762-764_R214-216_Libri_segnalazioni:Layout 2

Transcript

762-764_R214-216_Libri_segnalazioni:Layout 2
L
762-764_R214-216_Libri_segnalazioni:Layout 2
2-01-2013
18:48
Pagina CCXIV
L ibri del mese / segnalazioni
F. STRAZZARI,
FRAGMENTOS
DI AMERICA
LATINA. MARTIRI,
PROFETI E CHIESE
A RISCHIO,
EDB, Bologna 2012,
pp. 192, € 16.
9788810140703
I
n un panorama editoriale, anche cattolico,
sempre più restio a dar conto del cammino
della Chiesa latinoamericana, il libro di Francesco Strazzari giunge quanto mai opportuno.
Non solo, infatti, il volumetto contribuisce a
colmare un vuoto d’informazione, ma soprattutto offre una chiave di lettura – forse non
esaustiva, ma certamente rilevante – per comprendere le dinamiche ecclesiali di quel continente negli ultimi 30 anni: quella del conflitto
tra «due linee pastorali: una che ascolta e vive
accanto alla comunità locale, costituita dai poveri di Dio, sofferenti e indifesi, l’altra che si alimenta a modelli di potere, a collateralismi politici, a movimenti autoreferenziali, che privilegiano la massa e il formalismo rispetto alla verità e alla coscienza della persona».
Con uno stile godibile e vigoroso, Fragmentos di America Latina ripercorre l’epoca
che va dall’inizio degli anni Ottanta del secolo
scorso fino ai giorni nostri, attraverso una serie
di istantanee proposte con diversi registri narrativi (reportage, interviste, approfondimenti
ecc.) su momenti ed eventi effettivamente risultati decisivi (il «caso Boff», la IV Conferenza
generale dell’episcopato latinoamericano di
Santo Domingo, la rivolta indigena nel Chiapas,
la visita di Giovanni Paolo II a Cuba ecc.) per la
Chiesa cattolica continentale.
L’autore, inviato de Il Regno, alterna incontri con personalità, ricostruzioni storiche e
cronache di vicende ecclesiali, cucendo fatti e
personaggi non solo con grande competenza e
«dal di dentro», ma soprattutto senza nascondersi dietro a finti irenismi e senza glissare su
questioni scomode.
Così, per esempio, dedica l’intervista a
mons. Samuel Ruiz, vescovo di San Cristobal de
Las Casas che si è conquistato una fama mondiale per la mediazione sui generis svolta tra il
governo e l’Esercito zapatista di liberazione
nazionale dopo l’insurrezione del 1994, non al
conflitto politico e militare, ma alla costruzione in diocesi di una Chiesa autoctona: un
tema meno noto, ma sul quale si gioca una
delle sfide più significative per la Chiesa cattolica del futuro, quella di coniugare nella propria configurazione e strutturazione universalità e specificità locale, unità e pluralità o
diversità.
762
IL REGNO -
AT T UA L I T À
22/2012
E che pure l’ambito ecclesiale sia attraversato da conflitti, Strazzari non solo non lo nasconde, ma lo esplicita con realismo, affrancandosi dalla reticenza tipica di parte della
pubblicistica cattolica, come nella presentazione del caso del vicariato apostolico di Sucumbíos, esploso nel 2011 per la sostituzione
del carmelitano mons. Gonzalo Lopez Marañon con mons. Rafael Ibarguren, degli Araldi del
Vangelo, e tuttora irrisolto. Il suo è uno sguardo
informato e teso all’obiettività, ma non neutrale, e ciò non per pregiudizio ideologico od
opzione politica, ma per istintiva sintonia e solidarietà con quanti hanno scelto di scommettere – e a volte perdere – la vita per testimoniare il Dio dei poveri.
Di qui l’«emozione» dell’incontro con p.
Jon Sobrino, il gesuita sopravvissuto, solo perché all’estero, alla strage di sei confratelli e
due donne dell’Università centroamericana di
San Salvador per mano dei militari nel 1989; o
la simpatia che sprigiona la conversazione con
dom Tomás Balduino, vescovo emerito di Goiás, in Brasile, fondatore del Consiglio indigenista missionario; o la lucida preoccupazione
che emerge dall’articolata intervista a mons.
Victor Corral, erede a Riobamba, in Ecuador,
dell’incompreso mons. Leonidas Proaño, e di
cui a sua volta Roma aveva accettato le dimissioni il giorno stesso del compimento dei 75
anni.
Davvero fresco risulta il racconto di dom
Josè Maria Pires, vescovo ultranovantenne di
Paraiba e padre conciliare, sul Vaticano II, scorrendo tra memoria e futuro, con l’aneddotica
di episodi curiosi nelle udienze di Giovanni
XXIII ai vescovi brasiliani e la proposta di riforme, nello spirito del Concilio, per rendere
effettiva la collegialità episcopale, ridurre almeno la differenza di trattamento tra uomo e
donna nella Chiesa, mettere tutte le comunità
cristiane in condizione di celebrare l’eucaristia
anche a costo di rivedere la legge del celibato
presbiterale.
Al centro del libro, infine, spiccano i quattro capitoli dedicati alla Chiesa del Perù, con
particolare attenzione per la presenza e l’azione
del Sodalizio di vita cristiana, un movimento
ecclesiale nato in quel paese negli anni Settanta
in contrapposizione alla teologia della liberazione e simile ai Legionari di Cristo; nelle stesse
pagine Strazzari pennella il ritratto della discussa figura del card. Juan Luis Cipriani Thorne,
arcivescovo di Lima e membro dell’Opus Dei,
tornato recentemente alla ribalta per lo scontro con la Pontificia università cattolica del
Perù (cf. Regno-att. 6,2012,197), conclusosi con
la proibizione a quest’ultima, da parte della
Santa Sede, dell’utilizzo del titolo di «pontificia» e di «cattolica» (decreto della Segreteria di
stato dell’11.7.2012).
Mauro Castagnaro
P. DE BENEDETTI,
M. GIULIANI,
PORTARE
IL SALUTO.
I significati
dello Shalom,
Morcelliana,
Brescia 2012, pp. 82,
€ 10,00.
978883722594
P
arte vitale della relazione, il saluto è
un’esperienza universale e attinente all’essenza stessa dell’uomo, «i saluti sono
specie di credenziali con cui ci si accredita
presso qualcuno, che li ascolta compiaciuto,
che s’aspetta di essere riverito e accolto, anche se in realtà è il suo ascolto attento e
comprensivo che accoglie non tanto il saluto in sé, ma il latore di quel saluto, l’ambasciatore del messaggio che il saluto, in vari
modi veicola».
Interessante questo libro di Paolo De Benedetti e Massimo Giuliani su un gesto quotidiano, un piccolo rito spesso compiuto automaticamente, che connota tutte le nostre
giornate e che veramente potremmo definire
centrale nel rapporto con l’altro: il saluto è «il
primo e più elementare segno di riconoscimento di un legame e di una connessione»,
evidentemente preesistenti al saluto stesso,
ma che tuttavia il saluto rende meritori di attenzione.
La prima parte di questo lavoro è dedicata ai lineamenti per una fenomenologia
del saluto con le pagine di Massimo Giuliani
che propone una analisi dettagliata della presenza stratificata del saluto all’interno della
nostra esistenza, a partire dal suo ruolo nella
conoscenza dell’altro. Muovendo dalle etimologie della parola, l’excursus tocca poi diversi aspetti: dal portare il saluto al toglierlo,
dal suo essere una mitzvà al cogliere gli elementi di un «penultimo» e «ultimo saluto»
che ne sanciscono inequivocabilmente l’essenza relazionale.
Ogni saluto è una berakhà, al pari della
preghiera del mattino che a ogni risveglio recita il pio israelita, inaugura di nuovo un
aspetto del nostro essere vivi e attivi «ogni
saluto è una benedizione su chi sta per entrare di nuovo nel nostro mondo» (16).
Tra i vari aspetti esaminati dall’autore, direi che vale soffermarsi sul portare il saluto di
altri e sul togliere il saluto. Quante volte ci è
capitato di portare a qualcuno che riteniamo
a noi vicino, caro, importante, il saluto di un
altro per il quale nutriamo gli stessi sentimenti? Giuliani afferma qui che sebbene il vicario abbia una posizione subalterna rispetto
a colui del quale porta il saluto, il suo potere
CCXIV
762-764_R214-216_Libri_segnalazioni:Layout 2
nel modellare il messaggio è assoluto, gli è
dato di colmare uno spazio, quello tra il «mittente» e il «destinatario» e la riuscita di questo dipende dalla scelta delle parole che
userà, così come dal loro tono vocale.
Anche Dio parla al suo popolo mandando il «saluto» attraverso suoi messaggeri,
i profeti, che fedelmente riferiscono, «ma
che non scompaiono affatto nella loro missione; al contrario diventano spesso parte
integrante del saluto stesso, del messaggio e
della missiva di cui sono incaricati» (21).
Altrettanto significativo mi sembra il togliere il saluto, che incarna meglio di ogni altro gesto il voler rompere, o interrompere,
una relazione: significa voler negare tutto
quel già esistente, vissuto, che il saluto ripristina ogni volta ab origine. Togliendo il saluto
agiamo seguendo un giudizio di merito,
spesso equivalente a una condanna; è come
se dicessimo all’altro: «tu non sei degno del
mio riconoscerti pari a me, legato a me e
come me interconnesso da multipli legami
sociali. Non salutandoti, con intenzione e in
modo palese (…) il tu (…) viene spodestato
dalla dignità (…) viene ucciso» (42).
Allorché decidiamo, perché si tratta di un
gesto di volontà deliberata, di togliere il saluto al nostro prossimo, facciamo un gesto
anche contro noi stessi, attestando che abbiamo fallito «come esseri relazionali, che
abbiamo rinunciato a concepirci in termini
davvero umani e abbiamo ceduto al sostituto
di ogni dialogo: il silenzio violento, la mano
alzata per colpire nella forma della parola interrotta» (44).
Nella seconda parte del testo, Paolo De
Benedetti si sofferma sullo shalom come saluto messianico. La sua prima osservazione è
che spesso diamo della pace una definizione
negativa e passiva: «fare la pace» sta per
smettere di fare la guerra, di litigare, ma è una
visione limitata, povera, che guardando nella
tradizione biblica e rabbinica dello shalom
ebraico può essere riformata, ampliata, riletta in una luce nuova.
All’interno della Scrittura la parola shalom denota una ampia serie di nozioni – benessere, salute, completezza, fortuna – che
spesso indicano aspetti materiali più che spirituali. Il termine può essere legato all’andare
in pace (cf. Gen 26,29), all’essere sepolto in
pace (cf. Gen 15,15), al presentarsi come
«messi di pace» (Is 33,7), si trova addirittura
una pace degli empi, così come esiste naturalmente quell’accezione negativa di pace
come assenza o contrario di guerra (cf. Qo
3,8). Non mancano neppure riferimenti allo
shalom con un senso teologico, nei riguardi
di Dio, mai però, sostiene un altro studioso,
nella Bibbia lo shalom indica «pace interiore».
È certamente di rilievo che alcune volte
in luogo della parola shalom o insieme con
2-01-2013
18:48
Pagina CCXV
questa appare la parola zedaqà, che potremmo tradurre con «giustizia». De Benedetti sostiene che si potrebbe dire «che la zedaqà la fa l’uomo, lo shalom lo fa Dio (…) e
che se l’uomo non fa zedaqà, Dio non fa
shalom» (69).
Se lo shalom viene da Dio (ciò che sembra addentrandosi come fa l’autore anche
nel pensiero rabbinico), dobbiamo forse limitarci ad aspettare che venga? – ci si chiede.
«La risposta è nel Salmo 122,6: “Chiedete shalom per Gerusalemme”. Bisogna pregare per
lo shalom, bisogna predisporsi allo shalom»
(74).
L’uomo in sé non è capace di fare shalom, ma può e deve essere imitatore di Dio
che fa shalom. Come? Parlando di pace, sebbene non sempre coincida con l’essere operatori di pace, «il discorso di pace, soprattutto
se è fatto da una persona pacifica, trova orecchi – e forse cuori – ben disposti» (78). Così,
lo shalom dato all’uomo da Dio verrà a lui restituito, «non nell’accezione del talento non
fruttato ma nel senso che Dio ha bisogno di
essere “pacificato” dai “pacifici”» (79).
Consiglierei di leggere questo libro ai cercatori di pace, a coloro che vivono nell’assenza di concordia, per aver tolto il saluto o
essere oggetto di tale privazione; suggerirei di
guardare ai sensi dello shalom nella Scrittura
alla ricerca dei suoi molti aspetti e vorrei raccomandare di leggere queste pagine in abbinamento a un altro piccolo testo altrettanto
denso, Silenzi di Sabino Chialà (Qiqajon, Magnano [BI] 2010), per capire come a rispondere della relazione con l’altro siamo chiamati
noi uomini ogni giorno, a partire dai gesti
apparentemente più semplici della nostra
vita quotidiana.
fine degli anni Settanta. Si tratta, in particolare de La vispa Teresa (fondata nel 1947
dai coniugi Pierotti Cei, edito dalla DEA e
destinata a bambine), Primavera (fondata
nel gennaio 1950 dalle Figlie di Maria ausiliatrice, diretta a giovani tra gli 11 e i 18 anni
e dal 1979 al 2000, anno in cui termina le
pubblicazioni, indirizzata a entrambi i sessi)
e di Così (fondata nel Natale 1955 dalle Figlie di San Paolo, per adolescenti). Si aggiunge Il Giornalino (edito sempre da San
Paolo) che, pur essendo rivolto a un pubblico di entrambi i sessi, aveva rubriche per
bambine.
L’indagine evidenzia come la difesa e la
promozione dei principi cattolici venissero
operate dalle testate in modi riconducibili
ai diversi ambienti cattolici di cui erano
espressione. La più rigida nella preservazione delle posizioni tradizionali sembra essere Primavera, che sin dall’inizio si era
proposta di formare nelle lettrici «caratteri
forti», per opporsi alla secolarizzazione
della società. Soltanto dalla metà degli anni
Settanta cominciò a veicolare una visione
più moderna della donna, anche attraverso
un dialogo attivo con le lettrici.
Le altre riviste si differenziano da Pri-
A CURA DI LUIGI GUGLIELMONI
FAUSTO NEGRI
«Un altro
vedere»
Lorena Spaziani
Don Primo Mazzolari e la fede
PREFAZIONE DI MONS. VINCENZO PAGLIA
I. MATTIONI,
DA GRANDE
FARÒ LA SANTA.
Modelli etici
e valori religiosi
nella stampa
cattolica femminile
per l’infanzia
e la gioventù
(1950-1979).
Prefazione
di Edoardo Bressan,
Nerbini, Firenze 2011,
pp. 240, € 22,00. 9788864340395
L
a fede, per don Primo, era al tempo
stesso adesione piena al vangelo e
inquietudine di fronte al mistero. Uno
stile che ha portato il parroco di Bozzolo
a non accontentarsi mai di soluzioni
«addomesticate», ma a mettersi in cammino alla ricerca di quel Dio che è sempre più grande dei progetti umani.
I
l volume mette a fuoco valori e modelli
di comportamento veicolati a bambine
e giovani da alcune riviste cattoliche a
esse dirette tra il secondo dopoguerra e la
«ITINERARI»
www.dehoniane.it
CCXV
IL REGNO -
AT T UA L I T À
22/2012
763
pp. 144 - € 12,00
Via Nosadella, 6
40123 Bologna
Tel. 051 4290011
Fax 051 4290099
762-764_R214-216_Libri_segnalazioni:Layout 2
L
18:48
Pagina CCXVI
ibri del mese / segnalazioni
mavera nel modo d’affrontare i problemi,
più colloquiale o più problematico. Ma i
contenuti di fondo restavano largamente
condivisi. Tra gli anni Cinquanta e Sessanta,
tutte appaiono dirette a plasmare nelle
bambine e nelle giovani comportamenti
cristiani che dovevano, oltre che garantire
la personale salvezza spirituale, prepararle
al ruolo di mogli e madri ed edificare gli
adulti con i quali venivano a contatto.
L’«angelo del focolare» doveva infatti –
se necessario – correggere i comportamenti
del marito in senso cristiano. E questa configurazione del ruolo sociale della donna
sottendeva l’idea – di più lontana origine nel
cattolicesimo – secondo cui il cristiano (cattolico) era anche il miglior cittadino. Ma dall’assolvimento dei compiti da esso implicati
ci si attendevano, nella contrapposizione tra
cattolici e comunisti del secondo dopoguerra, ricadute più specifiche: orientare
marito e figli verso comportamenti cristiani
doveva rafforzare il fronte dei primi contro
quello dei secondi. Il voto delle donne, del
resto, era stato favorito dallo stesso Pio XII
in funzione anticomunista.
Nell’analisi della Mattioni, sino alla fine
degli anni Sessanta il profilo di donna
ideale di matrice cattolica aveva diversi
tratti in comune con quello di matrice
«borghese». Comune risulta, ad esempio,
l’idea che la donna potesse lavorare solo se
ciò non ostacolava il pieno assolvimento
dei compiti familiari. Di questo dato di
mentalità, e del suo cambiamento a partire
dal Sessantotto nella società e – sia pure
con maggiore lentezza e con numerosi distinguo – nella cultura cattolica, il volume
evidenzia i riflessi sul piano giuridico e legislativo.
L’oggetto dell’indagine condotta è d’indubbio interesse, investendo un ambito di
ricerca ancora poco frequentato. L’attenzione prevalente dell’autrice per questioni
di carattere pedagogico e sociologico appare tuttavia ridimensionare il contributo
conoscitivo che dalla ricerca sarebbe potuto venire sul piano storico attraverso un
più ampio ricorso alla bibliografia storiografica contemporaneistica sia di carattere
generale sia di ambito storico-religioso –
come ad esempio E. ASQUER , M. CASALINI, A.
DI BIAGIO, P. GINSBORG (a cura di), Famiglie
del Novecento. Conflitti, culture e relazioni, Carocci, Roma 2010 e P. MAZZOLARI, La
Chiesa del Novecento e l’universo femminile, a cura di G. Vecchio, Morcelliana, Brescia 2006 – che avrebbe consentito di
contestualizzare ed esaminare con maggiore profondità almeno alcuni dei numerosi problemi affrontati.
Maria Paiano
764
2-01-2013
IL REGNO -
AT T UA L I T À
22/2012
R. STELLA,
EROS, CYBERSEX,
NEOPORN.
Nuovi scenari
e nuovi usi in rete,
Franco Angeli,
Milano 2011,
pp. 208, € 24,00.
9788856840056
D
icono i dati che ben più della metà del
traffico Internet, monitorato a livello
mondiale, nonché un quarto delle ricerche effettuate tramite Google e gli altri
«motori», hanno come oggetto materiali (foto, video, scritti) di natura pornografica. Difficile dunque dubitare che il web stia contribuendo significativamente a quel fenomeno
di pornografizzazione dell’intera comunicazione di massa che è a tal punto avanzato da
aver investito di sé, proprio negli scorsi giorni,
perfino un funerale cristiano, quello del notissimo industriale italiano della pornografia,
Riccardo Schicchi.
È appunto della «pornografizzazione», e
del ruolo assunto in essa dal web, che si occupa questo saggio del sociologo Riccardo
Stella. Egli torna così a fare della pornografia
oggetto di uno studio scientifico dopo vent’anni dall’aver pubblicato, sempre presso
Franco Angeli, L’osceno di massa (1991); e lo fa
partendo dal presupposto che indagarla in
quanto fenomeno, e fenomeno collettivo,
vada distinto dall’analizzarne gli aspetti che ne
fanno un problema (74-75). Senza per questo
pretendere per la propria ricerca uno statuto
di «terzietà» che questo oggetto non consente; piuttosto proponendo sin dall’inizio, e
argomentando lungo l’intero volume, la chiave
di lettura dell’«ambivalenza», che riguarda
tanto il consumo e la produzione di pornografia «al tempo della rete», quanto la condanna e il disgusto che essa può suscitare (17).
Spiega l’a. nella prima parte, su cui mi soffermerò maggiormente, che il termine «pornografizzazione» identifica in prima battuta
«il processo che negli ultimi anni», in virtù
dell’accesso facile, illimitato e riservato consentito da Internet, «ha contraddistinto la
diffusione e la penetrazione sociale della pornografia» (21); ma aggiunge che la massificazione dell’hard-core ha invaso tutte le culture
visive e le pratiche mediali, così che, in senso
estensivo, si può definire tale «l’esposizione
apparentemente incontenibile che i media
fanno, non solo del sesso, ma di tutto ciò che
dovrebbe rimanere celato dietro a veli di pudore personale o collettivo» (24). Qualcosa su
cui, pensando ai media italiani, non credo ci
sia bisogno di offrire esempi.
Si può poi parlare di pornografizzazione
anche in riferimento al «sovrapporsi di codici, più o meno esplicitamente hard, con
settori della comunicazione e dell’arte che li
reinterpretano secondo i propri canoni
espressivi» (27), come accade in particolare
nel cinema, ma anche nella pubblicità e persino nell’informazione. Di qui, ancora estendendo il concetto, Stella evidenzia una sorta
di «secolarizzazione dell’hard-core», conseguente al fatto che «il mainstream dei media tradizionali è ormai segnato da stili e linguaggi», quelli della «spettacolarizzazione
del mondo», che hanno consentito anche
(non solo) alla pornografia di «accreditarsi e
rivendicare un ruolo esterno al proprio
ghetto» (32-36).
Dopo aver ripercorso, ancora nella prima
parte, la storia della letteratura specialistica
sulla pornografia e quella dell’evoluzione
tecnologica dell’hard-core fino a Internet,
che contiene, riciclato in digitale, «tutto
l’universo del porno» che l’ha preceduto, il
vol. passa – nella seconda parte – ad analizzare la più recente «novità» che Internet ha
portato con sé in ordine alla pornografia,
ovvero la produzione amatoriale, spontanea
e dilettantistica di video pornografici, con la
conseguente intercambiabilità tra produttori e consumatori che di per sé caratterizza
ormai l’intero sistema della comunicazione
digitale. Nella terza parte, infine, alla luce anche dei risultati di alcune verifiche empiriche
che lo stesso web ha reso possibili in termini
prima impensabili (137-168), il vol. analizza
qualche «modello di consumo» pornografico.
È a maggior ragione in questi altri ambiti,
più empirici, della ricerca che la chiave
dell’«ambivalenza», proposta all’inizio, si ripropone come la più adatta per affrontare il
fenomeno. Raccogliendo sotto la definizione di Neoporn l’insieme delle modificazione prodotte sulla pornografia da Internet
proprio attraverso il prevalere dell’«amatoriale» sul «professionale», Stella ne descrive,
dettagliatamente, i caratteri salienti, mettendo l’accento soprattutto su un dato: pur
conforme alla prevalente domanda «maschile», esso presenta una «presa di parola»
dei «perversi polimorfi» tanto vasta e articolata quale mai si era offerta all’osservazione e allo studio (cf. 100-109): tanto che,
con i suoi rischi e pericoli (cf. 114-126), il Neoporn costituisce «un intenso, ampio, immaginifico universo di pratiche e di desideri di
condivisione che ha cambiato definitivamente la pornografia, sin nella sua struttura
economica, e che non è detto non riesca a
cambiare anche la relazione di alcuni di noi
col sesso» (134).
Guido Mocellin
CCXVI