2006 numero 8 Dicembre

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2006 numero 8 Dicembre
2014 numero 6 giugno
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Picciotti carissimi,vasamu li mani.
Ne' più rozzi trovi de' brani di un colore e di una
melodia che ti fa presentire il Petrarca. Valgano a
prova alcuni versi nella canzone attribuita a re
Manfredi:
Concludiamo il nostro viaggio sul
1° Capitolo della
Storia della letteratura Italiana 1870
di Francesco De Sanctis: I SICILIANI
E vero certamente credo dire,
che fra le donne voi siete sovrana,
e d'ogni grazia e di virtù compita,
per cui morir d'amor mi saria vita.
….Nei sonetti di Iacopo da Lentino, non mancano
movimenti d'immaginazione ed una certa energia
d'espressione, come:
L'Intelligenzia, poema allegorico, pieno d'imitazioni
e di contraffazioni, ha una perfezione di lingua e di
stile, che mostra nell'ignoto autore un'anima
delicata, innamorata, aperta alle bellezze della
natura, e fa presumere a quale eccellenza di forma
era giunto il volgare.
C'è una descrizione della primavera, non nuova di
concetti, ma piena di espressione e di soavità, come
di chi ne ha il sentimento. E continua così:
Ben vorria che avvenisse
che lo meo core uscisse
come incarnato tutto,
e non dicesse mutto - a voi sdegnosa:
ch'Amore a tal n 'addusse,
che se vipera fusse,
naturia perderea:
ella mi vederea: - fòra pietosa.
Ma sono affogati fra paragoni, sottigliezze e
freddure, che nella rozza trascurata forma spiccano
più, e sono reminiscenze, sfoggio di sapere. Non
sente amore, ma sottilizza d'amore, come:
Ed io stando presso a una fiumana
in un verziere all'ombra di un bel pino,
d'acqua viva aveavi una fontana
intorneata di fior gelsomino.
Sentìa l'àire soave a tramontana:
udìa cantar gli augei in lor latino;
allor sentìo venir dal fino amore
un raggio che passò dentro dal core,
come la luce che appare al mattino.
Fino amor di fin cor vien di valenza,
e scende in alto core somigliante,
e fa di due voleri una voglienza,
la qual è forte più che lo diamante,
legandoli con amorosa lenza,
che non si rompe, nè scioglie l'amante.
E descrive così la sua donna:
Guardai le sue fattezze dilicate,
che nella fronte par la stella Diana,
tant' è d'oltremirabile biltate,
e nell'aspetto sì dolce ed umana!
Bianca e vermiglia di maggior clartate
che color di cristallo o fior di grana:
la bocca picciolella ed aulorosa,
la gola fresca e bianca più che rosa,
la parlatura sua soave e piana.
Le bionde trecce e i begli occhi amorosi,
che stanno in sì salutevole loco,
quando li volge, son sì dilettosi,
che il cor mi strugge come cera foco.
Quando spande li sguardi gaudiosi
par che 'l mondo si allegri e faccia gioco.
Su questa via giunge sino alla più goffa espressione
di una maniera falsa e affettata, come è un sonetto,
che comincia:
Lo viso, e son diviso dallo viso,
e per avviso credo ben visare,
però diviso viso dallo viso,
ch'altro è lo viso che lo divisare, ecc.
Nondimeno questi passatempi poetici, se rimasero
estranei alla serietà e intimità della vita, ebbero non
piccola influenza nella formazione del volgare,
sviluppando le forme grammaticali e la sintassi e il
periodo e gli elementi musicali: come si vede
principalmente in Guido delle Colonne.
1
Qui ci è un vero entusiasmo lirico, il sentimento
della natura e della bellezza: ond'è nata una
mollezza e dolcezza di forma, che con poche
correzioni potresti dir di oggi; così è giovine e
fresca.
E se il sonetto dello “sparviere” è della
Nina, se è lavoro di quel tempo, come non pare
inverisimile, è un altro esempio della eccellenza a
cui era venuto il volgare, maneggiato da un'anima
piena di tenerezza e d'immaginazione:
ELENA BONO
Tapina me che amava uno sparviero,
amaval tanto ch'io me ne moria;
a lo richiamo ben m'era maniero,
ed unque troppo pascer nol dovia.
Or è montato e salito sì altero,
assai più altero che far non solia;
ed è assiso dentro a un verziero,
e un'altra donna l'averà in balìa.
"I1 bene è la scelta difficile" di Stefania Venturino
Caro Notaio Motta, sempre ricordandoLa con tanta
stima e affetto, sono lieta di sapere che all' Istituto
Boselli riproporrete il filmalo del mio dramma LE
SPADE E LE FERITE.
Con tutto il cuore sono in mezzo ai giovani perché
tutta la mia opera è dedicata a loro, alla loro
comprensione, in genere desta, acuta, piena di
slanci generosi.
Sono sempre con voi, cari giovani, e sono sempre
quella ragazza di vent'anni che combattè per la
libertà, come staffetta partigiana della 6" zona
operativa alle dipendenze del grande Aldo Gasta1di
"Bisagno", il "primo partigiano d'Italia".
E non dimenticherò mai che Sandro Pertini mi ha
voluto molto bene, proprio per la mia poesia
resistenziale. lo lo ricordo ancora col braccio al
collo, reduce dalla tortura subita dai tedeschi.
Entrò nel Bar Mangini a Genova e volle pagarsi il
caffè che tutti i presenti avrebbero voluto offrirgli.
Idealmente vi abbraccio, anche da parte di
mio marito Gianmaria, che non c'è più.
Vostra Elena Bono
Isparvier mio, ch'io t'avea nodrito;
sonaglio d'oro ti facea portare,
perchè nell'uccellar fossi più ardito.
Or sei salito siccome lo mare,
ed hai rotto li geti e sei fuggito,
quando eri fermo nel tuo uccellare.
Con la caduta degli Svevi questa vivace e fiorita
coltura siciliana stagnò, prima che acquistasse una
coscienza più chiara di sè e venisse a maturità. La
rovina fu tale, che quasi ogni memoria se ne spense,
ed anche oggi, dopo tante ricerche, non hai che
congetture, oscurate da grandi lacune.
Nata feudale e cortigiana, questa coltura
diffondevasi già nelle classi inferiori, ed acquistava
una impronta tutta meridionale. Il suo carattere non
è la forza, nè l'elevatezza, ma una tenerezza
raddolcita dall'immaginazione e non so che molle e
voluttuoso fra tanto riso di natura. Anche nella
lingua penetra questa mollezza, e le dà una
fisonomia abbandonata e musicale, come d'uomo
che canti e non parli, in uno stato di dolce riposo:
qualità spiccata de' dialetti meridionali.
La parte ghibellina, sconfitta a Benevento,
non si rilevò più. Lo nobile signore Federico e il
bennato re Manfredi dieron luogo ai papi e agli
Angioini, loro fidi. La parte popolana ebbe il
disopra in Toscana, e la libertà de' comuni fu
assicurata. La vita italiana, mancata nell'Italia
meridionale in quella sua forma cavalleresca e
feudale, si concentrò in Toscana. E la lingua fu
detta toscana, e toscani furon detti i poeti italiani.
De' siciliani non rimase che questa epigrafe:
Con queste parole Elena Bono salutava le persone
presenti a11'Istituto Boselli di Savona il 21 Gennaio
2014, per la proiezione di un filmato sul dramma
teatrale LE SPADE E LE FERITE, rappresentato a
San Miniato in prima assoluta mondiale nel Luglio
del 2000.
Il 26 Febbraio, poco più di un mese dopo, Elena
sarebbe morta nell'ospedale di Lavagna, dopo due
soli giorni di ricovero dovuti ad un improvviso
aggravamento della sua salute.
E' stata lucida fino alla fine.
Che fur già primi: e quivi eran da sezzo.
2
Ha chiesto di ricevere l' Eucaristia il giorno prima
di morire, confermando fino all'ultimo la sua
volontà di appartenere a Gesù Cristo, al quale aveva
dedicato tutta la sua opera letteraria, in risposta a
quella che lei ha sempre definito una "chiamata".
"Mi dicono "scrittore", ma io sono solo una
amanuense" -ha ribadito ancora una volta Elena
nella
sua
ultima
intervista
pubblicata
sull'Osservatore Romano la mattina dello stesso
giorno della sua morte, avvenuta poco dopo le 20
Con ciò voleva dire che la sua scrittura non nasceva
da lei, ma da un'altra voce, ispirata dal cielo.
Comprese che si trattava di una vera e propria
chiamata quando un giorno, poco dopo la sua
laurea, mentre stava ascoltando musica ungherese
nel suo salotto, all'improvviso si fece un grande,
assoluto silenzio, e udì distintamente le parole:
"Quando venne il suo giorno, dopo novecentotrenta
anni di vita, Adamo tornò alla terra .. .....
E' l' inizio di MORTE DJ ADAMO, il suo
capolavoro assoluto, dal quale tutto ebbe origine,
gli a1tri racconti, i romanzi, il teatro, le poesie
religiose e della resistenza.
"In tutta lo mia opera -diceva Elena Bono -non ho
fatto che raccontare lo passione di Cristo che si
rinnova nella storia".
E ancora:
"AI Signore ho chiesto non solo di non scrivere mai
una sola parola inutile, ma di scrivere cose che
potessero far bene alla gente".
Ho conosciuto Elena Bono negli anni '90, quando
scrivevo come cronista nella redazione genovese de
" II Giornale" e fui incaricata di intervistarla. Il
primo incontro -per la verità per me folgorante -fu
solo telefonico, ma ne seguirono molti altri, di
persona, e con gli anni il nostro rapporto crebbe e si
trasformò via via in un vero e proprio sodalizio
umano e professionale.
Elena Bono, nata a Sonnino nel 1921, ha vissuto a
Chiavari fin dalla sua adolescenza, dove il padre,
Francesco Bono, illustre grecista e latinista, era
preside del Liceo Classico.
Fu durante il periodo di sfollamento della famiglia a
Bertigaro, nell'entroterra ligure, che Elena incontrò
colui che nel 1959 sarebbe diventato suo marito,
Gian Maria Mazzini, discendente di Giuseppe
Mazzini, morto nel 2009.
E fu proprio quel periodo che segnò profondamente
la vita e l'intera opera letteraria di Elena Bono, che
decise di diventare staffetta partigiana operando
nella sesta zona operativa, sotto il comando di Aldo
Gastaldi "Bisagno" (Medaglia d'Oro al valor
militare).
Dopo 1'8 Settembre ' 43 ella comprese l'importanza
e "urgenza di fare la sua scelta, di assumersi la sua
parte di responsabilità nella storia che stava
vivendo, scegliendo di lottare per la libertà.
"O libertà o schiavitù", ripeteva spesso ricordando
quei momenti cruciali, e invitando specialmente i
giovani a riflettere:
"Il problema è quello della necessità della scelta. Il
bene è lo scelta difficile".
Impossibilitata a scrivere per i postumi di un ictus e
a seguito di una progressiva perdita della vista, per
molti anni ancora Elena Bono ha continuato a
creare nuove opere, fino a due anni prima di morire,
dettando tutto a delle sue collaboratrici.
Mai si lamentava della sua malattia, persino dopo
che era costretta sempre a letto.
"Durante il giorno -diceva -o prego o ripasso" segno che la sua mente era sempre al lavoro,
sempre presente e partecipe delle vicende del
tempo, che seguiva attraverso la radio e la
televisione, ma soprattutto con l' intelligenza della
fede.
La incontravo ormai da molti anni ogni settimana e
per me era sempre un evento quasi celebrativo, mai
scontato o ripetitivo, consapevole come ero di avere
avuto il "privilegio", e la responsabilità, di trovarmi
di fronte ad una persona di raro talento letterario e
di straordinaria cultura; soprattutto una donna che,
fino all'ultimo, ha lottato per testimoniare il valore e
la dignità della vita anche nel letto della malattia e
della vecchiaia, riattualizzando quotidianamente il
suo impegno e la sua ricerca di senso,
confrontandosi con Colui che, di questo senso, ne è
l'incarnazione assoluta ed eterna: Gesù Cristo e il
Suo Vangelo.
Dall'ascolto della Sacra Scrittura, e dalla
frequentazione quotidiana alla Santa Messa, che ha
praticato per la gran parte della sua vita (negli anni
della malattia riceveva spesso l' Eucaristia a casa),
Elena Bono ha imparato ed effettivamente ha
conosciuto il valore sacro della Parola, facendo del
recupero della sacralità della Parola una missione
imprescindibile, come cristiana e come poeta. "li
vostro parlare sia sì sì, no no": citava spesso questa
esortazione di Gesù nel Vangelo.
E pur affermando di aver sempre scritto "sotto una
strana dettatura", rispondendo con la poesia alla
chiamata di amore di Cristo, la ricerca stilistica e
linguistica è sempre stata per la Bono una impresa
difficile ed estenuante, nella volontà di dover essere
assolutamente fedele all'ispirazione ricevuta. senza
nulla aggiungere di suo, per suo compiacimento o
vanagloria.
"Nella poesia è come nella scultura -diceva: non si
tralla tanto di aggiungere quanto di togliere
parole",
3
E portava l'esempio del grande e da lei amatissimo
Michelangelo, spiegando che come in un blocco di
marmo è già presente la forma che lo scultore dovrà
saper tirare fuori, così è con le parole: occorre
trovare quelle giuste e necessarie, non una di più
non una di meno.
Nonostante la malattia, che ne limitò sempre più
pesantemente l'autonomia, Elena Bono è sempre
rimasta la coraggiosa ragazza della Resistenza:
dopo la morte di tanti suoi compagni di scuola,
caduti per la libertà, ha continuato per loro ed in
loro memoria a combattere, scrivendo memorabili
poesie (è stata definita "poetessa della Resistenza")
e soprattutto la trilogia nota come "Uomo e
Superuomo" , che racconta la guerra vista dalla
parte dei tedeschi (la complessa stesura narrativa,
che ha l'estensione di un grande romanzo classico, è
raccontata da Fanuel Nuti, personaggio narratore e
traduttore di un diario di un soldato tedesco da lui
ritrovato, personaggio quindi che si pone dentro e
fuori la lunga storia narrata. che abbraccia un
quarantennio, dal 1921 al 1958).
L'invito e l'esempio che Elena Bono ci lascia è
quello di guardarsi dentro per sconfiggere il male
che si annida innanzitutto in noi, comprendere quale
sia la nostra responsabilità e la nostra pane nella
storia, prendersi ognuno sulle spalle il peso che gli
tocca e costruire, edificare la propria coscienza e la
civiltà del proprio tempo, cercando sempre il Bene e
la Verità che soli conducono alla vera Libertà.
Siamo ancora in un romanzo autobiografico della
Simonetta
Agnello,
che ricorda episodi di
vita vissuta dalla sua
famiglia a partire dal
1958,
quando
la
benestante
famiglia
Agnello
lascia
Agrigento per stabilirsi
a Palermo.
Simonetta e sua sorella
Chiara più che lasciare
Agrigento
abbandonano Mosè, la
frazione di Agrigento,
il luogo dell’infanzia,
carico di ricordi ma
con una emozionante aspettativa del futuro tipica
degli adolescenti.
La Palermo che li accoglie è famigliare,
movimentata e resa dolce dall'affetto dei parenti e
da quel grazioso appartamento di via XX settembre,
vicino al teatro Politeama, nel cuore di Palermo.
E la vita abitudinaria dei ritmi della campagna
cambiano in quelli della “metropoli”.
Punto di riferimento e di conforto naturalistico è la
visione rasserenante del monte Pellegrino e il
dedalo di strade che ne discende , dai forti profumi
, dalla vita animata di nuove persone, profumi
sconosciuti e usanze ben diverse dalla Sicilia
contadina finora vissuta.
Grande è la descrizione e il rispetto delle figure
femminili a partire dalla saggia madre che finge di
non vedere/sapere di qualche scappatella di un
marito e padre non proprio fedelissimo.
Una baby sitter (ad Agrigento si sarebbe chiamata
“criata” ) proveniente dalla campagna magiara con
le sue aspirazioni ad un nuovo rango sociale ed un
simpatico ex fattore assurto al ruolo di autista
personale.
E’ la Palermo dei dolci, dei pupi di zucchero, delle
feste ginnasiali, ordite con la complicità dei cugini
della grande famiglia Agnello.
Immagini che si susseguono come sfogliando uno
dei tanti album di famiglia,che abbiamo già visto
nei precedenti romanzi della Agnello.
Pochi palpiti comunque e pensiamo di dover
rimandare le emozioni alla prossima lettura del
nuovo libro “La mia Londra” (appena uscito) per
imbatterci in nuove e più eccitanti suggestioni.
Nell’approccio ad una paese decisamente diverso e
seguendo le peripezie di una giovane siciliana nel
regno unito. Agrigento,Palermo, Londra….
il viaggio promette bene.
(r.a.)
(Stefania Venturino)
Ringraziamo la prof. Venturino per la bella
testimonianza e per l’affetto dimostrato al nostro
Sodalizio.
4
L’ANGOLO DELLA POESIA
Salve, o Sicilia! Ogni aura che qui muove,
pulsa una cetra od empie una zampogna,
e canta e passa… Io era giunto dove
giunge chi sogna;
L' isola dei poeti
Il treno andava. Gli occhi a me la brezza
chi sogna, ed apre bianche vele ai venti
nel tempo oscuro, in dubbio se all’aurora
l’ospite lui ravvisi, dopo venti
secoli, ancora.
pungea tra quella ignota ombra lontana;
e m’invadea le vene la dolcezza
antelucana:
e il capo mi si abbandonò. Tra i crolli
del treno allora non udii che un frùscio
uguale: il sonno avea spinto sui molli
cardini l’uscio,
e, di là d’esso, il fragor ferreo parve
piano e lontano. Ed ecco udii, ricordo,
il metro uguale, tra un vocìo di larve,
del tetracordo:
di là dal sonno, alcuno udii narrare
le due Sirene e il loro incantamento,
e la lor voce aerea, di mare
fatta e di vento:
gli udii narrare l’isola del Sole,
là dove mandre e greggie solitarie
pascono, e vanno dietro lor due sole
grandi armentarie,
con grandi pepli… Ed il tinnir cedeva
ad un’arguta melodia di canne:
udii cantare il fumo che si leva
dalle capanne,
le siepi in fiore, i mezzodì d’estate
pieni d’un verso inerte di cicale,
e rombi delle cupe arnie, e ventate
fresche di sale:
e chi cantava forse era un pastore
tutto nascosto tra le verdi fronde:
chiaro latrava un cane tra il fragore
vasto dell’onde.
(Giovanni Pascoli, "Odi e Inni"- L'isola dei poeti, 1906)
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Custodisca Iddio una casa di Noto,
e fluiscano su di lei le rigonfie nuvole!
Con nostalgia filiale anèlo alla patria, verso cui mi
attirano le dimore delle belle sue donne.
E chi ha lasciato l'anima a vestigio di una dimora, a
quella brama col corpo fare ritorno....
Viva quella terra popolata e colta, vivano anche in
lei le tracce e le rovine!
Io anèlo alla mia terra, nella cui polvere si son
consumate le membra e le ossa dei miei avi.
Ibn Hamdis
Poeta Arabo di origine siciliana del XI secolo
-----Giusto è che questa terra,di tante bellezze superba,
alle genti si addìti e molto si ammiri,
opulenta d'invidiati beni
e ricca di nobili spiriti.....
Lucrezio - De rerum natura
Ecco e le cetre levano il tintinno
dorico, misto allo squillar del loto
chiarosonante. Ed improvviso un inno
sbalza nel vuoto:
l’aquila è in alto: fulgida nel lume
del sole: preda ha negli artigli: lente
ondoleggiando cadono giù piume
sanguinolente:
in alto in alto, sopra i gioghi bianchi
d’Etna, più su de’ piccoli occhi torvi:
nelle bassure crocitano branchi
neri di corvi.
-----"Numquam est tam male Siculis,
qui aliquis facete et commode dicant......".
( Qualunque cosa possa accadere ai Siciliani,
essi lo commenteranno con una battuta di spirito.. )
Cicerone
In Verrem - Actio Secundae - Liber Quartus
Quel crocitare mi destò. Di fronte
m’eri, o Sicilia, o nuvola di rosa
sorta dal mare! E nell’azzurro un monte:
l’Etna nevosa.
5
Su segnalazione dell’amico e corrispondente
torinese Renato Cesarò che ringraziamo
In effetti nelle liriche di questa sezione si ha come
un susseguirsi di tele che hanno come soggetto delle
nature morte: frutta, verdure e oggetti di uso
domestico.
«L’amaro del radicchio e la saporosa / fragranza del
cetriolo // l’acceso gusto della menta / il ruvido del
ravanello / il sedano estasiante / e l’eccitato
solletico / del basilico in gola».
La seconda parte ha come titolo “Esculapio SOS”, e
si apre con una massima di A. Dumas tratta dal
“Conte di Montecristo”.
La citazione è emblematica: «Parlare dei propri
mali è già una consolazione».
La terza parte è quasi il superamento del
materialismo e della contingenza: la poesia diventa
lirica. I colori dei frutti e delle pietanze si tramutano
negli odori e nei colori delle piante, nei suoni
delicati della natura, nella felicità che l’essere
umano acquisisce dopo un lungo periodo di
convalescenza. La vita comincia a sorridere, e
sorride in tutta la sua pienezza.
L’ultima parte della silloge infine, che è quasi una
lunga dedica agli amici più cari, si conclude proprio
con un’invocazione ad un amico, Silvio Bellezza:
«Tu nei misteri del Nulla o del Qualcosa / celi le tue
sembianze / in pace duratura / e fuggi a riguardare /
non so quali confini / dove si eterna il canto / nella
nebbia dei giorni / e nei silenzi / degli occhi».
Nascosti tra ali di farfalla
I semprevivi accendono colori
Nel buio della notte e scaldano
Di sole il gelo della riva
Enrica Di Giorgi Lombardo
(Palermo 1917-Torino 16/04/2005)
da “Terzo atto”1989
Il portico di Esculapio, Lorenzo Editore,
«Persica, poma, pyra, lac, caseus, et caro salsa, / et
caro cervina, leporina, caprina, bovina, haec
melancholica sunt infirmis inimica» si legge nella
settima massima della “Regola sanitaria
salernitana”, che invita a non mangiare pesche,
mele, pere, latte, formaggio e carne salata, di cervo,
di lepre, di capra, di bue perché sono cibi che
nuocciono gravemente alla salute.
Iniziare una recensione con una tale massima
potrebbe dare l’impressione che si voglia recensire
un libro di medicina o di arte culinaria.
Invece no. Si tratta dell’ originale volume di poesie
della poetessa palermitana, Enrica Di Giorgi
Lombardo.
Il libro, dal titolo “Il porto di
Esculapio” è diviso in tre parti.
Nella prima, in forma poetica, vengono descritte e
presentate le pietanze che fanno più gola all’uomo,
in una vita godereccia che a tratti richiama autori
classici come Alceo, Orazio, Petronio.
Nella seconda parte vengono invece evidenziati gli
aspetti che riguardano la salute.
La terza parte infine è quasi preludio di una
completa guarigione.
Presentato così il volume potrebbe sembrare
tutt’altro che un libro di poesia.
Invece, al contrario, la poetessa riesce a fondere
poesia, esperienza personale, descrizione vegetale e
soprattutto espressività interiore, quasi in maniera
classica.
Il volume si apre con una massima salernitana,
estremamente indicativa: «Ut sis nocte laevis sit tibi
coena brevis». E la prima parte porta proprio il
titolo di “Sapori e fantasie”.
In questa sezione vengono proposti, scrive l’autrice
nella premessa, «componimenti che hanno tratto
vita da immagini esaltanti i colori, gli aromi, i
sapori che rallegrano vista, olfatto, gusto, in aloni
di reale e di immaginario, tripudio di sensi e gioia
della mente».
Questa silloge di Enrica Di Giorgi mostra come con
grande abilità si possono fondere in un tutt’uno arte,
cultura, poesia, sentimenti, lirismo e scienza, e la
cosa può essere certo ascritta ad onore della sua
autrice.
Nei nostri archivi abbiamo scovato un bell’articolo a
firma della succitata Enrica Di Giorgi Lombardo
“Gli Arabi cantori d’Amore”
Durante la vita di Maometto (570-632) e coi primi
successori non vi furono grandi cambiamenti in
prosa o in poesia rispetto ala produzione
preislamica: soltanto oggetto delle narrazioni o
delle rime furono episodi relativi a Maometto o ai
califfi, lodi in loro onore, invettive per gli avversari.
Col progredire dell’espansione araba,alla Mecca e a
Medina, fiorenti per l’afflusso di pellegrini e di
ricchezze, si accentò il gusto per la vita mondana,
per la galanteria e la raffinatezza e la poesia sempre
più si accentrò sui temi dell’amore e sulla donna.
La pesante qasida cedette il posto al più lieve e
aggraziato ghazal, il canto d’amore talora delicato,
talora ardito, mai sconfinante nell’osceno.
Con il termine qasida (arabo: ‫ق ص يدة‬, qaṣīda), si
intende un componimento arabo, che può arrivare a 100120 versi.
6
Il ghazal si distingue invece per alcune caratteristiche:
 Si compone di cinque o più distici;
 Il secondo verso di ogni distico finisce con una
sorta di ritornello composto di poche parole e
noto come radif che viene preceduto da una rima
nota come qaafiyaa. Nel primo distico, che
introduce il tema, entrambi i versi hanno la
stessa rima e il radif, cosicché lo schema delle
rime nel ghazal si può rappresentare in questo
modo: AA BA CA DA eccetera.
 Non possono esserci enjambement tra i distici,
di modo che ogni distico deve contenere una
frase (o più frasi) di senso compiuto.
 Ogni verso deve avere lo stesso metro
guerriero (Hamasah) raccolti in antologie dei poeti
Abu Tamman e al-Buhturi.
Fiorirono nei secoli successivi con caratteristiche
peculirai i poeti di Spagna e della Sicilia: fra questi
il siciliano Ibn Hamdis (1055-1132) nativo di Noto
(Siracusa) finì i suoi giorni in esilio per la caduta
della sua città sotto Ruggero II e portò con sé una
viva nostalgia della Sicilia, che cantò in dolenti
versi, col rimpianto delle giovanili follie e delle
belle donne a cui aveva lasciato il cuore.
Ricordiamo che sotto Ruggero II l’arabo Idrisi potè
scrivere, su invito del sovrano, il famoso “libro
delle peregrinazioni” , pure noto col nome di “libro
di Ruggero”, che descrive a tinte suggestive le città
dell’isola. Parallelamente, si sviluppava un volgare
arabo e la poesia da quantitativa si faceva
accentuativa.
Nel campo della prosa l’apporto dei popoli
islamizzati conduceva, accanto alla prosa disadorna
degli argomenti grammaticali o scientifici, alla
prosa d’ “adab” riservata alla narrativa,che divenne
sempre più elegante e formale, sino ad assumere la
veste della “prosa ornata”, in cui la cura della
forma divenne il principale scopo dello scrittore, col
risultato di un impreziosimento eccessivo e di una
esasperata ricerca stilistica, specie nella prosa
oratoria e nella epistolografia pubblica e provata.
Si sviluppa la forma della “maqama” (scena),
racconto in preziosa prosa rimata, che prelude al
teatro. Con tali risorse linguistiche gli scrittori
componevano sermoni che riscuotevano un grande
effetto sugli ascoltatori e furono anche usati per
incitare ad azioni belliche.
Eccelse in tal genere, fra il secolo settimo e l’ottavo,
l’impenitente e sensibile “Omar ibn Abì Rabì ‘a,
da cui presero modello numerosi poeti minori.
Nel deserto, intanto echeggiavano ancora le voci dei
beduini, il cui amore non era quello moderno delle
città,ma autentico e spesso infelice (nasib)
Quays ibn Mulawwah legò il suo nome a quello
della donna amata,che non potè sposare per il rifiuto
del padre di lei e rimase noto come Al-magnum
Laylà, impazzito per Laylà.
Seguirono gli splendori letterari del periodo
omayyade che cominciò con il regno di Mu'awiyah
(nel 661 e finì con quello di Marwan II nel 750) e
del periodo abbaside. (La dinastia califfale degli
Abbasidi governò il mondo islamico dalla sua sede
di Baghdad fra il 750 e il 1258. Nel primo, accanto
alle tradizionali forme di poesia, fiorirono opere di
carattere oratorio, storico e filologico, traduzioni di
opere scientifiche greche,studi di medicina e
astronomia.
Nel secondo, col formarsi di una vasta comunità
islamica di popoli diversi, si ebbero innesti di varie
culture, che influirono sulla filosofia,sul diritto,
sulle scienze, pur mantenendosi la priorità araba
nella poesia e nella prosa letteraria.
E’ la nascita della civiltà arabo-islamica.
Nelle città irachene o iraniche la poesia, in una
cornice di benessere e licenziosità, è soprattutto
bacchica e amorosa. Sono “poeti nuovi”, che
tentano nuove forme metriche, fra le reazioni dei
poeti tradizionali.
Taluni come Abu Nuwas o Abu l’-Atahija,cantano
anche delicate poesie sull’incertezza del destino
umano.
Si gettano le basi dei racconti, delle “Mille e una
notte” coi viaggi di Sindbad; si scrivono libri di
commento alle canzoni in voga.
Dalla Siria venne nel IX secolo la reazione del
neoclassicismo, che riportava la letteratura al
vocabolario e alle forme antiche, ai canti del valore
Il mio saluto, la mia pace
Quando arriverà la pace?
Quando arriverà quel giorno?
Quando spariranno le armi e le bombe
Quando tutta questa ostilità avrà fine
Il giorno in cui una nave da guerra diventerà un
palazzo
di piacere e divertimento che passeggia sul mare
Il giorno in cui l’acciaio dei fucili
sarà fuso per trasformarsi in giocattoli
Il giorno in cui i generali cominceranno a coltivare
fiori
Quando la pace abbraccerà tutti i Paesi
confinanti di questa terra
.Quando Ishmael e Israell
cammineranno mano nella mano
e quando ogni ebreo sarà fratello dell’arabo
Quando arriverà quel giorno?
Mahmud Abubradj
7
Così ne scriveva qualche mese fa
Emanuela Abbadessa :
Antonio Marangolo
Musicista, compositore e
pittore, è noto al
pubblico per il suo lungo
sodalizio artistico con
Paolo Conte e Francesco
Guccini, dopo aver
lavorato
con
Ivano
Fossati, Ornella Vanoni
e Vinicio Capossela.
Nato a Catania nel 1949,
da allora ha collezionato
trentatré traslochi e scritto decine di racconti e
romanzi che, regolarmente, ha perso o buttato via.
Saragosa, paese di sole e di lava alle pendici
dell'Etna.
Eddie Ponti, investigatore privato, non ha solamente
strepitose doti di segugio e trasformista: ha,
soprattutto, la prodigiosa capacità di accorciarsi di
quindici centimetri.
La sua lunga carriera in Polizia lo ha abituato a
sbrogliare complicate matasse criminali, ma una
mattina di primavera Ponti riceve la visita della
vedova del prefetto, Maddalena Virlinzi, donna
meravigliosa e sensuale, piena di lentiggini e con
una criniera rossa simile a quella di un leone.
L'incarico che la vedova gli affida è di pedinare una
persona, stilando rapporti dettagliati giorno per
giorno e recandosi da lei per rendere conto delle
indagini ogni domenica pomeriggio.
Ma la persona che la signora Virlinzi desidera sia
pedinata è... lei stessa.
Si avvia così, su questo preludio venato di surrealtà,
un'avventura che è insieme un giallo, un
inseguimento, un gioco di specchi, una fuga
musicale sul tema del desiderio e dell'amore, della
malinconia che ne è inseparabile compagna, dello
sguardo altrui che è necessario a ciascuno di noi per
sentirsi vivo.
Da una Sicilia sulfurea e bellissima fino a Roma, da
Trieste a Ferrara avvolta da una nebbia felliniana,
l'inseguimento tra Eddie e Maddalena ci conduce
attraverso un romanzo sorprendente per la sua
ironia, il suo ritmo, la sua intensità mai disgiunta da
una dissetante levità. Musicista, pittore e prolifico
autore di romanzi sinora sconosciuti al grande
pubblico, Antonio Marangolo è una vera
rivelazione, uno di quegli scrittori dal timbro
originalissimo e immediatamente riconoscibile: una
voce, come quella del suo sassofono, che ci avvolge
e ci conduce tra le spire di storie solo all'apparenza
bizzarre, in realtà verosimili e vivide come accade
solamente nei sogni.
la nostra
Non so se Antonio
Marangolo
appartenga
alla
schiera degli spiriti
inquieti. Lo conosco
ma non abbastanza
per dirlo. Ma credo di
sì. Musicista, pittore,
scrittore… Ti basta.
Recentemente
è
approdato
a
Mondadori con un
suo romanzo di qualche anno fa, Complice lo
specchio, uscito in prima battuta da un editore
siciliano, Bonanno cui il fiuto non manca di certo.
Un artista che intesse di musica anche le sue
pagine, pensa che a Bach e al jazz ha dedicato un
delizioso volumetto, Il sassofono ben temperato,
uscito da A&B (costola appunto di Bonanno), nel
2011. Lì il caso è davvero particolare: cosa
succederebbe se Johann Sebastian Bach potesse
tornare oggi tra i vivi? Ipotesi allettante narrata
con brio in un aldilà in cui il Padreterno concede
agli artisti la possibilità di tornare per qualche
giorno sulla terra per assorbire nuovi stimoli e
continuare così, anche dopo morti, il loro percorso
creativo. Bach sceglie gli Stati Uniti e, a Central
Park, si imbatte in Ornette Coleman intento a
leggere la partitura del Clavicembalo ben
temperato. Tra lo stupore del musicista e la
curiosità del Kantor si dipana un fitto e divertente
dialogo intessuto di suoni, teologia e filosofia. Dal
neonato sodalizio nasce l’idea di scrivere delle
nuove Invenzioni a tre voci da affidare ad un
sassofono. Per eseguire la nuova musica, la scelta
cade su Nino Manolo Tragao (anagramma di
Antonio Marangolo) oscuro sassofonista siciliano
trapiantato – come lo stesso Marangolo che vive
nel Monferrato, ad Ovada – nel Nord Italia.
Ma lascia che ti parli di lui attraverso un pezzo che
scrissi qualche anno fa, apparso sulle pagine
siciliane di “Repubblica”
«La donna; ecco il grande tema! Lo capiscono tutti
quello!». Così il padre del “dongiovanni
involontario” di Brancati redarguisce il figlio nella
speranza di farlo appassionare alle bellezze
muliebri piuttosto che alla filosofia. E come dargli
torto. Soprattutto se le donne delle quali si parla
sono siciliane. Donne all’ennesima potenza come
potrebbero testimoniare i personaggi maschili dei
quattro romanzi che Antonio Marangolo, scrittore
per caso ma musicista per professione –
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sassofonista di Francesco Guccini e con un carnet
di collaborazioni come Paolo Conte, Miriam
Makeba, Vinicio Capossela, Ornella Vanoni – ha
dato alle stampe per i tipi dell’acese A&B dal 2003
al 2010, anno di pubblicazione del suo Il circo
Moreno, quello in cui i riferimenti autobiografici
sembrano più evidenti. Già dalla copertina che
riproduce un quadro del 2010 dello stesso
Marangolo dal significativo titolo Prima o poi, in
cui davanti ad uno sgabello vuoto e un cappello
pronto a ricevere elemosine, campeggia una
tromba.
Catanese di nascita, trasferitosi adesso ad Ovada,
nell’Alto Monferrato, Marangolo sceglie come
scenario privilegiato la Sicilia della sua infanzia:
immobile, surreale ma di una bellezza abbagliante.
Su una quinta assolata di lava nera, Riccardo
Politi, protagonista del Cavalier Politi (2003)
divide il suo tempo tra il Circolo Universitario,
dove nessuno dei frequentanti s’è mai laureato, e la
terrazza della casa a mare dell’ingegner Laudani,
esclusivo salotto letterario.
Ospite ricercatissimo per la sua teoria sulla
digeribilità dei cibi siculi – molti dei quali
considerati da Politi addirittura letali -, il
protagonista appare alieno dall’attività che
impegna fino allo stremo gli uomini del paese:
guardare le donne. Nulla di ozioso in tutto ciò,
s’intende, anche se costringe gli isolani ad
abbandonare ogni occupazione lavorativa, perché
il continuo cercarsi con gli occhi non è solo una
forma astutissima di corteggiamento spesso
coronata da successo, è piuttosto il realizzarsi
dell’“amplesso oculare”, impossibile con donne
che non siano siciliane. Sono loro le uniche a saper
legare un uomo col solo sguardo tanto da farlo
sentire a tutti gli effetti fidanzato. Ma questo
guardare agognando lo sfiorarsi di una mano,
d’una coscia attraverso il satin della gonna non
avrebbe mai interessato Politi se un giorno, per
caso, non si fosse imbattuto nella misteriosa
Viviana Verga. Un’epifania di femminilità
sapientemente distillata, donna e bambina allo
stesso tempo, Viviana con la sua capacità di
concedersi infantilmente oltre ogni limite, trascina
Riccardo in una relazione fatta di appostamenti, di
lunghe attese per fugare i sospetti di un marito
possessivo, fino a portarlo alla follia suicida.
Complice lo specchio, come recita il titolo del suo
secondo romanzo, Marangolo rappresenta una
donna che sfugge ad ogni controllo e si traveste per
sedurre. È Maddalena Virlinzi, una rossa dagli
occhi verdi, le labbra carnose e i piedini perfetti,
ritratta in un incipit degno d’una detective story. La
conturbante Maddalena entra nell’ufficio di Eddie
Ponti, investigatore privato con la curiosa capacità
accorciarsi di 15 centimetri rendendosi così
irriconoscibile nei pedinamenti, commissionando
proprio un pedinamento. La persona da seguire è
Maddalena stessa che tra alberghi, case private e
monasteri consuma con maggior ardore ogni
genere di rapporto sessuale, più o meno estremo, se
sa di essere spiata. Come per Politi, anche per
Eddie, che pure aveva scelto la castità
concedendosi solo fisiologiche visite alle
compiacenti ragazze di madame Gabrielle, non c’è
speranza. Combattuto tra ragione e gelosia, fugge e
si reinventa artista ma nemmeno il successo
raggiunto può fargli dimenticare la furia erotica
della sirena dai capelli rossi, al cui volere deve
arrendersi continuando a possedere di lei la sua
immagine che si concede ad altri.
Tra descrizioni di cibi siciliani, tra granite e
cannoli di ricotta, Etna e mare, flâneur e ministri
della fede che, come per il Marquis de Sade, sono
sempre latori di raffinate perversioni, la chiave di
tutto è il travestimento. Fingersi disinteressati
all’amore come Politi e poi cadere nelle sue trame;
come Eddie travestirsi da monaco per sottoporre
Maddalena ad ogni tipo umiliazione fisica, quasi
per vendicarsi d’una sfrenata lascivia. O vivere
come dentro un romanzo – la saga dumasiana dei
tre moschettieri per l’esattezza – e sognare d’essere
l’imponente Porthos, come capita all’ingegnere
Umberto Spadaro, nel Barone du Vallon (2006).
Grasso e perennemente affamato Umberto che vive
a Saragosa – città immaginaria nella quale
Marangolo riversa pregi e difetti della nativa
Catania – si rifiuta di esistere al di fuori della sua
fantasticheria letteraria, impaurito dalla possibilità
che le donne lo allontanino per il suo aspetto fisico.
Come Ponti sfoga il suo bisogno d’amore con le
prostitute ma, più che l’amplesso, inscena la
finzione: le agghinda come dame secentesche e dà
loro del voi perché quel corteggiamento, come il
guardarsi, come lo spiare, è spesso più appagante
del sesso stesso. O almeno lo è finché non incontra
Elena Nicolosi. Bellissima, una delle “divinità
irraggiungibili” della piccola Galatea Marina,
località immaginaria non distante da Saragosa.
Elena ha un mito personale, I tre moschettieri, ed è
dunque la donna perfetta che dopo una breve
parentesi erotica con Rosario Caltabiano, amico di
Umberto e irresistibile tombeur de femmes, può
concedersi al fantastico amore di Porthos. Tutto
sembrerebbe perfetto se la misteriosa prostituta
russa Yelèna, conosciuta da Umberto attraverso un
messaggio personale di quelli che iniziano con
molte A e finiscono con “espertissima, anche
domicilio”, non fosse l’esatta copia di Elena. Tra
9
verità e finzione anche lei finisce col rientrare nel
teatro
dell’impossibile
fatto
di
donne,
sicilianissime, col vizio segreto di non apparire ciò
che realmente sono, con esuberanti propensioni
alla fisicità e capaci di marcare il terreno ad ogni
ancheggiante passo proprio come l’avvenente
Malèna dell’omonimo film di Tornatore.
È scherzo o è follia? In una Sicilia magica,
Marangolo si riappropria di concretezze
inattingibili grazie alla musica che punteggia ogni
suo romanzo e in particolare l’ultimo.
Il jazz soprattutto, Thelonious Monk, ma anche le
Suite per violoncello di Bach, Puccini e Ravel,
Libertango e una nostalgica milonga. E su un vero
palcoscenico, quello del surreale Circo Moreno,
finalmente fa vestire al suo protagonista i panni che
gli appartengono, quelli di un musicista. Alla donna
invece riserva un’apoteosi: Consuelo, cittadina di
una geografia dell’anima che comprende ogni Sud
del mondo, è la “torera erotica” che senz’altro
travestimento se non il trucco di scena, ogni sera,
seduce il toro inferocito e l’intera platea portando
l’uno e l’altra fino all’acme del piacere col suo solo
incedere.
E chissà che una matadora come Consuelo non
sarebbe capace di consolare anche i catalani da
poco orfani della corrida.
Devotamente E.E.Abbadessa
Cu avi sali, conza la minestra.
Cu cadi e si susi, nun si chiama caduta.
Cu camina,truppica.
Cu cchiù piglia, cchiù avà ‘ddari.
Cu lu focu joca, prestu s’abbruscia.
Cu avia un figliu parrinu, s’accattava lu jardinu.
Cu cumincia a travagliari di prima matina,avi la
coffa mezza china.
Cu di vecchi s’annamura, sinni chianci la
sbintura.
Cu dormi nun piglia pisci.
Cu è ‘gghiè.
Cu è lu megliu avi l’arsu.
Cu è picciutteddu nunn’è puvureddu.
Cu è riccu d’amici è poviru di guai.
Cu fà ligna a mala banna, pì nescila si l’avi a
carricari ‘ncoddu.
Cu fici, fici.
Cu la voli cotta e cu la voli cruda.
Cummari e cummareddi si cuntanu cosi beddi.
Cu n’appi, n’appi di stì cassateddi di Pasqua.
Cu nunn’è bonu pi iddu, nunn’è bonu pi atri..
Cu nun pensa pì lu futuru, avi la testa cchiù dura
d’un mulu.
Cumpagnu e dolu, gran cunsolu.
Cu nun si movi, si lu mancianu li muschi.
Cu nun si marita, nun sapi li guai di
la vita.
Cuntentu e gabbatu.
Cu paga prima, avi li pisci fitusi.
Cu pari ca dormi e arriposa, chiddu porta la cruci
cchiù gravusa.
Cu piglia s’arripiglia.
Curriri comu un lebbiru.
Curtu e malu cavatu.
Cu s’accuntenta godi.
Cu s’ammuccia di zzoccu fà, è signu ca mali
fà.
Cu sarva pì lu ‘nnumani, sarva pì li cani.
Cu s’à vistu, s’à vistu.
Cu savanta cù li so denti, nun c’innè nenti.
Cu scecchi caccia e fimmini cridi,
facci di paradisu nun ‘nnì vidi.
Cu sempri vidi missi e prucissioni,
lignu nunn’è pì fari crucifissi.
Cu si curca cu li picciliddi, la matina si susi
pisciatu.
Cu si fici li cazzi sò, campà cent’anni.
Cu si la senti, strinci li denti.
Cu simina spini, nun po’ caminari scausu.
Cu si scusa, s’accusa.
Cu si marita ‘nni lu so’ quartieri, vivi ‘nni lu
so’ bicchieri, cu si marita ‘ntà la cuntrata, vivi
‘ntà la cannata.
PROVERBI
Un proverbio è molta roba concentrata in poche
parole. Thomas Fuller, I notabili d'Inghilterra,1662
Cielu picurinu, si non chiovi stà sira,
chiovi a lu matinu.
Ci voli sorti sinu a lu stessu frjiri un ovu.
Coccia cchiù, coccia menu.
Cocciu di calia.
Cogli appena matura la racina,
cu bonu tempu è asciutta d’acquazzina.
Comu è vistu l’omu è rassimigliatu.
Comu mi canti ti sonu.
Comu ti sponi lu cori.
Conzala comu vò……è sempri cucuzza.
Cosi ‘amari’, tenili cari,
cosi ‘duci’, tenili, ‘nchiusi’.
Criscinu l’anni e criscinu li malanni
Cu arrisica, rusica.
Cù avi n’amicu avi a quarcunu,
cù avi un parenti avi a nissunu.
Cu avi a chiffari cu li sperti, stassi cu l’occhi
aperti.
Cu avi la cumidità e nun sinni serbi,
nun trova cunfissuri ca l’assorvi.
10
Sta finendo l’anno scolastico
L'ipocondria
ci piace stilare la classifica delle note disciplinari
più assurde del 2014:
L’ipocondria è data da un insieme di sintomi
psicopatologici: si soffre nell’animo e nel corpo. E’
caratterizzata da una esagerata preoccupazione per
l’integrità del proprio organismo. Per esprimerci
con maggiore immediatezza, usiamo la semplicità:
l’ipocondria è la convinzione di essere ammalati.
Adoro la semplicità. Le cose intelligenti sono
semplici, non si nascondono dietro a giri di parole.
Le
preoccupazioni
dell’ipocondriaco
non
riguardano soltanto un organo del proprio corpo ma,
sovente, moltissimi quali cuore, vista, apparato
osteoarticolare e altri. Il malato, perché di malattia
si tratta, può accusare sensazioni viscerali o
propriocettive (cenestopatie), avvertite come
abnormi e interpretate come sintomi certi di
patologie. Lo si ascolterà a lungo, con autentica
partecipazione per aiutarlo a rimuovere la propria
sofferenza. Per poi uscirne. La mente non è mai
separata dal fisico che non potremo curare se
rimarremo inerti dentro al dolore, non volendo
capire e sbarazzarci delle cause, senza crescere. Si
cresce iniziando un viaggio dentro di noi. Meta, la
rimozione dei sensi dio colpa. All’ipocondriaco è,
comunque, doveroso prescrivere tutti gli
accertamenti clinici necessari per formulare una
diagnosi certa. Nel caso non si trovasse alcuna base
organica in riscontro ai sintomi, è bene iniziare la
terapia della parola, il dialogo medico-paziente.
La vita va vissuta come una scuola. A vivere si può
imparare, lasciando alle spalle gli eventuali traumi
infantili, adolescenziali, le paure interiori. Durante
il dialogo si chiarirà la scelta dei farmaci adatti a
quel particolare paziente. Nella mia pratica medica,
non ho mai incontrato un malato uguale all’altro pur
presentando essi, addirittura, gli stessi sintomi. La
genetica sostiene che non esistono due essere umani
totalmente identici per cui, prima dell’eventuale
prescrizione farmacologica, il paziente va non
soltanto
visitato
ma
anche
capito.
Nessun medico prescrive un antibiotico se non è
indispensabile. Da studenti in medicina ci veniva
raccomandato frequentemente di “non sparare a un
moscerino con un cannone”. La stessa precauzione
vale anche per i farmaci importanti in ambito del
sistema nervoso. La scelta dei farmaci verrà fatta fra
quelli della medicina ufficiale e/o fra quelli della
medicina omeopatica che è atto medico.
Questi ultimi saranno prescritti con il consenso
informato del paziente. Per certi stati emozionali
può essere di utilità che ho constatato sul mio
prossimo, l’uso appropriato di uno o più fiori del dr.
Bach, medico moderno, ricercatore, scienziato.
1. “Non è possibile svolgere la lezione causa olezzo
nauseabondo proveniente da luogo ignoto.”
2. “C.D. aizza i compagni a lanciare penne e
gomme verso il sottoscritto.”
3. “A.C. bacia appassionatamente S.D. mentre S.F.
fotografa l’idillio.”
4. “Per festeggiare la sufficienza in arte L.S. spara
un fumogeno dalla finestra dell’aula.”
5. “A. parla in arabo in classe e non vuole dire il
significato in italiano”
6. “C. disturba la lezione dando testate al muro.”
7. “L’alunno F.M. ritorna dal bagno dopo 20 minuti
dicendo che non lo trovava.”
8. “R.F. non ha il materiale di musica e tenta di
nascondersi agli occhi della docente. Sono delusa.”
9. “Invito i colleghi docenti della 3^F a fare una
riflessione sulla condotta dei propri alunni. La mia è
la seguente: Una classe allo sbando!”
10. “L’alunno D.L. giustifica l’assenza per:
“Ha ceduto una diga in Puglia “ (siamo in
Lombardia)”
11. “L’alunno A.S. assente il 16/03 motivo: Dovevo
picchiare bene il mio cugino”
12. “S.L. nell’ora di inglese canta con le cuffiette,
poi insulta l’insegnante e viene allontanato dalla
classe. D.O. di risposta si mette a cantare.”
13. “L’alunno B.C. lancia bottigliette d’acqua vuote
dalla finestra facendo starnuti finti per coprire il
rumore”
14. “L’alunno L.T. rimane in bagno per mezz’ora.
Al suo ritorno sostiene di aver aiutato un alunno di
quinta che si era perso”
15. “L’alunno B.D. peregrina senza meta per la
classe.”
16. “L’alunno M.D. giustifica l’assenza del 11/11/
per: Raccolta olive”
17. “L’alunno G.P. messaggia con mia figlia in
classe e chiede al sottoscritto se è libera questo
pomeriggio.”
18. “L’alunno T.U. butta il proprio banco e la sedia
del suo compagno fuori dalla classe per motivi
ignoti.”
19. “L.F. giustifica l’assenza del 24/04/ per: “Mi sto
preparando, con largo anticipo, alla fine del mondo”
20. “D.L. ‘abbaia’ durante la lezione”
21. “metà della classe è assente, l’altra metà tenta di
convincermi che gli assenti non sono mai esistiti”
Dott.Maria Vittoria Brizzi Tessitore
11
L’oro di Tabarca
La narrazione si conclude, però, lasciando un filo
non annodato: Don Diego promette al suo giovane
amico di fargli recuperare un tesoro.
Ma questa, come si suol dire, sarà un’altra storia.
Eredità contese, delitti e congiure tra Genova e
Tabarca nel tempo di Andrea Doria e Dragut
La Fortezza
Tabarka o Tabarca (arabo:
) è una città della
Tunisia, sul Mediterraneo, presso il confine con
l'Algeria. Ha una baia con piccolo porto.
Nel 1540 l'omonima isola, prospiciente la città,
venne data dal bey di Tunisi in concessione alla
famiglia genovese dei Lomellini che ad essa erano
interessati per la pesca del corallo.
I Lomellini facevano parte della cerchia di Andrea
Doria, doge della Repubblica di Genova ed erano
legati per vincoli parentali alla famiglia Grimaldi
(XVI secolo).
La concessione era probabilmente dovuta ad un mai
rivelato ma probabile riscatto per la liberazione del
corsaro turco Dragut, catturato nel 1540 da
Giannettino Doria, nipote di Andrea Doria.
I Lomellini colonizzarono Tabarca con un gruppo di
abitanti di Pegli, località vicina a Genova, dove
avevano varie proprietà ed un grandioso palazzo di
villeggiatura.
La comunità di Pegliesi visse a Tabarka per vari
secoli.
Nel 1738 a causa dell'esaurimento dei banchi
corallini e del deterioramento dei rapporti con le
popolazioni arabe un folto gruppo di tabarkini si
trasferì in Sardegna nell'Isola di San Pietro, allora
disabitata, dove fondò un nuovo comune:
Carloforte.
Il trasferimento fu possibile grazie alla volontà del
re di Sardegna Carlo Emanuele III di Savoia di
colonizzare le terre di Sardegna non ancora abitate.
Il nome di Carloforte fu scelto in onore del sovrano.
Il destino dei pegliesi rimasti a Tabarka era segnato:
nel 1741 il Bey di Tunisi invase l'isola, apportò
distruzione e fece prigionieri gli abitanti riducendoli
in schiavitù.
La liberazione degli schiavi avvenne per
l'interessamento di nobili europei, del Papato, di
Carlo Emanuele III e di Carlo III di Spagna.
Con questo volume, Pier Guido Quartero dà inizio
ad una trilogia tabarchina che si sviluppa sullo
sfondo della storia di Genova e dell’area
mediterranea nel corso di due secoli.
Tra la metà del ‘500 e la metà del ‘700, infatti, si
svolge l’epopea della comunità pegliese trasferitasi
per la pesca del corallo e del tonno sull’isola di
Tabarca, vicino a Tunisi, e infine, dopo diverse
peripezie, insediatasi a Carloforte e Calasetta, nelle
isole Sulcitane.
Nel 1546, Gian Luigi Fieschi tenta inutilmente di
spingere i Genovesi alla rivolta contro Andrea
Doria e la Spagna, sua alleata.
Il fallimento della congiura, in cui lo stesso Gian
Luigi muore per un banale incidente, coinvolge
anche un giovane innocente, Giovanni Pittaluga,
tradito dai fratellastri, i quali vogliono usurparne
l’eredità materna.
A Giovanni non rimane che la via della fuga: dopo
una serie di peripezie raggiungerà Tabarca, dove da
pochi anni si è installata la fattoria dei Lomellini per
la pesca del corallo.
Nello scontro con i fratellastri e poi nella fuga, lo
aiutano Lorenzo, un servo fedele, e il vecchio
mentore Diego Prefumo, cordaio, erborista e, in
gioventù, mozzo sulle navi di Colombo, il quale gli
sarà compagno nell’avventura tabarchina.
Sull’isola, Giovanni trova l’amore e nuove
avventure, riuscendo in qualche modo a superare le
avversità che il destino gli pone davanti.
12
PILLOLE DI CINEMA
Nel mese scorso alle Officine Solimano ha avuto
inizio un interessante esperimento:
Cult Movie Thursday
Film e birretta, accoppiata perfetta!
Un nuovo appuntamento che nasce dall’irresistibile
desiderio di godere in terrazza i grandi film culto
della storia del cinema.
La prima proiezione è stata “La casa dalle finestre
che ridono”, film del 1976 diretto da Pupi Avati. A
cui fanno seguito Alien, Non aprite quella porta e
Lo Squalo.
E’ un modo diverso di vedere Cinema, al di fuori
della usuale poltrona, dell’obbligatorio silenzio
della sala, della religiosa attenzione al particolare
tecnico.
Si instaura un modo diverso di partecipazione.
Queste prime pellicole, classici dell’horror, hanno
in comune la sanguinolenza: per dirla con Stanley
Kubrick ( da Arancia Meccanica)
E poi… chi si vede! Il nostro caro amico, il succo
di pomodoro! Lo stesso che adoperano in tutti gli
studi di Hollywood comincia a scorrere a fiotti.
Magnifico. E’ buffo come i colori del vero mondo
Diventano veramente veri. Soltanto quando uno li
vede sullo schermo.
Gli schiavi liberati in parte raggiunsero Carloforte,
mentre gli altri, dopo varie vicissitudini, diedero
origine ad altre due comunità: Calasetta (nel 1770)
nell'isola di Sant'Antioco in Sardegna e Nueva
Tabarca sull'isola di San Pablo presso Alicante in
Spagna. Mentre i tabarkini di Nueva Tabarca si
sono completamente integrati in Spagna perdendo
la propria identità originaria, i tabarkini di
Carloforte e Calasetta hanno mantenuto integra la
loro identità culturale sia nelle usanze che nella
lingua: il dialetto di queste due località, il
cosiddetto tabarchino, è un dialetto di tipo ligure in
un territorio linguisticamente sardo, di un tipo
completamente differente.
La regione di Tabarka ebbe una sinistra fama negli
ultimi decenni del XIX secolo per via delle
scorrerie dei Crumiri, una tribù dell'entroterra
particolarmente rapace che effettuava incursioni in
territorio algerino e depredava le navi che si
avventuravano o si incagliavano di fronte alle sue
coste (le scorrerie dei Crumiri furono poi il pretesto
dell'intervento francese nel 1881 che ridusse la
Tunisia a un protettorato).
Sentite cosa ne dice Gianni Canova, grande critico
cinematografico, nel saggio:
Del sangue e della luce…
Pompa l’emoglobina, pompa.
Il sangue scorre, sgorga, pulsa: nelle vene della
Storia, nelle arterie della notte, negli anfratti del
cinema.
Cinema e sangue, cinema di sangue, cinema
sanguinante e sanguinario: come in Intervista col
vampiro di Neil Jordan, la più emofiliaca e
inquietante saga sul “sugo della vita” che mai sia
apparsa sugli schermi.
Dalla New Orleans turgida e carnale del tardo
Settecento fino alla frenetica San Francisco di oggi,
il vampiro biondo-cenere di Tom Cruise e il suo
compagno bello e larvale interpretato da Brad Pitt
attraversano le anse del tempo scontando
l’immortalità come solitudine e come condanna.
Di notte, sempre di notte: tra la luna e i falò della
ferocia umana, in mezzo a squittii di topi e a
sfuggenti ombre nel buio, si nutrono di sangue per
inseguire il sogno di un’aurora vietata per sempre al
popolo degli immortali.
Sabato 31 Maggio alle ore 17,00 presso la sede di
A Campanassa in Piazza del Brandale a Savona,
con l’Autore, presentazione del libro a cura di
Carlo Cerva - Presidente di A Campanassa,
Enzo Motta -Presidente del Sodalizio L. Pirandello
Nicola Vacca, Tabarchino.
13
Il sangue come metronomo dell’imminenza della
morte nella pratica lenta ed estenuante del
dissanguamento (Le iene di Quentin Tarantino).
Il sangue come “brodo” di coltura del male e del
dolore (The Kingdom di Lars von Trier).
Il sangue come problema igienico o come “macula”
da ripulire in fretta, magari con l’aiuto di un esperto
come Harvey Keitel (Pulp Fiction di Quentin
Tarantino).
Il sangue come materia organica che scoppia e
schizza e inzacchera (la rana fatta esplodere sul
volto della vedova nella sequenza d’apertura di
Riflessi sulla pelle di Philip Ridley).
Il sangue come viatico mistico (Thérèse di Alain
Cavalier), come appeal taumaturgico (Marcellino
pane e vino di Ladislao Vajda), come raptus estatico
e orgiastico (Santa Sangre di Alejandro
Jodorowsky).
E ancora: sangue demenziale (Blood Simple dei
fratelli Coen), sangue samurai (Mishima di Paul
Schrader), sangue seriale (Henry – Pioggia di
sangue di John McNaughton), sangue cinefilo
(Rosso sangue di Leos Carax), sangue subacqueo
(Lo squalo di Steven Spielberg), sangue infernale
(Hellraiser di Clive Barker).
Sangue come promessa e come supplizio, come
tormento ed estasi, come buco del corpo e come
ferita dell’anima.
Figure di sangue, declinazioni del sangue.
Fiotti e rigagnoli, schizzi ed emorragie.
Illuminazioni, rivelazioni.
Anche per coloro che – oggi soprattutto – si
ostinano a sognare un cinema totalmente
dissanguato.
Che è poi come dire, di fatto, la morte al cinema.
Per fortuna a un certo punto arriva il cinema: che da
Murnau a Via col Vento regala anche ai nictapoli la
gioia proibita dell’alba.
Barocco come il Dracula di Coppola e sanguinario
come Il buio si avvicina di Kathryn Bigelow,
Intervista col vampiro è una sinfonia sanguinante
sull’eterno connubio di Eros e Thanatos.
Un poema sulla luce e sul fuoco.
E
un
canto
struggente
e
malinconico
sull’insostenibile diversità del desiderio di chi è
condannato a succhiare il sangue degli altri, e a dare
la morte baciando.
Il sangue non esiste se non quando scorre
all’interno del corpo.
Cioè nascosto alla vista, sottratto allo sguardo dello
schermo della carne.
Per vederlo, il cinema non ha che due strade: o
entrare dentro il corpo (in una sorta di viaggio verso
la “bellezza interiore” celebrata da Cronenberg), o
far venire il sangue fuori.
Allora il sangue si mostra alla vista: ma “muore”
nel momento stesso in cui lo fa. A meno che non sia
“aspirato” in una siringa
di plastica trasparente o in una flebo di vetro, il
sangue intrattiene dunque col cinema – arte dello
sguardo – un ambivalente rapporto di attrazione
fatale.
O letale. Per offrirsi al cinema come oggetto di
desiderio (scopico?), il sangue deve mettere in
scena la propria morte.
Deve fuoriuscire, sgocciolare, sgorgare.
Deve esporsi e svenarsi.
Nella consapevolezza che quando lo fa (se lo fa)
cessa – appunto – di esistere come sangue.
Cessa di “scorrere” nelle vene e nelle arterie di un
corpo per trasmettere il suo movimento allo scorrere
della pellicola.
Come dire: il sangue “infetta” il corpo del cinema,
lo contagia.
E’ l’unico composto profilmico (reale) che con il
semplice contatto trasmette le sue proprietà al
supporto che lo mostra e lo rappresenta.
Il sangue, allora, non scorre più, ma scorre la
pellicola sul rullo, fluttua la luce sullo schermo.
Proiettare, proiezione: forse il fascio di luce che
squarcia il buio e dà vita al film non è che l’analogo
del fiotto di sangue che pulsa nel corpo e lo fa
esistere.
Forse il cinema è sangue fatto solo di globuli
bianchi per un popolo di ombre.
Forse il cinema è sangue di luce.
Il sangue come inchiostro del corpo per scrivere
messaggi sulla scena del delitto (Seven di David
Fincher).
Il Padrino (1972)
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MARZAMEMI
TORTINO AL PISTACCHIO
Marzamemi è una frazione marinara di cui una
parte è del comune di Pachino da cui dista circa 3
km e una seconda parte è del comune di Noto da cui
dista 20 km. Si trova in provincia di Siracusa.
L’origine del nome Marzamemi è controversa:
secondo alcuni deriverebbe dalle parole arabe
marza significa ‘porto’ e memi significa ‘piccolo’,
mentre secondo il glottologo netino Corrado Avolio
il toponimo deriverebbe dall’arabo marsà ‘al
hamam, cioè «baia delle tortore», per l’abbondante
passo di questi uccelli in primavera .
Antonino Terranova, infine, nel volume “Pachum
Pachynos Pachino storie e leggende da Pachino a
Capopassero”, cita anche un’altra tesi, secondo la
quale Memi sarebbe riferito ad “Eufemio, l’ex
comandante della flotta bizantina il quale,
ribellatosi all’imperatore Michele II Balbo, passò
dalla parte degli arabi e con loro iniziò la conquista
dell’isola; “Marza-memi” perciò significherebbe
Porto di Eufemio, così come Marsala vuol dire
“Porto di Alì” oppure “Porto di Allah”.
Ingredienti per circa 10 tortini usando i pirottini di
alluminio:
150 gr. di pasta di pistacchio o, in mancanza della
pasta
100 g. di pistacchio tritato finemente
100 gr. di burro ammorbidito
2 albumi
2 tuorli
100 g. di zucchero
50 g. di farina setacciata
una punta di coltello di semi da bacca di vaniglia,
o, in mancanza, vanillina in polvere
1 cucchiaio di cacao amaro e del burro per
imburrare i pirottini
infine zucchero a velo per decorare
Procedimento
Montate il burrro morbido con lo zucchero e le uova
intere fatele gonfiare come quando si fa il
pandispagna, aggiungete la vaniglia.
Unite la farina setacciata e la pasta di pistacchio.
Nel frattempo montate a neve i due tuorli e
incorporateli lentamente al precedente impasto,
imburrate gli stampini e spolverateli con il cacao
amaro, riempiteli per metà e mettete tutto in freezer
almeno per 1 ora.
Adesso viene il passaggio più importante, accendete
il forno a 200° appena arrivato a temperatura, tirate
fuori gli stampini dal freezer e infornateli,
posizionandoli sulla griglia del forno, niente teglie
mi raccomando.
15 minuti esatti e quando li tirate fuori aspettate
qualche minuto e sformateli direttamente sul
piattino di portata, spolverando di zucchero a velo.
Ulteriore consiglio: ogni forno varia dall’altro
quindi appena vi accorgete che si stanno dorando ed
in controluce vedete che la parte centrale del tortino
diventa opaca sono pronti, non esitate e provate fino
a che non riescono.
Prepararli e tenerli in freezer crudi ovviamente,
pronti ad essere infornati all’occorrenza.
Dal nostro corrispondente enogastronomo:
Cena del 12 aprile 2014
Spaghetti con gamberi rossi e pistacchio; troffie con
calamari e peperoncino; occhiata al cartoccio;
calamari e gamberoni alla piastra (2 porzioni);
semifreddo alla mandorla; tortino al pistacchio e
cioccolato fondente; mezzo litro di vino Grillo
locale, acqua, 2 caffè; limoncello, cannellino e
liquore di finocchio!
Interessante premio a chi indovina il prezzo ….
(chiamatemi solo appena cotti grazie)
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scarto tra le disposizioni decretate dalle leggi e dalle
ordinanze e la loro applicazione concreta.
L’intento, attraverso la visione di due opere
documentaristiche di eccezionale interesse del
regista svizzero Fernand Melgar, è di rendere la
complessità del fenomeno, spesso semplificato e
manipolato a fini politici ed elettorali, e coglierne
l’aspetto umano
Giovedì 19 giugno,ore 21.00
ingresso libero
Due siciliani si incontrano:
"Cammélo, talìa ch’ accattai ".
Tira fuori dalla tasca una pillola:
"Si chiama Viagra!".
"E a che serve?".
"Con questa a letto... due, tre volte!".
"Minchia, bonu è stu calmante!"
La forteresse
di Fernand Melgar (ospite via collegamento
internet) 2008 Svizzera, 104’ Pardo d’oro al
Festival internazionale del film Locarno 2008
Donne, uomini provenienti da varie parti del mondo
arrivano ogni settimana alle porte della Svizzera.
Fuggono dalla guerra, la dittatura, la persecuzione o
da squilibri climatici ed economici. Dopo un
viaggio fatto spesso a rischio della loro vita, si
dirigono verso uno dei cinque centri di registrazione
presenti nel Paese. In questo luogo di transito
austero, soggetti a un regime di semi-detenzione e
di ozio forzato, i richiedenti attendono che la
Confederazione decida il loro destino.
Dall’altra parte uomini e donne anch’essi di varia
provenienza,
gestiscono
l'accoglienza
dei
richiedenti e il loro soggiorno.
Una realtà dove le divisioni culturali e differenze di
status, tra coloro che decidono e coloro che
chiedono, sono la sorte quotidiana...
APPUNTAMENTI DA NON PERDERE
Il 24 giugno alle ore 17,00 al circolo artisti
Pozzo Garritta 32 Albissola Marina
Inaugurazione della Mostra che proseguirà sino
all’ 8 giugno del nostro ATTILIO CICALA
Giovedì 26 giugno,ore 21.00
ingresso libero
Vol spécial di Fernand Melgar
(ospite via internet) 2011 Svizzera, 100’
Ogni anno, in Svizzera, migliaia di uomini e donne
vengono incarcerate senza processo né condanna.
Per la sola ragione di risiedere illegalmente sul
territorio, possono essere privati della libertà in
attesa dell’espulsione.
Dopo “La Forteresse”, Fernand Melgar posa il suo
sguardo sull’altra estremità della catena del
percorso migratorio. Dietro le porte chiuse delle
carceri, il faccia a faccia tra il personale e i detenuti
assume un’intensità a tratti insostenibile.
Da una parte, una piccola squadra unita, motivata e
impregnata di valori umani, dall’altra uomini alla
fine della loro corsa, vinti, esauriti dalla paura e lo
stress. Annientati
dalla legge e dal suo implacabile ingranaggio
amministrativo, coloro che si rifiutano di partire
volontariamente verranno imbarcati di forza su un
aereo. In questa situazione estrema, la disperazione
ha un nome: vol spécial.
Officine Doc - Uno sguardo in cerca d’asilo
In occasione della Giornata del Rifugiato,
Nuovofilmstudio in collaborazione con Caritas
Diocesana Savona Noli, Fondazione Comunità
Servizi, Arci Savona e il Comune di Albisola
Superiore, operanti nell’accoglienza dei richiedenti
asilo, propone alla cittadinanza due appuntamenti
sul tema.
Di fronte alla rappresentazione mediatica della
realtà migratoria, crediamo sia necessario chiarire le
nozioni di base sulla politica d’asilo in Italia e in
Europa e delle sue norme in vigore, per cogliere lo
Santuzzo
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