 2009 quando Tiziano Renzi presenta richiesta e il 13 agosto 2009
l’operazione va in porto a garanzia di un mutuo con il credito cooperativo di Pontassieve
da 496.717,65 euro. Dopo poco più di un anno, l’otto ottobre 2010, circa due milioni in beni
e servizi - ritenuti dagli inquirenti genovesi la parte sana della Chil Post - sono ceduti alla
Eventi 6 di Laura Bovoli, madre dell’ex rottamatore. Passa meno di una settimana e il 14
ottobre Tiziano Renzi trasferisce la società a Genova. Infine il 3 novembre cede l’intera
proprietà della Chil Post a Gian Franco Massone, prestanome per il figlio Mariano,
entrambi indagati con il padre del premier dalla procura ligure. A questo punto però
l’azienda è ormai priva di beni ed è gravata da un passivo di un milione e 150 mila euro,
compresi 496 mila euro di esposizione con il Credito cooperativo di Pontassieve guidato
dal fidatissimo amico del premier, Matteo Spanò. I debiti non vengono ripianati e Massone
dichiara il fallimento della Chil Post nel 2013. Il mutuo viene ammesso al passivo dal
tribunale e così Fidi Toscana onora la sua garanzia. Poi coperta dal Tesoro.
del 09/01/15, pag. 22
Caos M5S, ribaltato il voto dei senatori Il
capogruppo espelle due dissidenti
Voci su un intervento di Casaleggio. Atri tre eletti pronti all’addio
MILANO Il ribaltone che sconfessa il voto dei senatori. Il giorno dopo la votazione che
respingeva le dimissioni di Giuseppe Vacciano e Ivana Simeoni, arriva secco il dietro front:
una doppia espulsione dai ranghi del Movimento che porta la firma del capogruppo Alberto
Airola, ma che secondo le indiscrezioni riportate anche dalle agenzie di stampa sarebbe il
frutto della volontà di Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio. I rumors indicano proprio lo
stratega dei Cinque Stelle come il fautore del cambio di rotta. Casaleggio, adirato per il
voto dei parlamentari (15 voti contrari, 4 a favore e 3 astenuti), avrebbe chiarito che chi
sceglie di dimettersi deve rimanere fuori dal gruppo. Airola, però, smentisce questa
ricostruzione: «Ovviamente ci siamo sentiti, ma Gianroberto era d’accordo con noi su una
gestione della questione Vacciano-Simeoni con la massima tranquillità». «Poi — continua
Airola — tra ieri e oggi (mercoledì e giovedì, ndr ) sono iniziate a gonfiarsi polemiche per
la nostra decisione e abbiamo deciso di tagliare la testa al toro». «Mi sono assunto la
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responsabilità e l’ho spiegato al gruppo», dice il senatore piemontese. Nell’assemblea di
mercoledì «si è semplicemente deciso per una temporanea sospensione della questione»,
precisano in una nota i senatori M5S.
La mossa però ha fatto scattare la reazione dei dissidenti (e non solo). La nuova strategia
ha alimentato il malcontento. Al vetriolo il commento di Walter Rizzetto su Twitter:
«#assemblea ancora una volta calpestata, svilita, messa sotto...#deriva». Sebastiano
Barbanti scrive: «L’assemblea è sovrana? Decide la #rete? (cit.)»... mmmm no, questo
non credo proprio!». Al Senato altri tre pentastellati sono pronti a lasciare il Movimento. All
Camera, il contatore è fermo a quindici, ma il numero potrebbe aumentare sensibilmente.
Anche in vista dei prossimi passi. Nel mirino, il dimissionario Cristian Iannuzzi, che
dovrebbe seguire la stessa sorte di Simeoni e Vacciano.Proprio Iannuzzi twitta:
(«#espulsioni: ma ne possono sapere più i giornali, della nostra permanenza nel gruppo, di
noi?»). «Non ci sarà alcun voto, non è stato messo all’ordine del giorno dell’assemblea»,
sostiene il capogruppo Andrea Cecconi. E precisa: «Non vedo la ragione per cui un
dimissionario debba rimanere nel gruppo parlamentare».
A gettare benzina sul fuoco potrebbe essere la partita del Colle. «Una gestione
superficiale della strategia può servire ad alimentare le tensioni. Insomma, ha poco da
aggiustare e molto da distruggere», dice Barbanti. I primi approcci per provare a ripetere il
«metodo Consulta» — ossia la scelta di un candidato condiviso in modo trasparente e
votato dalla Rete — dovrebbero essere già avvenuti, anche se Cecconi li bolla come
«normali contatti tra colleghi: volevano solo verificare una effettiva disponibilità da parte
nostra».
Nel Movimento vige il massimo riserbo, ma il tam-tam prosegue. «Sembra il tiro al
piccione, i nomi che escono sono già bruciati», commenta il capogruppo a Montecitorio.
Intanto tra i simpatizzanti, in vista delle Quirinarie, conquistano punti la giurista Lorenza
Carlassarre e l’ex magistrato Ferdinando Imposimato. «Non credo ci siano veti su un
possibile passato in politica del futuro presidente, specie se parliamo di un periodo chiuso
nei decenni scorsi e reputo un bene che magari abbia certe competenze, come quelle da
giurista». In realtà, tra i nomi che circolano in queste ore ci sono anche Emma Bonino,
Sabino Cassese e Gustavo Zagrebelsky. Intanto Luigi Di Maio lancia sul blog di Grillo la
«notte dell’onestà» il 24 gennaio a Roma.
Emanuele Buzzi
del 09/01/15, pag. 7
Caso Magherini, subito rinviata la prima
udienza preliminare
Riccardo Chiari
Violenza di Stato. Udienza preliminare aperta e subito rinviata al 3
febbraio, per esaminare nuovi documenti di accusa e difesa nell'ipotesi
di morte da "excited delirium syndrome". La famiglia attacca: "C'è
voglia di non fare giustizia". E un testimone oculare ricorda: "Lo hanno
preso a calci, anche in faccia, e schiacciato con il loro peso sul
selciato".
Riccardo Magherini morì la notte tra il 2 e 3 marzo scorsi in Borgo San Frediano, dove si
aggirava in stato confusionale, nel corso del suo arresto da parte di quattro carabinieri, ora
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accusati di omicidio colposo. Uno dei militari è accusato anche di percosse: in alcuni video
lo si vede colpire Magherini con alcuni calci mentre il quarantenne fiorentino, già
ammanettato, era stato trascinato a terra. Subito prima di essere schiacciato dai militari
dell’Arma, con il loro peso, sul selciato gelido. Per lunghi, interminabili minuti. Fino a
quando tre volontari della Croce rossa, accorsi sul posto con l’ambulanza e anch’essi
indagati, cercarono di soccorrere quell’uomo steso a terra a torso nudo. Già morto per
arresto cardiaco, come riscontrato anche dall’autopsia.
Nel giorno dell’udienza preliminare, quasi subito rinviata al 3 febbraio prossimo dal gup
Fabio Frangini, è da Andrea Magherini che è arrivata la dichiarazione più rasserenante,
nel tragico contesto di un processo per un omicidio che poteva e doveva essere evitato:
“L’importante era partire – ha osservato il fratello della vittima – e la cosa più bella di oggi
è stato vedere questo seguito, questo amore per Riccardo”. In quel momento, davanti
all’aula d’udienza, c’erano una cinquantina fra amici e familiari della vittima. Fra loro Ilaria
Cucchi: “L’affetto che circonda la famiglia Magherini darà loro la forza di andare avanti,
perché lo Stato li lascia soli”.
Il rinvio deciso dal gup è stato motivato dall’acquisizione agli atti del processo di nuovi
documenti medico-legali, sia da parte del pm Luigi Bocciolini sia da quello del legale dei
carabinieri, l’avvocato Francesco Maresca. Fra i temi in discussione, su imput della difesa,
c’è anche l’ipotesi che Magherini sia morto per una “excited delirium syndrome”. Una
patologia connessa, ha sottolineato Maresca, dall’assunzione di cocaina da parte della
vittima, riscontrata dagli esami tossicologici. Anche il pm Bocciolini ha depositato un
documento: la memoria di un agente di polizia statunitense che avrebbe eseguito alcuni
arresti di persone con l’ “excited delirium syndrome”.
Su questo ipotetico aspetto della tragedia, lo scetticismo della famiglia Magherini (“c’è
voglia di non fare giustizia – dichiara il padre Guido — la procura ha lavorato solo sugli
aspetti tossicologici”) trova conferma nelle parole di un testimone diretto. “Io in Borgo San
Frediano c’ero – ricorda Matteo Torsetti – stavo andando da alcuni amici in un locale della
strada. All’altezza del cinema Eolo c’erano dei carabinieri che cercavano di fermare una
persona. Quando sono arrivato era in piedi, qualche minuto dopo in ginocchio. L’hanno
ammanettata, e progressivamente spinta al suolo. Poi ho contato almeno cinque calci, alla
testa, al busto, alla pancia, e un paio al volto. Quando ho visto i calci, ho urlato: ‘no, i calci
no’”.
L’avvocato Massimiliano Manzo, che difende i tre volontari della Croce rossa — anche per
loro c’era un presidio dei colleghi – anticipa la sua difesa. Semplice: “Quando sono
intervenuti i volontari, Magherini era già morto. I carabinieri lo pressavano da dieci minuti. I
miei assistiti hanno rispettato il protocollo, cercando di rianimarlo. Ci sottrarremo alla
guerra medico-legale fra tossicologi, porteremo un nostro consulente anestesista”. Mentre
Fabio Anselmo, legale della famiglia Magherini, tira le somme: “Ci dovrebbe essere lo
Stato a fare questa battaglia, invece ci sentiamo soli. E siamo certi che se Riccardo non
avesse incontrato i quattro carabinieri, oggi non saremmo qui”.
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LEGALITA’DEMOCRATICA
del 09/01/15, pag. 13
Stato-mafia, sceso dal Colle
Napolitano ancora testimone
CONVOCATO A CALTANISSETTA A FEBBRAIO PER IL PROCESSO SU
VIA D’AMELIO
di Sandra Rizza
Non ci sarà l’atmosfera ovattata della Sala Oscura, né un corazziere a impedire l’accesso
dei cronisti, né il bavaglio imposto a Radio Radicale. Il teste Giorgio Napolitano dovrà
rispondere ancora una volta alle domande dei giudici siciliani per riferire se e cosa ha
saputo della trattativa Stato-mafia, ma questa volta dovrà farlo senza la copertura della più
alta investitura istituzionale: e cioè in un’aula giudiziaria, davanti ai giornalisti, ai boss
collegati in videoconferenza e presumibilmente anche a un folto pubblico di curiosi. Dopo
l’addio al Quirinale, previsto per la prossima settimana, il capo dello Stato avrà a
disposizione pochi giorni per prepararsi all’impegno più delicato del suo nuovo ruolo di
presidente emerito: è attesa per febbraio, infatti, la deposizione davanti alla Corte d’assise
di Caltanissetta nel processo Borsellino quater, quello che il procuratore nisseno Sergio
Lari (appena scartato dal Csm nella corsa alla Procura di Palermo, che ha premiato
Franco Lo Voi) ha definito “l’ultima spiaggia per la verità sulla strage di via D’Amelio”.
L’esame dei testi dei pm si conclude il prossimo 27 gennaio: subito dopo, la Corte
chiamerà in aula i testi delle parti civili. Primi fra tutti, probabilmente, quelli dell’avvocato
Fabio Repici, legale di Salvatore Borsellino, che ha chiesto l’audizione di Napolitano
definendolo “un testimone privilegiato di quanto avveniva nei palazzi del potere durante la
stagione della trattativa Stato-mafia’’.
E SE NELLA deposizione “blindata” del 28 ottobre scorso al Quirinale, davanti ai pm di
Palermo, il capo dello Stato ha parlato per tre ore, rivelando alla fine che con Oscar Luigi
Scalfaro e Giovanni Spadolini era perfettamente consapevole del movente ricattatorio
delle stragi, non è escluso che a Caltanissetta, l’avvocato Repici e i pm Nico Gozzo,
Gabriele Paci e Stefano Luciani possano fare di meglio. E non perché cadano i paletti
giuridici. Nell’aula bunker nissena, infatti, l’uomo disceso dal Colle potrà avvalersi ancora
sia del segreto funzionale che delle “prerogative” che la Consulta, dopo il conflitto di
attribuzione con la Procura di Palermo, ha ampliato fino a sancire la “totale riservatezza di
tutte le comunicazioni presidenziali”: ma solo per il periodo che va dal 2006, data della sua
investitura al Quirinale, al momento delle sue dimissioni. Sarà un Napolitano senza rete,
invece, quello che a Caltanissetta dovrà rivelare i dettagli della sua “stretta
collaborazione”, avviata in qualità di presidente della Camera, con il predecessore
Scalfaro, ritenuto dai pm di Palermo il più autorevole garante della trattativa Stato-mafia.
Ed è qui la differenza. Nell’ampio capitolato di prova, infatti, Repici ha contestualizzato la
citazione al periodo in cui il testimone eccellente era al vertice di Montecitorio. Al primo
punto, la lettera inviata dal capo dello Stato a Marianna Scalfaro, il 29 gennaio 2013, nel
primo anniversario della scomparsa del padre: in quel documento, ricordando i fatti del ‘92,
Napolitano definiva la collaborazione instaurata con l’allora vertice del Quirinale
“essenziale per superare una transizione segnata da turbamenti nell’opinione pubblica e
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nei rapporti tra i poteri dello Stato”. Di quella stagione, il neo-presidente emerito dovrà
raccontare l’avvicendamento al Viminale tra Scotti e Mancino e i contrasti che il decreto
Martelli incontrò in Parlamento al momento della sua conversione in legge, dopo
l’uccisione di Borsellino. Dalla testimonianza a Caltanissetta, resteranno fuori, ancora una
volta, le quattro telefonate con Mancino, oggetto del furioso braccio di ferro tra il Colle e la
procura di Palermo, conclusosi con la distruzione dei file. Ora che l’uomo del Colle sta per
tornare senatore a vita, carica che non lo esime dal doversi presentare in aula a rendere
testimonianza, appaiono quasi grottesche le polemiche che hanno accompagnato la sua
deposizione nel processo di Palermo sulla trattativa Stato- mafia, la prima resa davanti ad
una Corte d’assise da un capo dello Stato, ma anche la più ‘’protetta’’ della storia
giudiziaria. Con il divieto agli imputati di partecipare, sia pure in videoconferenza,
all’udienza presidenziale e le porte sbarrate ai giornalisti per “motivi di sicurezza”.
TUTTO QUESTO sembra appartenere già al passato. Sempre che Napolitano non giochi
ancora una volta d’anticipo, invocando il legittimo impedimento, per esempio con un
certificato medico che attesti alla Corte la sua assoluta impossibilità a recarsi in udienza.
Almeno temporaneamente.
del 09/01/15, pag. 13
Tutto prescritto, villa Wanda torna a Gelli
IL MAESTRO VENERABILE DELLA P2, ACCUSATO DI EVASIONE PER
17 MILIONI, OTTIENE LA RESTITUZIONE DELLA MAGIONE
Un’evasione fiscale da 17 milioni di euro finita in prescrizione e così il maestro Venerabile
della P2 torna nella piena proprietà della sua villa Wanda. Non che Licio Gelli l’abbia mai
lasciata: l’oggi 95enne ha sempre vissuto nella casa di oltre trenta stanze su tre piani,
immersa in un parco di tre ettari e situata in una delle zone più esclusive dell’aretino, la
collina di Santa Maria delle Grazie.
IERI IL GIUDICE del tribunale di Arezzo, Gianni Fruganti , ha accolto la richiesta di
prescrizione dei reati fiscali e stabilito il dissequestro del prestigioso immobile. Il processo
era a carico dell’ex venerabile della loggia P2, dei figli Raffaello e Maurizio, della
compagna Gabriella Vasile e del nipote Alessandro tutti accusati di frode fiscale. Il 10
ottobre 2013 le Fiamme Gialle si presentarono all’alba a Villa Wanda per porla sotto
sequestro, in base a quanto disposto dal procuratore della Repubblica Roberto Rossi, per
evitare che la villa venisse sottratta a un’eventuale esecuzione da parte dello Stato che
rivendicava il pagamento del debito fiscale. Secondo l’accusa, la famiglia aveva
architettato prima ipoteche e poi una vendita fasulla per evitarlo. La vicenda risaliva al
1998 - lo stesso anno in cui furono trovati 160 chili in lingotti d’oro nascosti nel parco della
villa - quando l’Agenzia delle Entrate aretina entrò in possesso di un testamento olografo
di Licio Gelli che portò a una serie di accertamenti fiscali culminati con il sequestro.
QUANDO I MILITARI della Guardia di Finanza suonarono al campanello per notificargli il
sequestro preventivo, Licio Gelli si stava preparando per andare a una visita medica e
apparve seccato dall'inconveniente: “È una cosa vecchia, risolverò tutto”, disse. I suoi
legali presentarono il ricorso al tribunale del riesame per ottenere il dissequestro della villa,
ma al diniego dei giudici i legali di Gelli prospettarono anche l’ipotesi di una trattativa con
Equitalia per sanare la situazione debitoria così da ottenere il dissequestro. Che ora
invece arriva con la prescrizione dei reati. Villa Wanda è stata uno dei simboli della prima
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Repubblica. Il 17 marzo 1981 al suo interno vennero trovate le liste degli affiliati alla loggia
massonica P2. Quando Gelli fu messo agli arresti domiciliari, scelse di scontare la propria
pena in questa villa. Nel gennaio del 2006, allo scopo di recuperare 1,5 milioni di euro di le
spese processuali relative al processo relativo al crac del Banco Ambrosiano lo Stato mise
la villa all’asta. La casa, già pignorata nel corso del procedimento, dopo varie aste andate
deserte, venne riacquistata dallo stesso Gelli. A cui ora lo Stato la restituisce
definitivamente. Grazie alla prescrizione.
dav.ve
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RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
Del 09/01/2015, pag. VII RM
Petardi contro la casa-famiglia e tra i rifugiati
scoppia la protesta
LORENZO D’ALBERGO
UN BLITZ contro gli ospiti del centro di accoglienza di via di Grottarossa. Un raid a colpi di
petardi che ha scatenato la protesta antirazzista degli ospiti della casa famiglia gestita
dalla cooperativa Domus Caritatis. Il caos alla periferia nord di Roma è scoppiato nella
notte tra mercoledì e giovedì, pochi minuti dopo la mezzanotte: subito dopo lo scoppio dei
botti all’interno del cortile del palazzetto che li ospita, una trentina dei 46 rifugiati che
vivono nella struttura si sono riversati in strada all’altezza del civico 190 e hanno iniziato a
gridare tutta la loro rabbia, rovesciando anche alcuni cassonetti della spazzatura. Per
riportare la situazione alla normalità c’è voluto l’intervento di due volanti della polizia.
La scena, con le dovute proporzioni, riporta alla mente quanto accaduto soltanto a
novembre a Tor Sapienza, dove per giorni e giorni residenti e rifugiati si sono fronteggiati
in strada. E il vento che spira da Parigi, dopo l’attentato jihadista a Charlie Hebdo, non
lascia certo dormire sonni tranquilli. «Ma le differenze con la periferia sud sono tante —
commenta un dipendente della Domus Caritatis (cooperativa che, secondo gli ispettori
della Ragioneria di Stato, avrebbe operato nel settore tramite affidamenti diretti, come si
legge in un rapporto del gennaio 2014 in cui viene affiancata al consorzio Eriches di
Salvatore Buzzi) — perché si tratta dell’unico centro di questo tipo in zona. Non c’è una
concentrazione che può creare insofferenza come in altre aree della capitale. Questo non
ci sembra un raid razzista, perché si tratta di una zona tranquilla. I ragazzi usano anche il
campo da basket della chiesa. Insomma, c’è integrazione». Eppure c’è un precedente,
anche abbastanza fresco: la notte del 3 gennaio, gli ospiti della casa (per la maggior parte
ghanesi e maliani) sono stati bersagliati un’altra volta da una pioggia di petardi, lanciati
dalla solita auto in corsa. «E un anno e mezzo fa — ammette lo stesso dipendente —
c’era stata una protesta del comitato di quartiere per chiedere la chiusura della struttura.
Una piccola manifestazione pacifica». Ma pur sempre un segnale. Ne terranno conto la
procura, che sul caso ha aperto un fascicolo e gli agenti del commissariato Flaminio
nuovo, intervenuti sul posto.
«Speriamo che quanto accaduto in Francia non c’entri niente con quella che dovrebbe
essere soltanto una bravata di chi ancora non ha finito i botti di capodanno », commenta
Daniele Torquati, presidente del XV municipio. Ieri mattina il centro è stato visitato anche
dall’assessore alle Politiche sociali Michela Ottavi: «La struttura è aperta da 7 anni e ho
incontrato i suoi ospiti. Abbiamo chiesto alle forze dell’ordine controlli a tutela di chi abita
nella casa famiglia e dei residenti di Grottarossa».
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SOCIETA’
Del 9/01/2015, pag. 19
Torino, l’anagrafe registra il bimbo con due
mamme
Il Comune: “Rispettiamo la sentenza dei giudici”
Andrea Rossi
Il Comune di Torino trascriverà oggi nei suoi registri dell’Anagrafe il certificato di nascita
del bambino concepito a Barcellona da due donne tramite fecondazione assistita. La città
ieri sera ha deciso di dare corso alla sentenza della Corte d’Appello che, alla vigilia di
Natale, ribaltando il primo verdetto del Tribunale, aveva dato ragione alle due donne. Una
scelta maturata sulla base degli approfondimenti giuridici degli ultimi due giorni e nella
quale non è stata indifferente la volontà del sindaco.
La decisione
Rientrato da Roma, Fassino ha ascoltato le conclusioni cui erano arrivati i dirigenti
dell’Anagrafe e l’avvocatura comunale e ha tirato le somme. Una decisione tecnica,
chiarivano ieri sera a Palazzo Civico, senza risvolti politici né forzature ideologiche, tanto
che il sindaco non ha voluto commentare, se non per dire alla scelta si è arrivati «sulla
base degli approfondimenti normativi e giuridici effettuati». Lo farà, probabilmente, lunedì
in Consiglio comunale quando dovrà rispondere a molte richieste di chiarimenti e critiche
che piovono da più parti. A cominciare dalla Curia, scettica e contrariata: «È vero che
l’interesse primario da tutelare è quello del minore», sostiene l’arcivescovo Cesare
Nosiglia. «ma l’espansione senza fine di certi diritti soggettivi porta a situazioni di grande
confusione (giuridica e non solo), con il rischio che a pagarne le conseguenze siano prima
di tutto proprio quei minori che si intende tutelare. Trascrizioni o no, di mamma ce n’è una
sola». La posizione politica della giunta torinese era già stata espressa mercoledì
dall’assessore all’Integrazione Ilda Curti: «Questo bambino ha diritto di avere riconosciute
le due figure genitoriali di riferimento, in questo caso due madri, che lo tutelino e abbiano
nei suoi confronti gli stessi diritti e gli stessi doveri di qualsiasi altro genitore».
La svolta
A Torino, l’accelerazione è maturata nel giro di 24 ore. La cautela di mercoledì, quando il
Comune aveva deciso di prendere tempo e chiedere un parere d’urgenza al ministero
dell’Interno, è svanita. Anche perché da Roma non arrivavano segnali. Più volte
sollecitato, anche attraverso la Prefettura, il Viminale non si è espresso e la città ha deciso
senza temporeggiare oltre. «La nostra priorità è la tutela del bambino e dei suoi diritti»,
spiegava ieri sera chi ha partecipato alla riunione in cui si è deciso di procedere con la
trascrizione. «E l’unica tutela possibile, attualmente, è rispettare la decisione dei giudici».
Nei giorni precedenti si era valutata anche una seconda opzione, più morbida: registrare il
bambino, che ha tre anni, indicando solo il nome della mamma che l’ha partorito, una
cittadina spagnola, e non quello dell’altra donna, italiana, che ha donato gli ovuli. Una
soluzione transitoria: una volta arrivato il parere del ministero, poi, si sarebbe
eventualmente aggiunto il secondo nome. Ipotesi scartata ieri pomeriggio. Se, nei prossimi
giorni, il ministero dell’Interno dovesse ribaltare quanto deciso da Torino, il Comune
annullerà l’atto. Ma a quel punto si aprirà un conflitto tra poteri: la sentenza di un tribunale
contro una circolare del governo.
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Del 09/01/2015, pag. 25
“No al forum omofobo l’Italia sta abusando
del logo dell’Expo”
Parla il segretario generale del Bie, l’ente che sovrintende all’evento “Ci
arrivano proteste da tutto il mondo, Sala e Martina intervengano”
ALESSIA GALLIONE
«L’opposizione del Bie è frontale». Risponde da Parigi, Vicente Gonzales Loscertales. È il
segretario generale del Bie, il Bureau international des Expositions che riunisce 168 Paesi
e sovrintende gli eventi globali come quello di Milano. Di Expo, Loscertales ne ha viste
molte, fin da quella del 1992 nella sua Siviglia. È un diplomatico di lungo corso, abituato a
parlare con il mondo e a misurare le parole. Ma questa volta, per affrontare il caso —
diventato già internazionale — del convegno in odore di omofobia organizzato da Regione
Lombardia il 17 gennaio, usa toni decisi.
Che effetto le fa vedere il logo di Expo accostato a un convegno accusato di
omofobia?
«Mi fa l’effetto di un abuso. Un’Esposizione universale è una manifestazione basata sul
rispetto di tutto e di tutti. Non è un evento partigiano o politico e non può essere mai
discriminatorio di gruppi di cittadini che hanno il diritto di avere le proprie opinioni religiose,
i propri orientamenti sessuali. Utilizzare in modo abusivo a fine politico il logo non è
accettabile ed è in contraddizione con i valori di Expo e del Bie».
Il Bie prenderà una posizione ufficiale?
«Scriveremo una lettera al commissario unico Giuseppe Sala che sarà inviata in copia al
ministro che ha la delega a Expo, Maurizio Martina, per chiedere di fare di tutto per
eliminare il logo di Expo dal convegno » .
È giusto che, come sta facendo Regione Lombardia, il simbolo del 2015 venga
accostato in modo indiscriminato a qualsiasi tipo di iniziativa?
«L’uso del logo deve essere regolato. Non è possibile che la Regione o un altro socio lo
utilizzi se non per la promozione di Expo o dei temi di Expo. Chiederemo alla società e al
governo di fare il necessario. Ma in questi giorni ho già visto la reazione del ministro
Martina, ho letto le dichiarazioni di Sala: sono sulla stessa linea del Bie. Adesso tutti
insieme dobbiamo fare in modo che questa situazione finisca».
Anche se Expo non ha mai autorizzato l’accostamento del proprio marchio, è la
manifestazione a essere finita al centro delle polemiche: in pochi giorni alla società
sono arrivate 700 mail di protesta. Teme che scatti qualche forma di boicottaggio?
«Anche noi abbiamo ricevuto proteste e non solo dall’Italia, ma anche dalla Francia, dagli
Stati Uniti. Chi ci ha scritto? Persone che, giustamente, non possono capire come un
evento come l’Expo sia utilizzato in questo modo. Hanno ragione. Perché per me il
problema non è il boicottaggio: questa è una questione che ha a che fare prima di tutto
con i diritti elementari delle persone e con il rispetto. Con o senza boicottaggio, non può
essere accettato».
Dalle sue parole, insolitamente dure, il Bie sembra essere estremamente irritato.
«Il Bie è sorpreso da quanto è successo ed è fermamente contrario».
Anche il sindaco Pisapia invita Maroni a fare un passo indietro e a togliere il simbolo di
Expo, ma il governatore ha già deciso di tirare dritto. A questo punto si rivolge anche a lui?
«La società Expo ha regole precise sulla concessione dei patrocini e, ripeto, non si può
fare di Expo un elemento di lotta politica. Chiederemo al presidente Maroni di fare il
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necessario per evitare questa situazione. Possiamo capire che la Regione non abbia
avuto cattive intenzioni, ma visto che questo convegno può essere considerato offensivo e
discriminatorio, adesso bisogna rispettare i diritti di tutti. E bisogna rispettare il logo di
Expo, che è di tutti».
Segretario, mancano cento giorni all’inaugurazione: come stanno andando, i lavori?
«Sono sicuro che il Primo maggio tutto sarà a posto».
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CULTURA E SCUOLA
Del 09/01/2015, pag. 53
Il Festival di Roma riparte da zero via il
presidente, si cerca il direttore
ARIANNA FINOS
ROMA
FESTIVAL di Roma anno zero. «Buongiorno presidente, come va?». «La salute bene,
grazie », risponde Paolo Ferrari con voce triste e gentile. L’ormai ex presidente della
Fondazione Cinema per Roma smentisce di aver subito sollecitazioni a dimettersi. Ma la
volontà di fare tabula rasa, ripartendo con nuovi nomi e progetti è stata espressa fuori e
dentro gli appuntamenti istituzionali — l’ultima riunione del Cda di metà dicembre e
l’assemblea dei soci della Fondazione, lunedì scorso. In questi giorni stanno partendo le
lettere di commiato. Tra queste ci sarà anche quella di Ferrari, la cui carica di presidente
della Fondazione scadrebbe tra un anno. «Nessuno mi ha chiesto niente, ma l’avevo già
deciso. È giusto che ci sia un gruppo nuovo, una nuova organizzazione e faccio un passo
indietro. Lasciamo tre anni di bilancio in pareggio o positivi ». Lo è stata anche la sua
esperienza: «Venivo da un percorso monocorde nelle major, Metro Goldwyn- Mayer,
Columbia, Warner. Anche perciò applaudo la scelta di potenziare il mercato a Roma».
Il Consiglio di amministrazione si scioglierà quindi prima della scadenza di marzo, anche
perché formati da membri espressi in epoche diverse (Alemanno-Polverini) o da enti,
come la Provincia, spariti. Cooptato nel cda Cinecittà Luce (in rappresentanza del
Ministero dei Beni culturali) e riassestati i fondi (via quelli della Provincia, quasi dimezzati
quelli di Camera di Commercio) il Festival 2015 potrà contare su 4,1 milioni di
finanziamenti, più il milione e mezzo destinato al mercato (erogato dal Ministero dello
sviluppo) e il milione da Bnl. Ma c’è pochissimo tempo, il Festival di Berlino incalza e serve
un direttore artistico da mandare a caccia di film.
Nomi. Per la carica di presidente della Fondazione è circolato il nome dell’ex assessore
della giunta Alemanno, Umberto Croppi. Escluso il ritorno di Goffredo Bettini, o un
coinvolgimento di Walter Veltroni. Sul fronte artistico, sarebbero disponibili Mario Sesti e
Carlo Freccero (si parla anche di Antonio Monda). A dispetto delle risorse e della crisi,
l’idea è di un festival-ponte con Hollywood e il mercato. Posizionato a metà ottobre e poi
spalmato in una serie di anteprime tutto l’anno. Coinvolgendo di più la città: non solo
Auditorium, ma anche la Casa del cinema gestita da Giorgio Gosetti (coproduzioni e
progetti con il Centro sperimentale) e l’area di Via Veneto. Sale del centro e spazi di
periferia. L’idea è una Festa (potrebbe restare il premio del pubblico) accompagnata da un
mercato per i nostri film e serie tv. Perde colpi l’ipotesi di accorpare il Roma Fiction Fest: a
metà ottobre attori e creatori delle grandi serie sono impegnati sui set. Resterà, autonoma
la sezione Alice nella Città , piccola roccaforte di successo uscita indenne da crisi e
polemiche.
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