natura, perdita e restaurazione della coscienza o del se`.

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natura, perdita e restaurazione della coscienza o del se`.
La natura, la perdita e la ricostituzione della coscienza umana
o del Sé: la questione della coesione
RUSSELL MEARES
Nel cuore delle scienze psicologiche c’è un vuoto. Infatti, anche se nel nostro lavoro ci
dedichiamo ai disturbi della mente, il concetto di mente è assente nelle nostre teorie. Di
conseguenza, risulta limitato il modo in cui ci accostiamo alla malattia mentale e ci sforziamo di
comprenderla e di mettere a fuoco il miglior trattamento possibile. Tale condizione si è rivelata con
maggiore evidenza con il rinnovato riconoscimento dell’effetto patogeno del trauma, un effetto
emerso negli ultimi venti anni. Spesso si studia il trauma senza considerare l’oggetto traumatizzato
– vale a dire quella sensazione dell’esistere personale –, non diversamente da come prima se ne
parlava considerandolo un corpo estraneo necessariamente rimosso. Tuttavia la scoperta che il
trauma riveste un ruolo fondamentale nella genesi di gravi disturbi della personalità determina una
concezione più ampia, in cui non si tratta il trauma isolato da ciò che è stato danneggiato, ma lo si
ritiene l’agente di un cambiamento maligno sistematico nel quale la coscienza ècompromessa e
frammentata, rispetto all’assetto mentale maturo sperimentato da chi non ha una storia evolutiva
eccessivamente sfregiata da traumi relazionali (Meares, 2012). In questo articolo indagheremo la
natura di questa normale coscienza ininterrotta dell’esistere personale, in che modo viene perduta e
come può essere ricostituita.
La coscienza umana, nella sua natura, è intesa come quello stato della mente che si è evoluto
più di recente tra i primati. È una delle svariate forme di coscienza alla quale abbiamo accesso.
Edelman (1992) la denominò «ordine superiore di coscienza». Hughlings Jackson (1835-1910), che
ha un ruolo importante per lo sviluppo dell’argomentazione principale di questo articolo, la chiamò
«Sé». William James (1842-1910) seguì le sue orme. Qui impiegheremo il «Sé» alla stregua di
questi due autori, in modo specifico e tecnico per riferirci a quel particolare assetto mentale le cui
caratteristiche furono l’oggetto di ricerca principale nella vitaprofessionale di James.
Tra i suoi intenti questo articolo si propone di concorrere a ripristinare il concetto di mente, o
«Sé», perché occupi un posto centrale nella formulazione della teoria psicodinamica. In ciò che
segue è implicita l’idea che l’origine della malattia mentale di marca psicogenetica sia largamente
determinata non dalle pulsioni primitive, ma soprattutto dalla perturbazione degli aspetti di più
recente evoluzione della coscienza umana. Un’idea simile ha delle implicazioni fondamentali per lo
sviluppo di metodi terapeutici ottimali.
Una definizione del Sé: il vuoto del ventesimo secolo
Questa disamina deve prendere le mosse da ciò che si intende con il termine «Sé». Non si
tratta di una questione semplice, dato che, quanto meno nell’area anglofona, il termine fu bandito
dalle aule accademiche durante la «purga comportamentista radicale» dopo la Seconda guerra
1
mondiale (Harter, 1983, 226). Questa posizione intellettuale, alleatasi con il positivismo, determinò
l’esclusione, dal campo del discorso psicologico rispettabile, di verità diffuse sul significato
dell’essere umanamente vivi. Per esempio, quella forma di memoria precipuamente personale, ora
denominata autobiografica, che William James aveva designato «memoria propriamente detta, o
memoria secondaria» (James, 1890, I, 648-652), fu trascurata poiché, pare, non era misurabile. Fu
soltanto nel 1972 che venne reintrodotta da Tulving (1972) con lo scopo, come mi disse egli stesso,
di riesumare il concetto jamesiano.
Questa situazione perdurò, tanto che «dopo la Seconda guerra mondiale e sempre di più
nell’ultimo trentennio del ventesimo secolo, gli psicologi e i teorici culturali non si limitarono a
screditare il Sé, ma lo smantellarono come oggetto unitario di studio» (Martin e Barresi, 2006, 297).
Per esempio, quando nel 1972 Arnold Buss cominciò a studiare il tema dell’autocoscienza, non
riuscì a rintracciarne neanche un’occorrenza nella letteratura psicologica (Buss, 1972).
Lo stato della filosofia rispecchiava quello della psicologia, dominata anch’essa dalla
prospettiva positivistico-comportamentista, in cui la realtà umana può essere appresa unicamente
ricorrendo alla logica e alla misurazione (Meares, 2003). Gilbert Ryle espresse una forma estrema
di questo punto di vista nell’autorevole volume The Concept of Mind, nel quale si proponeva, come
affermò, di abbattere con deliberato atteggiamento ingiurioso (17) la nozione di vita interiore e la
metafora dell’«occhio della mente». In questa atmosfera intellettuale, le due figure più strettamente
associate al concetto di Sé durante il ventesimo secolo, Jung e Kohut, si ritrovarono incapaci di
definirlo. Negli ultimi anni di vita Jung disse che la sua ricerca sulla psiche somigliava a «una
circumambulatio intorno a fatti ignoti» (Jung, 1952, 193); Kohut dichiarò che il Sé è «non
conoscibile» (Kohut, 1977, 269).
Forse il modello della mente più influente nelle scienze psicologiche durante quel periodo fu
quello di Freud. Al termine della sua vita, però, egli apparentemente riconobbe che il suo «Io» non
equivaleva al Sé (Strachey, 1961, 8). Come hanno rilevato i critici del concetto, la nozione di Io non
lascia spazio al Sé (Rycroft, 1972). Ciò tuttavia non equivale a sostenere che la nozione non sia
valida o priva di valore. Anzi, Jackson potrebbe averla considerata come quell’aspetto del Sé che
definì «coscienza dell’oggetto», cui torneremo tra poco.
Si potrebbe considerare l’Io freudiano (Freud, 1938) come un meccanismo intenzionale, la cui
intenzionalità si comprende alla luce delle proposte di Franz Brentano (1838-1917). Freud aveva
frequentato per un paio di anni i suoi seminari all’Università d Vienna (Jones, 1953, 68).
L’intenzionalità, «la direzione della mente su un oggetto» assomiglia, in questo senso, alla
coscienza dell’oggetto proposta da Jackson.
Tratto fondamentale di uno stato intenzionale è che esso indica qualcosa al di là del Sé, cioè
«riguarda» qualcosa altro da sé (Armstrong, 1999, 139). Per Brentano il contrassegno particolare
del mentale era l’intenzionalità, ma nella teoria jacksoniana essa di per sé non è sufficiente come
base del Sé. La coscienza nella sua modalità intenzionale, o coscienza dell’oggetto, non è il Sé,
bensì un elemento rivelatore del Sé (Jackson, 1958, II, 96), la sua realizzazione. L’esperienza
dell’esistere personale, costituita puramente di coscienza intenzionale, non sarebbe uno stato del Sé,
essendo spezzata e atomizzata e costituendo un insieme di stati successivi diretti verso gli stimoli,
esterni o interni, privi di connessione reciproca. Sarebbe cioè una condizione sprovvista delle
qualità di coesione e continuità, che viceversa sono centrali nella normale sensazione dell’esistere.
La condizione cruciale di coesione dell’esistere personale costituisce il tema principale di
questo articolo.
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Definizione del Sé: William James e il «Sé duplice»
Per cominciare a definire il Sé è necessario tornare alle grandi figure dell’epoca che
precedette il ripudio di questo concetto. La più importante fu quella di William James. Il suo
prestigio fu enorme. Alla sua morte «The Boston EveningTranscript» lamentò «la dipartita del più
grande degli americani contemporanei» (Myers, 1986, 1). Accogliendo la sua prospettiva come
punto di partenza per la costruzione di un modello del Sé, non si opera una scelta basata sulla
«correttezza» del modello. Una filosofia, infatti, non è mai dimostrabile, e James suggerì che una
filosofia è semplicemente preferita. Scrisse infatti:
Se consideriamo tutta la storia della filosofia, i sistemi si riducono a pochi tipi
principali che, dietro tutta la verbosità tecnica con cui li avvolge l’ingegnoso
intelletto umano, sono soltanto una serie di visioni, dei modi di sentire la spinta nel
suo insieme e di vedere il moto complessivo della vita, imposti all’individuo dal
suo carattere e dalla sua esperienza, e in generale preferiti – non vi è infatti altra
parola più veritiera – in quanto attitudine che meglio funziona per l’individuo
(James, 1909a, 20-21).
Il punto di vista di James era di marca umanistica, teso a scorgere al di là delle «limitazioni
dell’orientamento positivistico, meccanicistico, atomistico» (Hobson, 1985, 228; Meares, 1993;
2000, 2004, 2005, 2012a, 2012b) ortodosso del Novecento. Esso è diventato il pilastro centrale del
Modello conversazionale che Robert Hobson ed io ci siamo sforzati di formulare come strumento
per aiutare gli individui affetti da malattie apparentemente intrattabili, molti dei quali sarebbero
bollati come «borderline» e che, agli esordi del nostro progetto, erano considerati «non analizzabili».
In uno scritto introduttivo (Meares e Hobson, 1977) abbiamo scelto la citazione che riporto qui per
rispecchiare l’aspetto centrale della teoria jamesiana. «I pensieri collegati, così come noi li
percepiamo collegati, sono ciò che intendiamo con Sé personali. Il peggio che può fare la psicologia
è interpretare la natura di questi Sé, come per spogliarli del loro valore» (James, 1982, 153-154).
Questo passaggio segnala tre questioni principali: la coerenza del Sé, il valore e il trauma.
Il Sé jamesiano va distinto dall’identità. A volte Sé e identità vengono confusi. Nel DSM-IV,
per esempio, là dove si descrive il «disturbo di identità», si utilizzano i termini «Sé» e «identità»
come sinonimi, mentre non lo sono. In parole povere, la distinzione tra identità e Sé può essere
intesa come la differenza tra la realtà pubblica dell’individuo e la sua esperienza privata.
Nell’esistenza sana normale, Sé e identità sono collegati senza soluzione di continuità. Simili a
Giano, sono rivolti metaforicamente in direzioni opposte. L’identità riguarda il rapporto
dell’individuo con il suo mondo, comporta il senso della propria collocazione nella famiglia, nella
vita professionale, nell’ambito religioso e in altri gruppi sociali. È composta di ruoli, attributi
personali e concezioni rispetto a chi si è rispetto agli altri. Il Sé, secondo la descrizione avanzata da
William James, si distingue in termini categoriali. Consiste infatti in quel fluire di immagini,
sensazioni, sentimenti, ricordi, fantasie, e così via, che James paragonò a un flusso (stream). In
questo caso l’attenzione è rivolta verso l’interno. Il tratto cardinale del Sé è una consapevolezza
riflessiva degli eventi interni. Il processo riflessivo è figurativamente doppio, o «duplice». Pur
trattandosi di un’esperienza unificata, può essere concepita come dotata di due poli, uno conosciuto
e l’altro che conosce, che per brevità James denominò: «Me ed io» (James, 1892, 176). Tale
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processo, scrisse James, ci permette «di pensarci pensatori» (296). Reca in sé una concezione di
«internalità» che ci porta a ravvisare alcune esperienze come eminentemente nostre e personali.
L’aspetto del Sé, nel complesso dell’identità personale (self-identity), potrebbe essere più
fondamentale. Il filosofo Owen Flanagan, per esempio, sostiene che «il senso di identità, di
direzione, di capacità di essere agente di sé stesso (agency) e di progetto esistenziale sono tutti
radicati nelle connessioni memorabili del loro fluire» (Flanagan, 1992). Il poeta anglo-irlandese
Gerard Manley Hopkins ha un’intuizione simile quando scrive:
Considero l’essere me stesso, la mia coscienza e il senso di me stesso, quel sapore
di me, quell’Io e Me, sopra tutto e tra tutte le cose, più distintivo del sapore della
birra o dell’allume […] e assolutamente incomunicabile a un altro uomo. […]
Nient’altro in natura si avvicina a questo indicibile accento timbrico, a questa
distintività e Seitudine, questo Sé che è il mio […]. E anche quelle cose con cui in
certo qual modo mi identifico, il mio Paese o la mia famiglia, e quelle cose che
possiedo e chiamo mie, i miei abiti e così via, tutte queste cose presuppongono il
Sé, in senso stretto, di cui me e il mio sono dei derivati. (White, 1995, 7)
Il termine «Seitudine» entra in risonanza con la descrizione jamesiana. James considerava il
«Sé» un processo, un divenire, che comprende anche la sensazione che si tratti, come disse LeviStrauss, del «luogo in cui qualcosa accade» (Lévi-Strauss, 1979, 137). La teoria jamesiana del
processo, veicolata dal suo fluire, lo portò a descrivere due tipi diversi di coscienza. Egli avversava
la plausibilità di una realtà personale che dipende unicamente da una posizione intenzionale,
proponendo invece l’analogia tra il passaggio da stati di coscienza diversi e una passeggiata. Il suo
linguaggio è divertente, come se fosse egli stesso a divertirsi. Scrive infatti: «Il modo più generale
di contrapporre la mia visione del sapere a quella popolare (che è anche la visione della
maggioranza degli epistemologi) è qualificare la mia visione come “deambulatoria” e l’altra come
“saltatoria”» (James, 1909b, 139). «Saltate» nell’originale è un verbo raro che significa «balzare,
saltare o saltellare». James propone, coerentemente con la sua metafora del flusso, che pur potendo
concentrarci su oggetti o idee successive, la realtà non è formata da una serie di salti intercalati dal
vuoto, ma comprende «degli intermediari che, nella loro particolarità concreta, formano un ponte»
(1909b, 143) che, collegando le percezioni e le idee individuali, sono parte della realtà dei punti
focali e vi contribuiscono. «La mia tesi è che la conoscenza si compie tramite la deambulazione
attraverso le esperienze che intervengono» (James, 1909b, 141).
L’argomentazione saltatoria è la conseguenza della visione secondo la quale «l’anatomia del
mondo è logica» (58), visione che James intendeva sostituire con una chiave di lettura dei processi
viventi, tra cui la realtà umana, più organica e influenzata dal pensiero evolutivo. Le sue
contemplazioni sulle esperienze attraverso le quali la mente passeggia tra percezioni e idee
specifiche sono coerenti con la sua visione pluralistica della realtà. La descrizione jamesiana
suggerisce infatti che la coscienza non sia singolare, ma formata almeno da due tipi di modalità, di
cui una intenzionale, mentre l’altra, non intenzionale, presenta caratteristiche di coerenza e
continuità. Tale nozione elabora il concetto di «Sé duplice».
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Hughlings Jackson e un modello gerarchico del Sé
La duplicità metaforica della coscienza umana è una caratteristica fondamentale del principale
predecessore di James nella formulazione del concetto del Sé: John Hughlings Jackson. James
conobbe Jackson, intrattenne con lui una corrispondenza e lo citò ampiamente (James, I, 29, II, 1266). Non possiamo conoscere la portata dell’influenza di Jackson su James, ma l’opera jamesiana
può essere intesa come un aggiungere carne esperienziale al modello scheletrico di Jackson che,
tuttavia, per diversi aspetti è più complesso. Tale modello ci offre infatti un modo di concepire la
mancata coesione del Sé, che costituisce la principale manifestazione dell’interruzione dello
sviluppo della personalità (Meares, 2012a).
Spesso si parla di John Hughlings Jackson (1835-1911) come del «padre della neurologia
inglese», pur avendo egli contemplato la possibilità di dedicarsi alla filosofia (Taylor, 1925). Il suo
interesse, mai venuto meno, rispetto alle concezioni della mente, o del «Sé», lo spinse a esplorare la
questione della malattia mentale. I suoi scritti in materia costituiscono gran parte della sua opera,
ma sono tuttora largamente trascurati nei campi della psichiatria e della psicologia. La sua teoria
principale, derivata dall’osservazione meticolosa delle minime alterazioni della funzione mentale e
neurologica nei pazienti afasici ed epilettici e sistematizzata alla luce delle idee dell’evoluzione, è
«particolarmente moderna; tanto che, in realtà, le sue idee ricevono una considerazione più seria
oggi che ai suoi tempi» (Kolb e Whishaw, 1990, 338).
Jackson era considerato un genio dai suoi colleghi. Fu un pioniere nella concettualizzazione
della lateralizzazione della funzione emisferica (Jackson, 1958, II, 129-145), anticipò il concetto di
cervello tripartito (Jackson, 1958; II, 39; MacLean, 1990) e propose che l’integrazione dei dati
sensoriali avvenga durante il sonno (Jackson, 1958, II, 71). La teoria jacksoniana fornisce
un’impalcatura preliminare per comprendere l’assetto mentale senza soluzione di continuità nei
disturbi borderline di personalità (Meares et al, 1999) nonché nella sindrome dissociativa (Meares,
1999).
Il modo in cui Jackson si accostò alla malattia mentale fu eminentemente logico. Egli infatti la
intendeva come manifestazione di una disgregazione della mente o del «Sé». Come tale, si rese
necessario iniziare a studiare la malattia mentale partendo da una definizione di quello che poteva
essere il «Sé». Jackson riteneva di essere il primo a impiegare questo termine nella letteratura
medica. Fu senz’altro il primo a sviluppare un modello neurale del Sé plausibile, precedendo il
resoconto rilevante e influente di Damasio (1994, 1999), formulato oltre cento anni dopo e, per
taluni aspetti fondamentali, in accordo con esso.
La definizione jacksoniana del Sé è succinta, ingannevolmente semplice ma filosoficamente
raffinata. Jackson riteneva che il Sé si identifica partendo dalla coscienza riflessiva degli eventi
interiori, che egli designò «coscienza dell’oggetto», ma non vi equivale. «Sostengo che vedere e
pensare sono stati della coscienza dell’oggetto, sono gradi (composti) diversi dell’oggettificazione»
(1958, II, 92).
Il Sé, pur essendo uno stato unificato, è doppio quando è concepito in astratto. Jackson
scrisse: «È impossibile parlare di stati oggettivi senza implicare la coscienza del soggetto. In ogni
proposizione, sono indicate la coscienza del soggetto e la coscienza dell’oggetto». Nei suoi esempi:
«Io vedo un mattone» e «io penso a un mattone», «la coscienza del soggetto è simbolizzata da “io”
e la coscienza oggettiva da “mattone”». «Ciascuno da solo non è niente; ciascuno “è solo la metà”».
Jackson rileva che tale dualità si esprime nella psicologia popolare con affermazioni quali: «Le idee
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vengono alla coscienza». A suo vedere, l’enunciato corretto è: «le idee vengono fuori dalla
coscienza del soggetto e poi costituiscono la coscienza dell’oggetto» (93). Questo concetto
comporta che la coscienza del soggetto è più fondamentale della coscienza dell’oggetto, che può
essere considerata equivalente a una modalità intenzionale del pensiero, mentre la coscienza del
soggetto è non intenzionale, quello stato sullo sfondodella «continuità dell’essere» (going-on-being).
Secondo Jackson, è questa la fonte del Sé. Egli descrive così la coscienza del soggetto:
La coscienza del soggetto è una cosa più profonda della conoscenza; è ciò
mediante cui la conoscenza è possibile. Forse potremmo dire che è una
consapevolezza della nostra esistenza come individui, come persone dotate degli
stati dell’oggetto che costituiscono per ciascuno l’Universo (il proprio Universo).
Siamo noi in senso empatico. La coscienza del soggetto è, in confronto,
l’immutabile, il più immutabile. Pertanto è una costante per la coscienza
dell’oggetto, che è il continuamente mutevole. Il più immutabile, ciò rispetto a cui
il più mutevole è relativo, è uguale all’immutabile (Jackson, 1958, II, 96).
Questo passo ci conduce alla differenza affascinante, o addirittura misteriosa, rispetto al «Sé
duplice» jamesiano. La coscienza del soggetto sembra analoga al «flusso di coscienza» che James
aveva denominato «me». Secondo Jackson, però, l’«io» ne è l’emblema. Eppure l’«io» è anche
necessario alla coscienza dell’oggetto. Jackson presenta un paradosso, apparentemente
considerando l’«io» un aspetto della coscienza dell’oggetto e di quella del soggetto. Egli forse
sottintende che qualcosa nella coscienza del soggetto ne colga un aspetto nella creazione della
coscienza dell’oggetto.
All’epoca di Jackson la nozione di coscienza del soggetto non sarebbe stata concepita in
termini neurologici, ma la situazione è cambiata grazie alla recente formulazione di una rete neurale
ormai nota come «default mode network».
La default mode: una rete neurale per la matrice del Sé
Fino a pochissimo tempo fa, si riscontrava scarso interesse per ciò che costituisce lo sfondo
persistente della vita mentale. Il maggior valore attribuito, nella cultura occidentale, alle forme
logiche intenzionali della coscienza ha portato a trascurare, in termini scientifici, questa seconda
modalità del pensiero. La ricerca neuroscientifica si è ampiamente concentrata sui tipi di funzione
cerebrale esibiti dall’organismo, concepito come adattivo, che si attivano durante lo svolgimento di
un determinato compito. Negli ultimi anni, però, si è configurato un nuovo campo di indagine
rispetto ai pattern di attività neurale evidenti quando l’individuo non svolge un compito, quando
cioè apparentemente non viene espletata alcuna funzione adattiva. Questa forma di funzionamento
cerebrale è stata denominata: «default mode» (Raichle et al., 2001; Gusnard & Raichle, 2001) e
potrebbe costituire la base neurale della coscienza del soggetto proposta da Jackson.
Nel 1997, si evidenziò che un particolare insieme di regioni cerebrali si disattivano durante
esperimenti orientati al compito (Shulman et al., 1997). Le regioni coinvolte sono, in gran parte,
strutture corticali della linea mediana, e nella fattispecie la corteccia prefrontale ventromediale e
dorsomediale e il cingolo posteriore/precuneo. Queste regioni sono le caratteristiche principali, che
sembrano funzionare come punti nodali (Uddin et al., 2009) di una rete neurale attiva quando
l’individuo non è impegnato in un compito specifico (Greicius et al., 2004).
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La rete include anche la corteccia parietale mediale, laterale e inferiore, individuata da quando
si è rivolto crescente interesse alla giunzione temporo-parietale. Che questo pattern di attività
neurale non sia un’attivazione meramente causale del sistema a riposo, ma una rete specificamente
connessa è stato dimostrato in vari modi in diverse occasioni (per es. McKiernan et al., 2006; Singh
e Fawcett, 2008).
La default mode network (DMN) è associata agli stati di introspezione e a quelle funzioni
correlate alla realizzazione della dimensione del Sé (selfhood), tra cui, per esempio, la memoria
autobiografica (Gusnard et al., 2001; Buckner e Carrol, 2007), la «mentalizzazione» (Frith e Frith,
1999, 2003) e alcuni testdella «teoria della mente», come quello delle false credenze, che
probabilmente riflettono uno sviluppato senso della vita interiore (Gallagher e Frith, 2003; Vogeley
et al., 2001). È altresì associata al «pensiero indipendente dallo stimolo» (Gusnard, 2001; Mason et
al., 2007) la condizione opposta a quella caratteristica del pensiero riscontrato nei pazienti
traumatizzati che manifestano un «intrappolamento dello stimolo» (Meares, 1993, 2005).
Pur essendo opinione diffusa che la funzione in default mode rifletta il cervello a riposo,
l’evidenza rispetto all’utilizzo di energia cerebrale smentisceuna simile inferenza. Il cervello è
semplicemente un po’ meno attivo quando è in default mode rispetto a quando è nella condizione
orientata al compito (Raichle e Gusnard, 2002; Raichle e Mintun, 2006).
La DMN è anticorrelata alla rete associata allo svolgimento del compito. L’individuo sembra
passare da una condizione all’altra secondo la modalità acceso-spento. Tuttavia l’interruttore non
agisce completamente. Infatti, nella sua condizione di «spento», la DMN non è del tutto disattivata.
Persiste piuttosto in forma attenuata, come la nostra sensazione continua dell’esistere personale. Il
flusso di coscienza resta sullo sfondo, mentre l’attenzione si focalizza su un oggetto esterno
(Eichele et al., 2008; Fransson, 2005; Greicius et al., 2003; Greicius e Menon, 2004). Non
sorprende che quanto maggiore è la richiesta di attenzione dall’ambiente esterno, tanto maggiore
sarà la disattivazione della DMN (McKiernan et al., 2006; Singh e Fawcett, 2008). E neppure
sorprende che la disattivazione della DMN si riduce quando il compito da svolgere è
autoreferenziale (van Buuren et al., 2010). D’altronde si suppone che, in situazioni di minaccia
estrema ed eccitazione traumatica, quando la normale sensazione continua di esistenza è quasi
venuta meno, la disattivazione della DMN sia pressoché completa.
Dato che la rete associata al compito e la DMN sono collegate nel tempo in maniera
anticorrelata, è stato proposto che siano manifestazioni diverse di un unico sistema, nel quale un
meccanismo dell’attenzione cambia canale, per così dire, passando dalla funzione di estroversione a
quella di introspezione (Fransson, 2005; Sonuga-Barke e Castellanos, 2007). Tale proposta fornisce
un modello preliminare della coscienza dell’oggetto e di quella del soggetto avanzate da Jackson, in
cui ogni forma di coscienza è la metà dell’altra. Inoltre l’evidenza rispetto alla funzione correlata al
Sé suggerisce che la DMN è primaria, costituisce il sistema fondamentale e suffraga la proposta
jacksoniana della coscienza del soggetto in quanto forma fondamentale. Ciò nondimeno, la
modalità del soggetto e quella dell’oggetto devono essere entrambe considerate degli aspetti di un
sistema del Sé.
Una base plausibile della frammentazione psichica, cioè il perturbamento della sensazione
continua dell’esistere personale, è il perturbamento della consueta formazione di pattern dei
neurocircuiti della DMN o una sua deviazione. Le connessioni nella default mode network sono una
conseguenza della maturazione. I giovani hanno una connettività ridotta, che aumenta con l’età.
Anche se la struttura principale di rete è presente nei bambini tra i 7 e i 9 anni, lo schema maturo
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più esteso non si evidenzia ancora (Fair et al., 2007). Una ridotta connettività della DMN è stata
rilevata in un gruppo traumatizzato (Bluhm et al., 2009). Queste evidenze sono coerenti con l’idea
largamente diffusa per cui le manifestazioni del disturbo di personalità rappresentano un tipo di
mancata maturazione e che tale condizione è associata a una storia precoce di traumi relazionali.
Dissociazione e disintegrazione
La teoria jacksoniana prevede la disintegrazione di quella che egli denominò coscienza del
soggetto e ci offre la possibilità di concepirne l’origine. In sintesi, la teoria suggerisce che la
disintegrazione, o frammentazione, della coscienza sia determinata dalla compromissione
dell’attività corticale prefrontale. La perdita di coesione è l’esito della «dissoluzione», antitesi
dell’evoluzione.
Il modello della mente di Jackson vede il Sé che nasce da un cervello, la cui organizzazione è
stata decretata dalla storia dell’evoluzione. Secondo la sua concezione, il corso dell’evoluzione ha
infatti prodotto strati successivi di struttura neurale, che egli designò «inferiore, medio e superiore»
(1958, II, 41), puntualizzando che si tratta di termini figurativi, una «semplificazione», dato che
tutti i cosiddetti livelli operano insieme.
Jackson costruì il suo modello partendo da quelli che considerava gli elementi più piccoli del
sistema nervoso centrale. Sono unità senso-motorie semplici e riflessive. Ogni unità ha una
funzione rappresentante, è cioè dotata di una memoria di qualche tipo. Tale proposta fu avanzata
prima che Sherrington introducesse il termine sinapsi nel 1895 e molto prima della dimostrazione di
Kandel che la sinapsi è dotata di un tipo di memoria (Kandel, 1976).
Il primo livello del sistema consiste nelle unità elementari che operano in maniera
relativamente indipendente. I movimenti da uno stato evolutivo precedente ad uno successivo
nascono non dall’introduzione di una nuova forma di tessuto neurale, ma come conseguenza di
un’accresciuta coordinazione tra unità di funzione neurale. «Tutto il sistema nervoso», scrisse
Jackson, «è un meccanismo senso-motorio, un sistema che si coordina dall’alto al basso» (1958, II,
82). Il livello superiore del sistema cervello-mente, che origina l’esperienza del Sé, si consegue
attraverso una maggiore coordinazione tra elementi cerebrali prodotti dall’elaborazione evolutiva
delle strutture esistenti, soprattutto dalla corteccia prefrontale (1958, II, 399). Come afferma
Jackson, citando il suo seguace Ribot, «Le moi est une co-ordination» (Jackson, 1958, I, 82). Il
significato delle funzioni prefrontali, in particolare la corteccia orbito-frontale, nella creazione
dell’esperienza del Sé è il tratto principale della tesi di Damasio (Damasio, 1994).
Ogni stadio dell’accresciuta coordinazione tra gli elementi del sistema nervoso centrale reca
in sé assetti della mente e una funzionalità connotati da maggiore complessità accompagnata da una
molteplicità rappresentazionale. Livelli più recenti di evoluzione non comportano l’introduzione di
nuove rappresentazioni; si riscontra semmai una ri-rappresentazione e poi una ri-ri-rappresentazione.
Inoltre, l’evoluzione apporta maggior controllo volontario sui contenuti della coscienza e dei
sistemi di risposta. Tale controllo include la maggiore inibizione dei «livelli» evolutisi in
precedenza.
In sintesi, Jackson propose una gerarchia della coscienza. La gerarchia è una caratteristica di
base della struttura dei sistemi biologici (Smith, 1978), ma non è da intendersi come sistema
unidirezionale di dominanza, quale la catena di comando riscontrabile, per esempio,
nell’organizzazione militare. Semmai, la coordinazione di Jackson non è soltanto trasversale ai
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«livelli» separati, ma si stabilisce anche tra livelli. Ogni livello è coordinato con altri livelli e
dipende da essi. Il passaggio tra un livello e l’altro è collegato ai bisogni adattivi e alle circostanze
ambientali. Attacco e fuga sono predominanti, al pari degli assetti mentali adattivi in situazioni
specifiche.
Il livello superiore non è unico, ma viene in essere attraverso la coordinazione di livelli
inferiori che crea un sistema più ampio «contenente» tutti i livelli.
Questa organizzazione gerarchica può essere illustrata dallo sviluppo della memoria nella vita
dell’individuo. I sistemi di memoria precoci sono di natura sensoriale e motoria. Il primo sistema di
memoria senso-motoria comporta il semplice riconoscimento di frammenti dell’ambiente
sensoriale; per esempio, il bambino percepisce gli occhi anziché il volto. Questa forma di memoria,
la «rappresentazione percettiva», è atomizzata, inflessibile e molto precisa (Tulving e Schacter,
1990). Anche la memoria dei repertori motori, la memoria procedurale, emerge presto. Tulving
denomina questi primi sistemi di memoria «anoetici», un neologismo derivato dal greco noesis, che
significa mente.
Il secondo «livello» di capacità di memoria si acquisisce quando il bambino è in grado di
ricordare i fatti del suo ambiente sensoriale. Tale acquisizione, che si riscontra intorno alla fine del
primo anno di vita, (Nelson, 1992) preannuncia l’esordio di quella che Tulving chiamò memoria
semantica (Tulving, 1972, 1983). Potremmo definire semantico questo livello oppure «noetico», per
impiegare il termine di Tulving.
Il terzo livello di memoria si sviluppa in un periodo considerevolmente successivo, intorno ai
quattro anni (Nelson, 1992), quando il bambino scopre l’esperienza del Sé. Tale scoperta
accompagna un nuovo senso di consapevolezza degli eventi interni, dimostrato dal conseguimento
del concetto di segretezza (Meares e Orlay, 1988). Questa nuova memoria è un aspetto della
capacità di introspezione. Tulving la denominò «episodica» (Tulving, 1972, 1983). Adesso il
bambino è in grado di rievocare degli episodi del suo passato, come se li vedesse con «l’occhio
della mente». Un tempo questa forma di consapevolezza era detta insight. Accompagnata dalla
capacità di avere un insight rispetto al mondo dell’altro, essa consiste nel riconoscere che, proprio
come il soggetto ha una propria realtà personale privata e unica, anche gli altri hanno dei desideri,
dei sentimenti, delle immagini e così via, che appartengono loro e si differenziano da quelli del
soggetto. In questa fase il bambino trascende la capacità di comprensione solidale, acquisendo
anche la facoltà empatica. Ciò rappresenta un momento importante dello sviluppo della cosiddetta
«teoria della mente».
Ormai la memoria «episodica remota» viene generalmente detta «autobiografica». Tulving la
definì come la forma riflessiva della coscienza, di cui è parte essenziale, «autonoetica». Questo
assetto della mente è più esteso di assetti precedenti. L’individuo è in grado di vagare,
figurativamente, nella mente attraverso scene rievocate deliberatamente nella memoria e
nell’immaginazione, impegnato in un processo che Tulving ama chiamare «viaggio mentale nel
tempo» (Tulving, 2001; Tulving, 2005; Wheeler, Stuss e Tulving, 1997).
Anche se la gerarchia di Jackson viene descritta in termini di coscienza, essa comporta una
gerarchia più estesa. La coscienza infatti non è un’entità isolata. Nasce necessariamente da uno
stato cerebrale determinato dall’interazione tra l’ambiente sensoriale e il sistema cervello-mente che
è costantemente operativo. Dal punto di vista del Sé, è particolarmente rilevante l’interazione o le
forme di relazionalità con il mondo sociale, sia esso esterno o interno. Essa è mediata dalla
conversazione e sempre accompagnata dall’emozione.
9
Considerata in questi termini, la gerarchia della coscienza è necessariamente composta da
forme di relazionalità, linguaggio ed emozione, oltre a un’ampia gamma di aspetti appartenenti alla
normale sensazione dell’esistere personale, al di là della complessità e della capacità di essere
agente (agency). Tra gli altri, ricordiamo la coesione, la continuità, il valore e il senso del tempo,
dello spazio, del possesso e la dimensione del legame. Jackson non cercò di approfondire questa
gerarchia appena abbozzata, pur rilevando che «l’attività della mente (mentation) comporta
l’emozione» e che «le emozioni superiori sono composte di quelle inferiori» (1958, II, 72). Tutti gli
aspetti del livello superiore della gerarchia sono perturbatinel disturbo borderline di personalità,
considerato come una manifestazione del fallito sviluppo del Sé, in particolare sul piano della
coesione (Meares, 2012). Il concetto di «dissoluzione» concorre a spiegare come ciò avvenga.
Jackson propose che un insulto al sistema cervello-mente determini un ritiro discendente nella
gerarchia della funzione decretata dall’evoluzione e seguita dallo sviluppo. Poiché sono le funzioni
emerse per ultime nel corso dell’evoluzione che vengono toccate per prime, il «livello» iniziale del
perturbamento avviene in particolare nella sintonizzazione e nel controllo volontario dei
meccanismi cerebrali che sostengono quegli aspetti dell’attenzione, della memoria e degli affetti
che insieme contribuiscono all’esperienza del Sé.
Jackson non annoverò i traumi psicologici nel suo elenco di insulti possibili. La sua proposta
però suggerisce che potrebbero rientrarvi. Egli infatti riteneva che la «dissoluzione» facesse seguito
a un’eccessiva eccitazione del tessuto neuronale, determinandone la spossatezza, o «fatica», termine
adoperato ripetutamente da Janet come sinonimo di trauma psicologico. Il trauma che ci preoccupa
maggiormente è quello relazionale, e l’ambiente di accudimento cui ci dedichiamo maggiormente è
di tipo relazionale. In caso di trauma relazionale, l’ambiente di accudimento è stato inadeguato nel
fornire la facilitazione necessaria all’emergere del Sé. Jackson non contemplava simili problemi,
ma effettivamente segnalò che la maturazione non è inevitabile. Scrisse infatti: «Ci sviluppiamo
come dobbiamo, cioè secondo quello che siamo per via ereditaria, ma anche come possiamo, cioè
secondo le condizioni esterne» (Jackson, 1958, II, 71).
«Condizioni interne» inadatte, nelle primissime fasi della vita, possono avere lo stesso effetto
degli insulti elettrici, chimici e fisici della vita adulta descritti da Jackson. Di conseguenza, si
prevede che coloro che hanno vissuto precocemente l’ambiente tipico degli individui affetti da gravi
disturbi di personalità evidenzieranno uno stato cerebrale di dissoluzione in cui si riscontra il
fallimento della coordinazione tra aree di attività cerebrale, che generalmente funzionano
congiuntamente, e una ridotta funzione inibitoria di ordine superiore. Tale condizione è stata
evidenziata nel disturbo borderline di personalità (Meares et al., 2005). Questo stato cerebrale
sembra essere il probabile fondamento del fallimento della coordinazione tra gli elementi della
funzione psichica, ravvisabile nelle situazioni di ciò che Janet denominò «fatica». Un racconto della
scrittrice inglese Rebecca West, nel quale descrive un senso di disintegrazione personale che
presumibilmente riflette la mancata connessione tra elementi cerebrali, ne è un esempio.
Durante una vacanza in un paesino sperduto della Cornovaglia, nell’epoca precedente la
scoperta degli antibiotici, Rebecca West subì un «avvelenamento ematico». Nei giorni successivi
sperimentò uno «stato curioso», connotato dall’incapacità di selezionare dati sensoriali ridondanti e
di modificare l’intensità degli stimoli sensoriali, incapacità apparentemente correlata alla
discontinuità della vita psichica. Scrive la West:
10
Avevo perso la mia facoltà di sopprimere le impressioni irrilevanti e di coordinare
le restanti. Mi sentivo costretta a guardare gli alberi fuori dalla finestra e il loro
comportamento sotto i raggi del sole e nel vento, notare le caratteristiche di ogni
persona che mi parlava, con un’intensità assai sgradevole, ed ero così spossata per
questo sforzo costante di apprensione che il lavorio del mio cervello mancava di
continuità. Ogni momento di coscienza era distinto da ogni altro momento
risultando da esso disgiunto. Invece di essere un flusso, la mia vita mentale era un
filo di perline disparate (52).
Il perturbamento della continuità della vita mentale proseguì per qualche giorno, dopo che la
febbre era calata, stabilizzandosi a una temperatura normale. Immediatamente prima delle
dimissioni dalla casa di cura, fu autorizzata a fare una passeggiata fuori dai cancelli. Decise di salire
su una collinetta da dove, aveva sentito dire, si poteva godere un bel panorama. Una volta in cima,
come poi disse:
Non vedevo il panorama. Potevo vederne dei brandelli, ma non lo vedevo nel suo
insieme. Era come cercare di scattare una foto con una macchina fotografica non
panoramica. E quel che vedevo assomigliava a un dipinto senza senso su un
frammento di vetro. Il mosaico di colori non recava alcuna suggestione di
consistenza e di contorni. Dovetti sforzarmi per interpretarlo e riuscire a scorgere,
per esempio, che la macchia romboidale tutta schizzata era un campo di granoturco
(52-53).
Relazionalità analogica
Il problema della coesione del Sé non è confinato a chi presenta un grave disturbo di
personalità. Molti individui che si rivolgono a un terapeuta hanno una sensazione insoddisfacente
della propria esistenza personale, in cui percepiscono la «dimensione della molteplicità»
(manyness) insita nelle cose, accompagnata dalla costrizione della gamma dell’esperienza interiore,
che si manifesta in una ridotta memoria autobiografica ed una limitata immaginazione, e dalla
relativa assenza di libertà necessaria per vagare tra gli spazi della mente. Il problema della coesione
ha una portata clinica fondamentale. La sua ricostituzione è uno dei risultati della pratica terapeutica,
centrale ma largamente trascurata. Le sue possibili origini infatti sono state oggetto di scarsa
attenzione. Avendo preso in considerazione come possa insorgere la fallita coesione del Sé, occorre
adesso accostarsi al problema di come promuovere tale coesione. Per affrontare la questione
dobbiamo prendere le mosse da un interrogativo: in che modo è connessa la vita psichica?
William James, nel corso della sua vita professionale, rifletté a lungo su «come le cose stanno
insieme». Nel tentativo di decifrare questo mistero, avanzò un’idea, quasi una divagazione,
proponendo che le connessioni tra gli elementi del flusso metaforico siano analogiche.
Cogliendo quella che denominò «la natura dell’unità sintetica della coscienza» (1895, 152),
James suggerì che la vita interiore è connessa in modo diverso dall’esperienza dei fatti del mondo
esterno, dove le connessioni sono governate da quella che definì la legge di contiguità. I fatti del
mondo sono organizzati così come appaiono nel mondo. «Le cose viste e le cose sentite sono
coerenti tra loro, coerenti con i colori e con il gusto, nello stesso ordine in cui sono state coerenti
come impressioni nel mondo esterno» (James, 1890, I, 555).
11
Il mondo interno, secondo James, è invece connesso secondo la legge di similarità. Con
«similarità» intendeva ciò che un suo amico espresse quando disse che: «Le storie, passando di
bocca in bocca, scarrocciano molto rispetto al loro movimento in avanti» (James, 1890, I, 582),
sostenendo, cioè, che le digressioni del pettegolezzo procedono in maniera analoga alla rotta di
un’imbarcazione da diporto.
Un analogo è una cosa con forma o proporzione simile ad un’altra. Lo scheletro di un uccello,
per esempio, è analogo a quello di un pesce. Sono simili, ma non sono due duplicati. «L’analogia
può essere considerata lo stadio primordiale, originale del pensiero simbolico. Elaborando i concetti
di William James, possiamo affermare che la matrice della vita interna stia insieme…, almeno in
parte e precipuamente, attraverso la connettività analogica» (Meares e Jones, 2009).
In un lavoro successivo di grande interesse, James (1895) propose che le due forme di
connettività della vita mentale sono aspetti di due sistemi principali di realtà personale visualizzabili
come due assi intersecantesi, uno longitudinale e l’altro verticale, simile alla distinzione saussuriana
tra diacronico (longitudinale-temporale) e sincronico (verticale-simultaneo) (Saussure, 1916). Ho
proposto che si tratti di una distinzione fondamentalmente tra due forme di pensiero diverse, riflesse
nei due «linguaggi» principali che costituiscono la conversazione umana (Meares, 1993, 2005,
Meares et al., 2012). L’uno può essere detto «logico», e nei destrimani dipende dalla funzione
dell’emisfero sinistro; l’altro è «analogico», dipende dall’emisfero destro, si occupa di dare forma e
configurazione alle informazioni (Bourne et al., 2009) e governa l’uso della metafora (Bottini et al.,
1994), oltre a essere particolarmente implicato nell’espressione emotiva. L’emisfero sinistro,
viceversa, si occupa dei dettagli e degli stati di successione, dove si fa uso della sintassi.
Non sorprende che negli individui traumatizzati si evidenzi una difettosità della funzione
dell’emisfero destro (Meares et al., 2011; Meares, 2012). La ridotta connettività che Bluhm e i suoi
colleghi hanno riscontrato in soggetti traumatizzati è stata localizzata in particolare nell’emisfero
destro (Bluhm et al., 2009).
Il pensiero analogico appare per la prima volta nella vita umana nell’attività, apparentemente
solitaria, del gioco simbolico cui il bambino si dedica intorno ai tre anni, quando vari oggetti sono
utilizzati per rappresentare, insieme alle parole, elementi di una storia che il bambino sembra
raccontare a se stesso, parlottandomentre gioca. Per esempio, un bicchiere che giace disteso può
essere utilizzato per rappresentare una tana di coniglio. Il bicchiere è l’analogo della tana.
Il linguaggio impiegato dal bambino durante questo gioco può qualificarsi come linguaggio
dell’emisfero destro, così come è stato descritto da Vygotsky (1962). Si tratta di un linguaggio
abbreviato, emotivo, relativamente asintattico e non sempre comprensibile. Nella fattispecie, le frasi
sono soprattutto composte di predicati con omissione del soggetto.
Il gioco simbolico è stato considerato il precursore immediato e necessario dell’emergere del
Sé jamesiano, intorno ai quattro anni di età, (Meares, 1993, 2005), ed è contrassegnato dalla
scoperta da parte del bambino del concetto di segreto, che riflette la consapevolezza degli eventi
interni (Meares e Orlay, 1988).
Verso la coesione: la relazionalità analogica
In che modo queste idee concorrono a formare un orientamento terapeutico utile per
accostarsi al problema di una limitata coesione del Sé? In questa sezione finale, mi propongo di
rispondere a questo interrogativo. La risposta dipende dal «famoso principio che Vygotsky mutuò
12
da Janet, Baldwin e Piaget» (van derVeer e Valsiner, 1994, 354), secondo il quale le funzioni
psicologiche superiori che, nella vita adulta, percepiamo come «interne», hanno avuto le loro prime
forme nel mondo esterno come attività «condivise tra due persone» (Lurija, 1973, 262, citando un
articolo in russo di Vygotsky sullo sviluppo dell’attenzione). Questo processo verrà in seguito
internalizzato.
La prima attività dell’infanzia in cui la connettività analogica si dimostra al mondo esterno,
tra due persone, è una forma di gioco che sembra rappresentare il precursore del gioco simbolico
(Bornstein e Tamis Le Monda, 1997). È stata denominata protoconversazione (Trevarthen, 1974). Il
gioco simbolico può essere inteso come internalizzazione parziale del ruolo dell’altro nella
protoconversazione (Meares et al., 2012).
La protoconversazione è un gioco che si sviluppa tra la madre e il bambino, ove la madre ha
una «conversazione» con il lattante, che risponde con vocalizzazioni non verbali, sorrisi, movimenti
delle braccia, e così via. Prende avvio in un momento in cui il bambino non è angosciato oppure
mostra un affetto leggermente positivo. La madre utilizza i contorni della propria voce e del proprio
viso per rappresentare la «forma» dell’esperienza del bambino in quel momento, diventando così un
analogo del bambino, «ritraendo» per il bambino ciò che è essenziale nel suo sentire. Questo tipo di
relazionalità tra madre e bambino può dirsi analogica.
La protoconversazione è stata descritta in varie occasioni in modo rilevante da Trevarthen
(per es. Trevarthen, 2004). Le sue iterazioni comportano l’accoppiamento, l’amplificazione e la
rappresentazione analogica. Il viso e la voce della madre hanno un effetto sul lattante,
amplificandone lo stato emotivo, al quale la madre risponde con un ampliamento della sua risposta.
In questa interazione reciproca le risposte materne sono strettamente accoppiate, o collegate, allo
stato emotivo immediato e positivo del bambino.
L’accoppiamento ripetitivo, l’amplificazione e la rappresentazione sono gli elementi di un
sistema auto-organizzante (Capra, 1996). L’emergere del Sé è dunque concepibile come il risultato
di un sistema auto-organizzante nel quale la parte dell’altro finisce per essere internalizzata (Meares,
2000).
La ricostituzione del Sé nella situazione terapeutica comporta il configurarsi della
relazionalità analogica. In un altro scritto ne discutiamo più approfonditamente (Meares et al.,
2012). In sintesi, il terapeuta utilizza la modalità del pensiero e del linguaggio dell’emisfero destro.
Il linguaggio ha uno scopo modellante e una base emotiva, come se riflettesse delle «forme del
sentire» (Hobson, 1985). Il linguaggio è diverso dal discorso proposizionale dell’emisfero sinistro.
Gli enunciati possono essere brevi, pronunciati con tonalità emotive tramite le inflessioni della voce,
e sono spesso incompleti o asintattici.
Questo tipo di linguaggio è particolarmente necessario, a mio modo di vedere, quando si
lavora con un paziente danneggiato. Non è tuttavia l’unico linguaggio impiegato. La terapia infatti
si propone un’integrazione verso una coordinazione della funzione e del linguaggio dell’emisfero
destro e dell’emisfero sinistro, da cui risulta una forma di conversazione matura dove un linguaggio
lineare, logico e comunicativo è il veicolo di un’altra forma di linguaggio non lineare, analogico,
emotivo e figurativo. Questa coordinazione rivela l’emergere del Sé.
13
SINTESI
La coesione, o qualità del suo fluire – sosteneva William James – è la caratteristica cardinale della
coscienza umana. In chi si rivolge a un analista, la coscienza è ridotta in varia misura, se non quasi del tutto.
Eppure, nonostante la sua portata clinica, si è prestata scarsa attenzione al problema, che costituisce il tema
principale di questo articolo.
Adotteremo la definizione di Sé avanzata da Hughlings Jackson e James. Secondo Jackson il Sé è
costituito da due metà unite, una delle quali denominata «coscienza dell’oggetto», che rimanda a una
consapevolezza riflessiva degli eventi interni. Rappresenta la caratteristica identificatoria del Sé, ma non è il
Sé. L’aspetto fondamentale e più costante del Sé è invece la «coscienza del soggetto», simbolizzata dal
pronome «io» e dalla quale scaturisce la coscienza dell’oggetto. La base neurologica della coscienza del
soggetto potrebbe essere costituita da una rete neurale di recente scoperta, detta default mode network. Negli
individui traumatizzati o immaturi tale rete non è integralmente collegata.
La distinzione tra forma oggettiva e forma soggettiva della coscienza suggerisce due forme di vita
mentale distinte ma coordinate, che si manifestano nelle due forme linguistiche fondamentali combinate
nella conversazione ordinaria: quella di tipo «logico» e quella di tipo «analogico». La prima dipende
dall’attività dell’emisfero sinistro, l’altra dal destro. La modalità analogica – è questa la tesi qui avanzata – è
necessaria per la coesione della coscienza, ma è relativamente difettosa negli individui traumatizzati nei
quali – come suggerisce un’evidenza preliminare – è carente la funzione dell’emisfero destro.
L’autore ipotizza che la creazione di una relazionalità analogica tra terapeuta e paziente possa
promuovere l’emergere della coesione. I principi del suo declinarsi potrebbero essere evinti da due forme di
gioco che si configurano nella primissima infanzia – la protoconversazione e il gioco simbolico. Sembra
verosimile che tali attività siano i precursori necessari di una forma coesa e non dissociativa di coscienza
adulta.
PAROLE CHIAVE: Analogia, coerenza, coscienza, default mode network, gioco, Hughlings Jackson, Sé.
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