Favignana - Memorie e note " - Palermo 1872

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Favignana - Memorie e note " - Palermo 1872
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STRUPPA S-
FAVIGNANA
MEMORIE E NOTE
PER
SALVATORE STRUPPA
PALERMO 1977
AL MIO AMICO E FRATELLO
PROF. GIACOMO LIVOLSI
Pubblico queste poche note sull’isola che
ti diede i natali e le dedico e te, col desiderio di rendeti un cambio per la tua
bella lettera sul VIAGGIO IN AMERICA
che avesti la gentilezza di indirizzarmi per
le stampe. Ma qual cambio! Però se tu sapessi con che cuore io ti offro queste memorie, forse vorresti un pò più di bene di
di quel che ne vuoi al
Tuissimo
SALVATORE STRUPPA
Marsala, 14 Dicembre 1876
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I
In una bella mattinata di settembre, una brigatella di quattro amici
partiva dal littorale di Marsala in un canotto microscopico, armato di due
uomini e si dirigeva verso le Egadi. Il padrone del legno, certo Girolamo,
era il solito capitano dell’altura delle quattordici miglia di tragitto navigabile tra Marsala e Favignana. L’altro era un mozzo qualunque, rematore di
vaglia, che, seduto grave, come un presidente, al suo posto, rinunziò completamente alla parola e chi s’è visto, s’è visto. La piccola mano di un
bambino quinquenne giocava il timone figuratevi; dagli occhi lucidi e
tondi, dai piedi scalzi e dal visetto di stella mattutina, sbonconcellava,
seduto a poppa, un bel tozzo di pane, senza una pena al mondo. Noi
dunque, perché eravamo proprio noi, si lasciò la riva sulle cinque del
mattino. Il mare rideva del beato sorriso delle estive calme meridionali,
sotto il padiglione di un celo azzurro e tersissimo. In fondo le tre montagne,
Maretmo, Favignana, Levanzo; a destra le isole moziesi, piene di vigne, di
canne, di sale e di anticaglie; a manca l’infinità dello spazio maritmo che si
allunga sino alle sponde misteriose dell’Africa....io sfido a trovare una
pittura di genere più squisito ed un’ispirazione più geniale per un paesista
d’oltr’alpe. Io mi sentiva sul Garda, che non ho ancora visto; l’immaginazione ha i suoi capogiri; si discerneva perfettamente il fondo del mare, la
bonaccia avrebbe permesso anche di contare i fili immobili dell’alga; ma
per quanto aguzzammo la virtù degli occhi nell’immensità aerea, non ci
venne fatto di scorgere i noti fenomeni della fata morgana, che soglion
ripetersi anche in questa parte occidentale della Sicilia. La circostanza ci
produceva in mente varie cose. In questi momenti l’associazione d’idee è
tutto e fa tutto. Giacomo, per esempio, uno di noi, che scavalcò felicemente
l’Atlantico per ben due volte, or non è guari, entrò subito in materia e dopo
un po’ d’eloquenza d’uso, finì col dire:”Avere fame da tre giorni... non
posseder più nulla di provvigione... trovarsi nel cuor dell’oceano!... tre idee
che non l’ha di certo chi fa il chilo in panciolle tra le delizie di un riposo
casalingo, e quelle di un fumo d’avana che l’addormenta. Codeste stremità
l’avea provate egli nei tre lunghi mesi che stette nell’oceano per andare in
America. Noi eravamo là, come punti ammirativi a quel che aveva detto
Giacomo; ma vuol per ciò stesso, vuoi per l’aria marina, dopo tutto non
avevamo fame, e non era certo da tre giorni che noi avevamo fatto l’ultima
volontà di Dio, nè tampoco eravamo nel cuore dell’oceano. Girolamo ci
diede il suo pane secco e duro che addentammo anche noi in compagnia del
timoniere, dagli occhi tondi, e dai denti di perla. Finalmente, dopo aver
volteggiato ed essere andati orro, orro* interno a Calarossa, celebre seno
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per il ricovero offerto alle navi romane al tempo delle guerre puniche, e
fors’anche al famoso pirata Dragut che nel 1548, avea scelto le Egadi a suo
quartier generale, e dopo aver girato attorno a molti altri piccoli seni della
costa, s’infilò la Cala del porto, ai piedi proprio della montagna, dove
mollemente si distende la cittadina di Favignana. Usciti fuor del pelago
alla riva ci avviammo con armi e bagaglio ad un Albergo d’Italia, oramai
indispensabile in ogni città o borgo che sia, e rassettati alquanto nella
persona uscimmo a vedere e ad osservare il paese.
L’isola di Favignana giace al 38 latitudine Nord, e al 10 longitudine
Est, meridione di Parigi. Essa appartiene alla formazione dei terreni
conchigliferi, balzati fuori dalle acque del Mediterraneo, come quelli di
Sicilia e più propriamente quelli della costa occidentale. E’ un tufo
bianchissimo composto di una immensità di frantumi di conchiglie marine
arrotondati per l’azione dell’acqua e strati in compatta arenaria per una
cementazione ossido-calcarea.
Quasi al centro dell’isola s’innalza la montagna circa a 600 metri sul
livello, ove irta e ripida, trattabile e culta. Essa si compone di rocce tufacee
durissime, giacenti a strati inclinati ad ovest, argille orizzontali e di marne
bluastre, lentamente decomposte dall’azione dissolvente dell’atmosfera.
Maretimo e Levanzo appartengono alla stessa storia quaternaria, si che
diresti le tre isole tre immensi blocchi erranti, spostati dalla catena degli
Appennini e trabalzati dagli ultimi rivolgimenti diluviali, ad una rispettosa
distanza dal litorale siciliano. Il resto della montagna, eccettuata la contrada
del Bosco, nota per ottimo vino, è un deserto petroso e desolante; non un filo
d’erba, non un’orma di piede umano – solo il mare, quando sbuffa il ponente,
invade e devasta, colle sue formidabili decomposizioni, quelle rocce calcaree,
che ti sembrano onde marine, pietrificate al momento della tempesta. Il
Ponente è l’Orlando Furioso di quei mari profondi, li suscita, li aizza, li mette
in collera, come si fa con le belve, poi li sconvolge, li fa saltare in aria, li
scaraventa contro le spiagge e batte e ribatte, quando è alta la marea, questa
doccia nettunica, col suo volume immenso, gagliardo, tempestoso, continuo,
si rinfrange contro i granitici scogli delle tre montagne, che alla loro volta si
sfidano saldi suoi loro mostruosi piedestalli. Nulla è di più titanico di questa
forza gigantesca dell’onda che batte in breccia sul granito che non crolla, ma
che si sfracella lentamente e si annulla da valoroso.
Varie grotte la natura scavò nella terga e nelle vivere della montagna,
bellissime per le loro amorfe disposizioni interne. Nelle grotta cosi detta
*Orlo, orlo, cioè costeggiando
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dell’acqua, e in quelle che l’affiancano, vi si sono trovati avanzi di fossili
umani ed arnesi industriali creduti dell’età della pietra. Dal lato della
montagna, che sorge a picco dal mare, dirimpetto a Levanzo, proprio a fior
d’acqua, v’ha una caverna ben profonda e disposta a galleria, con un
poderoso pilastro al centro dell’ingresso, e dove si entra in caicco, per uscire
dall’altra buca formata dal piliere di centro. Ivi tutto è ceruleo, l’acqua, il
sottacqua, le pareti; se sei un poeta, ti salta subito l’immagine d’una’abitazione di najadi e di tritoni, perché tu vi senti una calma serena, rotta soltanto
da un mormorio soave che pare di baci – dialogo incompreso da noi,
misterioso come tutte le cose della natura. L’interno è tutto composto di
lastroni che paion ripoliti dalla pialla d’un fallegname, e ricoperta da una
patina muschiosa che l’onda vi produce, quasi imbottitura per non risentirne
male nell’urto della marea. Comecchè rovinata dalle scientifiche rapacità dei
visitatori, tuttavia la Grotta del Faraglione è una delle cose più belle che si
trovano nell’isola. Un pertugio rotondo, che lascia a stento passare un uomo,
praticato in un terreno roccioso e ciottoloso a spiaggia del mare, è l’ingresso
della caverna che si distingue per la sua figura di bottiglia e di storta chimica
schiacciata, approfondendosi ben otto o dieci metri nelle viscere della terra.
Penetrati come lucertole in quella buca, trovammo un buio da non scoprire la
punta del naso. Accesi i lampioncini, mi ricordai subito dei ciclopi, ma tacqui
per non apparire un erudito importuno, ridevamo bensì di quella nostra
discesa nel regno delle tenebre, sebbene un pò a fior di labbro, avvegnachè
quel buio pesto ed umido, quel silenzio d’agguato, quell’aria di trogloditismo
facessero apparentemente poco trattabile quella grotta selvaggia ed aspra e
forte, che avrebbe potuto essere del resto, tana o coviglio di qualche animale
niente domestico. La volta, le pareti, il terreno, tutto e stattatiti e stalagmiti
color di cera e rossastre. La volta è una cappa concava, irta di concrezioni
calcari, recenti o meno, che paiono pioggia pietrificata; l’acqua vi ha praticato
mille scherzi; splendidi rabeschi, bizarri ghirigori, tutto un disordine
composito, un rifascio di linee rotte e spezzate all’infinito, un rococò immenso di ovoli, di fregi, di nastri, di rosoni, di capezzoli, di cannelli; miscelianea
straordinaria che solo l’acqua e i secoli d’accordo hanno formato, nel cupo
silenzio di una caverna primitiva. Le pareti anch’esse sono tappezzate in
varie guise del calcare alabastrino che quì assume la forma d’intonaco grinzoso e scabro, per la projezione irregolare e proclive delle medesime pareti.
Quì l’essudazione stalattitica vi si fa a strati larghi e sereni e vi riconosci
benissimo l’onda e non la goccia. In qualche anfrattuosità ti vien fatto di
scernere un grappolo di gocce essudate e disseccate, grosse come granelli di
sesamo e nella loro perfetta interezza. In tutta la pelletica delle pareti tu vi
trovi una specie d’inceratura, come fatta dalla mano dello uomo e che la rende
lucida e liscia come l’avorio d’un mobile del cinquecento.
Nel terreno esistono degli avanzi di pilastri dello stesso calcareo, rotti da
chi ne ha fatto bottino; stalagmiti a colonnine, a mammelle, a cariatidi che
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l’acqua ha concrezionato per secoli, nella totale libertà delle sue chimiche
precipitazioni. Sotto questo ammasso di carbonato di calce chi sa che il dotto
naturalista non troverebbe delle relique di giganteschi pachidermi spariti e
d’immensi sauri estinti; chi sa che le convulsioni geologiche non abbiano
accoppiato laggiù lo stinco dell’orso speleo e la mascella dell’ittiosauro, la
conchiglia d’una belemnite jurassica e l’ugna massiccia d’un megaterio
sdentato, le zanne d’un mammout enorme e le corna d’un cervo megacero?
Se si conoscesse l’origine geologica di codeste caverne, i naturalisti e gli
scienziati non andrebbero dietro ad ipotesi e supposti più o meno possibili di
fratture e di vuoti prodotti nelle agitazioni della terra per il fatto del suo
raffreddamento. A me profano non è lecito penetrare nelle viscere del pianeta,
per iscrutarvi i segreti delle sue forze; il geologo ed il naturalista moderno
hanno dato bensì un nuovo indirizzo alla scienza che progredisce sotto
l’impulso di elevate intelligenze. E’ ben vero che le ipotesi possono talvolta
disciogliersi sotto la forma di un sillogismo ragionato, ma tant’è, un pò di luce
si farà certamente in questo campo tuttavia oscuro e se son rose fioriranno.
La flora dell’isola si compone della vite, che produce ottimo vino al
Bosco, del fico, del gelso, del pomo, dell’albicocco, dell’arancio, del limone,
dell’olivo, del carrubbo e dell’abbondantissimo cactus opuntia che s’arrampica su per le balze della montagna, dove il frutto e sapidismo e dolcissimo.
Arrogi il grano, l’orzo e d’ogni sorta legume; il granturco e il cotone che
viene moltissimo coltivato negli orti irrigati da bindoli ed ove si seminano
erbaggi d’ogni natura – il cavolo marino, il cocomello selvatico, la ruta, il
fungo, la scorzoniera ecc., e sulla montagna il cappero, lasparago, il tasso, il
zafferano, la cicoria, il giusquiamo, la cicuta ecc.
Il Cav. Gussone nella sua Synopsis Florae Siculae pubblicata in Napoli
nel 1842-44, descrive 367 piante raccolte nella sola Favignana.
Non molto ricca è la fauna del paese: abbonda di buoi e vacche, che
s’impiegano con sommo vantaggio nella modesta agricoltura dell’isola e da
cui si ottengono ottimi caci ed ottimo burro; di cavalli, di asini, di pecore, di
cani, di porci, di conigli, di topi, e per conseguenza di gatti.
Tutti i volatili che migrano dalla vicina Africa approdano in maggio e in
settembre all’isola di Favignana o di Levanzo; la beccaccia, la ficedola, la
tortore, la rondine, il colombo,il pettirosso, il tordo, la quaglia ecc. vanno in
quei due mesi di transizione a visitare quelle spiaggie solitarie, come prima
tappa del loro passaggio. L’arrivo di questi uccelli e soprattutto della quaglia,
mette un fermento, una agitazione straordinaria negli abitanti delle isole, che
in quel tempo si trasformano tutti in cacciatori. Essa si parte dai lidi di
Barberia, traversa penosamente il tratto del Mediterraneo che divide l’Africa e
la Sicilia e a seconda della stagione approda a Favignana o a Levanzo. In quel
penosamente che ho detto v’ha compresa tutta la dottrina pratica,da Aristotele
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ad Oppien, impiegata da questo volatile per la sua traversata. V’ha chi asserisce che fidandosi ai venti, la quaglia viaggia felicemente con quei di nord e
non con quei di sud per arrivare in Europa; altri dice che pria di partire si
munisce di un pezzettino di legno che potesse servirle di punto d’appoggio
vagando nei flutti del mare, ed altri, che porta seco nel becco tre pietruzze per
sostenersi contro il vento: idee, dico io, che sono rimaste finora al semplice
stato di concetture. Ho detto anche che a seconda della stagione approda a
Favignana o a Levanzo, cioè in maggio, al primo arrivo in Europa, vanno tutte
difilate a Levanzo, e in settembre, all’epoca del ritorno, tutte a Favignana, due
isolette d’altronde messe sulla stessa via e a brevissima distanza tra loro. Ciò
ha dato molto a pensare a qualcuno che vuol trovare la ragione; ma per quanto
ci si è messo di picca non è mai potuto venirne a bottega. Però c’è da riflettere
una cosa. E’ stato definitivamente provato che la quaglia cambia di clima ed
abbandona successivamente i diversi paesi per passare in quegli altri in cui
abbondano i semi di cui si pasce, il bisogno di nutrizione essendo in essa una
causa più determinate alla emigrazione di quello non sia il troppo freddo e il
troppo caldo. Così essendo, considera il Buffon, l’istinto che hanno tutti gli
animali, specialmente alati, d’eventer de loin leur nourriture, si accoppia
all’abitudine talmente, che ne risulta un’affezione particolare per questa o per
quella terra, dove la quaglia ritorna tutti gli anni nella medesima stagione. Del
resto che, anitre, polli, tacchini, pavoni, tutta questa robba domestica sen vive
tranquilla nell’ozio beato del pollajo. Però sulla montagna v’anno due briganti
feroci, due cannibali spietati, che portano in tutta l’isola, la strage, la desolazione, la morte. Essi vivono di rapina e di furto, piombano sulla vittima innocente, la straziano, la sgozzano, la sventrano, ne strappano a lembi le carni
che ingojano tuttavia palpitanti, e si chiamano il corvo ed il falco. L’uno è
vile, astuto, briccone, attacca le facili prede, fa orrido pasto di carogne, bazzica nei cimiteri e nei macelli e nella solitudine vigliacca del suo abitacolo,
escogita sempre assassini, proditori, carneficine. L’altro invece è più di
coraggio, generoso, leale; dà e riceve battaglia, si misura coi suoi avversari
nelle giuste regole della cavalleria, attacca di fronte la supposta preda, non
adopera nessun mezzo illecito, è il fiore in somma dei masnadieri dell’aria,
specie di Schinderamnes ornitologo, proveniente da una razza educata nelle
corti del Medio Evo, valorosa del resto negli aerei certami. La lega formidabile che hanno fatto sulla montagna questi due famosi banditi, data da molto
tempo e ne sono esistite sempre quattro paja di ciascheduna specie – è una
vecchia tradizione del paese, che, sebbene abbia l’aspetto di curiosità,
nondimeno è vera come la verità in persona. Rospi, serpi, biacchi e lucertole
strisciano per ogni verso sulla terra di Favigna, che la natura benevola non ha
voluto insozzare della bava velenosa della vipera.
In quel mare frastagliato da tanti isolotti, fra i pesci, abbonda il fragolino,
la boga, la triglia, il cefalo, l’asello, la mènola, il tordo, la mure-na, il gronco,
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l’occhiata, l’orata, il pagro, il chiozzo, il dentice, la sardella, il perlone, il
pagello, il ragno ed altri mille – fra i crostacei, il gambero, l’echino, il cupicante, in granchio, la locusta – fra i molluschi, il tetano, il polpo, la seppia, la
razza, la chiocciola turbinata, la patella, l’arsella, il mitilo ecc.
Nelle grotte in cui penetra il mare, si sono spesso vedute delle foche e dei
vitelli marini; ve ne ha una che si chiama del Bue marino perchè là un cacciatore ebbe la fortuna di trovarne uno dormiente e di ucciderlo.
La pesca delle sardelle costituisce un capo di commercio per l’isola.
Alcuni speculatori genovesi sono venuti a farne traffico per l’Italia e per
l’estero, pre-parandole in boites con olii ecellenti. Però è importantissima
soprattutto la spettacolosa pesca del tonno, che da tempo si pratica in quel
mare, come in quel di Sardegna, di Corsica e della Prevenza.
Il tonno è un pesce, che migra come gli uccelli per quel desiderio innato in
codesti animali di trovare altri pascoli, altre temperature, altri comodi alla loro
vita. Esso si parte dall’Oceano indiano e dall’Atlantico e a grandi frotte, ad
eserciti immensi, infila le Colonne d’Ercole e verso la fin d’aprile naviga nel
Mediterraneo. Alcuni pratici asseriscono che alquanti individui di questi
sgomberoidi, emergono in primavera dalle profondità dell’acqua mediterranea, ove rimasero tutto l’inverno in un ambiente più comodo e più tiepido che
non quello della superficie. In quel tempo, dai marinai destinati alla pesca e
dal Rais*, che ne è l’intelligenza, si prepara e si getta in mare, in un luogo
convenuto, quell’apparecchio di ancore, di cordami, di maglie e di reti che
compongono l’ingegnoso edificio sottomarino che si chiama tonnara. Grossi e
massicci battelli affiancano ed inquadrano tutta questa imboscata di camere e
di anditi misteriosi fatti di sparto di Alicante e che mettono capo nella camera
della morte, formata di strette maglie di fortissima canape. Il Rais è una
specie di dittatore di quel governo temporaneo, che da leggi e regola le
operazioni che occorrono durante il tempo della pesca.. Egli è la supremazia,,
l’autorità del momento; osserva tutto, indaga tutto misura tutto – la lince col
suo sguardo penetrante, verrebbe meno alla forza visiva del Rais, che scopre,
con fine maestria, nel profondo immenso del mare,ogni filo d’alga, ogni
pietra, ogni piccolo banco, e dove il tonno gli appare alla dimensione
d’acciuga. Tutti gli ordini, tutti i comandi, tutte le disposizioni dipendono da
lui; egli esercita una sagace vigilanza sugli uomini della ciurma, sull’impianto
dell’apparecchio, sull’indirizzo e condotta dell’importante operazione:
imaginate una specie d’Argo e di Briareo fusi insieme; cento occhi e cento
braccia agenti sotto l’influenza di una tatti conveniente ed avrete appena
sbozzata la figura completamente corsara di questo nuovo dio del mare, che
*Voce araba, valeva e vale tuttavia capitano di bastimento. E’ impiegata del
pari a significare direttore della tonnara.
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in quel tempo ricaccerebbe in gola anche al vecchio Nettuno il famoso quos
ego virgiliano. Quand’egli s’avvede che nella camera di ponente è entrata
diggià una colluvie di tonni da poterne fare la pesca, ordina per domani la
mattanza**. La camera della morte infrattanto, accoglie i tonni della contigua
di ponente e il giorno dopo, ogni uomo della ciurma collocato al posto, situati
a quadrato i battelli grandi e piccoli, pronto e sottomano ogni attrezzo, ogni
fune, ogni graffio, ogni tridente, ogni ferro, ogni rampone; al cenno del Rais
che occupa il centro, s’incomincia a tirar su, il pavimento della camera della
morte chiusa ermeticamente da ogni parte operazione che richiede tempo,
maestria somma e forza muscolare di braccia. A misura che il pavimento della
camera s’innalza, i tonni s’ingrossano di dimensione finchè, venuti alla
superfi-cie, non si dia principio a quel dalli dalli, a quella caccia suprema, a
quella strage tremenda che ha ben tutte le proporzioni d’uno spettacolo. Il
fischio del Rais è il segnale dell’attacco e là, un terribile menar di colpi, un
ferir di puntone, ed urli e grida e schiamazzi da assordare l’olimpo – è una
spaventevole baraonda; l’acqua del mare all’infuriar dei tonni, salta alle stelle
come in tempesta – specie di convulsione generale, di delirio nervoso e
furibondo, di danza nettunica e formidabile in cui tonni, barche, flutti e
marinai si arrovellano pazzamente, si assaltano, si aggrediscono, si
allontanano, s’impennano terribilmente, come se l’acqua di quel tratto di mare
fosse in una vulcanica ebullizione. Quel’onda che spuma, che salta, che bolle,
che freme, che inferocisce torbida e rossa di sangue, quel Rais sbattuto e
inondato, al centro dello spettacolo, ritto come una statua di bronzo in un
battello, quei barconi che si agitano mostruosamente, quella ciurma che
sostiene una fatica da giganti e quei pesci immensi, infuriati, spumanti e
sanguinosi che si urtano, si strisciano s’investono sopra una superficie
imporporata e chiusa da ogni parte – tutto questo è il bello terribile, è il
sublime dinamico, è una scena colossale degna d’Omero, di Virgilio e di
Dante Alighieri.
Talvolta il pescecane bazica in quei paraggi e la pesca del tonno
quell’anno torna in secco del tutto. Tutte le mattanze in complesso soglion
dare ogni anno fin dieci e quattordicimila tonni che vengono, su quel subito,
tagliati a pezzi, bolliti in caldajoni e ridotti in barile con del sale o in boite con
dell’olio.
** L’uccisione dei tonni- dal latino mactare, ammazzare.
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II
Il Marchese guido Dalla Rosa, frugando nelle grotte e nelle caverne
dell’isola di Favignana, vi rinvenne delle armi di pietra ed altri arnesi
d’industria che accennano ad abitazione troppo remota. Più tardi i Fenici,
m’imagino, e i Cartaginesi, vennero certamente a visitarla, molto più che era,
oltre Mozia, una specie di avanguardo sulla Sicilia. Al tempo dei Romani si
chiamò Aegusa e fu sede della flotta della Repubblica. Il Console Lutazio
Catulo, spedito in Sicilia con 1000 legni di guerra in rinforzo ai romani che
assediavano da dieci anni Lilibeo, sfidò, a battaglia navale, Annone
comandante la flotta cartaginese presso le acque di Egusa, dove abbenchè
contrariato dal ponente, ebbe una splendida vittoria, che pose fine alla prima
guerra punica.
Alcuni rottami di terrecotte e le columbaria esistenti tuttavia nelle grotte
ad est dell’isola, testificano l’approdo, la vita o la morte di qualche piccola
colonia siculo-romana, spiccata dal littorale di Drepani o di Lilibeo e quindi
estinta o modificata per vicissitudini di stato o di commercio. Durante i basi
tempi, sotto il dominio bizantino, in quello dei saraceni, in quello dei
normanni, il nome di Favignana è taciuto sempre nella storia; solo sotto il
governo degli Aragonesi si accenna a certo Palmerio Abate da Trapani,
Signore di Favignana, il quale non si sa come l’abbia acquistato. Io però
credo che l’abbia avuto in regalo dalla dinastia aragonese, cui la sua famiglia
servì per qualche tempo. In fatto suo figlio Riccardo ridusse alla obbedienza il
re Lodovico d’Aragona la città di Trapani, di cui fu governatore, ed Erice S.
Giuliano, che si erano dati in braccio ai ribelli Chiaramontani, rimanendo
quindi ucciso sotto le mura di Salemi ove era accorso a sedare i tumulti della
ribellata città. Enrico Abate morì ucciso del pari sotto quelle stesse mura,
difendendo il re e vendicando il fratello. Nicolò Abate però, terzo figlio di
Palmerio, non potendo ottenere il governo di Trapani per gli intrighi e le
audacie di Francesco e Guido Ventimiglia, si diede alla fazione dei
Chiaramonti. Pare che la famiglia Abate, dopo quest’ultimo fatto, abbia
perduto il possesso dell’isola di Favignana dopoichè quando Allegranza, figlia
di Nicolò Abate, andava sposa di Matteo di Moncada, Re Martino, volendo
esser benefico con quest’ultimo, dalla cui famiglia aveva ricevuto servigi
molti, permise che sua moglie conseguisse i diritti ereditari di proprietà
dell’isola; questa sovrana munificienza importa che Favignana era ritornata al
regio demanio, come gli ritornò definitivamente dopo il tradimento del
Moncada nel 1398.
Padrone dell’isola fu anche nel 1405 certo Luigi Di Carissimo, che la diede in
dote a sua figlia sposata a Benedetto Issio Riccio, Inquisitore dei misfatti in
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Trapani, dal quale pervenne, a messo dei di costei eredi, nelle mani di Andrea
Riccio,, fondatore dei due castelli esistenti nell’isola, nel 1498. I Filingeri o
Filii Angelii la possedettero nel 1590 con qual titolo e in qual maniera non
sappian dirlo, finchè passata per le mani di un Giacomo Brignone, non la
comprarono nel 1648, Paolo, Girolamo e angelo Pallavicini di Genova.
Adesso un discendente di codesti patrizi genovesi vendette l’isola di
Favignana, insieme alle altre proprietà di quei paraggi, ad Ignazio Florio,
negoziante palermitano. Cento padroni enfiteuci, cento dòmini differenti,
cento idee e speculazioni giocate sopra un sistema di vassallaggio e di servitù
della gleba.
Abbian ragione a credere che la città di Favignana non vanti molta antichità,
dopoichè non v’ha nell’isola fabrica, muro, arco o colonna che accenni ad
epoca remota; ed io son di parere che il traffico della tonnara, iniziato, a
quando sembra, sin dal secolo XVI, e la pesca del pesce delle coste, diedero
principio, or con questa or con quella abitazione di rais o di pescatore alla
cittadina che si sdraja mollemente ai piedi della montagna e che vien lambita
dall’onda del mare. Essa è rivolta al nord-nord-est, ha bella piazza e belle
strade, è lucida, ariosa, simpatica. Ogni casa ha l’appendice del giardino, che
ciò che costituisce maggiore estensione alla proporzioni della città. Due fichi,
un pergolato e un pò di fiori; ecco il giardino, stupendo per la sua completa
semplicità. Purchè ci sien delle foglie, per dare migliore ossigeno ai polmoni;
purchè ci sia l’olezzo di un fiore, per un pò di poesia anche nel naso e si vive
egregiamente, come Sardanapali in sedicesimo. Perchè in questa valle di
lacrime, tutto è abitudine e rassegnazione anche quella del sacrificio, e se
domani un dindon legittimista dei boilevards o un baronetto che giuoca il
boxing nei viali do Hyde Parck, venisse a dar fondo nell’isola di Favignana,
bisogna che accetti una vita tuttafatto primitiva o che crepi a sua posta, il che
è anche una rassegnazione.
Due piccole chiesuole accolgono i fedeli alla preghiera. Io ebbi tempo di
scambiare due parole con una parroco; mi disse tante belle cose, tra l’altre
m’apprese la notizia che il cardinale Pallavicino, quello stesso che scrisse la
Storia del Concilio di Trento, era consanguineo dei Pallavicini di Genova,
padroni dell’isola fino ad ieri.. Il domani lo vidi alla coda di una processione
in onore del Crocifisso, canonico lui solo, parroco lui solo, la sola dignità
maggiore fra i cinque preti che compongono il clero della città. Sarebbe il
caso di esclamare Unus pastor, con quel che segue. Egli riconosce due
vescovi, quello della diocesi e io domino diretto di tutta l’isola. L’uno e l’altro
approdando, il parroco, vestito di sete paonazza e d’ermellino bianco, con
tutto il clero, va a riceverlo al porto, fa sonare a gazzarra le campane, lo porta
in chiesa, lo fa sedere in luogo elevato..., onori del resto che furono tributati al
nuovo padrone Signor Ignazio Florio.
Le donne si fanno vedere appena nei giorni di festa; vivono in casa dove fatto
un menage in tutte le regole della proprietà. Hanno fattezze geniali, lindura,
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portamento svelto e simpatico e ti parlano come se ti avessero conosciuto da
tempo; occhi grandi ed appassionati, forme slanciate, vivacità gradevolissima
ti rivelano uno spirito molto sentimentale. Sulla testa, le donne del popolo,
portano avvolto un fazzoletto alla maniera siciliana; assicurato ai capelli
dell’occipite, viene ad annodarsi, lasciando scoperte le orecchie, sotto le
trecce della nuca, in un abbandono tuttaffato orientale. Così le matrone
romane, non quando si lasciavano vedere al Circo o a diporto sul Tevere,
sebbene attendendo alle opere domestiche, si rannodavano le chiome dentro
reti situate al nostro modo, maniera che si abbarbicò un pochino anche nella
Spagna. Agostina di Saragozza, quando gridò in piazza all’emissario francese
nel 1808, guerra a couvillo, aveva imprigionato le chiome dentro una rete alla
nostra maniera, che facea le veci di un fazzoletto. E’ bello vedere un visino
bianco incorniciato in un fazzoletto di stamperia napolitana, divenire scarlatto
appena v’incontrate nei suoi sguardi, lanciati da due occhi neri e rotondi. Allo
svolto di una via solitaria accanto ad una porta a terreno, vidi la figlia di un
pescatore che facea la calza e col fazzoletto come di costume. Mi ricordai
subito della Graziella di Lamartine. Alzo gli occhi per vedere chi le passasse
innanzi, e vidi dal sottarco delle ciglia scagliarsi due fulmini, che fecero
realmente fremere il mio individuo meridionale; essa, poverina, si fece di
porpora, abbassò gli occhi, cercò d’infilare un punto nella calza e non le
riuscì....io tirai innanzi mal volentieri. Ho sempre riflettuto al rossore che sale
alle guance d’una vergine alla vista d’un uomo, specialmente giovane. Tutti i
trattatisti di morire, di antropologia, di fisiologia, tutti i romanzieri di
sentimento, di costume, di metodo, tutti gli storiografi del cuore, e massime
poi tutti i poeti del mondo hanno detto ognuno la sua intorno questo bizzarro
fenomeno che suol succedere nelle donne. Certamente il pudore ci ha la sua
gran parte, ma non s’avvede che desta un incendio e che invece di tentare un
meglio, opera un peggio. Se io fossi pittore, imaginerei il pudore come un
fanciullo bellissimo che commette mille mariuolerie, senza avvedersene. Ma è
solamente il pudore che produce codesto disappunti ? credo no; il pudore è un
sentimento di vergogna che esiste nella donna; specie di turbamento intimo
che increspa un pochino la serena superficie dei misteri del cuore femminile;
quando si trova in pericolo, esso fa appello a tutti quei piccoli ausiliari ed
alleati che riposano tranquilli nella virtualità del sentimento; spesso però il
pudore rimane allo stato di larva e allora non risponde alcuna voce alla sua
chiamata – impotente com’è, tradito dai suoi amici, è sconfitto e miseramente
ucciso. Tutto ciò va perfettamente bene; ma io son persuaso che dietro il
pudore v’ha un altro regolatore e se vuolsi anche un tiranno, che ben spesso
compromette del pari le condizioni fisiologiche e sentimentali della donna e
che si chiama istinto. Il pudore suole correggere certi comandi imperiosi, certi
stimoli infrenabili, certi palpitazioni morbose dell’istinto, ma intorno al
rossore la sua opera è completamente vana. Pria che il pudore fosse svegliato,
l’istinto ha già fatto la sua parte, ha dipinto a color di rosa le povere guance di
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una fanciulla, per il sol fatto di avere scontrati gli sguardi di quelli d’un uomo.
La presenza di un sesso diverso, la rivelazione o meglio l’intuizione intima e
misteriosa che la donna riceve di tutti i segreti di un senso sentimentale al
momento che avverte quella fatale presenza, e l’involontario battito di fibra
mossa da una macchina elettrica invisibile, produce all’interno della donna
una scossa magnetica istantanea, si che il sangue, fluendo e rifluendo per tutti
i meati circolatori, viene a tempestarla, a conturbarla, a colorirla di rosso
nellepidermide delle gote. Quando si sveglia il pudore, l’opera è già
cominciata; volendo estinguere l’incendio, si soffia su, con tutta la forse dei
suoi polmoni, si che l’incendio rinfiamma davvantaggio. -Ma torniamo a
bomba.
Il genere mascolino di Favignana è quasi tutto dedico alle imprese marittime;
fanno lunghi viaggi in Africa, in America e sono bravi marinai. Il denaro
commerciale dell’isola è quasi tutto impiegato sulle barche, e con grande
fiducia e sincerità, l’orfano, la vedova, l’infelice affida nelle mani di un
capitano il proprio denaro che gli vien negoziato, accresciuto, trafficato in
mille guise. Pochi giovani e poche famiglie culte rimangono in paese; altri va
via, di qua e di là in Sicilia, in Tunisia, in Inghilterra, in America, in Italia, in
Grecia; cercano il meglio, emigrano come gli uccelli, per rinvenire altri
comodi alla vita, altre occupazioni migliori. Animosi ed arditi, non posson
rimaner pigri ed infirgardi negli ozi della piccola patria. Noi sappiamo che
cosa è la vita nei paesi piccoli e specialmente nelle isole; la sera di un giorno,
monotono e senza episodi, è qualche cosa di desolante; bisogna essere del
paese, o avere della amicizie per ammazzare il tempo discretamente bene. In
Favignana è lo stesso che nelle altre piccole città, la sera non si vede più
alcuno per le strade, tutti vanno rintanarsi in qualche luogo, ognuno ha
regolarmente il suo convegno, il suo ritrovo di amici, il suo quattrocchi con la
donna del cuore. La notte suole essere molto amica agli amori: chi sa quanti
dialoghi amorosi, quanti sospiri, quanti contrabbandi..... L’amore è tenace
nelle fanciulle favignanesi, non soffrono ciò che volgarmente si dice un
tradimento, fanno appello al sangue arabo o spagnuolo che scorre nelle loro
vene e si vendicano subito. Ricordo ancora una scena che mi raccontò un mio
amico. Una sera egli si presentò in casa della sua fidanzata; nella prima
camera non trovò anima viva; nè nella seconda, nè nella terza; bujo e silenzio
sempre; solo nell’ultima stanza dell’appartamento, all’incerto chiaror d’una
lampada, vide un’ombra di donna, armata d’una lama di pugnale che
reclamava vendetta. Era la sua promessa, che in col guisa gli domandava
conto dell’amor tradito. Amor tradito volea dire, una semplice infrazioni alle
leggi doganali dell’amore. Esso per esempio, un altro fatto che destò assai
meraviglia nell’animo delle donne di Favignana. Nei tempi andati, si ballava
una sera per fare onore alla luna di miele di certo X.... Nè il marito nè la
moglie erano nell’isola; però vi aveano delle pertinenze. In quella festa
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intervenne un giovane lord, arrivato la sera stessa a bordo d’un jaeht inglese.
Nel più bello delle danze, il lord e la sposina sparirono – il bastimento partì
immediatamente e quando il povero marito s’accorse dell’accaduto, i fuggitivi
erano ben lungi, liberi ed inebriati nei più caldi amplessi. Non potea egli,
come il Conte di Luna nel Trovatore esclamare – In braccio al mio rival, ma
corro, srota appena l’aurora, io corro a separarvi! e gli fu forze rimanersi
con due palmi di naso. Mondaccio!...
Il paese è pieno di condannati a domicilio coatto; il governo italiano ve ne
ha deportato una colonia di circa cinquecento, che a vederli per le strade,,
lordi, sudici, pezzenti, gialli, scalzi ti rammentano gli scamiciati dell’ottantanove, divinamente delineati dal Thiers, nelle polibiche pagine della sua storia.
Ne vedi di ogni ceffo, di ogni attegiamento, di ogni tipo, con camice color
cenere, logore e sdrucite da far venire la pietà anche al freddo dell’inverno;
con brache e giacchette che mal si saprebbe indovinare come stessero
appiccicate alle membra, perchè piene di stracci, di sbrendoli, di ritagli; colla
perpetua cicca all’angolo della bocca,, fetenti di eruttazioni acide, di
esalazioni pecorine, affamati e pronti a stender le mani sul pane del fornajo,
costanti abitatori delle bettole dove a pugni, a coltellate, a rasojate si
sfreggiano e si uccidono a vicenda, o accocolati agli angoli del trivio, torvi nel
cipiglio o rimemessi che ti pajon melensi, o feroci nelle linee facciali, o cretiti
od ebeti, pronti a farti una tiritosta anche in cima alla montagna e più pronti a
sbudellarti cordialmente, ecco cos’è il coatto che la società rigetta, che la
giustizia non ha saputo definire, che l’umanità vorrebbe scuotere dalle sue
membra, ma che pertanto la società, la giustizia, l’umanità ne apparecchiano
la materia prima. La deficienza del lavoro e l’esuberanza delle braccia; ecco
l’eterno tema di tutti gli economisti, stanchi oramai di cercare in Europa le
latitudine selvagge dell’America, per impiegare quelle braccia inerti ed
avvilite. Date lavoro a questa gente, accomodate e rettificate la questione dei
salari, evitate gli scioperi e sopra tutto istruite, istruite sempre e voi non avrete
questa feccia della città, come li disse Cicerone, che pullula dapertutto dove
possa compiere un delitto occulto alla barba della legge, e voi non avrete
questa inutile deportazione di uomini cui non fate alcun bene, e voi non avrete
in testo del codice imbrattato d’una parola assurda e crudele, domicilio coatto.
–Ne vidi con brache fino al ginocchio, panciotto rosso, calze di lana sporca,
giacchettoni d’albagio nero, scarponi grossolani, berretto fin sulla nuca e
suvvi un cappello a bussolotto, a piccole tese, allacciato sotto il mento, nero,
lurido, schifoso; eran calabresi ricettatori di briganti. E ne vidi altri vestiti a
modo, con incesso preoccupato, non curanti delle bettole, nè delle baracca
publiche, nè dei bivacchi delittuosi dei loro compagni. Era gente a garbo ?
Che! Mi puzzavan di setta e di petrolio a un miglio di distanza; Faenza e
Palermo, Messina e Ravenna parlano per loro... Illusi! non ragioniamo di
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loro – Sopratutti però non posso dimenticare la vista d’una coatta, la di cui
imagine mi destò profonda maraviglia. Era una specie di Parca o di Megera o
di Befana, vestita da gitana andalusa, vecchia, alta, stecchita; la bocca era
sparita fra il naso ed il mento, gli occhi insanguinati, rughe a migliaja, capelli
grigi e radi, le falangi delle dita spolpate e a guisa d’artigli, ugne livide,
incesso di fantasma, riso diabolico,sottana nerastra, giubba rossa e lacera, un
camicione che le riusciva sulla pelletica del collo vizzo e grinzoso e non so
qual tegumento del capo in forma che io non compresi, una bendaccia
qualunque, uno straccio aggrovigliato, una cappuccio sfondato, un camauro
rabberciato, qualche cosa insomma che avrebbe avuto certamente una
fisionomia, se non fosse stata una strambezza carnascialesca, degna di una
strega che si porta al Congresso degli Spiriti. I miei compagni risero di gran
cuore, ridemmo tutti in vedere quella figura che avrebbe messo paura a un Re
del cinquecento e avrebbe fatto tremare verga a verga gl’Inquisitori di
Spagna. Del resto era un’abruzzese che per far o per nefar avea ricettato
qualche brigante ai tempi dei fratelli La Gala.
Ad est dell’isola e nel luogo che si chiama il Signore, varie grotte non
profonde, incavate per l’estrazione del tufo, raccolgono ancora le ceneri dei
morti antichi dentro a colombaie romane. Dappertutto si trova questa stigma
romana, orma di un piede colossale, stampata per tutte le terre del mondo
conosciuto. Nelle muschiose pareti di quelle grotte ti occorre di leggere vari
nomi spagnuoli e diverse date e memorie. V’hanno anche incisi molti blasoni
e stemmi di antichi idalghi, forse ricordati soltanto nel Teatro della nobiltà di
Filadelfio Mugnos e nelle Famiglie celebri di Pompo Litta. In una grotta lessi
il nome di Ugo Moncada capitan general etc. etc. Quel nome in quelle pareti
non ricorda forse il sanguinoso combattimento avveratosi nel 1520 nell’acque
di Trapani o di Favignana tra la flotta spagnuola comandata dal Moncada che
rimase ferito al volto e la flotta del Turco che gli affondò due galee? Io credo
di si. In altre iscrizioni incise con la punta del coltello nel tufo, rose dal tempo
o illegibili per caratteri barbari, rammentano vari anni del cinquecento e del
seicento. In altra parte v’ha uno stemma bellissimo, mezzo rovinato dal
padrone del luogo, nella cui leggenda si fa menzione di un Gonzales IX, di
Carlo V Imperatore, e colla data del 1570. Non mi maravigliai niente affatto
del vandalismo commesso su quell’araldico documento dallo stesso
proprietario, il quale, tra il zotico e il rimesso, mi diceva che l’aveva fatto per
non essere seccato dalle frequenti visite di forestieri e di curiosi. E mentre al
giorno d’oggi si vedono tedeschi ed inglesi correre in tutti i sensi la terra per
razzolare, spigolare, frugare e comprare delle pietre, dei pezzi di ferro, di
rame, di piombo, delle monete, delle lapidi ecc; mentre la storia rivive di vita
più sicura e più accertata su questi archeologici monumenti, questa specie di
rovine e di barbarismi sono sempre all’ordine del giorno e chi guarda e passa
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o non li cura nemmeno, sono di cotali che hanno tanto di cervello e sputano
tondo come un sapiente della Grecia.
In vicinanza dell’antica necropoli, v’ha la necropoli moderna ossia il cimitero
della città, colla sua chiesuola rispettiva, ove si adora un crocifisso dipinto
sopra pietra, ritrovato nello stesso luogo, verso il quattrocento e adesso
ristrurato dal pennello di un pittore da marzocchi. Mentre io leggeva un
epitaffio il mio compagno m’invito a leggerne un altro, dove fra le altre virtù
dell’estinto si accennava a quella di essere stato amico degli amici “testuale”.
Ma quello che più attrae in Favignana la vostra curiosità per compassione,
per sentimento, per memorie sono i due castelli fabricati l’uno in cima alla
montagna e l’atro nella parte più elevata del paese. Taccio del piccolo forte
che sta a cavaliere della Cala in difesa di un approdo nemico; desso è una
specie di grossa torre rotonda tagliata a mezzo, coi fianchi un pò ristretti da un
borbone circolare, come se fosse la vita di un frate gigantesco allacciato da un
cordone francescano. Ha il suo fossato d’attorno, il suo ponte levatojo, il suo
muro di cinta; ma tutte cose in una proporzione che può dirsi tascabile*.
Il castello di S.Caterina sulla montagna e il castello di S.Giacomo nel piano, si
guardano come due sentinelle che si danno all’erta;l’uno domina l’occidente,
l’altro l’oriente dell’isola. Eretti tutti e due nello stesso scorcio del secolo XV,
furono ristaurati e fortificati nel secolo XVI per difesa della costa siciliana,
tormentata dalle continue scorrerie dei Barbareschi dell’Africa. L’architettura
militare, la posa della costruzione, la simmetria del disegno e la forma di
piramide tronca, che precorse il bastione, per attacco e per difesa, tutto ricorda
le fortificazioni medievali, proprio quando la polvere aveva diggià portato una
specie di rivoluzione nel campo delle manovre guerresche. Il castello di S.
Caterina è situato nell’ultima e più alta cima del monte; sembra che vi fosse
stato trasportato dai venti. Le sue forme sono svelte, la sua figura geometrica
è di un rettangolo con ai quattro angoli superiori l’annessione di corpi
avanzati, guarniti agli spaldi di quattro bertesche. Da un solo lato cioè da
quello che guarda la città, v’ha un piccolo fossato, con un ponte levatojo a
cavalcioni che dà ingresso alla porta. Del resto l’aspetto esteriore di tutta la
fortificazione è bucata in tutti i versi da finestre ogivali, da feritoje, da
spiragli, e da pertugi, d’onde si comunicava l’aria e la luce agli sventurati che
erano murati in quel castello. S’ignora l’epoca in cui i castelli di S.Caterina e
di S. Giovanni furono destinati ad ergastolo.
Io non so ridire quanti pensieri mi saltellavano nella mente, la mattina del
giorno in cui dovevamo salire la montagna per visitare quel luogo famoso. Un
desiderio immenso, una curiosità stragrande, una bramosia insolita di vedere
quel sito di martirio, di riconoscervi le tracce degli uomini illustri che vi
*Adesso è stata demolita; il sig. Florio vuole innalzare in quel luogo
un’elegante palazzina per suo comando.
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giacquero per tanto tempo, rendevano me e i miei compagni più allegri e più
contenti. Al comiciar dell’erta, la salita era accettabile, e piacevole; poco
dopo divenne difficile, ripida e quasi a picco. Al ogni alto si motteggiava, si
rideva clamorosamente, s’imprecava a tutte le montagna della saturnia
tellus. Non avvezzi a questa specie d’ascensione caprina, tutti avevamo
male ai piedi, ai reni, alle gambe, alle spalle. Dopo tre o quattro tappe
finalmente arrivammo alla cima e si presentarono davanti a noi le forme
svelte e maestose del castello.
Al sommo dello stipite destro della porta, vì ha un’iscrizione spagnuola di
parole veramente oscure; essa ricorda la fortificazione di quel castello
avvenuta nel 1616, per cura di un certo Alonso Perera. entrammo. Io mi
sentii subito trabalzato in un altro mondo, nel mondo delle memorie.
Non vidi nulla di strano, ma chi può imbrigliare l’imaginazione? Nella
stanza d’ingresso e nella susseguente, nere e verdastre dal muschio e
dall’umido, v’ha una miriade di nomi e cognomi di visitatori, incisi nelle
pareti colla punta di un coltello o di un chiodo, o critti col carbone, che si
urtano, si sovrastano, si scancellano a vicenda; nomi d’inglesi, di tedeschi, di
francesi e d’ogni contrada venuti, ritti, duri, pieni di consonanti, accanto a
nomi d’italiani colle desinenze in ini o elli; e dolci questi e appassionati
come sono, mi rendevano figura di veri individui nati sotto il cielo d’Italia,
messi accanto e a confronto di altra gente sbucata fra le nebbie della
Brittannia ferox o tra le foreste selvagge degli antenati di Arminio.
Riusciti nella corte, che segue immediatamente le due stanze, e che mette
in tutte le tombe dell’ergastolo, salimmo per mezzo di una scala interna ed
esterna, sulla piattaforma, nel cui centro v’ha una casetta quadrangolare,
ov’è l’ufficio del semaforico che torreggia in quegli alti spazzi e che
corrisponde alla terra ed al mare, cioè con i telegrafi della costa e coi
bastimenti del Mediterraneo. Arrivati in quel’altura stupenda, donde si
dominano il mare, le spiagge ed il littorale bellissimo di Marsala e di
Trapani, le gioconde isolette di S. Pantaleo, d’Altavilla, di S.Maria, e i due
scogli enormi di Maretmo e di Levanzo, la nostra fragilità umana ci avvertì
che eravamo digiuni tuttavia; lo stomaco chiamava al soccorso.
Dato il piglio al fagotto delle albergi, divine, come direbbe un abitante
della Groellandia vi demmo immediatamente il più gran bottino e là,
all’aperto, sdrajati o passeggiando sulla marmorea piattaforma, dove i
fulmine e le fiammelle elettriche saltano e danzano negli implacabili
temporali di ponente, contenti, inaffiati dalla luce del sole, col vasto
panorama di fronte, allegri e chiassosi come scolaretti, colle integre
mandibole nella massima attività, coi pugni pieni di comestibile e colla
bottiglia del puro Marsala serrata al petto, ci dimenticammo al momento
della vita, delle sue sofferenze, e dei suoi dolori ed intuonammo un coro di
brindisi scuciti e stravanti, come quelli degli asciolveri e dei pranzi
diplomatici. Infrattando noi davamo fondo a tutte quelle curiosità che il
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luogo e la circostanza potea svegliarci, guardammo nei cannocchiali, nel
termometro, nelle carte murali, nell’armadio, nell’orologio, nel codice di
testo inglese, nelle bandiere di corrispondenza, tormentando di mille
domande quei poveri impiegati, che soffrivano in pace la nostra invasione.
-Ecco, vede, diceva un di loro a qualcuno di noi, accennando sul grosso
barometro, quì segna ber tempo, qui, tempesta, e qui, vede, qui segna
organico- Il pover’uomo voleva dire, uragano.
Riposato una buona pezza, discendemmo ansiosi per osservare quel luogo
fatale. Il castello è disposto in due piani; l’inferiore è composto di laberinto
di segrete, di mude, di forni, di pertugi, di stamberghe, di buche, di tombe,
senza uno spiraglio di luce, umide, nere, senz’ordine, alcune salienti e
pensili, altre scavate nel calcare della montagna, e dove giacevano un tempo
ammucchiate centinaja di detenuti politi, gittati la dalla sbirraglia del
Borbone. Il pensiero si trasportava al tempo di quelle tremende prigionie, e
si formava per sua parte un quadro dell’impianto formidabile di quel
carcere-fortezza. Era un’impressione di retrospettiva, di seconda mano, di
colore oscuro; era l’impressione di un passato diplomatico, amministrativo,
giuridico, politico, religioso ridotto alle esenzialità della segreta, dove la
paura e la vendetta magistrale, trionfavano di tutte le aspirazioni del cuore
umano, e dove attraverso secoli trascorsi, dinastie e tiranniti scomparse,
segretari di stato, comandanti di eserciti, direttori di polizia, re piissimi e
ferocissimi, regine adorate e disonorate , fucilazioni, bombardamenti e
spergiuri, si scorge tuttavia la prepotenza vigliacca, la crudeltà paurosa, la
politica tiberiana e proditoria di Ferdinando il Cattolico e d’Isabella
d’Aragona, commessa a quel mostro di uomo e di frate che si chiamò
Tommaso Torquemada. Adesso tutto è deserto, solitario e triste; non v’ha
più imposte, nè grate, nè sbarre, nè inferriate. Le mura interne mettono a
nudo le loro forme massicce, gli usci delle segrete si sgretolano e si
contorcono sotto l’azione dissolvente dell’umido che gocciola
continuamente, tal che ti sembrano cento boccacce nere, spalancate e bavose
che fanno la smorfia delle maschere antica. Adesso non più quel brontolio di
condannati, quello strepitaccio di catene, di chiavistelli, di catenacci, di calci
di fucili, di sciabole strascinanti; non più quel grido prolungato e desolante
delle sentinelle, quei comandi brevi e a denti serrati dei tenenti di presidio,
quelle figure melense dei soldati napolitani, non più quelle voci cupe e
fioche di canzonacce, di giuochi, di bestemmie, di gemiti, di preghiere, di
baruffe, di supplizio, di morte. –A destra in principio di un andito oscuro
v’ha una scala che conduce giù in una fossa orrenda, capace di dieci persone
appena e dove ve n’erano cumulate cinquanta, scavata nella roccia, a volta
bassa e con un filo di luce che viene a morire in quell’antro tenebroso. Quasi
di rimpetto all’ingresso dell’andito oscuro, ve ne ha un altro che similmente
conduce, senza alcuna discesa, ad un’altra sepoltura, priva affatto di luce, e
dove furono intombati nel 1858 non pochi messinesi, arrestati una sera in
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teatro e trasportati col piroscafo immediatamente al forte di S. Caterina. A
sinistra, all’angolo di prospetto che si presenta appena si esce nell’atrio, v’ha
una segreta nera come la morte. umida, fetida e dove è stato scritto col
carbone – Qui fu sepolto vivo lo sventurato ergastolano politico Giovanni
Nicotera – Questa poderosa reliquia della miseranda spedizione di Pisacane,
giacque per molto tempo in quella buca tremenda, dove forse con la mano
ancor ferita vergò queste parole che mi fecero rizzar le chiome:
“O tu che avrai la sventura di questo luogo preparati a soffrite tutti i
tormenti. Sarai punzecchiato da migliaia di zanzare, appresso dal fumo;
quando piove vedrai sorgere l’acqua dal suolo; sarai afflitto da molti dolori a
causa dell’umidità che che ti farà trovare tutto bagnato; sarai appestato dal
fetore del vicino luogo immondo”
All’angolo destro, sullo stipite interno della stessa segreta, sotto
l’influenza di una luce da fiammifero, lessi un’altra iscrizioni carboniosa,
che dice: “Per qui si va nella città dolente, esclamò Maniscalchi quando
venne a visitare quello luogo e fece discendere al bagno di S.Giacomo tutti i
condannati che vi si trovavano. Dopo qualche tempo vi si mandarono sedici
disgraziati politici”. Anche a quelle viscere borgiane di Salvatore
Maniscalco parve terribile questo luogo di pena; al vedere quelle facce
itteriche, quegli occhi iniettati di sangue, quelle fisionomie stravolte, quelle
vittime del delitto comune e del principio politico, rinchiuse alla carlona e
serragliate dentro quelle mude acquose, fradice e purulente, quella jena si
commosse ebbe pietà, forse gemette e nello slancio spontaneo della sua
anima polluta, si ricordò di quelle sublimi parole del divino Alighieri. Nel
muro di rimpetto a quel pertugio pieno di lonbrichi e d’immondezze, v’ha un
incavo capace di un uomo all’impiedi; era il posto della sentinella che facea
la guardia a vista a quel’uomo temuto dalla tirannide.
Ma quello che più attirò la nostra attenzione, quello che non più
dimenticherò in mia vita, quello che spero viene a turbare i miei sogni, la
mia intelligenza, le mie passioni fu la vista di un luogo terribile che fa
accapricciare anche al solo ricordo, la vista del trabochetto. Io aveva letto
molte cose intorno ai trabochetti degli antichi castelli; sapeva che
l’inquisizione di Francia, di Spagna, d’Italia, di Germania ne aven fatto
molto uso e moltissimo abuso, sapea che in tutti i castelli medievali, nei
vecchi manieri eretti dal nono al decimo quarto secolo, dagli autonomi
burgravi nei vasti territori renani, dai baroni italiani nei poderi delle
repubbliche, dai cavalieri di Francia, di Bretagna, d’Iberia, sui littorali
bagnati dall’Atlantico, vi aveva un sotterraneo carnefice dove si
seppellivano uomini vivi per non più rivedere la luce del sole; avevo appreso
che in Germania vi sono tuttavia delle camere sotterra piene di scheletri, di
ossa e di polvere umana; non ignoravo la tradizione di Giovanna II Regina di
Napoli che facea piombare, i suoi giovani amanti in una fossa oscura, che si
apriva sotto i loro piedi per morirvi repentinamente, dopo essersi
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abbandonata con loro alle più frenate lussurie; e molte altre cose io sapea....
ma avere sotto i propri occhi un luogo cosiffatto, discendervi per mezzo
d’una scala a pioli, studiarlo colla morta luce di un cerotto, analizzarlo,
osservarne le astuzie, le malizie, le perfidie, dire: sono dentro a un
trabocchetto e se qualcuno rimettesse la cateratta alla botola per cui sono
disceso, io sarei spacciato; dire: in luoghi come questo morirono migliaia di
vittime del fanatismo religioso, della ragione di stato, del furore di gelosia,
del tradimento e dello spergiuro....oh l’è ben’altro che correr dietro a delle
vaghe tradizioni, a delle aride notizie apprese nelle storie equivoche, a delle
concetture fantasticate, sulle pagine d’un romanzo. In quel tempo tremendo
tutto era acqua; le pareti stillavano acqua, il tetto ne spremeva lo stesso, il
terreno era ingombro di calcinaccio verdastro e fangoso e al confine della
volta granitica usciva l’estremità d’un doccione, ostrutto artificiosamente,
per isgocciolarvi dell’acqua a stilla a stilla, a onda a onda, o riversarvela a
catinelle, a seconda della volontà superiore che presiedeva alla morte della
vittima infelice.
Quant’altro fa venire le vertigini, è una specie di gola d’abisso, di tartaro,
di bolgia maledetta; una specie d’in pace dei vivi, dove l’uomo si annulla
nell’ignoto. maledicendo l’ora e il giorno della sua nascita e il ventre di sua
madre. Quando uscimmo da quella buca, eravamo gialli come il zafferano,
infreddati, ciechi, lacrimanti e col capogiro nella mente. –La civiltà ha
ancora i suoi misteri, pensavo fra me e me, rannicchiandomi in una specie
scetticismo sociale, essa ha distrutto codeste legislazioni infamanti, ha fatto
sparire dal mondo leggi di sangue, monarchie assolute, diritto divino,
inquisizioni, tribunali feroci; ma essa ha un’altra cosa ad abolire; un altro
membro cancrenoso a recidere dal gran corpo della società, un altro P a
scancellare dalla fronte colpevole della giustizia – abolita la camera del
tormento, raschiata dalla procedura di Farinacci il capitolo De tortura,
rimossa la flagellazione, lo squartamento, il rogo, il trabocchetto, rimane
tuttavia all’impiedi la pena di morte. La civiltà code del privileggio delle
contradizioni, ha il suo pro e il suo contra viventi e vigorosi nella stessa
circostanza politica, nello stesso fatto sociale, nella stessa legislazione
progressiva, nell’istessa testa di stato illuminata e coraggiosa; la civiltà ha
del Robespierre che proclama la pena di morte essentiellement injustc* e
decreta la ghigliottina in permanenza, ha del duello che si dichiara assurdo
ed è una necessità dei nostri tempi, ha della Germania che carica il suo
cannone Krupp coi sillabari delle scuole elementari e si avventa contro i
barbari della Senna.
Nel piano superiore v’ha una serie di cameracce a volta bassa tutte in
macerie; stanze ov’erano istallati gli ufficiali e i soldati; vi ha pure una
cappella ov’arano detenuti dei preti e dove forse Gregorio Ugdulena si
*Costituante – Sèace da 30 mai 1791.
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preparò alla versione della Bibbia, che non potette poi condurre a termine
per gli imbarazzi politi in cui si travolse – Non avendo più alcun angolo da
visitare, ci riposammo alquanto sul lastrico della piattaforma; indi a poco
discendemmo le scale lentamente e malinconicamente, e dando l’ultima
occhiata a quel luogo scellerato che m’avea di dolore il cor compunto,
uscimmo dal castello turbati e frementi nel profondo dell’animo.
Incominciando la discesa della montagna si trova una certa trepitazione alle
gambe che non si sa spiegare, ma poi quando l’impulso è completo, quando
si è come un sasso lanciato dalla fionda è come il masso staccato dal vertice
del Mansoni, quando l’arrestarsi non è più possibile, allora ogni trepitazione
vien meno, ogni titubanza sparisce, i muscoli delle gambe si distendono, le
braccia si compongono a guisa di bilanciere, il corpo si curva sul davanti, gli
occhi si fissano dove si balestrato i piedi e via di galoppo inciampando,
vacillando, ripiegandosi e raddrizzandosi per un sentiero equivoco, disagiato
e petroso, finchè la discesa non diventi più dolce e non si arrivi al livello del
suolo stanchi, trafelati e taciturni come arrivammo noi sotto la sferza di un
sole africano. Le mia mente, il mio cuore aveano molto sofferto in questa
visita ed io fui triste per tutto il resto della giornata.
L’indomani andai al Bagno S.Giacomo.
Eretto dallo stesso Andrea Riccio, fondatore del castello di S. Cateria, è
situato come a retroguardia del paese, nella parte posteriore e più elevata
della contrada. In questo castel-fortezza tutto ha analogia con quel della
montagna – le forme architettoniche, il sistema di costruzione militare,
l’impianto e quella geometria angolosa piena di spigoli, di raggi, di bordi, di
linee, di spezzature ne rappresentano una seconda edizione però riveduta e
corretta. Il castello sorge di mezzo a un grande steccato, rientrante solo
davanti la porta, da cui si slancia il solito ponte levatojo. Lo steccato formato
di alte e massicce mura, diviso all’interno in vari scompartimenti imbottito
di varie opere in muratura cariche di celle fratesche, di scalette pensili, di
ferramenta, di portoni, di cucine, di pozzi, di anditi e di cameroni, costituisce
il grosso del bagno, ciò che con voce volgare si chiama Fosso. Il Direttore
del luogo ci guidò per quegli androni, per quei cortili, per quelle piazzette
piene di gente fuori dal dominio della legge. Quì la temperatura della mia
mente si abbassò d’un tratto; fui invaso da una specie di ghiaccio morale che
mi raggrinzò fin la sclerotica degli occhi; provai una di quelle
raggomitolazioni, passatami il termine, dell’anima che si ripiega sopra se
stessa, per interrogarsi nell’impiego delle proprie forze, quando una
circostanza efficiente, un obbiettivo ideologico, una filosofia passiva ed
impellente viene a comprimere la intelligenza e a soffocare le nostre povere
idee. Mi rimase appena un senso di curiosità che mi risveglio a poco a poco
finchè lucida e chiara ebbi percezione del tutto: La mia mente aperta in
questa guisa si sforzava di comprendere lo stato morale del condannato,
dalla ruga o dalla linea contorta della sua faccia; si sforzava d’indovinare la
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torva psicologia di quegli animi feroci, trabalzati in quella Dite sociale. Io
vidi gente sulla cui fronte grandeggiava il delitto. Il luogo e le vestimenta dei
condannati erano pulitissime e bianche e facevano un contrasto atroce con
quei volti bronzei ed olivastri. Quelle fronti fuggenti di macaco e di lupo,
quegli occhi piccoli aggrottati sotto due ispidi e folti ciglioni, quei zigomi
prominenti sino al livello del naso, quelle labbra ingrossate da un livido
turgore, quegli orecchioni a guisa di vespertilio, quella taciturnità sfiorata da
un sorriso mefistofelico e quel complesso di aspetti diversi, di saluti, di
gergacci, di operazioni, di riverenze e di occhiate significative tutto rivela il
delitto nella sua più vasta, astuta e perfida manifestazione.
Cinquecento condannati vuol dire il delitto che si replica cinquecento
volte. Il delitto è un’idra possente dalle mille teste che la giustizia umana va
sempre tagliando, mentre dal mozzo tronco se ne allunga un’altra, un’altra,
un’altra; è una specie di polipo immenso aggrovigliato al corpo della società
se tu ne recidi una branca, gliene spunta un’altra più tenace e più gagliarda.
Che cosa è il delitto? è un fatto contro l’ordine delle famiglie, contro la
persona, contro la proprietà – famiglia, proprietà e persona, tre parole
intorno a cui si sono scritte biblioteche immense e che sono le tre pietre
angolari della Legislazione universale, della Società universale,
dell’Umanità universale. Io non arrivo a comprendere nè altri con me, quali
sono le potenzialità del delitto nella scala delle sue rivelazioni ; ci vorrebbe
una mente da taumaturgo per capire il lato reprobo dell’anima abbandonata
al suo pieno arbitrio, per capire le sue astuzie, le sue malvagità, le sue
sinuosità recondite, tenebrose e perfide. Contemplare il delitto faccia a
faccia, non è studiarlo nelle sue intimità, - Studiare il delitto vuol dire
discendere in seno ad una società, analizzare leggi, moralità, tendenze,
clima, costumi, potenze antropologiche ed etnografiche, religiose,
pauperismo, ignoranza e farne sbocciar fuori la calcolata e correspettiva
concomitanza del castigo sociale, la prova adeguata di riscatto e di
riabilitazione, la genesi e la filosofia del diritto penale. Studiare il delitto
nelle sue fonti, nelle sue cause, nelle sue origini, è studiare la società e la
civiltà intiera, nella sua ragion d’essere, nella sua logica razionale, nella sua
storia civile. Questi idee mi saltavano in mente, mentre io osservavo quel
luogo e quella gente infelice e ad ogni delitto io vedea riunita una Corte
d’Assise, vedeva un uomo seduto al pubblico ministero, non col lo spettro
del boja sotto il tavolo, come lo imaginò Vistor Hugo, ma gesticolando e
condannando; una schiera di giurati più o meno ignoranti, dei giudici che
dormono e un presidente che vigila, degli avvocato che aringano, che
strimpellano, che invocano le Pandette. Tutti questi uomini che io vedeva là,
seri, taciturni sprezzanti avevano ricevuto ognuno la loro condanna – su
ognuno era stato letto un verdetto terribile, forse non sempre giusto e sopra
ognuna di queste fronti era stato scagliato il fulmine della giustizia umana.
Chi sa, io diceva a me stesso, che la punizione del delitto non possa essere
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per questa gente il germe d’una virtù! chi sa che qui non possa trovarsi
qualche masnadiere che abbia già sacramentato in cuor suo di abdicare alle
infamie del suo passato, e che, scontata la pena, non corra al lavoro onesto e
quotidiano che può dar pane ai suoi figli, onore alla sua consorte, pace e
contentezza ai suoi genitori forse già vecchi e infranti dal lungo aspettare!...
e pensavo a Giovanni Valjean. Qualcuno di quei disgraziati avrà lasciata una
moglie che ha sempre davanti al pensiero. Egli la vedrà abbandonata nel
gran deserto del mondo, senza un fido sostegno o punto d’appoggio, esposta
a tutte le insolenze, i pericoli e le traversie della vita, come pure agli sguardi
e alle insidie di qualche seduttore; egli la imaginerà già perduta, in braccio
ad altri, dimentica di lui, prostituta, avvilita...forse per la fame, per dare un
tozzo di pane ai figli deleritti; o, se casta e pudica, la crederà pezzente,
mendica all’angolo della via chiedente la limosina ai passanti e mettersi
cogli altri poveri in rango sull’uscio dei ricchi, aspettando il due centesimi
del venerdì; ovvero cacciata dal bisogno di paese in paese, sulle sierre, nelle
valli, sotto i geli e le canicole, coi figli aggrappati ala lacera gonnella,
domandare un tozzo alle fattorie e una bibita di siero alle cascini campestri –
e il trovarsi egli là, fremente di rabbia, di gelosia, di disperazione, fra gente
cjhe ha gli stessi fantasmi nella mente, impotente, inchiodato – Prometeo del
delitto – in quelle bolgie sbarrate, d’onde non si esce mai o quando si è
canuti, oh.... giuraddio, non v’ha alcuno che può dirmi che non sono cose da
creparne, da perdere il cervello o da precipitarsi dal merlo d’una torre. Mi
direte poeta, ma è così che lavora il cervello del condannato, e così che si
assottiglia in queste fisime di crepacuori e di tormenti morali, dal cui
prodondo emana un oceano d’odio e di rancore verso la società, i governi la
civiltà.
Io dissi che il delitto grandeggiava su quelle fronti.
Se Giovanni Gall mi avesse accompagnato in quel luogo di pena, forse mi
avrebbe dato spiegazione di tutti gli organi craniali di quei disgraziati. Mi fu
accennato un detenuto a vita, piccolo di statura, di colore olivastro, gli occhi
neri e piccolissimi, e il petto molto esposto; pareva educato, sapeva leggere e
scrivere; aveva ucciso un uomo mentre dormiva, era sui trent’anniun altro che al tempo di quando era nel mondo, aveva fatto il barbiere; pelo
folto e grigio; era in una cella solitaria, seduto, taciturno, anch’esso
condannato a vita, moltissimo pulito; non ci guardò, nè la sua serietà si
riscosse al rumor di una nostra risata; egli aveva troncato una testa col suo
rasojo e pasientemente le aveva fatto la barba – pigliava tabacco; un altro,
alto della persona, secco ed ossuto, coi pomelli delle guance sporgenti e
arrossati, pupille nerissime, incavernate; quarant’anni suonati di vita agricola
lo avevano assuefatto a qualunque lavoro, anche a quello della distruzione,
con aver appiccato fuoco a delle case di campagna, piene di uomini, di
donne, di animali e di masserizie; ci salutò e ci sorrise con grande amabilità;
un altro, murato dentro una cella sbarrata, feroce nella torva fisionomia,
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colla fronte depressa, e il naso camuso, colle ciglia che parean due cespugli,
e la pupilla di gatto; in quello stesso luogo aveva trucidato un suo
compagno. sgretolandogli con un mattone la pelle e l’osso frontale, per dare
a vedere che si fosse ucciso dando di cozzo al muro; stava accovacciato,
parea una belva in gabbia; un altro che era stato al seguito di un famoso
brigante; le sue fattezze rivelavano il suo interno, gli avresti dato cinquanta
omicidi sul cuore; chiaccherava allegramente; appena ci vide, fur quete le
sue scarne gote, un risolino sardonico brillò sulle sue labbra di cavallo, si
trasse da canto, salutò tutti noi e sbuffò a ridere di sottecchi – domandai al
Direttore qual delitto avesse commesso quell’uomo, mi rispose che aveva
fatto merenda colla frittata di un cervello umano; e ne vidi un’altro ancora,
che non dimenticherò più in mia vita, la cui sempianza non puossi descrivere
a parole, bisogna averlo visto, era una specie di volto di mulo cogli occhi
stupidi e sulle tempie, capelli radi sopra una testa cucurbitacea;era un
vecchio, camminava lentamente con le mani strette dietro la schiena, pareva
un idolo egiziano vivente, gli si leggeva sul ceffo la rassegnazione disperata
d’una vittima del proprio misfatto; sciagurato!... aveva struprata, uccisa ed
arsa la propria figlia... Horresco referens! – Quando entrammo nell’ospedale
dei detenuti dentro lo stesso Bagno, io compresi interamente la parola
raccapriccio. Il morbo era venuto a scontraffare dippiù quelle fisionomie
atroci, e come se vi fosse rimasto ancora qualche avanzo di umanità, l’avea
scancellato e dato loro l’ultima mano, perfezionando il deforme che
strapiombava quei terribili aspetti. Quelle guance nere e cavernose, quelle
occhiaje livide, quel colore itterico, quell’abbandono, quel languore mi
fecero proprio inorridine. Mi ricordo di aver visto là dentro un vecchietto
ebete che ci salutò alla militare; mandava un puzzo di escrementi che
ammorbava l’aria; non so qual delitto avesse commesso in sua gioventù; a
novantasette anni sarebbe libero, ne aveva ottantaquattro; non parlava, si
alzò, ci guardava istupidito e rideva mostrando le sole gengive; il suo
continuo salutarci alla militare mi fece sospettare che fosse stato soldato; mi
si disse che aveva militato sotto Murat; mi fece una compassione profonda.
Uscendo di là c’incontrammo in un condannato giovine, robusto, tarchiato
che passeggiava all’ombra lungo il muro del suo camerone, e lavorava di
calza, serio e muto come l’abitante di un manicomio. Non posso dire il
contrario che risultava da quelle dita callose e grosse poste allato alla
morbida biancheria di quelle maglie.
I lavori forzati, a cui sono costretti tutti i detenuti a vita e a tempo,
consistono, oltre a tagliare pietre e legna, rotolar massi e fare altre opere
faticose a profitto dello Stato, anche nel fare lavori di maglia, e mentre oggi
un condannato di catena, armato di un martello ciclopico, spacca ed infrange
le graniglie terga d’una montagna, il domali il vetrai mansueto e tranquillo,
allestire una calza di filo o di lana che ti fa ricordare il tricoter di Pellico, di
Maroncelli e del venerando Munari, prigionieri di Stato nella celebre rocca
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morava. Quando fummo fuori dal Bagno, mi sentii lieto; mi pareva di avere
attraversato per più ore una fitta nebbia che mi rendeva bujo fin nello spirito,
o una bolgia dell’inferno dantesco, o una catacomba in pieno giorno. Quel
luogo infatti ha un’atmosfera di nebbia sociale; è una specie di bolgia o di
catacomba morale, scavata dal diritto delle genti e dove la giustizia conduce
un uomo, lo veste alla sua maniera, lo carica di ferri e gli dice:
“Tu non sei un cittadino; tu sei un mammifero, lavora”.
Dopo pochi giorni lasciammo l’isola, portando con noi delle memorie care
e dei sensi profondi di gratitudine verso gli amici che ci ospitarono e ci
colmarono di gentilezze.
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