1 i contratti a termine nel pubblico impiego. la sentenza delle ss.uu

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1 i contratti a termine nel pubblico impiego. la sentenza delle ss.uu
I CONTRATTI A TERMINE NEL PUBBLICO IMPIEGO.
LA SENTENZA DELLE SS.UU. N. 5072/2016 SUL RISARCIMENTO DEL DANNO PER VIOLAZIONE DEL DIRITTO
DELL'UNIONE
Materiali di studio
1. Fonti normative di riferimento.
a) Direttiva comunitaria 1999/70/CE, clausola 5:
1. Per prevenire gli abusi derivanti dall'utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo
determinato, gli Stati membri, previa consultazione delle parti sociali a norma delle leggi, dei contratti collettivi e
della prassi nazionali, e/o le parti sociali stesse, dovranno introdurre, in assenza di norme equivalenti per la
prevenzione degli abusi e in un modo che tenga conto delle esigenze di settori e/o categorie specifici di lavoratori,
una o più misure relative a:
a) ragioni obiettive per la giustificazione del rinnovo dei suddetti contratti o rapporti;
b) la durata massima totale dei contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato successivi;
c) il numero dei rinnovi dei suddetti contratti o rapporti.
2. Gli Stati membri, previa consultazione delle parti sociali, e/o le parti sociali stesse dovranno, se del caso, stabilire a
quali condizioni i contratti e i rapporti di lavoro a tempo determinato:
a) devono essere considerati «successivi»;
b) devono essere ritenuti contratti o rapporti a tempo indeterminato.
b) Art. 36, comma 5, d.lgs. 165/2001, nel testo risultante dalle modifiche apportate dall'art. 3, comma 79, l.
n. 244/2007, e dall'art. 49, comma 1, d.l. n. 112/2008 (conv. con l. n. 133/2008):
In ogni caso, la violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori, da parte delle
pubbliche amministrazioni, non può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le
medesime pubbliche amministrazioni, ferma restando ogni responsabilità e sanzione. Il lavoratore interessato ha
diritto al risarcimento del danno derivante dalla prestazione di lavoro in violazione di disposizioni imperative. Le
amministrazioni hanno l’obbligo di recuperare le somme pagate a tale titolo nei confronti dei dirigenti responsabili,
qualora la violazione sia dovuta a dolo o colpa grave. I dirigenti che operano in violazione delle disposizioni del
presente articolo sono responsabili anche ai sensi dell’articolo 21 del presente decreto. Di tali violazioni si terrà conto
in sede di valutazione dell’operato del dirigente ai sensi dell’articolo 5 del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 286.
2. La giurisprudenza della CGUE.
a) CGUE, 7.9.2006, C-53/04, Marrosu e Sardino:
La disciplina comunitaria "non osta, in linea di principio, ad una normativa nazionale che esclude, in caso di abuso
derivante dall'utilizzo di una successione di contratti o di rapporti a tempo determinato [...] nel settore pubblico, che
questi siano trasformati in contratti o in rapporti a tempo indeterminato [...] qualora tale normativa contenga
un'altra misura effettiva destinata ad evitare e, se del caso, sanzionare, un utilizzo abusivo di una successione di
contratti a tempo determinato da parte di un datore di lavoro rientrante nel settore pubblico", con caratteristiche tali
da non essere "meno favorevol[e] di quelle che disciplinano situazioni analoghe di natura interna (principio di
equivalenza), né rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l'esercizio dei diritti conferiti
dall'ordinamento giuridico comunitario (principio di effettività)".
b) CGUE, 1.10.2010, C-3/10, Affatato:
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l'art. 36, comma 5, d.lgs. 165/2001, nel testo risultante dalle modifiche apportate nel 2008, nel prevedere il
risarcimento del danno subito a causa della violazione di norme imperative, l'obbligo del datore di lavoro responsabile
di restituire all'amministrazione le somme versate a tale titolo quando la violazione sia dolosa o derivi da colpa grave,
l'impossibilità del rinnovo dell'incarico dirigenziale del responsabile nonché la presa in considerazione di tale
violazione in sede di valutazione del suo operato, "potrebbe soddisfare i requisiti".
c) CGUE, 12.12.2013, C-50/13, Papalia:
“l’accordo quadro deve essere interpretato nel senso che esso osta ai provvedimenti previsti da una normativa
nazionale, quale quella oggetto del procedimento principale, la quale, nell’ipotesi di utilizzo abusivo, da parte di un
datore di lavoro pubblico, di una successione di contratti di lavoro a tempo determinato, preveda soltanto il diritto,
per il lavoratore interessato, di ottenere il risarcimento del danno”; e poiché “dalla decisione di rinvio si evince che la
normativa interna in questione nel procedimento principale, nell’interpretazione datane dalla Corte suprema di
cassazione, pare che imponga che un lavoratore del settore pubblico, quale il sig. Papalia, il quale desideri ottenere il
risarcimento del danno sofferto, nell’ipotesi di utilizzo abusivo, da parte del suo ex datore di lavoro pubblico, di una
successione di contratti di lavoro a tempo determinato, non goda di nessuna presunzione d’esistenza di un danno e, di
conseguenza, debba dimostrare concretamente il medesimo", e "secondo il giudice del rinvio, una prova siffatta [...]
richiederebbe che il ricorrente sia in condizioni di provare che il proseguimento del rapporto di lavoro [...] l’abbia
indotto a dover rinunciare a migliori opportunità di impiego”, una volta che “l’esame della presente questione
pregiudiziale dev’essere effettuato alla luce dell’interpretazione del diritto nazionale fornita dal giudice del rinvio”, nel
caso di specie “la prova richiesta in diritto nazionale può rivelarsi difficilissima, se non quasi impossibile da produrre da
parte di un lavoratore quale il sig. Papalia. Pertanto, non si può escludere che questa prescrizione sia tale da rendere
praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio, da parte di questo lavoratore, dei diritti attribuitigli
dall’ordinamento dell’Unione e, segnatamente, del suo diritto al risarcimento del danno sofferto, a causa
dell’utilizzo abusivo, da parte del suo ex datore di lavoro pubblico, di una successione di contratti di lavoro a tempo
determinato.”
3. Cass. S.U. n. 5072 del 2016.
a) La portata precettiva della clausola 5 dell'Accordo quadro allegato alla Direttiva 1999/70/CE:
"La clausola 5 nulla dice quanto alle conseguenze dell'eventuale abuso la cui disciplina pertanto è interamente rimessa
alla discrezionalità del legislatore nazionale in un ampio e non definito spettro di alternative. La prevenzione
dell'abuso implica una reazione con connotazioni, in senso lato, sanzionatorie dell'abuso stesso. Ma queste possono
essere, in ipotesi, l'attribuzione di una ragione di risarcimento del danno oppure la conversione del rapporto a termine
in rapporto a tempo indeterminato oppure entrambe. Si potrebbero ipotizzare anche sanzioni amministrative oppure,
ibridando il profilo risarcitorio con quello sanzionatorio, potrebbero configurarsi 'danni punitivi'" (§ 7, pag. 13).
b) La verifica della compatibilità comunitaria dell'art. 36, T.U. n. 165/2001:
"il rispetto della normativa sul contratto di lavoro a tempo determinato è risultato essere presidiato - oltre che
dall'obbligo di risarcimento del danno in favore del dipendente - anche da disposizioni al contorno che fanno perno
soprattutto sulla responsabilità, anche patrimoniale, del dirigente cui sia ascrivibile l'illegittimo ricorso al contratto a
termine. Sicché può dirsi che l'ordinamento giuridico prevede, nel complesso, 'misure energiche' (come richiesto dalla
Corte di giustizia, sentenza 26 novembre 2014, C-22/13 ss., Mascolo), fortemente dissuasive, per contrastare
l'illegittimo ricorso al contratto di lavoro a tempo determinato; ciò assicura la piena compatibilità comunitaria, sotto
tale profilo, della disciplina nazionale" (§ 6, pag. 11);
c) Qual è il danno risarcibile ex art. 36, T.U. n. 165/2001:
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"va precisato che fuori dal risarcimento del danno è la mancata conversione del rapporto. Questa è esclusa per legge
e tale esclusione [...] è legittima sia secondo i parametri costituzionali [...] che quelli europei [...]. Quindi il danno non è
la perdita del posto di lavoro a tempo indeterminato perché una tale prospettiva non c'è mai stata: in nessun caso il
rapporto di lavoro a termine si potrebbe convertire in rapporto a tempo indeterminato perché l'accesso al pubblico
impiego non può avvenire - invece che tramite di concorso pubblico - quale effetto, sia pur in chiave sanzionatoria,
di una situazione di illegalità" (§ 12, pag. 23);
"Il danno è altro. [...] L'evenienza ordinaria è la perdita di chance risarcibile come danno patrimoniale nella misura in
cui l'illegittimo (soprattutto se prolungato) impiego a termine abbia fatto perdere al lavoratore altre occasioni di
lavoro stabile. Ma non può escludersi che una prolungata precarizzazione per anni possa aver inflitto al lavoratore un
pregiudizio che va anche al di là della mera perdita di chance di un'occupazione migliore" (§ 13, pag. 23).
e) L'onere della prova del danno: ovvero, quale tensione con l'ordinamento comunitario?
"In ogni caso l'onere probatorio di tale danno grava interamente sul lavoratore. Pur potendo operare il regime delle
presunzioni semplici (art. 2729 c.c.), però indubbiamente il danno - una volta escluso che possa consistere nella
perdita del posto di lavoro occupato a termine - può essere in concreto di difficile prova; di qui il monito della Corte di
giustizia con riferimento all'ipotesi dell'abuso del ricorso al contratto a termine" (§ 13, pagg. 23-24). Infatti,
nonostante nel nostro ordinamento siano previste "nel complesso, 'misure energiche' fortemente dissuasive per
contrastare l'illegittimo ricorso al contratto di lavoro a tempo determinato", "il pur forte carattere dissuasivo di queste
misure (sia quella risarcitoria, sia quelle di indiretto presidio della legalità dell'azione dell'Amministrazione pubblica) secondo in particolare la ordinanza 12 dicembre 2013, Papalia, C-50/13 della Corte di giustizia - non è sufficiente per
assicurare il rispetto della clausola 5 del cit. accordo quadro ove il lavoratore, 'il quale desideri ottenere il risarcimento
del danno sofferto, nell'ipotesi di utilizzo abusivo, da parte del suo ex datore di lavoro pubblico, di una successione di
contratti di lavoro a tempo determinato, non goda di nessuna presunzione d'esistenza di un danno e, di conseguenza,
debba dimostrare concretamente il medesimo' (così la censura del giudice rimettente che la Corte di giustizia mostra
di condividere)" (§ 14, pag. 25).
f) L'interpretazione "adeguatrice" dell'art. 36, T.U. n. 165/2001:
"occorre anche una disciplina concretamente dissuasiva che abbia, per il dipendente, la valenza di una disciplina
agevolativa e di favore" (§ 16, pagg. 27-28);
"La fattispecie omogenea [...] è invece quella del cit. art. 32, comma 5, legge n. 183/2010 [...] La misura dissuasiva ed il
rafforzamento della tutela del lavoratore pubblico [...] è proprio in questa agevolazione della prova da ritenersi in via
di interpretazione sistematica orientata dalla necessità di conformità alla clausola 5 del più volte cit. accordo quadro: il
lavoratore è esonerato dalla prova del danno nella misura in cui questo è presunto e determinato tra un minimo ed
un massimo" (ibid., pag. 28). Sicché, mentre per il lavoratore privato l'indennità ex art. 32 rappresenta una forma di
"contenimento del danno risarcibile", che potrebbe essere in ipotesi superiore qualora egli avesse accesso ai rimedi
risarcitori ordinari, il lavoratore pubblico "ha diritto a tutto il risarcimento del danno e, per essere agevolato nella
prova (perché ciò richiede l'interpretazione comunitariamente orientata), ha intanto diritto, senza necessità di prova
alcuna per essere egli, in questa misura, sollevato dall'onere probatorio, all'indennità risarcitoria ex art. 32, comma 5.
Ma non gli è precluso di provare che le chances di lavoro che ha perso perché impiegato in reiterati contratti a
termine in violazione di legge si traducano in un danno patrimoniale più elevato" (§ 17, pagg. 29-30).
g) Un danno-sanzione, anzi un "danno comunitario"?
"questo canone di danno presunto esprime anche una portata sanzionatoria della violazione della norma comunitaria
sì che il danno così determinato può qualificarsi come danno comunitario (così già Cass. 30 dicembre 2014, n. 27481 e
3 luglio 2015, n.13655) nel senso che vale a colmare quel deficit di tutela, ritenuto dalla giurisprudenza della Corte di
giustizia, la cui mancanza esporrebbe la norma interna (art. 36, comma 5, cit.), ove applicabile nella sua sola portata
testuale, ad essere in violazione della clausola 5 della direttiva e quindi ad innescare un dubbio di sua illegittimità
costituzionale; essa quindi esaurisce l'esigenza di interpretazione adeguatrice. La quale si ferma qui e non si estende
anche alla regola della conversione, pure prevista dall'art. 32, comma 5, cit., perché - si ripete - la mancata
conversione è conseguenza di una norma legittima, che anzi rispecchia un'esigenza costituzionale, e che non consente
di predicare un (inesistente) danno da mancata conversione." (§ 16, pag. 28).
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4. I primi pronunciamenti di merito dopo Cass. S.U. n. 5072/2016.
a) Trib. Roma, est. Sordi, 12.4.2016:
"occorre dunque procedere alla liquidazione, in favore dei ricorrenti, del danno nei limiti segnati dall’art. 32, comma 5,
l. n. 183 del 2010, che si deve comunque ritenere provato. Non è invece possibile riconoscere somme ulteriori, poiché
nessuno dei lavoratori ha offerto prove circa danni eccedenti quei limiti. [...] [N]el caso in cui lo stesso lavoratore sia
stato destinatario di plurime assunzioni a termine illegittime, non è possibile ipotizzare la liquidazione di una somma
ex art. 32, co. 5, l. n. 183 del 2010 per ogni contratto illegittimo. Infatti, il danno che, secondo l’impostazione della
Suprema Corte, beneficia del vantaggio sul piano probatorio, è quello costituito dalla «illegittima precarizzazione»
(così, letteralmente, il principio di diritto enunciato dalle Sezioni unite) [...] e ciò comporta inevitabilmente una
valutazione unitaria dell’illegittima condotta posta in essere dalla P.A. Invece, il numero e la durata dei singoli
contratti a tempo determinato rilevano quali circostanze di fatto delle quali il giudice deve tener conto
nell’individuazione dell’ammontare del quantum (comunque compreso nei limiti minimo e massimo stabiliti dalla
norma del 2010) da riconoscere nei singoli casi. Invero, tanto più si protrae nel tempo l’illegittimo impiego a termine,
tanto più assume carattere pregiudizievole la situazione di precarizzazione in cui versa il lavoratore.
In questo senso, un’altra circostanza di fatto da tener presente è costituita dall’esistenza di intervalli tra un’assunzione
a termine e l’altra e dalla durata di quegli intervalli. Infatti, in presenza di lunghi intervalli, deve ritenersi che la
situazione di precarizzazione nella quale le ripetute assunzioni a termine avrebbero confinato il lavoratore non sia
stata particolarmente significativa. Vero è che la sentenza n. 5072 del 2016 contiene un esplicito rinvio ai criteri
indicati nell’art. 8 della l. n. 604 del 1966 (e, quindi, al numero dei dipendenti occupati, alle dimensioni dell’impresa,
all’anzianità di servizio del prestatore di lavoro, al comportamento e alle condizioni delle parti). Ritiene tuttavia il
Tribunale che quelli prima segnalati (vale a dire, numero e durata dei contratti a tempo determinato, esistenza di
intervalli tra un’assunzione a termine e l’altra) sono le circostanza di fatto che, nell’illecito di cui si tratta (cioè
illegittimo ricorso alle assunzioni a termine da parte della P.A.), valgano a specificare almeno tre dei criteri enunciati
dalla norma del 1966 e, precisamente, quelli dell’anzianità di servizio, del comportamento delle parti e delle loro
condizioni. Infatti, se il danno da risarcire è quello della prolungata precarizzazione subita dal lavoratore, l’anzianità di
servizio coincide con la durata dei vari contratti a tempo determinato, il comportamento delle parti è qualificato dal
numero delle assunzioni a termine disposte e dall’intervallo tra l’una e l’altra, mentre le condizioni delle parti, e
specificamente quelle del lavoratore, dipendono dalle caratteristiche dello stato di precarizzazione a sua volta
influenzato, come detto, da numero, durata e intervalli delle assunzioni a termine. Meno significativi, invece, i dati
relativi al numero dei dipendenti e alle dimensioni della parte datoriale, i quali assumono una razionale influenza
sull’ammontare dell’obbligo risarcitorio quando il debitore è un’impresa privata, perché essi sono indici della solidità
economico-finanziaria della parte cui deve essere accollato l’onere patrimoniale di cui si tratta, elemento di fatto,
questo, pressoché neutro, invece, quando il debitore ha natura di ente pubblico."
b) Trib. Treviso, est. Giordan, 6.5.2016:
"l'indennità in questione non ha natura retributiva e conseguentemente non è soggetta né a rivalutazione monetaria,
né alla maggiorazione degli interessi legali per il periodo anteriore alla decisione."
c) App. Firenze, pres. Bronzini, est. Tarquini, 14.4.2016:
"ne deriva la certa debenza [...] del risarcimento del danno ex art. 36 [...] per essere stata dimostrata l'abusiva
reiterazione dei rapporti precari [...]. Né ad escludere un tale diritto vale l'avvenuta immissione in ruolo [...], giacché
[...] il pregiudizio che la norma mira a riparare e la violazione che intende sanzionare consistono ex se nell'abusiva
reiterazione dei contratti a termine e nella conseguente precarietà cui il lavoratore si è trovato per anni
illegittimamente costretto, condizioni queste ormai definitivamente realizzatesi."
d) Trib. Roma, est. Trementozzi, 21.4.2016:
"Deve, invece, trovare rigetto la domanda di risarcimento del danno ex art. 36 D.Lgs 165/2001. Giova premettere che,
trattandosi di rapporto di collaborazione di fatto svoltosi con i caratteri propri della subordinazione, [...] Nel
presente giudizio, invece, non viene in rilevo alcuna violazione della normativa comunitaria che consenta di
prescindere dai notori oneri di prova e di allegazione del danno di cui si chiede il risarcimento. [...] Si tratta di un
danno assimilabile alle tipiche fattispecie di responsabilità precontrattuale ex artt. 1337 e 1338 c.c., sebbene l’art. 36
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preveda un trattamento di miglior favore per il lavoratore, perché tutela il suo affidamento senza presumere in lui
alcuna conoscenza delle norme imperative che presiedono all’accesso all’impiego presso le pubbliche amministrazioni
(ciò che imporrebbe di escludere la sussistenza della responsabilità risarcitoria della pubblica amministrazione). [...] In
conclusione, non avendo parte ricorrente formulato alcuna allegazione sulla perdita di altre occasioni di impiego o
sulla 'sofferenza psichica indotta dal lavoro precario' genericamente dedotta, la domanda non può che trovare
rigetto."
Scandicci, Scuola Superiore della Magistratura, 28.6.2016.
Il coordinatore del gruppo di lavoro
Luigi Cavallaro
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