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D appunti: La scuola « seria »
nel caos educativo: ma non servono le fabbriche di bocciati
D fede: Ricordate Thomas Merton?
D
terremoto (Isaia 52)
D politica internazionale: Ma è
proprio vero che gli inglesi vogliono la Thatcher?
D società: Quella malinconia di
dover essere felici che divora i
giovani delle povertà post-materìalistiche
D scienza: II dibattito sulla
scienza. Un ruolo per la critica
D libri: Per combattere la stanchezza di pensare qualche libro
per Testate
D pace: Un impegno assoluto
per la pace per ricostruire un
futuro al diritto e alla politica
1983
IL
M A R G I N E
Bl Margine n. 6 - anno 111
giugno-luglio 1983
LA SCUOLA « S E R I A »
mensile dell'associazione culturale
Oscar A. Romero
Direttore: PAOLO GHF.//I
Condirettore: Micni.Lr. NKJOI.KTTI
Redazione': L U C I A N O AX/OI.INI (dir.
resp. a norma di legaci - G I O V A N N I
BIANCONI - D A N I K I A C ì i i ' i IAM
(segretaria) - PAOLO CI 11 'ME. L i. A
RoBi-iri'o LAM Burri NI - F A U K I / H ,
MATITA'] - V I N C L N / O PASM-.KINI
M A N I A TI-HI.SA PUNTAHA - M A R I A
NO P K I . T I i - Si [.VANO Zi'CAi.
Una copia I. . 1,200 - un arretralo,
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c.c.p. n. 14/9339 i n t e n t a t o a « II
Margine », Trento.
Autoriz/azionc- Tribunale di Trento
n. 126 del [0.1.1981.
Redazione e amministrazione: « II
M a r g i n e » c.p. 359, Vìi00 Tremo.
Tip. Argeniarium - Trento
appunti
La scuola « scrìa » nel caos educativo: ina non servono le fabbriche di bocciati
3
Ricordale Thomas Merton?
6
11 terremoto I fsaia 52)
14
Ma è proprio vero che gli inglesi
vogliono la Thatcher-'
15
Quella malinconia di dover essere felici che divora i giovani
delle povertà post-materialistiehe
18
II dibattio sulla scien/a. Un ruolo per la critica
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Per combattere la stanchezza di
pensare qualche libro per l'estate
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Un impegno assolino per la pace
per ricostruire un f u t u r o al diritto e alla polìtica
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PRIMA DI LEGGERE QUESTO NUMERO
Mentre è già esiste, esce questo numero doppio del Margine di giugno e luglio
dentro le vostre medita? ioni, riflessioni, impegni, divertimenti, sospensioni e
verifiche delle vacanze.
Nel frattempo ci sono s t a t e anche le elezioni del 26 giugno, ma è troppo presto per poter dire qualche cosa e aspetteremo la formazione del governo per
cercare di capire 11 cambiamento avvenuto.
Per intanto, davvero, buona estate.
a «.tiito chiuso in tipografo l'I 1 giugno ) 983.
NEL CAOS
EDUCATIVO: MA NON
SERVONO LE FABBRICHE
^^_
DI BOCCIATI
maria celestina antonaccì
Dopo le polemiche dei mesi scorsi, gli scontri, le minacce di bloceo
di scrutini ed esami, le circolari perentorie del ministro competente,
le scuole chiudono i battenti; compiici le elezioni, l'attività che per
mesi ha visto coinvolte milioni di persone è terminata velocemente;
le segreterie hanno già esposto i risultati delle valutazioni finali,
tra pochi giorni un velo di polvere coprirà documenti e verbali, prova del regolare svolgimento delle operazioni. I giudici, quindi, hanno già pronunciato il loro verdetto, la sentenza con la quale è stata
proclamata l'assoluzione di molti e la condanna di altri: per alcuni
inappellabile. Quali condizioni, quali processi hanno portato a simili
risultati e quale significato possiamo loro attribuire? Non dovrebbe
la scuola dell'obbligo, almeno, garanti-re la completa formazione ed
educazione di tutti i bambini in età scolare?
Sono interrogativi che vale la pena di porsi prima di venire travolli
da quest'estate che incombe e di veder vanificata la nostra riflessione da scadenze improrogabili che puntualmente si ripresenteranno tra alcuni mesi. Dopo le contestazioni dell'ultimo decennio, le
occupazioni, gli slogan demagogie! e la promozione garantita, il sistema scolastico sembra ora approdato ad una nuova « serietà ». Motivo di tale valuta/ioni: sembra essere l'incremento della selezione
formale veriiìcatosi negli ultimi anni e che nel 1982 ha interessato,
secondo dati CENSIS, circa il 10% della popolazione scolastica della prima media, mentre ha inciso in modo minore sugli alunni della seconda e terza classe.
Questo fenomeno, che presenta una maggiore incidenza nelle regioni dell'Italia meridionale e che colpisce più frequentemente i bambini meno stimolati culturalmente e socialmente, è stato interpretato da alcuni come un ritorno alla discriminazione nell'utilizzo dell'istituzione scolastica, al classismo che favorisce pochi privilegiati;
da altri come il fallimento delle teorie di massificazione della scuola e dei diplomi e come risposta consequenziale alle esigenze di
diversificazione delle capacità e personalità degli alunni.
Non si vuole vedere da una parte che il diploma assicurato a tutti,
indipendentemente da ogni valutazionc di merito, non è garanzia
di eguaglianza, né strumento di promozione umana; dall'altra che
questa selettività non risolve, sic et simpliciler, i problemi e la situazione di crisi della scuola.
Infatti, questo ritorno alla bocciatura non può essere ritenuto una
garanzia di riqualificazione della scuola, la soluzione alla mancanza
di una politica scolastica seria, all'incapacità di indicare una via
di azione in grado di conciliare il reale con l'ideale. Se infatti il sistema scolastico italiano, così com'è formulato nella normativa, può
considerarsi all'avanguardia a livello europeo sul piano pedagogico,
educativo, partecipativo, va constatato che esso non ha saputo raggiungere risultati soddisfacenti sul piano operativo, non è riuscito
a garantire né una formazione nozionistica, né l'educazione del ragaz?.o. A riprova di tutto questo non va ricordato solo il fenomeno
della ripetenza ma anche quello dell'abbandono scolastico, fatti che
non possono essere imputati solo a particolari situazioni o carenze
familiari e personali dell'alunno, ma che sono anche il sintorno dell'incapacità della scuola di coinvolgere ed interessare il proprio
utente.
Il declino della scuola sul mercato delle offerte « culturali »
E' preoccupante osservare che la scuola, così com'è strutturata, e
quella dell'obbligo in particolare — che dopo la famiglia è la più
importante struttura educativa con la quale il bambino viene a contatto — non riesce ad essere polo significante per la sua crescita,
a sviluppare al massimo le capacità di ognuno, a fornire a lutti quegli strumenti che possono creare un uomo libero, critico, impegnato.
A questa inadeguatezza del sistema scolastico va contrapposta una
sempre più imponente offerta di cultura da parte di privali, di associazioni, di enti pubblici che forniscono un canale di educazione
giovanile parallelo alla scuola. Ma se questo moltipllcarsi dei soggetti formativi è il sintomo di una società aperta, in progressiva
e costante evoluzione, l'offerta così frammentata e disordinata — caratterizzala sia da beni di consumo tradizionali (riviste, libri, televisione, spellaceli) che più nuovi (tecnologie informatiche) — non
costituisce sempre momento di formazione. Così la famiglia indotta
al consumo indiscriminato dì questa « cultura », di quest'informazione, raramente riesce ad operare una scelta, ad orientare i propri filili ad un uso equilibrato dei canali extrascolaslici. Accelta co-
me fatto ineluttabile la inadeguatezza dell'allerta scolastica, addirittura non è in grado di chiedere alla scuola, per i propri figli, le
basi minime del sapere, le conoscenze basilari della nostra cultura
e della nostra storia, il saper esprimere correttamente il proprio
pensiero, che sole potrebbero aiutare ad affrontare con consapevolezza la realtà in cui vìviamo.
Da questa breve panoramica delle situazioni che spesso causano il
fenomeno della ripetenza emerge che la rigidità della scuola è sintomo della sua debolezza, del suo rifiuto, della sua incapacità di
rinnovarsi in lempi brevi, ma è anche prova che è lo scolaro la
vittima di questa condizione di squilibrio, poiché non è in grado di
rispondere a tulle le sollecitazioni alle quali è sottoposto ollenendo
sempre risultali soddisfacenti. Non possiamo illuderci che alle deficienze di istruzione, vera o presunta, si possa supplire moltiplicando i corsi di lingue, le visite guidale a città ed aziende, i corsi
di chitarra, di nuoto, di scherma, i concerti, il teatro.
Al di là di tutto ciò, credo che, resistendo alla tenlazione di irrigidimenti e chiusure, la scuola possa ancora giocare un ruolo fondamenlale, anche se non più unico, nell'educazione del ragazzo.
La scuola può, in quanto soggetto pubblico, porsi come forza mediatrice e garante di un minimo di uniformità dell'offerta. E questo è fattibile attraverso una seria autoanalisi, la ricerca di una
migliore qualità più che quantità del servizio che sì attua tramite
una migliore preparazione del corpo docente, il costante aggiornamento, la verifica e l'adeguamento dei programmi, la realizzazione
di una maggiore continuila Ira il ciclo primario e secondario.
Se vuole acquistare maggiore credibilità e dare più fiducia alla gente, la scuola non deve diventare una fabbrica di bocciati, ma un
laboratorio di maturazione e di crescita. H
a Se ognuno di voi sapesse che ha da portare innanzi a ogni costo tutti i ragazzi
e in tutte le materie, aguzzerebbe l'ingegno per farli funzionare,
lo vi pagherei a cottimo. Un tanto per ragazzo che impara tutte le materie. O
meglio multa per ogni ragazzo che non ne impara una.
Allora l'occhio vi correrebbe sempre su Gianni. Cerchereste nel suo sguardo distratto l'intelligenza che Dio ci ha messa certo eguale agli altri. Lottereste per il
bambino che ha più bisogno, trascurando il più fortunato, come si fa in tutte le
famiglie. Vi svegliereste la notte col pensiero fisso su lui a cercare un modo nuovo
di far scuola, tagliato su misura sua. Andreste a cercarlo a casa se non torna.
Non vi dareste pace, perché la scuola che perde Gianni non è degna d'essere
chiamata scuola ».
(Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa )
fede
RICORDATE THQMAS MERTON ?
paolo giuntella
Ricordate Thomas Merton? Scrittore di splendidi torrenti di montagna di spiritualità, di ascetica, di mistica monastica, era il tranquillo spiritualista delle nostre nonne e delle nostre zie negli anni
cinquanta; una sorta di fluido apologeta, di consolatorc dal linguaggio ricco e, perché no, « moderno », per suore e parroci, per conventi e persone per bene negli anni degli scrittori, dei teologi, degli
spiritualisti « proibiti », gli anni di De Lubac, Danielou, Chenu, Congar, le pére Carré, quando semi-clandcstinamente si cominciavano
a pubblicare i libri di Teilhard de Chardin.
Thomas Merton, non era « proibito », era anzi vendutissimo. Certo
nella sua prosa un po' carnai dolese di trappisla, nei suoi « semi di
contemplazione », c'era pur sempre aria fresca, quell'acqua sempre
viva delle fonti delle foreste monastichc che comunque spalancava
finestre e cuori. Ma l'effetto consolatorc, ricompositore dei conflitti
e delle piaghe del trionfalismo pre-conciliare, oggettivamente, Thomas Merton, fino alla « svolta » Io ebbe.
La « svolta » e i consensi perduti
Aveva, d'altra parte, tutte le condizioni per piacere a chi ignorava,
o voleva volontariamente ignorare, quanto avveniva dietro l'angolo,
nella panchina dei proibiti, della « nouvelle théofogie », di Esprit,
di InformatioHS Catholiques, di Signes de ìemps, di Etudes ecc.:
Thomas Merton era infatti un convcrtito. Figlio di due pittori, padre neozelandese e madre americana, nato a Prades nei Pirenei, di
ceppo quacchero ma « miscredente », viaggiatore, rampollo viziato e
un po' vitellone, laureato in lettere alla Columbia University, un po'
poeta e un po' perdigiorno, sempre inquieto però, si iscrisse al partito comunista americano. Era dunque un « comunista » quando,
tacchete, si convertì e prese la strada della trappa. Quel primo libro, La montagna delle sette balze, diciassette edizioni in italiano
(uno dei maggiori successi editoriali degli ultimi trent'anni ricorda
con orgoglio il suo editore, il « laico » Garzanti) che raccoglie la sto-
ria sorprendente della sua conversione, è effettivamente una lettura
splendida. Uno dei libri della « decisione », uno dei libri da non. dimenticare di tutti i tempi, certo di questo secolo. Splendido perché
scritto finalmente molto bene, contro la tradizione cattolica degli
storpiatori indefessi della lingua, degli stupratori della grammaticasintassi-stile-estetica, dei grigi autoproclamatisi scrittori « cattolici »
solo perché legati a qualche gonnella di prete o vescovo o solo perché edificanti o bigotti rispetto alla palude dei perdigiorno prigionieri del diavolo tentatore dello scriver bene.
Un grande libro, un grande « romanzo », che si inghiottisce senza
quella allappante fatica di tutti i libri di consumo ordinario « cattolico » e dei loro pessimi traduttori. Un libro che faceva comunque
provare un brivido di proibito, nonconformista, ma largamente autorizzato perché « apologetico ». La storia di un comunista convcrtito. Così la « Montagna » fu seguito da molte altre opere che forse
potrete anche voi scovare nei recessi delle bibliotechine di zie e
nonne, in qualche cantina parrocchiale o conventizia: Le acque di
Siloe, Semi di contemplazione, Che sono queste ferite, II segno di
dona, Ascesa alla Verità, Nessun uomo è un'isola, II pane nel deserto, II Pane vivo, Pensieri nella solitudine, Diario Secolare, Poesie,
Problemi dello Spirito, L'uomo nuovo, Vita e santità, Dirczióne
spirituale e meditazione, ìnsomma fino a quel Nuovi semi di contemplazione che, in pieni anni sessanta, segna la « svolta » impegnata
e militante di Thomas Merton e, naturalmente, la sua « caduta »
editoriale (sempre relativa perché per fortuna di fedeli lettori e di
cattoliconi conciliari, pacifisti, pre-sessantottini, terzo-mondisti e di
tutti gli altri ordini progressisti ce n'era, allora, un bel gran numero).
Ecco perché l'ostinato Giuntella, dopo due cartelle e mezzo ci viene
a menar l'aria con Thomas Merton. No. Sarebbe troppo semplice.
Un grande poeta
Si ama Thomas Merton non per schieramento. Non per la sua scelta nonviolenta militante che dalla trappa del Gethsemani nel profondo Kentucky, come don Milani la sua pedagogia dalla sperduta
Barbiana e Mazzolari la sua « parrocchia » da Bozzolo nella Bassa,
riuscì a comunicare a tutto il mondo e in piccola porzione anche
•a noi. Non perché, come sostiene la santa laica vivente e valdese
Hedi Vaccaro, una, davvero, delle ultime dei mohicani, e come io
stesso non stento a credere, Thomas Merton fu avvelenato a Bangkok il 10 dicembre dell'anno di Grazia e di Dolore 1968. Non perché
la prima nostra avventura (indimenticabile) sulle primissime ceneri
del sessantotto si chiamò « Gruppo Thomas Merton » e ci condusse
all'assaggio delle patrie galere (per aver contestato la parata militare del 2 giugno 1970, oggi ripristinata, tredici anni dopo dal ministro « socialista » Lagorio), alle prime conversazioni nella panchina di Via Monte Zcbio con Pietro Scoppola, altri fondatori della
Lega, poi Aldo Moro, eccetera. No.
Thomas Merton non sì ama per « schieramento », per « appartenenza ». Seppure anche queste sono ragioni. Thomas Merton si ama
perché è un grande poeta. Perché è un grande scrittore. Perché, nonostante oggi sia dimenticato e i suoi libri vanno pescati nei magazzini delle librerie « cattoliche » irritando i commessi, è una delle
grandi voci di tutti i tempi di questo nostro cattolicesimo che amiamo follemente nonostante le amarezze di ritorno.
Sì. Tn quell'anno di Grazia e di Dolore successe di tutto. La nascita
della « speranza rossa », la morte di Martin Luther King, di Bob
Kennedy, di Thomas Merton. Ecco perché il nostro « sessanlotto »
(non è nostalgia, basla con queste orribili piccole cose di pessimo
gusto dei reduci), quello insomma di chi si arrabbiò non poco anche con la banalità e le arroganze dottrinarie dei suoi « compagni », è più ricco e sembra non allontanarsi mai. Per noi quell'anno
è anche l'anno della morte di Luther King, Bob Kennedy e soprattutto di Thomas Merton. -
II fascino delle proprie radici
Tornando indietro a leggere Thomas Merton uno ritrova tutte le
sue « manie » e le sue radici: Thomas Merton che ama Franz Jagcrstiitter (il contadino austriaco obiettore di coscienza che fu fucilato
dai nazisti perché non voleva fare il servizio militare in assoluto
e per Hitler in particolare e che difese la sua scelta per motivi
religiosi e « cattolici » anche dall'insistenza del suo vescovo che voleva convincerlo, pastoralità e teologia alla mano, a servire il Fiihrer).
Thomas Merton che scrive alla grandissima Dorolhy Day del Catholic Worker Movemcnt, Thomas Merton che ama Simon Weil, il monaco buddhista nonviolento vietnamita Thich Nhal Manli, Martin
Luther King, Malcom X e James Baldwin, Merton che si arrabbia
fortissimo per la guerra del Vietnam, ama il movimento studentesco, i pacifisti, i nonviolenti. Merton che scrive poesie sperimentali
nel solco della Beat Generalion, che mostra di conoscere Joyce,
Thomas Stern Eliot, Allen Ginsberg, usa il nonsense e lo slang
nelle sue poesie, ama Williams Blake e Rimbaud, legge ed ama
Honhocffer e Bernanos e studia lo Zen, prima che fosse di moda.
Quell'incontro con Maritain
Come si fa a non amare Thomas Merton?
Come si fa a non considerarlo un « padre »? Ed ecco l'ultima sorpresa. Leggo con stupore nei giorni della nascita del piccolo Osca
nel libro fotografico-celebrativo di John Howard Griffin e Yves R.
Simon, Omaggio a Jacques Maritain, queste pagine di diario di Griffin dedicate all'incontro tra Merton e il nostro grande vecchio Maritain: « Mi hanno portato dentro la capanna e mi hanno sistemato su una sedia. Merton ha aggiunto della legna per accendere un
grande fuoco nel camino. Ha fatto sedere Jacques su una sedia a
dondolo vicino al fuoco e gli ha piegato la coperta intorno alle gambe. La conversazione si è fatta subito viva... ». E nella foto, in questa capanna dell'abbazia Gethsemani si vede Maritain che fuma la
pipa sulla dondolo con il suo plaid sulle gambe di fronte a Merton
in perfetta divisa trappista, e poi il racconto continua: « Merton
ci ha parlato del suo lavoro: stava facendo uno studio su Bob Dylan.
Ci ha spiegato, a Jacques e a me, che Dylan è una voce nuova,
importante, un poeta e un anfore di canzoni. Merton ci ha dato una
dimostrazione facendoci ascoltare il disco Higlnvay 61. La musica
è risuonata a pieno volume dentro la grande foresta di pini. Merton
ha spiegalo che il padre Abaie gli aveva permesso di tenere il fonografo e i dischi per le ricerche relative a quell'articolo e die ben
presto avrebbe dovuto restituirli. La musica gli procurava un gran
godimento e lui ci traduceva rapidamente le parole che ci sfuggivano quasi tutte, tutte sommerse dall'accompagnamento. La musica e
soprattutto le parole ci hanno messo di buon umore, cosa strana
per un uomo dai gusti di Jacques: invece Jacques si è lasciato trascinare ».
Ve la immaginate questa scena quel giovedì 6 ottobre 1966 quando
Bob Dylan era avanguardia semi-sconosciuta e « proibita »? Vi immaginate nientepopodimenoché Jacques Maritain che ascolta Bob
Dylan e « si lascia trascinare »?
Quando ripenso a quella scena nell'abbazia di Getsehmani sono felice, sino a sentire quel languore primaverile dell'innamoramento,
d'appartenere a questa grande, splendida, incredibile « famiglia ».
Che sono i libri di Scola per piegare Maritain ai voleri revanchisli
di don Giussani e company? Scompaiono di fronte alla ricchezza di
questo patrimonio che fotografa simbolicamente questa scena del
6 ottobre I960. Che sono le sottili e cattive accuse di Rocco Buttigliene e Guzman Carraquiry di « neo-modernismo » a noi piccola
minoranza di cattolici democratici? Spariscono nel nulla con tutta
la loro pretesa di « giudizio ». Che sono gli sfottò di salotto e di caf-
fé degli smunti amici « laici » in riflusso continuo ridotti ad ogni
cretino americanismo di ritorno, degli « imbecilli » bernanossiani tutti impegnati a raccogliere depliants e a raccontarsi viaggi e week-end,
che sono Martelli, De Michelis e Formica?
Compagno nel dubbio
Thomas Merton divenne dunque « tutto nostro » negli anni del Concilio e noi consumammo, nei retrobottega della Ditta, nelle salette
parrocchiali « scrostate », appena stinte di grigio cesso-ospedale, nelle sedi scouts, i suoi libri più adatti a veglie, provocazioni, documenti, litigate con i cattoliconi sfumatura corta e occhiali d'oro
(finti-oro): Fede e violenza, Fede Resistenza Protesta, Semi di distruzione, Emblema di un'età violenta, Diario di un testimone colpevole
(introvabile, io l'ho perduto prestandolo ad amico e compagno in
una di quelle affumicate riunioni di fede e protesta). E poi pregammo Thornas Merton, avidamente, nelle notti di solitudine, aggrappati a lui per cercare e trovare, assaliti da quei dubbi sacrosanti che
oggi i maestri di certezze vogliono negare. E poi l'abbiamo un poco perso nella nostra fretta. Ed ora, per trovarlo dobbiamo scavare
negli scantinati.
« Et il n'y aura pas d'acguittiment pour les nations
Mais seulement pour les ame une a une ».
Con questa citazione di Raissa Maritain (che segue una del grande,
forse inconsapevole, cattolico-democratico William Shakespeare)
Merton apre il suo aspro libro di poesie Emblemi di un'età violenta.
Sì. Traducendo in chiave storica la stupenda affermazione teologico-spirituale di Raissa Maritain, ho sempre creduto che il movimento cattolico, il cattolicesimo democratico, il cattolicesimo conciliare
della ricerca continua, insomma il cattolicesimo anche senza aggettivi quello che è fede e non religione, popolo e rapporto interpersonale con il Logos fatto carne, con il Cristo, con l'immenso padre
grande consolatore e abbracciatorc di uomini, è la somma di biografìe e non la somma di ideologie, culture, identità. La nostra storia, la nostra teologia di vita, le nostre radici non sono né un « Capitale » né una « Summa », né un sistema e neppure un antisistema.
Ma la storia di persone, biografie, stili di vita e di comportamento,
capacità di amare, capacità di fedeltà, anche nelle infedeltà e nell'amarezza di tradimenti, capacità di comunicare anche nelle rotture
di comunicazione, anche nell'incapacità (questa è la temporalità) di
rapporti interpersonali compiuti, privi di lacrime, di solitudini, di
rimorsi e inguaribili nostalgie.
1(1
Ideologie o persone vive?
S(, « noi » siamo biografie. Nel bene e nel male. Non. c'è dubbio.
Ma biografie che completano (e possono anche, ma solo parzialmente, inzaccherare) la Parola di Dio, la Bibbia. Questa è la nostra
radice perché il Logos, il nostro Messaggio si è fatto persona e non
libro, non dottrina politica, né teologia. Persona. Per questo a chi
con un po' di sorriso di sufficienza mi accusa di scrivere articoli
che contengono sempre lunghi elenchi di persone, ripeto: sì, persone, perché noi non siamo soli, mai, e quello che pensiamo, che
ci sforziamo di fare (con tanti tradimenti e pigrizie) non nasce da
ideologie e teologie ma da persone che hanno scritto, pensato, certo, fatto anche teologie, culture, persino ideologie, ma che sono persone uniche e irripetibili. E i loro scritti valgono perché « erano
loro », non perché quanto hanno scritto fosse cultura o scienza
astratta o identità cristiana di massa definita in regole o ideologie.
Ecco perché sento Thomas Merton, e Rahner, e Congar e Chenu, e
Mounier e tutta la compagnia de Les Murs blancs o Jacques e Raissa
Maritain e tutta la compagnia di Meudon, e tutti, tutti gli altri, come « i nostri », quelli morti e quelli, per fortuna, ancora vivi.
Una sfida contro l'oblio colpevole
Un lettore, una volta mi ha detto (questo benevolmenle, anzi tentando un elogio, che però parve ad una prima lettura un po' malconcio) che io sono « un grande necrologo », riferendosi evidentemente ai tanti ricordi di personaggi scomparsi, al mio vizio di celebrare gli anniversari. Sì, è vero. E' compito che per istinto ho scelto e che risponde alla necessità di fare memoria storica perché, come ha scritto Milan Kundera, è l'oblio l'oppio dei popoli. Ma c'è
qualcosa di più. Se noi siamo biografie, se noi esistiamo come piccola minoranza (talvolta, ed è un peccato, anche un pochino presuntuosa) lo siamo per questo corteo senza fine di persone, per queste
grandi amicizie che scavando nei diari poi ti accorgi collegavano
quasi tutti, per questo piccolo mondo nel quale vieni a scoprire
che un giorno Jacques Maritain, l'amico di Mounier, di Montini,
di Danielou, di Chenu, di Chagall, di Rouault, di Cocteau, di Peter
van der Meer e moglie eccetera eccetera, ha passato un pomeriggio
in una cella dell'abbazia del Gethsemani, in quel Kentucky che da
qui ti immagini fatto soltanto di coltivatori di mais, ad ascoltare
un trentatré giri di Bob Dylan con Thomas Merton.
E così scopri che persino in questo non sei stato solo e i tuoi « mae-
11
stri », anche quelli « invisibili », che insomma non hai mai visto, in
qualche modo ti hanno preceduto.
A volte penso con tristezza: Osca, che avrà diciottanni nel 2000, si
ricorderà di Thomas Merton? E scrivo anche per lui. Anche se il
futuro di Thomas Merton, come dì ogni grande amicizia planetaria,
di questo filo rosso che unisce da secoli misteriosamente pattuglie
di uomini di simile sensibilità a migliaia di chilometri di distanza,
dipende non solo dalla memoria storica, ma dal nostro futuro, dalla
nostra capacità di far nascere educare e maturare nuovi Thomas
Merton. Allora la sete di ricordare, di vincere l'oblio e i nuovi barbari cristiani della restaurazione e della paura dello Spirito Santo,
diventa nostra responsabilità, la nostra ora, il nostro Adesso, e
vengono i brividi per la nostra inconsapevolezza, per le nostre fragilità, per le nostre cattiverie e disperazioni narcisiste,
E ancora, però: non è nostalgia girare per Roma da « Palazzo » a
« palazzo », sognando in vespa, nel traffico arrogante e cinico, la cocolla di fratel Louis, di Thomas Merton, la piccola Francoise di
Emmanuel Mounier, Joan Baez e il visone tondo e nero di Albert
Luthuli, il faccione di Vittorio Bachelet, la tonaca dimenticata di
padre Pire, la faccetta di Maritain che ascolta un trentatré di Dylan.
E' la nostra comunione dei santi. E alla comunione dei santi bisogna credere. Non è dunque necrologia. E' comunione con i santi, fede nella comunione dei santi. E ancora brividi. Talvolta nei
miei ragionamenti solitari in vespa nelle vie di Roma immagino
l'arrivo alla pergola dell'osteria del Vecchio d'Israele quando Benedetto Giuseppe Labre, il santo barbone-pellegrino morto duecento
anni fa di questi giorni nel rione Monti e dimenticato dai celebratoti abituali come un santo di serie B, mi dirà: « caro Paolo, tu
hai avuto tutto nella vita. Anche i libri e le facce di Thomas Merton, di Yves Congar, di Marie-Dominique Chenu, di Pierre Teilhard
de Chardin, di Emmanuel Mounier, di Oscar Arnulfo Romero, di
Giorgio La Pira, di Albert Luthuli, di Gandhi, di Martin Luther King,
di Karl Rahner, di Helder Camara, di Vittorio Bachelet, di Peter
van der Meer, di Ivan Illich, di Joan Baez, di petite soeur Magdeleine
de Jesus, di Dorothy Day e Madeleine Delbrel... vuoi che continui
l'elenco? E che ne hai fatto? Io avevo soltanto i palazzi dei cardinali principi dediti a banchetti e feste... E tu che ne hai fatto dei
" tuoi "? Mi dispiace Paolo, ma l'Osteria per te è chiusa. Niente
vino di Cana. Niente barba di Aronne. Niente canti di Mahalia
Jackson, niente concerti di Joan Baez e Louis Armstrong nella Valle di Josafat annessa all'osteria. Il tuo paradiso l'avevi già avuto
sul pianeta terra e l'hai dissipato ».
12
Impariamo a sostenere i raggi dell'amore
Ecco io credo che l'inferno esista e sia questo essere privati delle
grandi amicizie appena sfiorate sui libri, i televisori, le famiglie del
pianeta terra in questi anni stupendi esplosi negli anni di Grazia
del Concilio.
Uno dei libri postumi di Thomas Merton, II clima della preghiera
monastica, si apre, nella prefazione di Douglas V. Steere, con una
citazione di William Blake:
« Noi siamo stati mandati sulla terra per un breve spazio di tempo
affinchè impariamo a sostenere i raggi dell'amore ».
Questa è la sfida che Dio ci propone e nella quale ci giochiamo l'ingresso sotto il pergolato dell'Osteria del Vecchio d'Israele. Riusciremo a imparare a sostenere i raggi dell'Amore?
Il « vecchio » Thomas Merton, non solo monaco, non solo scrittore
mistico delle acque di SÌIoe e della fede che si fa resistenza e talvolta protesta, ma grande, arduo, tutto « laico », poeta d'avanguardia, Thomas che ha saputo piegare la penna alla Ribellione e alla
Bellezza respingendo gli scipiti sciroppi delle polverose nostrane
cittadelle, ci indica la strada per rispondere all'interrogativo del
verso di Blake, per battere il saporito languore della disperazione,
la pigra tentazione del rifugio depresso.
« La notte cala su di noi, e ci ritroviamo privi della serenità e delle
realizzazioni dei nostri padri. Non credo che questo sia necessariamente un segno dì fallimento, ma forse un miglior motivo di confidare più pienamente nella misericordia di Dio e di entrare più
a fondo nel suo mistero. La nostra fede non può più servirci
solamente da tranquillante. E' necessario che sia la Croce e la Resurrezione di Cristo. E lo sarà, per tutti coloro che lo desiderano ».
NOTA. Tutti i libri di Thomas Merton citati sono editi da « Garzanti » tranne
Fede e Violenza, Fede Resistenza Protesta, che sono editi dalla Morcelliana. E' pure
della Morcelliana il libro indispensabile per gli amanti ostinati di monachesimo,
solitudine benedettina e camaldolismo cronico, Vita nel silenzio. Merton ha anche
scritto Mistici e Maestri Zen e Lo Zen e gli uccelli rapaci, due libri che testimoniano Ì suoi ultimi interessi ecumenici monasdci e la attentissima riflessione sulla
spiritualità orientale. Oltre al citato Emblema d'una età violenta, una fondamentale raccolta di poesie di Merton è Cablogramma e profezie. Tutti questi libri sono
editi da Garzanti.
In una nota al suo diario sull'incontro tra Merton e Maritain, John Howard Griffin
ricorda che lo studio di Thomas Merton su Bob Dylan, per la rivista « Jubilee »,
non è mai stato portato a termine « anche se l'interesse di Merton per il lavoro
di Dylan è rimasto vivo sino alla fine».
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polìtica internazionale
IL TERREMOTO (Isaia 52)
Vai a dire alla terra dì tremare
Di' alla folgore di destare
IL CIELO
Di' alle nuvole di rompersi
Chiama il mio popolo sulla soglia
Che esso veda I
Ecco che nasce il nuovo mondo
Ed il vecchio è terminato
11 mio popolo si radunerà.
Vai a dire alla terra di tremare
Al passo tonante dei messaggeri
Di pace
E proclama la mia legge d'amore
Alle nazioni!
Gli antichi mali son cancellati
Gli antichi giorni sono passati
Ecco che nasce il nuovo mondo
II mio popolo si radunerà.
Vai a dire alla terra di tremare
Al passo tonante dei messaggeri
Di pace
E proclama la mia legge d'amore
Alle nazioni!
Gli antichi delitti sono scordati
Le antiche strade colmate
10 strappo l'odio e la guerra
11 mio popolo si radunerà.
E' finito questo vecchio mondo
II cielo antico sì è lacerato
E il giorno nuovo è spuntato
Mai più essi avranno le guerre
Mai più essi sì odieranno
II mio popolo si radunerà.
Vai a dire alla terra di tremare
Al passo tonante dei messaggeri
Di pace
E proclama la mia legge d'amore
Alle nazioni!
Mai più esse avranno odio
L'oppressione è finita
I vecchi mali son tutti spariti
II mìo popolo si radunerà!
Thomas Merton
MA E' PROPRIO VERO CHE GLI
INGLESI VOGLIONO LA THATCHER?
giovanni bianconi
L'ex star di Hollywood Ronald Reagan, da qualche tempo alla guida di una delle più grandi nazioni del mondo, la sera del 9 giugno,
ha telefonato alla signora di ferro Margaret Hilda Thatcher, che
stava stravincendo le elezioni inglesi, per farsi portatore di un « messaggio divino ».
« Dio ti benedica! » le ha detto, e Maggie, a queste parole, dev'essere impazzita di gioia, come era già successo a Williamsburg, quando Ronnie le aveva confidato che fra tutti i capi di stato e di governo riuniti in quel paradiso settecentesco, il « vero uomo » era lei.
La telefonata dell'ex cow-boy è giunta a coronare una festa grandiosa ìn corso a Downing Street, durante la quale sono arrivati telegrammi di congratulazioni un po' da tutto il mondo; uno ne è
giunto pure dal Sudafrica, dove il primo ministro Botha, probabilmente un po' preoccupato da tutte le proteste che arrivavano nel
suo Paese per l'impiccagione di tre giovani di colore appartenenti
al movimento della resistenza, avvenuta la stessa mattina del 9, ha
scritto alla « nuova regina » d'Inghilterra che « il Sudafrica, dopo
questa vittoria, guarda con conforto alla continuazione delle relazioni di sincera amicizia che felicemente esistono fra i due Paesi ».
Può comunque stare tranquillo; non sarà certo Margaret Thatcher
a protestare, né ora né dopo, per qualche negro impiccato.
Dunque, un trionfo senza precedenti per la iron lady, sigillato da
così affettuose manifestazioni d'affetto da parte della crema dei governanti d'occidente. E' stato ripetutamente scritto e detto che la
sua vittoria sancisce la svolta a destra e il trionfo della politica
basata sulla fermezza e l'intransigenza; la gente è disposta a pagare
anche costi altissimi (13% di disoccupazione, per esempio) pur di
vedere alla guida del governo un « uomo forte », e il fatto che la
Thatcher abbia spazzato vìa i suoi avversari lo dimostrerebbe in
maniera inconfutabile. Ma è vero tutto ciò? Si può dire che la ricetta della Thatcher ha conquistato il popolo del Regno Unito, consacrandola come l'incarnazione di una nuova età vittoriana?
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14
Le distorsioni del sistema elettorale uninominale
Guardando alla distribuzione dei seggi nel nuovo Parlamento britannico, parrebbe proprio di sì, ma è necessario, per una valutazione completa e più logica, in considerazione del sistema elettorale
britannico, andare oltre e dare uno sguardo alle cifre assolute, alle
percentuali, alla distribuzione del voto. Il Partito Conservatore, dopo il voto del 9 giugno, dispone di 397 seggi, che costituiscono la
maggioranza assoluta, contro i 207 dei laburisti, i 23 dell'Alleanza
fra liberali e socialdemocratici (che ne hanno rispettivamente 17
e 6) e i 21 fra formazioni minori e collegi riservati all'Irlanda del
Nord. I conservatori avranno dunque, rispetto al '79, 58 deputati in
più, i laburisti 59 in meno. In termini di voti però, il Partito di
Mrs. Thatcher ha ottenuto 12.991.377 consensi contro i tredici milioni e settecentomila del 1979, quando ancora gli inglesi non conoscevano le medicine che la signora di ferro aveva intenzione di
somministrare alla nazione; oltre settecentomila voti in meno, in
una consultazione in cui c'è stato un afflusso alle urne fra i più elevati degli ultimi tempi.
I laburisti hanno effettivamente subito un tracollo anche sul piano
del consenso, passando da 11.509.524 a 8.437.120 voti. L'alleanza liberali-socialdemocratici invece, che è da considerarsi opposizione
a tutti gli effetti alla « cura Thatcher » (il leader David Steel ha messo in guardia, alla vigilia del voto, dal pericolo del Big Brother dì
George Orwell, che stavolta è rappresentato da una Big Sister) ha
ottenuto un rilevantissimo successo raccogliendo più di sette milioni e settecentomila voti che però non hanno quasi nessun peso
nel Parlamento proprio per via del sistema a collegio uninominale.
Con il sistema proporzionale, di seggi ne sarebbero andati 276 ai
conservatori, 180 ai laburisti e 164 all'alleanza, il che avrebbe significato per la Thatcher intanto la necessità di fare una coalizione, e
quindi assumere posizioni meno dure ed estremiste, e poi la presenza di un'opposizione parlamentare in grado di condizionare le scelte di governo. Era stato detto anche, alla vigilia di questo appuntamento elettorale, data per scontata la vittoria dei conservatori,
che esso rappresentava una sorta di referendum sulla Thatcher.
Allora, se così era, questo referendum la signora di ferro Io ha perso perché l'opposizione ha totalizzato, insieme, oltre quindici milioni di voti, contro i quasi tredici raccolti dal Partito conservatore.
E' solo perché alla Camera dei Comuni queste proporzioni sono
state snaturate nella distribuzione dei seggi che la Thatcher potrà
continuare a governare come e con più durezza e arroganza di prima.
E sempre grazie solo ed esclusivamente al sistema elettorale, diversi seggi di quelli riservati all'Ulster saranno occupati da rappresen16
tanti unionisti e protestanti, nonostante che in quei collegi si sia
espressa, divisa fra i due partiti del Sinn Fein e socialdemocratico,
una maggioranza cattolica e nazionalista. E' una ulteriore disfunzione di un meccanismo congegnato per governare, non certo per dare
rappresentatività alla volontà popolare. Del resto, in Gran Bretagna,
sovrano non può certo essere il popolo, visto che già c'è la regina.
In sostanza non ha vinto la Thatcher, hanno perso i laburisti (cosa
sulla quale dobbiamo riflettere attentamente, magari in un altro
momento), sono stati defraudati liberali e socialdemocratici. Ha
scritto lo storico inglese e leader del movimento pacifista di lassù
Edward Thompson, che la cosa che più lo irrita della Thatcher, è
l'atteggiamento, da parte sua, di volersi comportare come il capo di
stato di una grande potenza senza averne la forza. Ha ragione, e la
conferma viene dal fatto che subito la fìrst lady ha sfruttato quel
po' di vento (tutto artificiale) che sottia in suo favore, per sostituire
nel governo i « falchi » alle « colombe », per mostrare i denti con gli
alleati europei, per tentare di sbarazzarsi dei sindacali. Da ultimo
poi, è giunta la notizia che quanto prima ai Comuni si voterà per
la reintroduzione della pena di morte in Gran Bretagna, materia
sulla quale già l'altr'anno la Thatcher aveva votato, insieme alla
estrema destra conservatrice, ma senza successo. Quest'anno, nel
nuovo Parlamento, ha deciso di riprovarci. Il telegramma del primo ministro sudafricano, deve averla commossa proprio tanto. •
« L'uomo chiese una volta all'animale: perché non mi parli della tua felicità
e soltanto mi guardi? L'animale dal canto suo voleva rispondere e dire: ciò
deriva dal fatto che dimentico subito quel che volevo dire — ma subito dimenticò anche questa risposta e tacque; sicché l'uomo se ne meravigliò ».
(F. NIETZSCHE, Sull'utilità e H danno della storia per la vita)
17
1.
società
QUELLA MALINCONIA DI DOVER
ESSERE FELICI CHE DIVORA E GIOVANI
DELLE POVERTÀ1 POST-MATERIALISTICHE
fabrizio mattevì
Perché nell'universo giovanile viene meno l'entusiasmo alla vita?
Perché tanta indifferenza e cupa rassegnazione? Perché lo stare nel
mondo si riduce ad una noiosa incombenza, tanto malsopportata, da
rischiare di perderla pur di poterla fuggire? Perché questa inafferrabile immobilità, che ricorda le atmosfere di un quadro di De
Chirico?
Non sono domande retoriche o eccessive, perché se da una parte
riesce difficile schedare la realtà giovanile, soprattutto quella dei
minori di venti anni, dall'altra stanno, inoppugnabili, i segni dolorosi del suo malessere. Un disagio diffuso, vistoso, percepibile a
livelli ormai epidermici, che trova sfogo nel consumo di droga, nell'abuso di alcool e farmaci (fenomeni questi particolarmente diffusi),
nell'aumento dei disturbi mentali (esaurimenti nervosi, depressioni,
schizofrenie...), nella tentazione del suicidio (che si va estendendo
addirittura tra i bambini), nel fascino del teppismo, della violenza
gratuita ed immotivata, nella familiarità con comportamenti di criminalità spicciola. Non sempre si arriva ad esiti tanto drastici. Per
lo più quella noia rabbiosa conduce la maggior parte dei giovani
solo alle soglie di questi atteggiamenti, a quella frontiera indefinita
in cui normalità e devianza, legalità ed illegalità si confondono.
Tentiamo allora di darci qualche ragione di questo stato di cose,
d'immedesimarci in questa situazione, che non è eccezionale ma regolare, non è culturale ma esistenziale, non è individuale ma collettiva.
Va però premesso che mai nessuno schema concettuale riesce ad
esaurire l'originalità di una singola esistenza. Ogni storia di disagio
o di devianza possiede sempre una sua unicità. Le linee di tendenza
generali infatti assumono sfumature diverse nella vita di ciascun
individuo, poiché infiniti sono i fattori che condizionano il destino
di una persona, in una inestricabile ragnatela di elementi individuali ed elementi sociali. Non va poi trascurato che nella storia di un
uomo gioca sempre una componente, pur minima, di responsabilità
e scelta personale, insondabile a qualsiasi teoria.
LA LUNGAGGINE ADOLESCENZIALE
Una prima considerazione che va tenuta presente, nell'esaminare la
condizione giovanile, è che l'età dell'adolescenza è di per sé, da
sempre, un periodo fisiologicamente difficile. In questa fase della
vita infatti (che va dagli undici ai sedici anni) l'individuo lascia le
sicurezze dell'ambiente familiare per andare a misurarsi con il mondo. E' un passaggio delicatissimo, su cui incidono le minime sfumature e nel quale vengono alla luce le conseguenze delle vicende
infantili, dei rapporti familiari, dei criteri educativi. Si tratta dunque di un'età già potenzialmente rischiosa, sulla cui evoluzione incidono gli atteggiamenti dei genitori, i modelli di comportamento
da loro trasmessi, la qualità dei rapporti interpersonali intrapresi,
la disponibilità e l'aiuto offerti dai gruppi amicali e dalle associazioni ricreative, il clima scolastico, l'attenzione, la pazienza e la discrezione di tutto l'ambiente circostante.
Il bambino si cimenta con il mondo affascinato dall'illusione di poterlo conquistare, attirato dall'ebbrezza di farsi adulto e poter verificare le proprie forze. Ma insieme rimane, velata, la paura di questa prova, l'ansiosa insicurezza di chi ancora non conosce i propri
mezzi, le sue capacità, e sa di rischiare. Da una parte una tendenza
progressiva spinge verso la propria autonomia, dall'altra un timore
profondo ed imprecisato innesca una tendenza regressiva che induce a desiderare l'universo dell'infanzia, dove la presenza calorosa
della madre assicura sicurezza e protezione (non è un caso se alcuni psicanalisti forsennati hanno visto nel consumo di eroina un
desiderio perverso del seno materno: presa con le dovute precauzioni, l'immagine può risultare significativa).
Attraverso questo travaglio drammatico, fascinoso e terribile insieme, sono passate, da sempre, tutte le generazioni e tutti gli individui, se pur con modalità diverse e di conseguenza con esiti di volta
in volta distinti. Ma questa naturalità del disagio adolescenziale acquista oggi una sua particolare fisionomia, che ne accentua difficoltà
e pericoli.
Adulti a metà
Un primo elemento aggravante, facilmente riscontrabile, è costituito
dallo smisurato dilatarsi del periodo adolescenziale. Il frequente
protrarsi degli studi fino a 20 o addirittura 25-28 anni; la carenza di
posti di lavoro ed il diffondersi massiccio della disoccupazione; la
mancanza di alloggi e quindi il protrarsi nel tempo del matrimonio,
19
18
in attesa di una casa; la latitanza di motivazioni forti a cui affidare
il senso della propria esistenza: sono tutti fattori che impediscono
ad un ragazzo di realizzare quell'autonomia (economica, lavorativa,
affettiva, ideale e di conseguenza psicologica) che costituisce una
condizione essenziale per uscire dalla fase adolescenziale. II protrarsi nel tempo del distacco definitivo dalla famiglia crea una situazione perversa. E' l'anomalia di una realtà in cui, da una parte
si è venuta abbassando rispetto al passato la soglia fisiologica della
pubertà, mentre dall'altra si va alzando la scadenza della maturità
sociale.
I ventenni oggi si trovano spesso in una condizione di adulti a metà,
che appesantisce la quotidianità, incupisce gli animi, causa conflitti
e frustrazioni profonde soprattutto all'interno del contesto familiare.
Naturalmente questo stato di cose, che costituisce per i più una prospettiva inevitabile, comincia ad incidere già nelle età più basse.
Mancanza di riti di passaggio
La precarietà adolescenziale si accentua poi per quella che, alcuni
psicologi, hanno chiamato « mancanza di riti di passaggio ». A differenza delle popolazioni primitive e delle nostre società tradizionali
oggi abbiamo smarrito tutte quelle pratiche iniziatiche, più o meno
simboliche, attraverso le quali un adolescente poteva dimostrare a
se stesso ed alla collettività il proprio passaggio al mondo degli
adulti. Non esistono più segni, simboli, esperienze codificate che
esplicitino in modo tangibile fa conquista della propria maturità.
Le tappe della crescita sono incerte, labili, sfumate.
Quando un giovane può considerarsi adulto? Quando le sue opinioni e le sue decisioni contano come quelle degli adulti? E quali sono
le peculiarità dell'adulto (indipendenza economica, indipendenza esistenziale, indipendenza culturale, indipendenza civile dopo i diciotto anni...)?
Gli unici riti di passaggio rimasti sono il diritto al voto, che certamente non è sentito come motivo di fierezza, e l'esame di guida, che
non a caso è vissuto, soprattutto dai maschi, con molto coinvolgimento, in quanto segno ostentabile della propria raggiunta maturità.
Il dovere di essere giovani e felici
Una ulteriore esasperazione della condizione adolescenziale viene da
quel « milo del giovanilismo » che rappresenta uno dei valori più
solidi della nostra ideologia sociale.
Le leggi pubblicitarie, per esigenza d'immagine, tendono ad enfatizzare il personaggio giovanile (sia esso il ragazzo o l'adulto che sa
mantenersi giovane); la logica della produttività richiede un dinamismo quotidiano ed una efficienza di prestazioni che sono appannaggio dei più giovani; la pratica del consumismo, con l'edonismo
che la sostiene, esalta la vivacità, l'ebbrezza, la curiosità tipiche della gioventù. E' l'intero sistema sociale a privilegiare la figura del
giovane e a chiedere a tutti comportamenti, mentalità, costumi giovanili: la fatica, lo stress, la malinconia della routine, il disagio fisico, l'indebolimento del corpo, non devono trapelare. Il periodo
della giovinezza è visto come l'età dell'oro, come il tempo della
possibile felicità. Lo status di giovane diventa il modello assolutamente positivo, in quanto viene fatto coincidere, in modo distorto,
con la stagione della bellezza, dell'amore, dell'allegria, della libertà, della potenza fisica, della spensieratezza.
Da un simile contesto deriva che un ragazzo non può non essere
felice, vista la sua età (« ...avessi io la tua età! »). La sua tristezza
esistenziale e la sua insoddisfazione rimangono incomprensibìli, anzi sono da rimproverare. Nella nostra società dunque la condizione
giovanile viene caricala di una positività che essa di fatto non possiede, ed oggi meno che mai. Le conseguenze di questa mistificazione sono pagate in primo luogo dai giovani stessi, che non comprendono i motivi di tanta invidia nei loro confronti e ne derivano
spesso complessi e frustrazioni, mentre le loro reali difficoltà restano incomunicate; in secondo luogo dagli anziani, che, in quanto
privi delle « virtù » giovanili, divengono il totalmente altro dai miti
sociali dominanti e per questo sono messi da parte.
In tal modo il disagio giovanile viene rimosso e colpevolizzato dalla
coscienza sociale, in quanto anomalo ed immotivato.
2.
LA POVERTÀ' POST-MATERIALISTICA
Questa anomalia, dovula a dinamiche sociali ed cconomìche proprie
della nostra società, che vizia la condizione adolescenziale, s'inserisce in quell'orizzonte complessivo centrato sul primato del benessere materiale che abbiamo cercato di raccontare su queste pagine.
Ecco allora che, al di là dei vari elementi (psicologici, pedagogici,
sociologici, storici...) che interagiscono nell'universo giovanile, risulta decisivo il pericoloso coniugarsi di una particolare situazione individuale (lungaggine adolescenziale) ed un preciso contesto collettivo (morale del consumo).
L'incertezza tipica dell'esistenza giovanile, dovuta spesso ad uno
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stato di precarietà e dipendenza economica, trova nell'ideobgia del
consumismo un'aggravante. Infatti, di fronte alla proposta pubblicitaria che promette consolazioni attraverso l'acquisto di sempre nuovi prodotti, la ristrettezza economica risulta un handicap grave ed
inoltre induce a scaricare sulla mancanza dì denaro la responsabilità di tutte le proprie tristezze. Ed è così che, trovato un lavoro,
i primi stipendi vengono spesso bruciati nelle spese più fastose. Ma
potremmo dire che questo aspetto rimane, tutto sommato, secondario, in quanto, nella media, un ragazzo riesce attraverso la generosità dei genitori o qualche lavoro saltuario ad assicurarsi una fonte di reddito sufficiente per rispondere alle sollecitazioni più forti
del mercato.
Ben più grave è invece un secondo fenomeno indotto dall'ideologia
del benessere: la cultura consumistica, assolutizzando artificiosamente la sfera dei bisogni materiali, trascura ed atrofizza la sfera dei
bisogni non-materiali, vale a dire i bisogni ideali, spirituali, affettivi,
relazionali ... tutte quelle dimensioni indispensabili per individuare
e definire un senso significativo all'esistenza. E' qui, in questa svista
ed in questo silenzio, che si determina la marginalità del popolo giovanile.
A questo proposito riesce illuminante l'in lei-prelazione fornita dal
CENSIS, nella sua indagine sulla povertà in Italia, là dove individua,
proprio nell'area giovanile, una condizione di « povertà post-materialistica ». Accanto ad una povertà materiale, ancora presente e non
trascurabile, legata ad una deficienza di reddito, di lavoro, di salute,
di abitazione, ad una difficoltà nefl'accedere ai servizi di assistenza
(asili, scuole, ospedali, centri per anziani, per handicappati, ecc.),
esiste una povertà dovuta ad una insufficiente soddisfazione esistenziale.
« Questo tipo di povertà post-materialistica sarebbe tipica di una
società post-ìndustriale, cioè di una società che ha concluso il suo
ciclo d'industrializzazione, di modello di società industriale, perché
ha concentrato tutte le sue risorse sulla dominanza di tipo economico e che, attraverso questo modello di sviluppo, finisce per creare delle povertà post-materialistiche che sono caratterizzate dal fatto che gli individui non hanno più la possibilità di trovare nel sistema sociale delle risposte ad alcuni bisogni primari. Sono appunto quelli del rapporto umano di un certo valore, di una certa intensità, di una certa profondità; che sono quelli di avere un sistema di
valori o un sistema di riferimenti individuali e collettivi che diano
delle risposte e che situino l'individuo rispetto alla vita, rispetto alla morte, rispetto ai processi di malattia... Le persone che si dedicano alla tossicodipendenza sono persone i cui bisogni fondamentali, primari, esistenziali, non trovano in alcun modo possibilità di
22
soddisfazione nel tipo di organizzazione sociale che esiste nella società, per cui soffrono una situazione di povertà, in quanto non
possono sopportare bisogni la cui importanza è tale che la loro mancata soddisfazione può portare alla disperazione, all'angoscia, alla
morte.
Se dunque noi trasportiamo lo schema della povertà, cioè il non
poter soddisfare i bisogni indispensabili, senza la cui soddisfazione
si muore, vediamo che nella società attuale ci sono persone che non
possono soddisfare certi bisogni di rapporti umani, d'identità, di
affettività, di scambi d'esperienze, di socializzazione, che hanno la
stessa importanza che nelle società pre-industriali avevano bisogni di
sussistenza, di alimentazione, di conforto immediato e ciò senza
dimenticare, comunque, che molti di questi bisogni materiali sono
tutt'ora riscontrabili in maniera drammatica nel nostro paese » (Rivista del CENSIS).
Alla luce di questa analisi si possono meglio intendere alcuni dei
fenomeni che attraversano il mondo giovanile. Si pensi alla ricerca
affannosa del nucleo di amici o di compagni, con cui costruire una
propria identità di gruppo, spesso fortemente simbolica e ritualizzata: è la speranza di vincere la solitudine con la sicurezza di sentirsi parte di un qualche cosa. Trova pure conferma quel desiderio
profondo di attenzione, di ascolto, di dialogo, che emerge a fatica,
ma potente, nei momenti dì difficoltà e di crisi personale: è la richiesta, spesso implicita, di percorrere sentieri solitamente elusi. Ed
ancora si comprende il diffondersi di chiromanzie religiose di vago
sapore orientale, il fascino della meditazione e del suo silenzio denso di emozioni: non è tanto una rinascita religiosa, che in queste
forme sarebbe pericolosa, quanto una domanda d'assoluto, di confronto con l'enigma dell'uomo per rintracciarne il filo rosso che lo
attraversa. Al fondo sta la volontà di uscire dall'angoscia della ripetizione consumistica, di lasciare l'efficientismo mondano, di liberarsi
dalla sensazione di essere un anonimo don Chisciotte disperso sulla
terra.
Questo smarrimento dell'assoluto è un dato che non va sottaciuto.
Non si tratta di un venir meno dell'esperienza di fede, ma dell'annullamento del dilemma stesso intorno alla fede. Dio è morto da
tempo, per cui non ci si preoccupa più neppure di alzare gli occhi
al cielo. Constatiamo così la totale assenza di una prospettiva lungimirante, capace di andare oltre la pura contingenza, oltre la casualità e l'immediatezza quotidiane. Questa ristrettezza di visuale
che non sa guardare al di là dell'attimo presente, impedisce di considerare la propria esistenza nella sua essenzialità, di concentrarsi
sulle scelte ed i passaggi decisivi, di non lasciarsi distrarre dai ca23
pricci del momento: tutto è allo stesso modo importante ed insignificante assieme. Questa miopia abbandona gli individui alla banalità
dei loro gesti, cosicché le realtà della morte, del dolore, del fallimento, dello scacco esistenziale, allorché precipitano all'improvviso
nella propria vita, risultano incomprensibili ed assurde: lasciano
sgomenti.
Queste annotazioni sull'oblio di un assoluto si legano alle analisi
già note sulla secolarizzazione della nostra società, con la differenza
che qui non si ha più a che fare con tendenze culturali, ma con
situazioni esistenziali che investono la sfera dei bisogni essenziali.
Il mito positivista del trionfo del profano non ha saputo liberare
gli uomini: la speranza nella libertà e nell'autonomia dell'uomo hanno generato una ulteriore dipendenza ed altre insoddisfazioni; la
negazione dell'assoluto si è ridotta alla perdita di un qualche cosa
di cui si avverte la mancanza.
Una nuova povertà dunque, che come ogni povertà implica una certa qual forma dì marginalità. A fronte dell'opulenza pubblicitaria
vi è l'indigenza interiore, che invoca una nuova ricchezza di senso,
d'idealità, di vitalità... Davanti a questo appello confuso la responsabilità della società adulta, sospettosa ed indifferente, è tremenda ...
perché, si sa, la rabbia dei poveri può esplodere, all'improvviso, in
modo incontenibile.
Lo scarto tra giovani e adulti
Questa particolare fisionomia della realtà giovanile sembra indicare
uno scarto vistoso tra i valori, le proposte, gli obiettivi dei padri e
le domande, le aspirazioni, le attese dei figli: un conflitto tra norme sociali e mete giovanili.
Da una parte un sistema sociale che dal dopoguerra in avanti ha
fatto del benessere materiale il fine della propria strategia politica
e sociale, e per questo ha lottato con decisione, fino a raggiungerlo
e farne motivo di vanto e soddisfazione. Con questo stato d'animo le
passate generazioni guardano alle nuove e da questa angolatura riesce naturale l'interrogativo che spesso sale dall'opinione pubblica:
« cosa vogliono ancora questi ragazzi? Ormai hanno lutto e non si
fa loro mancare nulla! ». A chi ha vissuto il precedente travaglio economico risulta immorale l'apatica malinconia giovanile. Per loro la
abbondanza materiale è infatti un punto d'arrivo.
Dall'altra le giovani generazioni si trovano a godere immediatamente dell'opulenza consumistica, tanto da ritenerla scontata ed
<ivvi;i. F.ssa non costituisce più un motivo di orgoglio e fierezza, ma
un dato banale. Le mete e le aspirazioni non possono non essere
altre. Ed è proprio da questo bisogno d'altro che nasce l'insoddisfazione, tanto più radicata quanto più tutt'intorno si va esaltando
il valore del possesso e del consumo. Nel contesto giovanile la ricchezza materiale è solo il punto di partenza, un presupposto, come
dice Cristina F., frequentatrice troppo famosa dello « zoo di Berlino ».
Ciò significa che gli adulti e la loro società si fermano a ciò che per
i più giovani può essere solo l'inizio della loro esperienza. Forse i
figli si attendono quelle motivazioni forti e quelle tensioni coraggiose che hanno animato l'impegno passato dei genitori, ma sono
andate perdute nel corso del boom economico.
Per questa dimenticanza continuano a diffondersi nuove povertà.
Il tempo dell'assenza
Nel concludere questa riflessione si può affermare che, al di là dei
diversi e molteplici fattori presi in esame e tra loro concorrenziali,
emerge un dato di fondo: il disagio degli « uomini nuovi » non deriva tanto dalla presenza di determinati fenomeni, quanto dall'assenza di alcuni fenomeni decisivi per la realizzazione di una persona. Non si tratta quindi di rilevare fattori visibili, quanto di saper
rintracciare i fattori invisibili e riconoscere il vuoto creato dalla loro mancanza. Con questo vuoto e con questa assenza dobbiamo fare
i conti. Non si ha da eliminare o da correggere, ma da riempire
e ritrovare ciò che è andato smarrito.
In questo senso è fondato parlare, a riguardo di questo nostro tempo, di « stagione nichilista »: il nulla ed il vuoto di senso che trasuda dalle pieghe disordinate e scomposte della realtà testimoniano,
infatti, e proclamano che il significato dell'esistenza e della storia
sono venuti meno e vanno ritrovati. E
25
scienza
IL DIBATTITO SULLA SCIENZA.
UN RUOLO PER LA CRITICA
daria leuratti
Giustamente Flavio Santini nei suoi recenti articoli sul Margine
(n. 1 - n. 4) ci presenta il mondo della ricerca scientifica come un
mondo « che si interroga criticamente sulla strada che ha intrapreso » e che sta vivendo una crisi d'identità. Eppure come ogni sistema
complesso il mondo della ricerca è ormai talmente condizionato
dalla propria struttura, da cui del resto ricava gratificazioni e privilegi sociali, che ha tutto l'interesse a non prendere troppo sul serio le voci che ne potrebbero minacciare la stabilità. Per il momento, dunque, continua per la sua strada e lascia alla filosofia ogni riflessione critica.
T. Kuhn, P. Feyerabend, che dalla « scienza » sono passati alla
« critica della scienza » diventano automaticamente dei « filosofi »,
ma con un'accezione del termine ben diversa da quella difesa per
esempio da un Maritain. Sembra quasi che nel sistema scientifico
non ci sia posto né per la critica, né per il dubbio, né per un'autocoscienza.
Qualcosa però si è chiarito in questi anni e chi fa scienza ha molti
strumenti per analizzare e giudicare ciò che fa. Come usarli? Rifiutando la scienza in quanto pericolosa ideologia come Feyerabend?
O in nome di Kuhn accettare un sistema di « scienza normale » come momento storicamente necessario e insostituibile per fare scienza?
Ma cos'è la Scienza?
La Scienza oggi e il dibattito contemporaneo
Chi viene a conoscenza degli ultimi risultati della ricerca attraverso
i giornali o le riviste di divulgazione scientifica o le trasmissioni televisive di Piero Angela non ha alcun modo di rendersi conto dei
problemi accennati sopra.
In genere l'immagine che sì ricava della scienza è un'immagine positivista e monolitica: il nostro sapere cresce per accumulazione gra26
zìe alle « scoperte » degli scienziati che si avvicinano sempre di più
alla « verità ». Sì, a volte ci sono due o tre teorie in ballo, ma un
giorno sapremo distinguere quella « vera ».
Alla mostra « 5 miliardi di anni» presentata nell'estate '81 a Roma
al Palazzo delle Esposizioni, con la collaborazione di tutte le Facoltà scientifiche dell'Università, del Comune e della Provincia, ciò che
accoglie il visitatore come prima cosa è un cartello con un sistema
di equazioni tensoriali che, finalmente risolte, permettono di conoscere il moto complesso dì particelle intorno a un buco nero.
Chiaramente chi ha presentato il sistema di equazioni non si aspetta che un visitatore ne sappia identificare il significato formale e
di contenuto, tanto più che con la settorializzazione della Fisica anche un Fisico, a meno che non si occupi specificatamente di relatività
generale, diffìcilmente trarrà vantaggio da tale sistema di equazioni.
L'immagine tuttavia è potente e risponde alle aspettative entusiaste
del liceale, in ammirazione dell'intelligenza degli scienziati.
I casi a questo punto sono due: o realmente l'eredità positivista è
ancora viva tra gli scienziati o, ed è molto più probabile, « fa comodo » a se stessi e al sistema favorire una mentalità di questo tipo
che eviti di porre questioni attualmente senza risposta. C'è dunque
un salto brusco dall'immagine sociale della scienza all'immagine che
emerge dal dibattito contemporaneo sulla Scienza, sviluppato tra uomini di cultura e « filosofi » (uso le virgolette in onore di Maritain).
I termini esatti del dibattito non sono facili da definire: si ha infatti l'impressione che ognuno affronti un problema differente, ma
se la lezione di Wittgenstein ci ha insegnato qualcosa, sarebbe utile
limitare le ambiguità del linguaggio. La prima ambiguità sta proprio nel termine « scienza ». Non per tutti è chiaro che la scienza
è un'attività umana che avviene in una data società e in un dato
tempo e dunque sia il modo che il risultato non hanno in sé nulla
che possa trascendere la storia.
Tutti i tentativi fatti per discriminare un metodo di conoscenza
scientifico che giustifichi la fiducia attuale nei confronti della scienza, ritenuta una ricerca razionale del vero al di sopra della storia,
sono falliti sia da un punto di vista logico (non esiste un metodo
logicamente accettabile che ci assicuri, come voleva Popper, che la
nostra coscienza scientifica procede, anche se dialetticamente, verso
le teorie « migliori ») sia da un confronto con la storia.
Del resto stabilire una metodologia scientifica risulta spesso un problema circolare: Cos'è la scienza? Un'attività conoscitiva che rispetta un certo metodo, il metodo scientifico. E cos'è il metodo scientifico? Il metodo usato nella scienza. Per uscire dalla circolarità si può
allora assumere un dato di fatto, stabilendo ad esempio che la scienza è l'attività che « per consenso » oggi è ritenuta tale, ma questa
27
teoria, poiché il consenso non è mai totale, finisce per essere puramente descrittiva: o una teoria statistica o una teoria della maggioranza. Nonostante le autodifese di Kuhn la sua teoria è stata intesa in questo senso e anch'io la considero tale.
Oppure si può uscire dalla circolarltà stabilendo un'etica. I valori
possono essere i più diversi, ad esempio quelli della razionalità e
della logica sostenuti da Popper. Purtroppo il significato di questi
valori non è più decìso come un tempo, anche se continuiamo, grazie a Dio, a intenderci abbastanza.
Il punto di vista etico e il punto di vista descrittivo sono spesso
confusi nel dibattito contemporaneo e assunti implicitamente.
... Forse tutti noi facciamo fatica a precisarci i nostri postulati, ma
se ci si vuoi capire dovremmo fare questo sforzo. Quanto al mìo
punto di partenza, è questo: che la scienza, qualsiasi cosa significhi
per noi, è per l'uomo e non l'uomo per la scienza.
Una struttura di ricerca come il C.E.R.N. assorbe miliardi ed è un
centro di potere non indifferente: da lavoro e costruisce tecnologìa.
Più in generale qualsiasi gruppo di ricerca è, in piccolo o in grande,
un centro di potere. Le ripercussioni di questo potere sono sia in
termini economici (di finanziamenti) che in termini conoscitivi. Ogni
gruppo infatti è un preciso indirizzo di ricerca che si basa su una
data teoria secondo un certo formalismo. Ora è chiaro che più possibilità ha un gruppo in termini di persone, finanziamenti, macchinari, e più la sua direzione di ricerca prevale sulle altre. Del resto
la diffusione degli indirizzi viene determinata, o per lo meno condizionata, da chi gestisce in un modo o nell'altro le riviste scientìfiche. Succede così che per un po' di tempo vada di « moda » un argomento di ricerca, poi un altro e così via. Guai a chi rimane isolato!
Questa descrizione, in termini un po' brutali, non vuole però essere
deterministica. Ritengo infatti che qualsiasi struttura, anche complessa non potrebbe esistere se al suo interno non ci fosse, come
risorsa fondamentale, l'uomo, capace di giudicare e di scegliere.
La scienza e l'uomo
Non è nuovo per noi il fatto che una situazione costruita e favorita
dall'uomo, alla fine abbia finito per uscire dal suo controllo e per
minacciarne l'esistenza. Gli esempi immediati che tutti conosciamo
sono l'industrializzazione, la capitalizzazione con le loro conseguenze come l'inquinamento, i monopoli, le dipendenze sociali, l'alienazione e ancora le organizzazioni centralizzate con gli effetti di burocrazia e di controllo politico. (Se pensiamo a queste conseguenze
capiamo di più le preoccupazioni di Gandhi e il suo invito a una
società più autarchica. Per dirla con san Paolo: tutto è buono ma
non tutto è utile).
La scienza come attività e oggi come struttura sociale ha avuto una
evoluzione analoga. Non pretendiamo di esaminare qui tale evoluzione. E' certo che il ricercatore medio che lavora al C.E.R.N. a Ginevra si differenzia notevolmente da un Copernico, un Keplero, un
Galileo! Per la maggior parte il ricercatore oggi non è che una pedina in un gioco più grande di lui e di cui non può scegliere né
stabilire le regole. Con questo può darsi che le sue mosse portino
al successo, rna da protagonista è diventato mezzo. Come pedina
non può scegliere gli obiettivi finali, ma si accontenta di giocare
bene la sua parte. Il rìschio è forte: che un'attività nata come attività libera diventi un'attività cieca e con scelte obbligate. Oltre l'aspetto esistenziale, c'è anche un aspetto sociale del problema della
ricerca. Da notare che i vari aspetti sono distinti ma in stretta
relazione tra di loro.
28
Un ruolo per la critica
Torniamo al nostro punto di partenza: la scienza per l'uomo. Che
la scienza, come è praticata oggi non sia per l'uomo è già emerso
ed è sostenuto da altri pareri anche illustri (ad esempio « Dunque
siamo tutti degli emarginati? » di G. Toraldo di Francia, Corriere
della Sera del 17.1/83).
Eppure c'è chi ha visto nella scienza quale è praticata delle istanze
metodologichc per la scienza stessa. In una struttura quale è quella
che si è configurata in questo secolo vi sono delle precise ripercussioni epistemologiche.
Il ricercatore non ha tempo di vagliare, di criticare la conoscenza
scientifica che gli è presentata. Essa gli viene posta davanti come
formulazione esemplare, come « paradigma » per la soluzione di
rompicapi. Fare scienza, contrariamente al concetto che se ne ha,
diventa quindi un'applicazione che richiede abilità, intuizione (rapportare problemi nuovi e problemi risolti mediante il paradigma)
e un po' di dogmatismo.
Questo tipo di scienza, che di fatto costituisce la massima parte
della ricerca, è stata definita da Kuhn la « scienza normale », un'attività necessaria senza la quale non ci sarebbe produzione e quindi
progresso (...ma allora il progresso è semplicemente produzione?!
Se il criterio è solo la quantità di rompicapi risolti, siamo veramente
?9
compcnctrati dalla logica capitalistica). La visione e la proposta di
lettura dello sviluppo scientifico di Kuhn in « La struttura delle rivoluzioni scientifiche » è acuta e fa riflettere, anche se non risponde
a molteplici questioni. Gran parte dei ricercatori si sono sentiti
« sollevati » dalla teorizzazione ufficiale del loro stato. Come si dice:
chi si accontenta gode.
Eppure ciò ha suscitato anche un'ondata irrazionalistica. Allora domandiamoci dove stiamo andando. E' ora che a un'attività impostata
su una produzione fine a se stessa subentri un'attività basata da un
Iato su una conoscenza critica dei fondamenti (conoscenza critica
che ha dato i suoi frutti, basti pensare a Maxwell, Mach, Einstein, ...)
dall'altro su un'auto-pianificazione della ricerca in vista di un'utilizzazione sociale dei risultati sperimentali. •
L'UOMO
NUCLEARE
« Quattro prìncipi reali si domandavano in quale specialità dovessero eccellere.
Si dissero l'un l'altro: " Perlustriamo ia terra e impariamo una scienza speciale ". Così fu deciso e, dopo aver concordato un luogo di futuro incontro,
i quattro fratelli si mossero, ciascuno in una direzione diversa. Il tempo passò, i quattro fratelli si incontrarono nel luogo stabilito e si chiesero l'un l'altro
cosa avessero imparato, "lo ho imparato una scienza", disse il primo, "che
mi rende possibile, anche se ho solo un pozzetto d'osso di non essere vivente,
di creare subito la carne che lo ricopre", "lo", disse il secondo, "so come
far crescere la pelle di quell'essere e anche il pelo, se quell'osso è ricoperto di
carne". Il terzo disse: "lo sono capace di creare le membra, se ho la carne,
la pelle ed i peli ". " E io ", concluse il quarto, " so come dar vita a quella
creatura se la sua forma è completa di membra ". A questo punto i quattro
fratelli andarono nella giungla per trovare un pezzo d'osso che dimostrasse le
loro specialità. Il destino volle che l'osso che trovarono appartenesse ad un
leone, ma essi non lo sapevano e lo raccolsero. Uno aggiunse la carne all'osso,
il secondo creo la pelle e il pelo, il terzo lo completò con membra adatte e
il quarto diede vita al leone. Scuotendo la folta criniera la belva si levò con
fauci minacciose, denti aguzzi e mascelle spieiate e balzò sui suoi creatori.
Li uccise tutti e svanì soddisfatto nella giungla n.
(da: Racconti dell'antica India, tradotto in inglese dal sanscrito
da J. A. B. van Buitenen — New York: Bantam Books, 1961 —,
pp. 50-51 ).
30
libri
PER COMBATTERE
LA STANCHEZZA
DI PENSARE
QUALCHE LIBRO PER L'ESTATE
Vincenzo passerini
L'imperatore che fece costruire la Grande Muraglia cinese, Shih
Huang Ti, fece nello stesso tempo bruciare tutti i libri esistenti nel
suo impero. Lo ricordava Borges, lo scrittore argentino, in uno dei
suoi scritti raccolti nella « Nuova Antologia personale ». Questo accadeva all'epoca in cui Annibale combatteva con Roma. Ma il rogo
dei libri, anche se non in uno scenario di proporzioni così mostruosamente immense come quello dell'antico impero cinese, ha continuato ad essere nella storia uno dei rituali che più. frequentemente
accompagnano l'ascesa al potere dei tiranni, per quanto la nostra
epoca abbia affinato il sistema di costruire insormontabili confini
e di distruggere i libri, il terreno cioè da cui può nascere un modo
diverso di vedere le cose.
In questi giorni si è ricordato il funesto anniversario del grande
rogo del 10 maggio 1933 a Berlino, che segnò uno dei momenti più
carichi di significato dell'ascesa al potere di Hitler. Ventimila volumi accuratamente scelti furono incendiati in una grandiosa cerimonia notturna.
Due libri, ma ce ne potrebbero essere molti altri, possono aiutarci
a capire quell'episodio e soprattutto quel tragico periodo storico
che resta inciso come un perenne marchio infamante e sconvolgente
nella coscienza europea. Si tratta di « Nazismo e cultura » di Lionel
Richard (Garzanti, 1982, p. 414, L. 14.000). Un libro senza moltissime
pretese ma forse per questo chiaro e utilmente informativo.
Poi « Una giovinezza in Germania » di Ernst Toller (Einaudi, 1982,
p. 252, L. 8.500), stringata autobiografia degli anni del primo dopoguerra, che dal particolare angolo visuale dello scrittore tedesco di
ispirazione rivoluzionaria permette di vedere qualcosa (compresi gli
errori morali e politici del movimento operaio) di quanto accadde
in Germania negli anni che precedettero il nazismo. Composto in
esilio, il libro è introdotto da un'amara prefazione di Toller scritta
« nel giorno del rogo dei miei libri in Germania » e con davanti lo
31
spettacolo di un popolo « stanco di ragione, stanco di pensare e
riflettere » e che « si chiede cos'è riuscita a dargli la ragione negli
ultimi anni, e a che cosa servono le idee e le conquiste dell'intelligenza ».
Un altro grande scrittore tedesco in esìlio era Alfred Doblin, autore
di « Berlin-Alexanderplatz », romanzo portato sugli schermi televisivi
da Fassbinder. L'accostamento alla vicenda di ToIIer ci serve per
presentare un libro di Doblin edito da Rusconi recentemente ma
pubblicato in lingua originale da venticinque anni. Si tratta di
« L'anello oscuro. L'uomo immortale » (p. 270, L. 12.000), un dialogo
talvolta vivace, sovente sofisticato e complesso, talora datato, comunque profondo, appassionato e sincero tra una persona anziana
e un giovane intorno a Dio, alla religione, alla fede, all'ateismo. E1
il dialogo tra il giovane Doblin e il vecchio Doblin converlitosi al
cattolicesimo. L'esperienza così unica ed eccezionale della fede che
ci è stata data da Simone Weil torna ad esserci riproposta in un libretto, modesto nelle dimensioni ma prezioso nella densità, che la
editrice La Locusta di Vicenza ha pubblicato Io scorso ottobre. Si
tratta di « Pensieri disordinati sull'amore di Dìo » (p. 83, L. 5.000),
una piccola antologia di pensieri spirituali, inediti in Italia, cui si
aggiungono gli scritti « Io credo », « Della fabbrica », « Lettera a
Bernanos », brevi ma di una forza straordinaria e irripetibile. La
« Lettera a Bernanos » scritta nel 1938 dopo l'esperienza della guerra
di Spagna che aveva visto la Weil parteciparvi, seppur brevemente,
come volontaria, ci rivela la profonda sintonia tra due grandi personaggi, così diversi (lei anarchica, lui monarchico), inizialmente
divisi nel giudizio sulle forze in campo, ma poi uniti ben presto nel
totale disgusto per quella guerra dove grandi e contrapposti ideali
erano marciti nella più squallida e feroce delle crudeltà. « Si parte
volontari con idee di sacrifìcio e si cade in una guerra di mercenari ».
Guerre, armi, fame, sottosviluppo e computers
La geografia del dolore portato dalle armi cambia con gli anni;
cambiano i nomi delle vittime, dei carnefici, delle filosofie e dei motivi che giustificano l'assassinio in massa. La sostanza resta immutata. Peter Townsend ha fatto un viaggio in questa geografia del dolore
guardando soprattutto al dolore dei bambini, le vittime per eccellenza della sanguinaria stupidità degli uomini adulti, e ci ha dato
un libro, «La guerra ai bambini» (SEI, 1982, p. 319, L. 12.000), che
ci porta dentro la cronaca più terribile della nostra storia più recente: dal Sud America a Belfast, da Soweto al Sahara, dalla Cam-
bogia a Cipro alla Palestina, senza dimenticare Hiroshima, i Lager,
i bambini polacchi, Guernica. Orrori delle polizie segrete, degli eserciti regolari, dei reparti di sicurezza, dei guerriglieri, degli eserciti
di liberazione. Attraverso il dolore dei bambini quello del mondo
intero. Ma a che servono i libri se nulla da essi si è imparato? (« In
realtà i libri servono solo a dare un nome ai nostri errori », Goethe).
Intanto il mercato editoriale ha riscoperto Gandhi. Le Edizioni di
Comunità propongono l'undicesima edizione di « Antiche come le
montagne » (p. 260, L. 10.000), libro voluto vent'anni fa dall'Unesco
e che offre un'agile e scelta sintesi del pensiero gandhiano. Poi due
biografie, dopo aver ricordalo il successo che sta ottenendo il libro
del regista del film « Gandhi », Attenborough, « Le parole di Gandhi » (Longanesi, L. 9.500). Le due biografie sono : W. Shirer « Mahatma Gandhi» (Frassinelli, 1983, p. 289, L. 14.500) e Giorgio Borsa
« Gandhi » (Bompiani, 1983, p. 228, ili., L. 25.000). Shirer parla di
un Gandhi conosciuto personalmente. Il famoso storico americano
ci offre una biografìa molto discorsiva, ricca di ricordi, impressioni
personali, resoconti dì colloqui con il santo statista indiano. Più
sistematica la biografia dell'italiano Giorgio Borsa, attenta all'analisi della storia e della cultura in cui Gandhi nacque ed operò, ricca
di note e bibliografia, e con capitoli interessanti in modo particolare, come quello relativo alla formazione culturale di Gandhi e all'influsso su di lui, tra gli altri, del pensiero mazziniano. Due libri
complementari, utili per far conoscere una delle più straordinarie
figure della storia.
In tema di rapporti tra Nord e Sud, tra aree sviluppate e paesi della fame e del sottosviluppo, è uscito un libro un po' provocatorio
di Sylos Labini, « II sottosviluppo e l'economia contemporanea »
(Laterza, L. 14.000) che mette in discussione, tra l'altro, la consolidata opinione che il sottosviluppo sia causato dallo sfruttamento
dei paesi industrializzati. Un libro che sta facendo discutere. La
tesi non è nuova; ma avanzala da uno studioso italiano e in un clima culturale piuttosto ostile alle « provocazioni », finisce per generare un rumore particolare e strano, abituati come siamo a cercare
e anche ad accettare dagli sludiosi di casa nostra le cose che vogliamo sentire, mentre dagli stranieri cerchiamo e volentieri accettiamo quelle che solitamente non sentiamo o non vogliamo sentire.
Libro dunque da leggere e da discutere, con un occhio critico all'eccessivo ottimismo dell'autore già autorevolmente rivelato da Antonio Giolitti, militante della stessa area politico-culturale di Sylos
Labini, sul numero di aprile di « Mondoperaio » di quest'anno.
Chiudiamo la serie dei saggi con quattro segnalazioni. Jean-Marie
Domenach, « Indagine sulle idee contemporanee » (Rusconi, p. 140,
L. 9.000), agile ed acuta riflessione sullo stato delle grandi correnti
33
culturali contemporanee, viste dalla gloriosa terra di Francia. L'autore, per vent'anni direttore di « Esprit », la rivista fondata da Emmanuel Mounier, mette in luce il tramonto della critica e il bisogno
di nuove sintesi che sta facendo totalmente cambiare gli orizzonti
della cultura contemporanea.
Mauro Langfelder, « L'informatica a domicilio » (Feltrinelli, p. 167,
L. 9.00), utile e chiara introduzione alla rivoluzione dei calcolatori
destinata a cambiare il nostro modo di vivere. Una riflessione alla
portata di tutti sulle implicazioni dell'informatica nel mondo del
lavoro, dell'occupazione, della politica, dell'informazione, dei rapporti internazionali.
« Prima studierà filosofia, dopo i calcolatori », diceva in un'intervista un grosso nome del settore manageriale a proposito degli studi
previsti per suo figlio. Di filosofia ci sarà sempre più bisogno. Segnaliamo una notevole opera fresca di stampa e che gli esperti mi
hanno a loro volta consigliato: « II pensiero occidentale dalle origini
ad oggi », di Giovanni Reale e Dario Antiseri, editrice La Scuola,
3 voli., L. 45.000. Un testo destinato ai licei ma che va bene per tutti,
perché per nulla scolastico nel senso tradizionale del termine (pedante, noioso, nozionistico, freddo). Scritto da due eccellenti studiosi, tra i più bei nomi della cultura filosofica italiana, in forma ampia
e chiara, il testo ci fa entrare senza dar nulla per scontato e quindi in modo didatticamente accurato, dentro i concetti fondamentali
che hanno segnato l'evoluzione del pensiero filosofico, teologico, sociologico, linguistico, economico, scientifico, psicanalitico occidentale fino ai nostri giorni. Una sintesi di rara efficacia e chiarezza.
Da segnalare infine il numero di marzo-aprile della rivista bimestrale « II Mulino » dedicato al problema degli armamenti con una
serie di ottimi ed aggiornati saggi (II Mulino, Strada Maggiore 37,
40125 Bologna - abbonamento L. 32.000 - c.c.p. 15932403 - un numero
arretrato, di 170 pagine, L. 12.000).
Dalla saggistica alla letteratura
E veniamo alla letteratura (narrativa e poesia).
Come di consueto in questa rubrica, un po' di classici e un po' di
contemporanei. Per chi non l'ha letto, l'estate si addice alle « Confessioni di un italiano » di Ippolito Nievo (tra le edizioni quella
recente, economica ed accurata nella collana « Biblioteca » di Mondadori). Racconto fiume che in un pieno e spontaneo dispiegarsi
della lingua italiana in tutta la sua ricchezza, che desta lo stupore
e il buonumore, ci da un pezzo della nostra storia italiana, del co34
stume, della vita quotidiana, della fede, della politica di casa nostra.
Il tutto, spesso allietato da una bella vena ironica. Per la poesia,
« II tesoro della poesia italiana dalle origini all'Ottocento » (Oscar
Mondadori, 2 voli. L. 14.000) a cura di G. D. Sonino. In tema di
poesia due novità. « Le poesie » di Georg Trakl (Garzanti, L. 8.000)
nuova accurata edizione, con testo a fronte, delle liriche più significative del grande e complesso poeta austriaco morto alla vigilia
della prima guerra mondiale. E « Poesie » di Czestav Mìlosz (Adelphi,
L, 14.000), prima organica raccolta italiana di liriche dello scrittore
polacco, Nobel 1980, così segnato dalla dolorosa storia della sua
gente. Le poesie vanno dal 1935 al 1980 e sono davvero molto belle,
se può bastare questo a definire una grande poesia.
Per la narrativa, da segnalare l'immutata fortuna del sempre amato
romanzo di Alain Fournier « II gran Meaulnes », scritto anch'esso alla vigilia della prima guerra mondiale. Due nuove edizioni: presso
l'editrice UTET a L. 7,500; da Mondadori nei « Libri della Medusa »
a L. 14.500 ma con qualche pregio in più e non tanto di carattere
estetico. Quasi contemporaneo al « Gran Meaulnes » usciva « Immagini dal sogno » di Ivan Cankar che l'editrice Marietti ripropone ora
nella nuova e bella collana di narrativa (L. 12.000). E' il testo più
celebre dello scrittore sloveno. Quindi l'ultimo Graham Greene,
« Monsignor Chisciotte » (Mondadori, L. 14.000), consueto ma sempre stimolante impasto di avventura, ironia, fede, polìtica, passione,
disperazione, speranza che caratterizza i romanzi di Greene. Poi
« Le più belle pagine di Tommaso Landolfi scelte da Italo Calvino »
(Rizzoli, L. 25.000), antologìa che fa apprezzare un grande e «strano » scrittore italiano contemporaneo non molto conosciuto.
Chiudiamo campanilisticamente con Isabella Bossi Fedrigotti e il
suo « Casa di guerra » (Longanesi, L. 12.000), piacevole ma non banale racconto ambientato nel Trentino durante l'ultima guerra. Al
di là delle valutazioni che ciascuno può fare sui giudizi storici che
i vari protagonisti esprimono confortati talvolta dall'appoggio dell'autrice, il libro aiuta a capire questa regione di confine, meglio,
queste due province, cosi spesso sconosciute al resto d'Italia anche
perché prive di narratori di respiro nazionale. C'è nel libro la giusta
atmosfera di questa terra fatta di malinconia e di durezza, di fermezza e di scetticismo, di austerità linguistica e di disponibilità,
oltre l'apparente impenetrabilità, a capire, se non sempre ad accettare, le ragioni degli altri e a non essere mai troppo sicuri delle
proprie. •
35
pace
UN IMPEGNO ASSOLUTO PER LA PACE
PER RICOSTRUIRE UN FUTURO
AL DIRITTO E ALLA POLITICA
michele nicoletti
Nel dibattito sulla pace e sugli armamenti nucleari il contrasto tra i sostenitori del disarmo unilaterale e i sostenitori delle trattative e delle
soluzioni negoziate appare talvolta come un contrasto tra utopisti e realisti, tra persone preoccupate solo di affermare o i propri ideali o il proprio desiderio di sopravvivenza e persone invece consapevoli della complessità della realtà, del peso dei rapporti di forza e di potere che solo
attraverso azioni giuridiche e politiche possono essere governate e indirizzate verso soluzioni positive. I primi finiscono così per apparire profeti illusi di poter far scomparire la violenza dalla scena della storia, gli
altri i solidi difensori della ragione, del diritto, della politica.
In realtà questo modo di- considerare le cose, che continua a dominare
— strisciante — la nostra mente e a impedirci di fare un passo anche
minimo in avanti inibendo la nostra creatività teorica e pratica, rimuove
costantemente la novità della situazione attuale rispetto al passato.
La novità sta nel fatto, mille volte ricordato e mille volte dimenticato,
che per la prima volta nella storia l'uomo ha la possibilità di distruggere totalmente se stesso e il mondo. Ma la novità non sta tutta qui,
nella possibilità dell'« antigenesi » dell'uomo e del mondo, sta anche nel
fatto che i mezzi tecnici oggi a disposizione dell'uomo hanno creato non
solo la possibilità del suicidio collettivo, ma anche l'impossibilità di decidere su di esso. Non è vero perciò quanto dicono i più: «Visto che
queste armi terribili ci sono, è necessario creare una coscienza capace di
decidere di non usarle », perché la decisione sull'utilizzo di queste armi
è una decisione che sfugge ad ogni controllo. Il potenziale atomico non
solo mette in discussione la vita umana, ma scardina il concetto stesso
di sovranità popolare su una decisione così fondamentale quale quella
di continuare a vivere oppure morire. « Si potrebbe pensare — ha scritto Balducci — che, comunque, a decidere ci sarà, sulla base di patti internazionali, un capo supremo, con una sua coscienza o quanto meno
col suo istinto di sopravvivenza. Nemmeno questo è vero. La Cosa, in
ragione della sua perfezione tecnica, ha ridotto a tal punto i tempi del
suo lancio (5 o 6 minuti) che ormai la decisione è nelle mani di un
piccolo gruppo di tecnici militari selezionati e allevati in vista dell'ipotesi guerra. La tecnologia militare ha quindi divorato la politica, alla
quale non è restato che un ruolo di rappresentanza ». '
36
Dunque se si vuole rappresentare il contrasto tra utopisti e rassegnati
come un contrasto tra una cultura di opposizione e una cultura di governo è facile obiettare ai realisti che la loro speranza di governare la
realtà degli armamenti e di governarla in modo democratico è resa vana
dalla struttura stessa dei mezzi tecnici il cui utilizzo non consente, non
si dice un «referendum popolare», ma nemmeno un'assemblea parlamentare o una riunione di Consiglio dei Ministri; forse neanche una telefonata al Capo dello Stato. E così coloro che sostengono che le argomentazioni morali non bastano, che è necessaria una soluzione e una
decisione politica sulla questione degli armamenti, sarebbero costretti
ad accorgersi che la tecnica ha dissolto la politica. D'altra parte, a ben
guardare, non è solo ai giorni nostri che il controllo democratico sugli
interventi militari è assai problematico. Basterebbe ricordare l'ingresso
dell'Italia nella prima guerra mondiale, deciso all'insaputa del parlamento, o l'intervento degli Stali Uniti nel Vietnam. Ma si sa, la democrazia
esige «trasparenza» e «pubblicità», l'intervento militare invece segretezza.
L'ingresso nella prossima guerra potrebbe segnare l'ingresso nell'apocalisse dell'umanità e questa decisione rischia di venir presa fuori da ogni
controllo democratico. Il diritto e la politica appaiono impotenti. La sovranità popolare vanificata. Forse al di là della semplicistica contrapposizione tra utopisti e realisti occorre scavare più a fondo nel rapporto tra « diritto » e « guerra ».
Le forme del rapporto tra diritto e guerra
Norberto Bobbio nel suo libro « II problema della guerra e le vie della
pace » 2 individua quattro forme possibili di rapporto tra diritto e guerra, quattro forme che qui riprenderemo esemplificandole e discutendole.
a) La prima forma del rapporto è la GUERRA-FONTE del diritto. In
questa prospettiva la guerra è considerata come un mezzo, anzi come il
mezzo più autentico per instaurare un ordinamento giuridico, e di conseguenza ogni forma di diritto nasce e dipende da una storia di violenza
e di conquista. Tra i sostenitori di questa concezione si potrebbe ricordare Cari Schmìtt, 3 secondo cui ogni ordinamento giuridico nasce da
un'appropriazione di terra e da una spartizione, da una conquista ad
opera di un gruppo di individui che si riconoscono « amici » e « popolo »
in contrapposizione ai « nemici », a coloro cioè che contendendo la terra
mettono in discussione la loro esistenza. In questo senso ogni diritto
è « partizione », è divisione, è contrapposizione degli uni contro gli altri,
non rappresenta il momento dell'« universalità », dell'unione, del terreno
comune a tutti gli uomini. Un secondo esempio di questa concezione ci
è dato dalle concezioni « rivoluzionarie » per cui un nuovo ordinamento
giuridico e sociale più giusto rispetto a quello precedente può nascere
solo attraverso un rovesciamento violento dell'ordine costituito. Per
Proudhon solo la forza crea il diritto, e la guerra è la più alta manife37
stazione nella vita dei popoli: «La guerra, secondo la testimonianza universale, è un giudizio della forza. Diritto della guerra e diritto della forza sono così un solo e medesimo diritto ». 4 Ma molti altri esempi di
« nobili » filosofi si potrebbero citare.
Secondo questa concezione dunque la guerra non solo è un passaggio
inevitabile nella storia dell'uomo, ma è addirittura necessaria perché
nascano i diversi ordinamenti giuridici che regolano ed esprimono la sua
vita.
La teorìa della « guerra giusta »
b) La seconda forma del rapporto è quella della GUERRA-MEZZO di
realizzazione del diritto, nel momento in cui gli altri mezzi di persuasione o di pressione economica o politica falliscono. La guerra è considerata in questa prospettiva come un espediente per risolvere una contesa non componibile, per comminare delle sanzioni di fronte a un'ingiustizia compiuta, insomma come estremo rimedio per realizzare degli
obicttivi superiori altrimenti non raggiungibili. Mentre nella concezione
precedente la guerra era Io strumento necessario per instaurare un ordine giuridico nuovo, qui invece essa è l'ultima risorsa per restaurare
l'ordine esistente. L'esempio più classico di questa interpretazione è la
teoria della «guerra giusta», cioè della guerra come strumento di riparazione di un torto, o come mezzo di difesa, o come punizione. Questa
teoria nasce in ambito medioevale ed è falla propria dalla Chiesa praticamente fino al Concilio Vaticano IL San Tommaso individua quattro
elementi necessari perché una guerra possa essere dichiarata «giusta»,
cioè legittima e giustificata: una giusta causa, una autorità legittima che
la dichiari, un puro scopo di pace senz'odio, il divieto di ogni menzogna.
La guerra « giusta » parrebbe cosi una guerra « umanizzata », fatta solo
in circostanze eccezionali e disperate con buoni molivi, buoni scopi, buoni mezzi. In realtà ognuno di questi elementi finisce per svanire quando
dalla teoria sulla guerra giusta si passa ad esaminare le guerre concrete
e reali che sono state combattute tra giustificazioni e benedizioni. Questa
teoria finisce in realtà per giustificare ogni tipo di guerra e addirittura invece che ad umanizzare la violenza può contribuire a giustificarne le
atrocità.
La teoria della guerra giusta concependo l'intervento militare come una
legittima punizione, portava a considerare il nemico come un « criminale », tanto che, per esempio, il Concilio Laterano II nel 1139 stabiliva
che nelle guerre giuste era ammesso l'uso di armi da guerra a lunga gittata altrimenti vietato. E così le guerre giuste o sante contro gli infedeli finivano per trasformarsi in guerre di annientamento senza rispetto
per i diritti del nemico. Ma non è solo la storia con le sue tragiche esperienze a far dubitare della teoria della guerra giusta, è la sua stessa impostazione teorica che non può giustificarsi. Quella teoria nasceva in ambito medioevale là dove vi era un'autorità superiore riconosciuta al cui
giudizio in qualche modo ci si poteva sottomettere, ma con l'emergere
degli Slati moderni « chi » decide la « giustizia » della guerra? Si finisce
38
così per giungere al paradosso che una guerra poteva venir dichiarata
«giusta» da ambo le parli in lotta. Inoltre il concetto di guerra come
« sanzione » pone dei problemi perche una sanzione deve punire chi ha
torlo, ma se la guerra è vinta da colui che ha commesso il torto?
Si potrebbe tentare allora di limitare la giustiiicabilità della guerra alla
sola guerra dì difesa, ma anche qui sorgono dei problemi perché è difficile stabilire delle regole assolute, non solo nell'epoca atomica dove la
teoria del « primo colpo » subisce dei cambiamenti radicali, ma anche in
altre situazioni dove per esempio colui che attacca per primo è magari
— come può avvenire nei Paesi del Terzo Mondo — colui che da secoli
subisce violenze economiche e politiche.
Le difficoltà cui la teoria della guerra giusta va incontro fanno riflettere
non solo sulla scarsa utilizzabililà di tale teoria per realizzare la pace,
ma più in generale sugli effetti disiarli che possono essere provocati da
un rapporto sbagliato ira religione e potere o tra morale e potere. Troppe volte quando si cerca di giustilìcare un comportamento sulla base di
motivazioni religiose o morali, questa giustificazione finisce per trasfor
marsi in legittimazione di abusi. Non appena è sorto nella storia un nuovo potere, è sorta immediatamente anche una giustificazione morale del
suo uso come itel caso della polvere da sparo o della bomba atomica
il cui utilizzo fu giustificalo per evitare maìi peggiori. La guerra come
me/zo di realizzazione del diritto ha !ìnito troppe volte per trasformarsi
in neiiazione di ogni ti i ritto.
« La guerra " duello " tra i sovrani »
r) La terza forma di rapporto è quella della GUERRA-OGGETTO de!
diritto, e nasce storicamente sulla base del fallimento della prospettiva
precederne, in seguito al mutamento del quadro politico avvenuto con
il trapasso dall'epoca medioevale all'epoca moderna. Nell'epoca moderna
non vi è più un'autorità superiore in grado di decidere sulla « moralità »
o sulla giustizia di una guerra. L'unica sovranità riconosciuta è quella
degli stati nazionali, che si fonda proprio sul fatto di avere la capacità
e l'indipendenza nel decidere u meno di entrare in guerra. In questa
situazione non è dunque possibile sindacare sulle cause di un conflitto
o concepire la guerra come punizione da parte di un'autorità superiore
Ciò che è possibile fare, visto che i rapporti tra gli uomini come tra le
nazioni non sono sempre risolvibili pacificamente, è regolare i modi in
cui tale guerra deve svolgersi. La guerra da mezzo di realizzazione del
diritto diventa così « oggetto » di regolamentazione giuridica. 11 modo in
cui il diritto pubblico europeo ha realizzato questa regolamentazione è
stato quello di dare a ciascuno slato sovrano la dignità di « iustus hostis »: il nemico non è più il criminale da annientare ma è il nemico
sovrano a cui viene riconosciuta una parità. La guerra diventa così un
« d u e l l o » sulla scena pubblica tra contendenti di pari dignità.
Una guerra cosiffatta sembrerebbe una guerra « p u l i t a » , ordinata, certo
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sempre crudele e drammatica, ma condotta secondo le regole della « cavalleria ». E certo da un punto di vista teorico possiede un certo potere
persuasivo. Ma alla prova della storia anch'essa finisce per svelare il
tragico rovescio della sua medaglia. Questa guerra « duello » finisce per
essere una guerra condotta dai re per le proprie ambizioni dinastiche
mandando al macello i propri eserciti (e non certo sfidando personalmente a duello l'avversario) e creando immensi dissesti finanziari. Questa guerra pulita tra avversar! uguali di pari dignità è possibile solo in
Europa tra le nazioni sovrane governate da monarchi imparentati tra
loro, ma fuori dall'Europa, là dove i popoli non sono ancora « Stati »
nel senso europeo, la guerra non è un duello ordinato ma riprende il
proprio volto di feroce conquista di colonie in cui al « nemico » non solo
non è riconosciuta pari dignità ma nemmeno valore di uomo.
In realtà tutti i tentativi di regolare giuridicamente la guerra sembrano
fallire, considerando anche l'esperienza della Società delle Nazioni e
deU'ONU nel nostro secolo in cui queste organizzazioni si sono dimostrate impotenti di fronte ai non pochi conflitti esplosi. Con l'esplodere
della guerra le ragioni del diritto cessano e emergono quelle della forza
e solo quando queste si sono esaurite allora nuovi ordinamenti si ricompongono.
« Lo stato " Leviatano " e la società consensuale »
d) La quarta forma in cui si esprime il rapporto tra diritto e guerra
è quella che concepisce la GUERRA-ANTITESI del diritto. Secondo questa prospettiva fine primario del diritto è la realizzazione della pace, per
cui là dove questa viene meno è il diritto stesso a mancare nella sua
più intima natura. Un esempio tipico di questa concezione è il pensiero
di Hobbes: la guerra rappresenta lo stato di natura di cittadini, la società senza leggi e regole in cui l'uomo è un lupo per l'uomo, in cui
ciascuno ha il potere di provocare la morte dell'altro. E questo non solo
per affermare il proprio egoismo materiale ma anche per affermare la
propria verità religiosa.
L'ordinamento giuridico, Io Stato civile nasce dalla paura dei cittadini
che porta ciascuno ad affidare la propria porzione di potere e di forza
perché questo Stato ne assuma il monopolio. E' facile notare come attraverso questo processo la guerra civile viene eliminata, però a prezzo
della legittimazione della violenza dello Stato; inoltre la pace così raggiunta è una pacificazione interna, ma Io stato civile cui tutti hanno
affidato la propria porzione di forza esercita la propria sovranità non
solo sui cittadini ma anche in conflitto con gli altri stati. La guerra civile dal piano nazionale si sposta così sul piano internazionale: ogni
stato può dare la morte agfi altri. E' la situazione di oggi in cui le diverse potenze possono causare la distruzione le une delle altre. E' da
auspicare un super-stato che raccolga un super-monopolio della forza,
mettendo fine così alle possibilità dì conflitto? Ma al di là della sua
rcali/zabilità storica (cosa potrebbe sostituire il cemento «nazionale»?)
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è proprio da desiderare un immenso unico stato dotato di tutto questo
potere?
Un secondo modello di antitesi guerra-diritto è quello che possiamo trovare nella riflessione di Hanna Arendt 5 che contesta la visione del potere come realtà necessariamente legata alla violenza. Il pensiero di molti autori — non solo Hobbes, ma anche Weber, Mills, ecc. — vede la
violenza intrinsecamente legata al potere perché concepisce il potere
come « poter far fare agli altri ciò che io voglio ». Nel pensiero politico
destra e sinistra concordano sul fatto che l'essenza del potere è il comando e l'essere obbediti, ma l'obbedienza è un concetto ambiguo su
cui fondare il potere: essa si può prestare a un poliziotto ma anche a
un criminale sotto la minaccia di un'arma. Per la Arendt esiste invece
un altro concetto di potere che viene dalla " polis " greca e fu usato
dai rivoluzionari del 700: il potere fondato sul consenso, sull'appoggio
del popolo. Mentre la violenza può essere esercitata da chiunque, il potere invece è la capacità di agire dì concerto, di con-sentire, di agire insieme. La forma estrema di potere è " tutti su uno ", quella dì violenza
è " uno su tutti ". La violenza è semplicemente uno strumento, fra l'altro neppure efficace: nello scontro tra violenze prevale generalmente
quella del governo, e se invece vince quella rivoluzionaria è perché vi è
un collasso di potere. Dunque violenza e potere anche se appaiono insieme non si identificano, anzi sono elementi opposti, quanto più potere vi
è (nel senso autentico) tanto meno violenza è necessaria, e quanto più
violenza è presente tanto più il potere tende a scomparire. Occorre dunque aumentare il potere, cioè la facoltà di agire dell'uomo, la sua capacità di raccogliersi e di operare insieme.
Non c'è dubbio che la Arendt apre prospettive interpretative nuove e interessanti anche se non offre soluzioni concrete. Le difficoltà che comunque presenta la sua posizione sono essenzialmente due: sembra ridimensionare la portata del conflitto dimenticando che ÌI « raccogliersi » della
gente è spesso anche un atto di affermazione di diversità rispetto agli
altri e quindi di contrapposizione (la stessa polis greca è fondata sulla
distinzione greci-barbari e liberi-schiavi); in secondo luogo la capacità
di consentire sembra affidata a una sorta di « ragione universale », che
rappresenta però anch'essa lo strumento di una parte dell'umanità (quella occidentale).
L'impotenza del diritto
Lo scopo di quest'analisi così frettolosa e semplificata non è comunque
quello di portare a un giudìzio di condanna sbrigativa dell'esperienza
giuridica dell'occidente. Sarebbe un'assurdità superficiale e banale. Ciò
che si vuoi dire è un'altra cosa: è importante notare come nello sforzo
complessivo di realizzare la giustizia attraverso il diritto, la pace è sempre stata considerata come un fine importante, ma non come un valore
assoluto. Dunque per la cultura giuridico-istituzionale dell'occidente la
pace non è un valore assoluto: di fronte a situazioni determinate si può
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anche, benché temporaneamente, rinunciare ad essa. Inoltre la pace realizzata dal diritto appare sempre come una pacificazione di una zona o
di un settore dell'umanità, attraverso lo spostamento del conflitto all'esterno (romani-barbari, cristiani-pagani, europei-non europei, ecc.); anche se questa pacificazione è realizzata in nome di un universale, come
l'uomo, la natura, la religione, la libertà, questo universale si è allarmato
storicamente come ragione di una parte. E là dove il diritto nasce dalla
negazione della guerra, la pacificazione da esso operata non è non-violenta, è anzi il frutto della concentrazione di una forza superiore.
Il diritto cosi come noi lo conosciamo è dunque impotente di fronte all'era atomica: nei secoli passali il diritto ha potuto sempre mettere in
conto la guerra come un male inevitabile ma comunque superabile. « Dopo » la guerra ci sarebbe comunque slato qualche cosa. Ma oggi non
è possibile più pronunciare queste parole. Non è detto che « dopo la
guerra » ci sia comunque ancora qualcosa. Nessuno può assumere questa come ipotesi di lavoro.
Neppure nella storia della Chiesa la pace è stala un valore assoluto. I
primi secoli di non-viofenza assoluta forse sono determinati dal fatto
che la prima comunità cristiana credeva nel ritorno immediato dei Cristo. Essa viveva già nel Regno. La storia non esisteva, il mondo era
privo di consistenza.
Quando il mondo appare destinato a « durare » nel tempo, è questo « durare » che fa problema e che pone il problema di durare nel tempo, di
far progredire i! tempo: non solo dì annunciare la Parola, ma di sistemarla, conservarla, difenderla, diffonderla, legarla a una tradizione, a
una struttura, a un potere capace di garantire fa fedeltà a quell'Evento
irripetibile. Conservare la verità diventa così più importante della pace
e della vita umana stessa: gli eretici si possono uccidere. Il passaggio
dalla non-violenza alla giustificazione della violenza avviene sulla base
del primato della sopravvivenza della verità e della vita.
E' interessante notare come anche il passaggio attuale della Chiesa, dopo la seconda guerra mondiale, dalla giustificazione della violenza alla
sua condanna avviene dopo il potenziamento tecnico dei mezzi distruttivi che possono mettere in discussione la sopravvivenza della vita. Mentre in passato l'assumere la pace come valore assoluto poteva sembrare
in contrasto con la sopravvivenza della verità e della vita, oggi si è compreso che solo questa prospettiva può garantire un futuro agli ordinamenti umani.
co considerala e c o n o s c i u t a ) ma anche un significalo storico e politico.
La strada dd pacifismo assoluto, cioè del deciso disarmo unilaterale, dell'obiezione di coscienza, dell'obiezione fiscale e di altre forme di testimonianza e di disotabedienx.a c i v i l e , non rappresenta oggi la negazione del
diritto e della p o l i t i c a , ma una strada storica da percorrere per lar
uscire il d i r u t o e la p o l i t i c a dalla loro situazione di impotenza e costringerli a maturare una nuova coseien/a e nuovi strumenti operativi alla
altezza della situazione attuale.
In queste forme di l o t t a non vi è solo testimonianza profetica o scelta
anarchico-individualistica, \ è la volontà morale e politica di riaprire
sul tema della pace e della sopravvivenza una dialettica tra soggettivila
personale e sistema, ira coscienza e Slalo, tra cittadini e istituzioni che
altrimenti rischia di scomparire lacendo morire e la coscienza e l'ordinamento sociale. Riprendere la strada delle azioni unilaterali a partire
dalla eoscien/a i n d i v i d u a l e non s i g n i f i c a negare la realtà della complessità ma f a r l a uscire dal suo cammino di morte. E coloro che disarmati,
pubblicamente si r i f i u t a n o di obbedire alle regole della violenza, pronti
a subirne personalmente t u t t e le conseguenze, non minano alla base la
convivenza c i v i l e ma le consentono tli sopravvivere e di farsi più umana.
Né sono u t o p i s t i i l l u s i , ma l'orse gli u n i c i a u t e n t i c i « g o v e r n a n t i » del nostro tempo. Nel m o m e n t o in cui non è più possibile governare con gli
strumenti e la logica del mondo « s i vedrà — scriveva Kierkegaard nel
1846 — che soltanto il m a r t i r e è in grado di governare il mondo nel
momento d e c i s i v o » . " •
1
Il significato politico del pacifismo
?
1
Nella situazione attuale solo la pace assunta come valore assoluto, a cui
si è disposti a sacrificare tutto il resto, è la condizione per evitare la
dissoluzione del diritto e della politica. E' qui che si mostra un nuovo
significato della teoria nonviolenta e del pacifismo assoluto; non solo
un significalo morale o teorico (la cui solidità e profondità è troppo po42
E. BALDUCCl, Noni/Sud: Iti piice uclhi vui del n-ultswo, in «Testimonianze»,
4-*J-6, 1983, p. 19.
N. ROBBIO, // probleiìid dclUi yten\i e le rie delhi /wr, Bologna 1979.
In particolari; C. SCI IMITI. Dcr Nr>»w:> de;- ILrJe. Koln 1950.
P. PROUDI1ON. Li viene et Iti /><tnx, in Oi-arn-s crxnpletcì. Paris 1927. p. 91.
nn.
*
*
"
H. ARENDT, Sulla i'inlenz<ì. Milano 1968.
S. KIERKEGAARD, Dell'autorità e della nvclwtne. "Libro sti Ailler », Padova 1976, p. 383.
43
« Non ci trovinino di Ironie ad ima cosa da poco,
ma la immane (apocalìttica) lolla tra la vita e la
morte è già cominciata. Eppure in mezzo a ciò vi
sono molti che continuano a vivere la loro vita
come se niente fosse cambiato... Molti oggi pensano, molto semplicemente, che le cose debbano
essere come sono. Se questo per caso volesse dire
che essi sono costretti a commettere ima cosa ingiusta, allora essi credono che altri sono i responsabili... Io sono convinto che è ancora meglio die
io dica la verità anche se mi costa la vita. Perché
voi non lo troverete scritto in nessuno dei comandamenti di Dio o della Chiesa che un uomo sia costretto, sotto pena di peccato, a pronunciare un
giuramento che lo impegni di obbedire a tutto quello che gli possa essere comandato dalla sua autorità laica. Non ci servono Incili o pistole per la nostra battaglia, ma armi spirituali — e la prima
jra queste è la preghiera ».
( Franz Jagerstatter )