Comunicato Stampa - Festival Fotografico Europeo
Transcript
Comunicato Stampa - Festival Fotografico Europeo
FESTIVAL FOTOGRAFICO EUROPEO 2016 NELLE STANZE DELLA FOTOGRAFIA D’AUTORE www.europhotofestival.it 6 marzo 2016 – 10 aprile 2016 Catalogo in mostra Il festival, giunto alla sua 5a edizione , ideato e curato dall’Afi-Archivio Fotografico Italiano, con il patrocinio delle Amministrazioni comunali di Busto Arsizio, Legnano, Castellanza, Olgiate Olona, Gallarate, Milano, la collaborazione del Museo MA*GA di Gallarate, la rivista di cultura fotografica EYESOPEN, mc2gallery contemporary art, PYGMAPHORE di Grenoble, l’apporto tecnologico di EPSON Italia e con la partecipazione di numerose associazioni, gallerie, scuole e realtà private, si pone tra le iniziative più rilevanti nel panorama fotografico nazionale ed europeo, proponendo percorsi visivi articolati, aperti alle più svariate esperienze espressive. Una sorta di laboratorio culturale, che si apre all’Europa, che dialoga con la gente attraverso l’arte dello sguardo e mette a fuoco le aspirazioni, i linguaggi e l’inventiva di artisti provenienti da diversi Paesi. Un progetto che vuole affermare la centralità della cultura quale potente dispositivo in grado aprire confronti tra i popoli e tra le generazioni in una prospettiva di crescita, riflessione e dialogo guidati dall’impegno sociale, dallo studio, dalla voglia di abbattere le frontiere e insieme in percorso comune di crescita e di responsabilità collettiva. Grandi autori divengono il faro per i giovani emergenti, in un confronto dialettico teso a stimolare dibattiti e ragionamenti, attorno a temi d’attualità, di storia, d’arte e di ricerca. La fotografia torna dunque ad essere protagonista lungo l’asse del Sempione, giungendo a Milano e in valle Olona, con un evento che prevede oltre trenta mostre, seminari, lectio magistralis, workshop, proiezioni, multivisioni, cinema e musica, letture dei portfolio, presentazione di libri, concorsi: un programma espositivo articolato ed esteso che si muove dalla fotografia storica al reportage d’autore, dalla fotografia d’arte alle ricerche creative fino alla documentazione del territorio. Visitare le mostre sarà anche l’occasione per visitare l’area delimitata dalle Prealpi Varesine e dal Lago Maggiore, ricca di paesaggi suggestivi, di luoghi storici, di presenze artistiche. Per rendere maggiormente rilevante l’evento, si sono unite diverse realtà culturali e formative predisponendo progetti che interesseranno diverse fasce di età di studenti e cittadini. In sintesi, menzioniamo i collaboratori, i partner e le scuole che hanno aderito con interesse alla realizzazione dell’iniziativa: Istituto Italiano di Fotografia, Liceo Artistico Paolo Candiani, Liceo Classico Crespi, Caccia Cornici, Bubola e Naibo, Punto Marte Editore, Ester Produzioni, Biblioteca Sormani Milano, Libreria Boragno, Associazione Arte e Cultura Antonello da Messina, Manifattura di Legnano, EyesOpen Magazine trimestrale di Cultura Fotografica, Fondazione Bandera per l’Arte, Libreria Carù, Ass.ne Suoni Immagine e Parole, Libreria Hoepli Milano, Spazio Lavit, Bottega Artigiana, Pangea Onlus, LIONS Varese Sette Laghi e Varese Città Giardino ESPOSIZIONI CITTA’ DI LEGNANO - Varie sedi PALAZZO LEONE DA PEREGO – VIA GIRARDELLI, 10 – LEGNANO (MI) 6 MARZO – 10 APRILE 2016 ORARI DI VISITA: VENERDÌ 15-19 SABATO E DOMENICA: 10-12,30 ACCESSO FACILITATO AI DISABILI CHIUSO DOMENICA 27 MARZO 2016 PASQUA E 15-19 – INGRESSO LIBERO MICHAEL ACKERMAN Solo Show Courtesy mc2Gallery Michael Ackerman è nato a Tel Aviv il 3 settembre 1967. Nel 1974 emigra a New York con la sua famiglia. Entra nel 1985 all’Università di New York, Albany, per lasciarla nel 1990 e rientrare a New York, spinto più dalla necessità di fotografare che di studiare. Le strade, la gente, la città e i suoi molteplici quartieri sono nutrimento delle sue esplorazioni spesso notturne. Tra il 1993 e il 1997 intraprende vari viaggi a Benares in India. Queste fotografie sono oggetto di un libro End Time City, pubblicato da Robert Delpire e Scalo nel 1999, che ottiene il Prix Nadar. Nel 1997 decide di entrare a far parte dell’agenzia e galleria VU’ a Parigi. Tra il 1995 e il 2000 continua incessantemente a fotografare nei suoi numerosi viaggi a Napoli, Parigi, New York, Marsiglia e Berlino. Ackerman ha esposto in numerose città in Europa e negli Stati Uniti. Le sue fotografie fanno parte d’importanti collezioni a livello internazionale tra cui quella di Martin Karmitz Traverse esposta nel 2010 ai Rencontres de la Photographie d’Arles. Vive a Berlino. È rappresentato in Italia da mc2gallery, Milan. RAFFAELE MONTEPAONE LIFE Life è il progetto fotografico di Raffaele Montepaone, emergente artista vibonese che già annovera importanti riconoscimenti nazionali. Life prese vita nel 2007 con il primo scatto a Stilo, piccolo borgo dell’entroterra jonico reggino dove Raffaele cominciò la sua ricerca, tutt’ora in corso. Il primo ritratto fu quello della signora Concetta, simbolo della sana tradizione popolare di Stilo, scatto che gli valse la selezione per esporre nell’ambito di Expo Arte, all’interno di Affordable Art Fair Milano, dove si aggiudicò il secondo posto tra i nuovi talenti. Volti e mani solcate dal tempo e dalla fatica sono i soggetti che affascinano l’artista. Raffaele gira i paesini della Calabria, alcuni sperduti, realizzando immagini suggestive che documentano gli usi e i costumi delle vecchie generazioni calabresi e i loro legami con la terra, metaforicamente visibili nei solchi dell’epidermide. Le sue non sono soltanto normali rappresentazioni di vita rurale ma intimi ritratti nei quali emerge un vissuto intero, immagini evocatrici di tempi passati. Montepaone si propone di lasciare un segno di quella Calabria che va scomparendo, perché i “nuovi vecchi” non saranno più come i “suoi”, nel senso che prima di premere il pulsante della sua Nikon stabilisce un rapporto con i soggetti della sua ricerca, parla e pranza con loro, li segue in una giornata tipo, ne conquista la fiducia per poi farli diventare i protagonisti delle sue fotografie. Raffaele Montepaone è stato definito il poeta delle immagini e fotografo dei “vecchi”, definizioni che lo inorgogliscono proprio perché resta affascinato da quelle rughe e da quelle mani consumate. La novità però rispetto a chi ha già percorso queste strade è che Raffaele non si limita ad una mera immagine bozzettistica degli anziani di Calabria ma ha l’abilità di far emergere dalle loro mani, dai loro volti, dai loro oggetti usurati tutto il pathos di una vita fatta di fatiche e sofferenze ma nello stesso tempo ricca di dignità, la vita della gente di Calabria del secolo scorso. Il mondo che Raffaele rappresenta attraverso le sue opere risulta al contempo crudo e romantico, gente che vive di cose semplici in un tempo sospeso, lontano dalle metropoli e i cui ritmi sono scanditi solo dalla natura. La forte valenza simbolica presente in quasi tutte le sue opere è una delle caratteristiche di maggiore impatto. Le vite delle sue vecchine, molte delle quali vedove, affondano le loro radici nei campi e nella preghiera: nei ritratti il fotografo non manca di evidenziare la doppia fede al dito, simbolo di chi non c’è più solo fisicamente ma di cui si conserva un immutato ricordo; o le tante immagini sacre affisse nelle loro umili case, talvolta composte solo da una stanza ma tenute con grande decoro. Donne con volti solcati e stanchi che si preparano all’alba per iniziare la loro giornata nei campi con riti semplici, raccolgono i lunghi capelli bianchi in eleganti chignon, o in composte trecce con devota abitudinarietà e si offrono con dolcezza al suo obiettivo che coglie ogni particolare di una vita completamente dedicata alla terra. Vecchine che terminano le loro giornate stringendo tra le mani grani di un rosario, anch’esso consumato dal tempo e da chi lo ha stretto riponendovi la speranza di una vita. Una diversa immagine della Calabria rurale non tanto nei soggetti quanto nella nuova rappresentazione, intima ed elegante, densa di contrasti e chiaroscuri come le vite che i centenari calabresi hanno vissuto. Nato a Vibo Valentia nel 1980 fin da piccolo è attratto dall’affascinante mondo della fotografia. All’età di dodici anni comincia a frequentare lo studio fotografico di famiglia dove viene educato ad un particolare tipo di cultura fotografica. Durante il suo apprendistato con il primo maestro cura maggiormente l’aspetto tecnico e teorico mentre con il secondo, che gli mette da subito in mano una 35 mm, esplode in tutta la sua arte ed inizia un percorso di crescita e ricerca, ancora in continua evoluzione orientandosi verso il reportage e la fotografia antropologica. Il suo primo progetto, al quale continua a lavorare, è infatti un inno alla vita: “Life” nel quale racconta attraverso occhi, volti, mani ,segnate dal tempo la Calabria autentica. Repubblica gli dedica una galleria fotografica. Per un decennio collabora con le testate locali Calabria Ora ed il Quotidiano della Calabria, viene chiamato a curare la fotografia per la società sportiva Tonno Callipo Volley. Nel 2007 pubblica insieme al giornalista Francesco Mobilio il volume-documento “3 Luglio 2006” suggestivo racconto fotografico sull’alluvione di Vibo Valentia, il ricavato lo devolve a favore della popolazione colpita. Autore di numerose mostre tra le ultime quella presentata all’Etna Photo Meeting a Catania. Stimato dai professionisti della fotografia che fanno riferimento a lui per workshop ed incontri fotografici. Tra i più recenti quello con la prestigiosa casa produttrice di macchine fotografiche Leica, menzioni d’onore ai FIOF 2015 . Vincitore dell’Affordable Art Fair 2015, vincitore Talent Prize 2015. Instancabile ricercatore di espressioni ed atmosfere senza tempo, esaltate dalla sua particolare visione monocromatica. ALDO TAGLIAFERRO L’IMMAGINE TROVATA Courtesy Museo MA*GA Gallarate Il museo MA*GA partecipa al Festival Fotografico europeo con un omaggio ad Aldo Tagliaferro, nato a Legnano il 15 febbraio 1936, esponendo opere della propria collezione concesse nel 2012 in comodato dall’Archivio Tagliaferro. Centro della riflessione e punto di partenza del progetto è Analisi del feticismo e le sue componenti, n. 1, 1977, opera esposta alla quarta mostra L’arte sperimentale dei nuovi mezzi espressivi e comunicativi del X Premio Nazionale di Pittura Città di Gallarate nel 1977 ed entrata a far parte della collezione del museo nello stesso anno, per donazione del Premio Gallarate. Il percorso della mostra ha inizio proprio da questa immagine “trovata” dall’artista su un muro in Waterlooplein ad Amsterdam e, successivamente, con una nuova soluzione formale, “trovata” dal pubblico. Infatti, come scrive Tagliaferro nel 1976 “questo lavoro è un’analisi sulle possibilità molteplici di lettura di un’immagine quando questa viene isolata dalla sua funzione specifica e si sviluppa in tre momenti: l’individuazione del “segnale” che sussiste oggettivamente, l’interpretazione soggettiva, l’evidenziazione e il coinvolgimento attraverso la soluzione formale”. Tagliaferro attua un rovesciamento che porta ognuno di noi a essere provocato dall’immagine e quindi ad avere verso di essa un pensiero critico, facendo diventare noi i veri protagonisti della mostra. Il mezzo, la macchina fotografica, e il metodo, quasi scientifico dell’analisi e della verifica, vengono utilizzati per indagare temi universali, ma per questo vissuti da ciascuno in modo del tutto soggettivo, quali la morte, il tempo, la memoria, l’io… Formatosi in ambiente milanese, dal 1965 inizia una ricerca di documentazione e analisi critica del contesto socio-politico attraverso l’utilizzo di immagini fotografiche recuperate e restituite in senso critico. Dal 1973 Tagliaferro si orienta verso l’analisi del comportamento dell’uomo e della formazione dell’io concepito come forma di memoria, identificazione e percezione della realtà esterna. A questo tema affianca la riflessione sulla fotografia come veicolo del ricordo, registrazione d’una presenza e costruzione di un’identità, ma anche come pura forma. Nel 1979 si trasferisce per qualche anno nello Zaire entrando in contatto con la cultura africana. Muore a Parma il 30 gennaio 2009. GIOVANNI SESIA NON OMNIS MORIAR Giovanni Sesia ed io abbiamo collaborato a lungo, soprattutto per la mostra “Il villaggio degli esclusi. Volti e storie del Manicomio di Siena” (Siena, Chiesa dell’ex Ospedale Psichiatrico San Niccolò, 17 aprile – 31 maggio 2015), una mostra che faceva rivivere non solo le effigi fotografiche dei pazienti di fine Ottocento e primo Novecento, riprese nelle opere di Sesia, ma anche le loro storie, grazie a un’installazione sonora. Nei numerosi e lunghi colloqui avuti con Giovanni Sesia sono emersi tre punti fondamentali della sua ricerca che l’artista stesso tiene molto a sottolineare: prima di tutto la fotografia, mezzo moderno per fermare un attimo e renderlo memoria; inoltre la fotografia incarna il concetto di immortalità, immortalità che rimanda alla ciclicità della natura in cui “nulla si crea e nulla si distrugge” (Antoine Lavoisier). Da ultimo si giunge all’arte, considerata dall’artista come mezzo usato dall’uomo per la ricerca dell’immortalità, secondo il significato oraziano. Valeria Mileti Nardo Giovanni Sesia nasce a Magenta (Milano), nel 1955. Dopo aver frequentato l’Accademia di Brera a Milano inizia a realizzare dipinti caratterizzati dall’accentuato cromatismo e dal segno forte. In seguito la sua pittura si sviluppa sulla ricerca tonale e sul contrasto tra luci e ombre lavorando tra astratto gestuale e suggestioni figurative. E’ in questo periodo che si avvicina alla fotografia quale mezzo tecnico da affiancare all’espressività pittorica. L’artista riesce a raggiungere un perfetto equilibrio fra i due linguaggi espressivi, senza farne prevalere l’uno sull’altro e in modo che l’uno aiuti l’altro a superare il proprio limite. La svolta è alla fine degli anni ’90 quando viene in possesso di un vecchio archivio fotografico di un ospedale psichiatrico in abbandono. Le immagini scelte da Sesia evocano la storia e la memoria e questa tendenza lo ha portato a privilegiare sempre più volti, luoghi e oggetti. La fotografia diviene per l’artista un pretesto su cui si innesca tutto il suo istinto e la sua ricerca artistica e l’equilibrio che l’opera trasmette è dato dalle pennellate e dalla grafia, segni che creano una sinergia tra spazi pieni e vuoti, ma in perfetta combinazione tra loro. Dalle antiche lastre trovate nei manicomi, alle vecchie immagini rinvenute, agli scatti da lui eseguiti, i soggetti scelti appaiono al tempo stesso lontani e familiari ed hanno la forza di penetrare nell’anima e di chiedere di non essere dimenticati. Sesia li riscatta dall’oblio e li offre a colui che li guarda con rispettoso amore. I soggetti, scelti con estrema cura e passione, sono antichi ed atavici ed il solco in cui Sesia si muove è inevitabilmente intriso di tradizione. Utilizza abilmente i colori caldi della terra, i bruni, l’ocra e poi la ruggine per porre l'accento sull’umanità dei suoi soggetti. Sostenuto dalla critica e dal pubblico, questo artista si sta imponendo sempre più sulla scena nazionale ed internazionale. Ha tenuto numerose mostre personali in Italia e all’estero . GIOVANNI MEREGHETTI RAGAZZI OLTRE IL MURO Ti manca l’aria quando entri per la prima volta in una galera. Basta un passo, oltre la riga gialla che delimita la porta carraia, e si entra in contatto con una realtà sconosciuta, un mondo di cui si aveva solo sentito parlare. I primi passi sono pesanti, ci si muove come in altitudine, in una sorta di galleggiamento mentale che porta a sforzi interiori intensi. Si cercano di capire quelle facce “sporche” che incrociano i nostri sguardi curiosi e intimiditi. Volti estraniati e persi nel vuoto. Teste abbassate, mutismi forzati e figure umane che vagano in spazi limitati da confini artificiali. Non è facile guardare i loro musi, ci si sente invadenti, irrispettosi. O forse, lavandosi la mente dai pregiudizi, solo e semplicemente curiosi. Il carcere lo puoi frequentare per tanto tempo e a un certo punto pensare persino di conoscerlo. Non è così, quel mondo non lo capirai mai. Se non ci sei dentro. Di giorno, i riflettori puntati direttamente verso una vita di condivisione, portano a immaginazioni assolute e lontane dalle logiche interiori dell’individuo. Tutto assume un valore normale. O quasi. Quando si spengono le luci, invece, ecco che come per metamorfosi, qualcosa cambia. Cambiano i bisogni, le necessità. I pensieri volano oltre il muro, gli stati d’animo si confrontano e non trovano pace. Una sorta di cruenta battaglia tra la realtà e i sogni negati. L’immaginazione oltrepassa le inferriate della cella e si inizia a riflettere e a pensare, a quando un giorno, dopo aver pagato il proprio debito con la giustizia, si potrà riassaporare un’aria priva di involucro forzato. E si guarda il cielo, che a volte regala lo spettacolo delle stelle. Sempre troppo lontane per sentirsi liberi. Anime prigioniere in un mondo di balordi e malandrini. Frammenti di società generata a scacchiera e priva di un ordine logico. Occhi sbarrati che fissano il niente. Pupille rassegnate ingrassate da umide lacrime. E’ facile sbagliare, difficile è poi pagare il conto che l’oste ci presenta. E poi capita di vederli fuori, i ragazzi. Bastano pochi passi oltre la linea di confine e i filtri preimpostati perdono le loro funzioni originarie. Tutto assume un regime di spontaneità naturale. Le facce, gli sguardi, i musi duri, non sono più gli stessi. Torni a vivere dopo i conti salati che hai pagato. Il sorriso trattenuto esplode e ritrovi il coraggio mancato che ti ha fatto abbassare lo sguardo per tanto tempo. Senti di essere vicino a te stesso e provi a ricominciare. Non ti senti più il peggiore della classe e torni nella consapevolezza di quello che veramente sei. Troppi silenzi, persone distratte e troppo assenti invadono la tua mente. Ci provi ogni mattina a risalire dentro, ma non basta. Troppe porte chiuse dietro agli occhi trasparenti che non sanno più vedere. La strada è in salita, sfidi la vergogna e cerchi di non commettere altri errori. Ma vuoi vivere. Provi a correre via. Ma il fiato è in debito di forze. Inciampi, scivoli ancora. E poi parliamo di libertà. Di dignità, e di altro ancora. Ci vuole una certa profondità d’immaginazione per capire e definire il confine tra la perdita della libertà e la privazione della dignità. Ogni essere umano è fine a se stesso, la dignità è un sentimento importante che considera il proprio valore morale. E’ considerazione di se stessi, delle proprie capacità e della propria identità personale. Uomini in divisa blu da una parte. Parenti in fila dall’altra. Razza umana in attesa della burocrazia e dei controlli di sicurezza per un permesso di visita ai propri cari. Malandrini, ma pur sempre cari. E si cerca ancora di capire, tra una barriera e l’altra. Capire quel mondo che sta scomparendo alle spalle. Si cammina e si cerca di mettere ferocemente assieme i tasselli raccolti oltre il muro. Idee confuse per un castello di sabbia incantato. E solo mentale. Manca solo il suono di un bip, e la luce rossa di uno scanner che leggerà un codice a barre protetto da una custodia in acetato. Siamo di nuovo nella società. E ci sentiamo soffocare. CECILE DECORNIQUET LADIES I ritratti che Cècile Decorniquet presenta, sia in “Ingénues” che in “Ladies”, mettono in discussione i limiti della rappresentazione e mostrano un mondo di sogno, fantastico e magico. L’artista veste le ragazzine da lei ritratte come delle signorine dell’epoca vittoriana, senza malinconia o insofferenza. La malizia che emana dai suoi lavori sfida e interroga il pubblico. Trae ispirazione dai grandi ritratti di Valérie Belin e da Lewis Caroll’s Alice Liddell. Cécile si discosta dalla funzione iniziale della fotografia, che è quella di imprimere una realtà che ci offre una visione fantastica dell’infanzia, immergendoci in un mondo surreale come se noi fossimo dall’altra parte dello specchio come in un “looking glass”. Cécile Decorniquet dopo una prima serie di giovani donne e pre-adolescenti, la fotografa francese all’età di quindici anni, inizia a lavorare alla sue serie di bambini: “Ingénues” e “Ladies” nel 2008 Laureata alla scuola di fotografia Gobelin a Parigi, lavora come fotografa e sviluppa i suoi lavori che inizia a mostrare in gallerie e festivals nel 2008. Influenzata da Joel Peter Witkin, Jan Saudek e da David Lynch l’artista mette in evidenza l’ambiguità tra infanzia e età adulta in un suo modo fantastico dove niente è reale e dove non esiste spazio o tempo. Nella sua nuova serie continua a esplorare il mondo dell’infanzia. ____________________________________________________________________________________________ SPAZIO D’ARTE ANTONELLO DA MESSINA – VIA ROMA, 17 – LEGNANO (MI) 19 MARZO – 3 APRILE 2016 ORARI DI VISITA: DAL LUNEDÌ ALLA DOMENICA: 15-19 – INGRESSO LIBERO CHIUSO DOMENICA 27 MARZO 2016 PASQUA VOLTI, CORPI, PROFILI SCONFINAMENTI TRA FOTOGRAFIA E PITTURA Autori in mostra: Nathalie Bagarry, Bruno Redares, Claudio Argentiero, Pietro Rovida Nella storia dell’arte il corpo ha ricoperto sicuramente uno spazio rilevante, stimolando diverse interpretazioni e accezioni, riflettendo sul concetto d’identità, indagando il tema dal reale sconfinando in altri territori, più personali e intimi. Dalle rappresentazioni sacre a quelle più dissacranti, abbiamo goduto di sperimentazioni soavi, maestose o al limite della decenza, che ci hanno convinto o costretto a fare i conti anche con il nostro corpo, identificandoci come essenza fisica, per esserci ed esistere. Un condizionamento costante ci perviene quotidianamente dalla televisione e dalle riviste, femminili e maschili, che ci propinano modelli stereotipati disarmanti. Questa esposizione, propone diverse letture del corpo, in un dialogo aperto tra fotografia e pittura. Il corpo come idioma, come forma-forza espressiva del proprio io, come scelta per affermarsi, per essere riconosciuti, per esibirsi, per sfoggiare la propria sensualità, la rabbia, l’orgoglio, ma anche la relazione armoniosa che percepiamo. In una società in cui l’apparire conta molto di più delle esperienze e del vissuto, generando falsi miti e modelli educativi ingannevoli, si è scelto di parlare del corpo in chiave artistica, in modo disgiunto dalle analisi letterarie, per proiettare il discorso a una più ampia interpretazione del tema, secondo codici culturali connaturati a ogni artista invitato. Sempre più spesso l’identità individuale si misura in base alla nostra presenza fisica, all’apparire, che può trasformarsi in un atto d’amore o di frustrazione, di emarginazione o invisibilità, oppure di forte tradizione identitaria. Il lavoro di Nathalie Bagarry è come la provvisorietà di una sigaretta, di una sensazione, di un odore, di un volto, di un amore, di una pelle, della nostra gioventù, della nostra vecchiaia, della nostra memoria...Ci sono delle visioni che per quanto fugaci siano lasciano delle tracce indelebili. Come effimeri passeggeri siamo percettibili solo per poco, ma nonostante tutto amiamo con passione. Nata nel 1970, Nathalie Bagarry attualmente vive e lavora in Provenza. Cantautrice per molti anni, nel 2010 scopre e sceglie la fotografia come strumento esclusivo di creazione e d'espressione. Il ritratto e poi il corpo sono al centro della sua opera. L'anno 2014 l’ha dedicato allo studio della fotografia tradizionale ai Sali d’argento, e di diverse tecniche alternative, presso il "Centre Iris pour la photographie" di Parigi. Ha esposto in vari spazi tra cui Arles. Le immagini di Bruno Redares si rifanno al classicismo, come invito a ritrovare la purezza delle linee del corpo, senza artifici, cogliendo l’intimità personale in una posa, in un gesto, in uno sguardo, nel rapporto con l’ambiente e la natura. Eleganza e inventiva, composizione e cura della luce, restituiscono immagini a tratti sognanti e a volte dense di ambiguità celata. Bruno Redares è nato ad Arles nel 1960, città dove risiede. La sua passione per mete lontane nei primi anni '80 lo porta a servirsi la fotografia, iniziando collaborazioni con agenzie e giornali, pubblica due libri. Si avvicina alla fotografia di nudo, sperimentando linguaggi e tecniche. Dai primi anni ’90 è docente di workshop in Francia e all’estero. E’ ideatore del Festival Europeo della Fotografia di Nudo di Arles e Les Baux de Provence. Ha esposto in varie parti del mondo e sue immagini fanno parte di collezioni pubbliche e private. Il lavoro di Pietro Rovida, scandaglia il rapporto che si stabilisce fra il fotografo e la modella, delicato e complesso, perché frutto di una indispensabile complicità. Da una parte c’è, infatti, chi è capace di cogliere ogni gesto, ogni postura, ogni espressione per trasformali in immagini fisse che li evocano, dall’altro c’è una donna che sa porsi di fronte all’obiettivo mescolando in un attento equilibrio garbo, eleganza e malizia. Ambientato nella cornice evocativa dell’agriturismo Cascina Reina a Caravaggio e caratterizzato da un caldo cromatismo, il lavoro qui proposto affronta il difficile tema del nudo: Pietro Rovida lo fa con delicatezza, Michela Maridati trasformandosi nella seduttiva protagonista di una storia carica di suggestioni oniriche. Infine il progetto di Claudio Argentiero, che affronta il tema della transizione, del precario equilibrio tra la accettazione di se e la grazia di una infinita nuova fioritura. Claudio Argentiero da oltre venticinque anni si occupa di fotografia, prediligendo la ricerca personale. Claudio Argentiero da oltre venticinque anni si occupa di fotografia, prediligendo la ricerca personale. E’ da sempre interessato alla documentazione del territorio e dei suoi mutamenti, producendo immagini per mostre e libri, collaborando con enti pubblici e privati. Dal 1988 cura e organizza mostre ed eventi fotografici di rilievo, tra cui il Festival Fotografico Europeo. Stampatore, sperimenta la fotografia infrarosso, le antiche tecniche e le più moderne tecnologie digitali fine art, in stretta collaborazione con Epson Ha esposto in importanti spazi in Italia e all’estero, tra cui Arles da 12 anni, per lui un punto di riferimento importante, ha al suo attivo oltre dieci libri, e alcuni sono in uscita nell’anno in corso. Si dedica con particolare interesse anche al ritratto e al corpo, con un proprio stile, lavorando in stretto contatto con diversi artisti. Sue immagini fanno parte di collezioni pubbliche private, anche straniere. E’ Presidente dell’Archivio Fotografico Italiano dalla sua fondazione. ______________________________________________________________________________________________ CONVITTO MANIFATTURA DI LEGNANO – VIA PALESTRO, 36 – LEGNANO (MI) 6 MARZO – 3 APRILE 2016 ORARI DI VISITA: SABATO 15-19 - DOMENICA10-12 / 15-19 – INGRESSO LIBERO CHIUSO DOMENICA 27 MARZO 2016 – PASQUA GIOVANNI GASTEL UNA STORIA A COLORI Autore dotato di innata eleganza ed estro raffinato, Giovanni Gastel dagli anni Ottanta, quando ha cominciato a lavorare per Vogue Italia, a oggi ha scritto pagine fondamentali nella storia della fotografia di moda. Questa mostra racconta le tappe del suo percorso espressivo, accostando immagini diverse accomunate dalla ricerca di soluzioni insolite. Se nei ritratti il fotografo mostra una grande capacità di creare ambientazioni per renderli particolarmente originali, quando si misura con gli still life lascia libero sfogo a una fantasia che trasforma gli oggetti conferendo loro nuovi, imprevedibili aspetti. Succede poi che Giovanni Gastel voglia spiazzare il suo pubblico accostando still life e ritratto per creare creature dotate di una leggiadria figlia di una visione sottilmente surreale. (Roberto Mutti) Nato a Milano nel 1955, Giovanni Gastel collabora da trent'anni con le principali riviste di moda ed é uno dei grandi protagonisti della comunicazione pubblicitaria. Vive e lavora nella sua città d’origine, quando gli impegni professionali non lo portano in giro per il mondo. Lavora prevalentemente in Polaroid di grande formato e con il banco ottico 20x25. Cultore della sperimentazione, ha introdotto nella fotografia di moda contemporanea le tecniche "old mix", la tecnica "a incrocio", le rielaborazioni pittoriche e lo still life ironico. Erede dello stile aristocratico e sofisticato che caratterizza l'antica noblesse milanese (é nipote di Luchino Visconti), riflette nel suo stile cultura, eleganza e charme. A volte rarefatte, oniriche e simboliche, a volte surreali e smitizzanti, le sue immagini raccontano un percorso inarrestabile di ricerca creativa che, letto a ritroso, rispecchia l'evoluzione del costume degli ultimi venticinque anni. Tre i volumi sinora pubblicati: Gastel per Donna (Edimoda, Milano 1991), Genesi nello spazio (Nava), Piero Lissoni Recent Architecture (Hatje Canz), il catalogo Gastel in occasione della sua personale alla Triennale di Milano del 1997, curata da Germano Celant e Maschere e Spettri edito da Skira, per l’omonima mostra al Palazzo della Ragione di Milano del 2009. Tra importanti campagne pubblicitarie e centinaia di servizi redazionali, l'autore persegue una propria ricerca personale rivolta alla fotografia d'arte. Il successo professionale si consolida nel decennio successivo, tanto che il suo nome appare nelle riviste specializzate insieme a quello di fotografi italiani quali Oliviero Toscani, Giampaolo Barbieri, Ferdinando Scianna, o affiancato a quello di Helmut Newton, Richard Avendon, Annie Lebowitz, Mario Testino e Jurgen Teller. Nel 2002, nell’ambito della manifestazione La Kore Oscar della Moda, ha ricevuto l’Oscar per la fotografia. ALDO FALLAI SEDUCTION Nelle immagini di Aldo Fallai si trovano spesso rimandi alla pittura, al cinema, alla stessa storia della fotografia ma mai esibiti, semmai rivolti con garbo a chi sa coglierli in modo da stabilire con loro un sottile rapporto di complicità. Nella realtà la sua è soprattutto una grandiosa indagine sul linguaggio del corpo che alterna posture, sguardi, movimenti, attimi di riposo e atteggiamenti attentamente studiati. Aldo Fallai sa mescolare con grande perizia l'atmosfera del set di lavoro, dove bisogna costantemente alludere alla realtà, e quella della vita dove alla prevedibilità del quotidiano si contrappone la teatralità. Quando dice "fare il fotografo è un lavoro magnifico" sottintende che non si tratta solo di fotografare ma di progettare un mondo del possibile per dargli una consistenza capace di renderlo, infine, persino plausibile. (Roberto Mutti) Aldo Fallai (Firenze, 1943) vive e lavora tra la città natale e Milano. Diplomatosi all’Istituto d’Arte fiorentino, nel quale in seguito sarà docente, apre uno studio di grafica col fotografo Mario Strippini, accostandosi egli stesso alla fotografia. A metà degli anni Settanta, l’incontro con Giorgio Armani, agli esordi della sua vicenda di stilista e agli albori dell’affermazione planetaria del Made in Italy, cui Fallai darà un apporto essenziale con la propria fotografia. Il primo incarico ricevuto da Armani, un servizio per «L’Uomo Vogue», inaugura una collaborazione protrattasi per un quarto di secolo, durante il quale Fallai concorre a costituire e consolidare l’immagine dei marchi dello stilista (Giorgio Armani, Emporio Armani, Armani Jeans). Un celebre servizio del 1976, dedicato al tema dell’abito usato, contribuisce a farlo conoscere come fotografo di moda dalla cifra disincantata, irrequieta e anticonformista. Raggiunta la notorietà internazionale, Fallai lavora inoltre per case quali Hugo Boss, Canali, Cerruti, Salvatore Ferragamo, Gianfranco Ferré, Calvin Klein, Valentino ed Ermenegildo zegna. Suoi servizi fotografici appaiono regolarmente su riviste italiane e internazionali, tra le quali «Amica», «Anna», «Annabella», «Elle», «GQ», «Grazia», «Harper’s Bazaar Italia», «Max», «Moda», «Mondo Uomo», «L’Uomo Vogue», e sulle edizioni inglese, italiana e australiana di «Vogue». All’inizio degli anni Ottanta Fallai lavora con modelle di grande personalità come Angela Wilde, Antonia Dell’Atte e Gia Marie Carangi: prende inoltre a confrontarsi con le icone della storia dell’arte e col genere del ritratto, legato in una personalissima sintesi alla moda, un filone che avrà pregevoli sviluppi, grazie anche alla collaborazione con l’Istituto Marangoni. Tra i riferimenti artistici di Fallai la critica ha segnalato il Manierismo toscano, Caravaggio, i preraffaelliti e l’esotismo degli orientalisti francesi. Ha pubblicato i libri fotografici Almost One Year (1993), ispiratogli da Federico zeri e Kazunori Iwakura, e In fabbrica (2007), una peculiare lettura della vitalità imprenditoriale del Paese. SYLVAIN HERAUD LE RESIDENZE INVISIBILI Questo percorso fotografico si basa sul libro Le città invisibili di Italo Calvino. Un lavoro che riporta ai diari di viaggio immaginari di Marco Polo all'imperatore cinese Kublai Khan che chiede all'esploratore di scoprire il suo vasto impero. Al suo ritorno Marco Polo si reca al palazzo dell'imperatore per descrivere l'atmosfera e la configurazione di ogni città visitata, sotto i vari punti di vista, anche di abbandono. Le fotografie sono state scattate in diversi luoghi nel mondo, tra cui l’Italia, evitando la presenza di persone. Iniziato nel 2010, il progetto dura da sei anni, e il tema portante è l’architettura storica e industriale di luoghi abbandonati, a volte di grande pregevolezza. Le immagini si mostrano con le caratteristiche delle città immaginarie (Beersheba Maurillia Pentesilea Tecla, Eutropia, Eusapie e Isaura) invitando il visitatore a una riflessione sul destino. Luoghi dal fascino immutato, che le fotografie di Sylvain interpretano attraverso il colore, con spunti pittorici di forte impatto visivo. Sylvain Héraud è nato a Cannes nel 1985. È ingegnere in ambito informatico. La sua passione per il viaggio lo conduce sulle strade d'Europa, nelle Americhe e in Asia, dove ha sviluppato un crescente interesse per la fotografia da oltre sei anni. Il patrimonio architettonico è uno dei temi portanti del suo lavoro. Il desiderio di scoprire la storia di molti edifici lasciati all’ incuria, significa per l’autore interagire con la cultura del luogo, con la storia e con l’arte, con le vicende industriali. Il suo stile fotografico esalta la fantasia e permette di collegare la fotografia con la letteratura, ritrovando silenzi inaspettati. CLAUDIO ARGENTIERO FIGURE SILENTI Il perfetto equilibrio tra luce e materia, tra forme ed ombre sono il trait d’union che alimenta il dialogo artistico di Claudio Argentiero e Odoardo Tabacchi, se non fosse che i loro sguardi sono davvero distanti, ma nel tempo. Acuto interprete della luce e del nero come luogo dell’essenza del percepito il primo, appassionato demiurgo di volti e pose romantiche ma altresì realistiche e testimone di battaglie risorgimentali, il secondo. Dalla capacità di saper dare voce all’abbandono, alla transitività della materia, al mutismo di preziosi calchi in gesso, nasce la ricerca fotografica di Claudio Argentiero che indaga la simultaneità delle possibilità espressive date dalla luce e dalle forme, a volte morbide a volte rigorose. Il silenzio assume un volto, la luce diviene linguaggio e le ombre svelano presenze dal temperamento raffinato e vivido, scardinando i concetti di spazio e di tempo. La fotografia è il luogo dell’alchimia dei sentimenti, delle geniali intuizioni e degli incontri, di eteree figure che alimentano visioni, percezioni... sussulti. Un esercizio meditativo sulla possibilità di leggere la sacralità gestuale dello scultore, regalando pienezza alle forme che, nella loro apparente immobilità, rivivono manifestando malinconie e misteri. Personaggi ottocenteschi e busti dalla minuta descrizione dei dettagli di gusto neoclassico, sembrano chiedere riscatto ribandendo l’orgoglio sopito, il tumultuoso impeto patriottico e la potenza plastica della materia che diviene esistenza. Claudio Argentiero ha deciso di dare luce alla lacunosa frammentarietà della memoria orchestrando una danza onirica di contro all’imperfetto divenire, solcandone i vuoti, dominando magistralmente i binomi luce/ombra, figura/spazio e bianco/ nero. Le sensibilità artistiche dei due autori convergono in quella che potremmo definire l’energia creativa mista a quella interpretativa poiché il rapporto mimetico tra realtà e fotografia è solo apparente, così come tra la materia e l’idea. L’atto creativo è fusione, irruzione nella materia, tensione che fa dell’oscurità l’altro volto della luce. Il rapporto quindi tra realtà e dimensione immaginata diviene corrispondenza di amorosi sensi e l’artista il cantore dell’animo umano, aldilà del tempo, degli eventi e della Storia. (Alfiuccia Musumeci) VITTORIO PIGAZZINI LA NATURA IN FOTOGRAFIA. DALL’ARGENTO AI NUMERI La fotografia come esperienza estetica e spirituale a un tempo. L'amore per la natura chiave di esplorazioni e scoperte. Ore di attività silenziosa e solitaria, in immersione completa in ambienti naturali affascinanti, come foreste, montagne, paludi, ma anche campi, parchi e giardini. La passione per l'arte moderna, che porta il fotografo a creare immagini molto grafiche di tipo astratto, leggibili come opere informali, ma pur sempre riconoscibili. La scoperta del digitale, all'avvicinarsi dell'ottantesimo compleanno dell'artista, una sorpresa inaspettata quanto feconda di possibilità nuove e di un rinnovamento radicale delle sue esperienze. L'imponenza delle montagne e la drammaticità dei ghiacciai, i colori delle rocce dolomitiche, o quelli del granito del Monte Bianco. Il fascino delle falesie strapiombanti sul mare. L'acqua, immobile o impetuosa, che gioca con la luce e sa assumere forme diverse: è mare e lago, fiume e torrente, cascata, ma anche pioggia, neve e ghiaccio. Le foreste che offrono suggestive prospettive spaziali e sensazioni fisiche concrete, che circondano chi vi si trova col variare sorprendente di luci e colori, e con il fascino del sottobosco coi suoi aspetti minimi. La natura poi trasformata dall'uomo, dei campi e dei giardini, con aspetti diversamente affascinanti. E la vita inserita nella totalità della natura, con un sentimento appassionato per il regno vegetale e con le più difficili esplorazioni del regno animale, dagli insetti ai mammiferi, con la loro spesso furtiva presenza. Un libro e un percorso estetico che mette in relazione ricerca, documentazione, invenzione personale. Roberto Mutti Vittorio Pigazzini appassionato di fotografia sin dall'infanzia, ha iniziato soltanto nel 1975 l'attività di fotografo professionista e giornalista indipendente, occupandosi in particolare di natura, ecologia, problemi ambientali, parchi nazionali e aree protette. Fotografa inoltre il paesaggio, l'architettura, i giardini, i fiori. Per anni ha fotografato anche opere d'arte e artisti collaborando con varie gallerie d'arte di Milano. Ha fornito articoli e immagini a riviste come Airone, Oasis, Scienza e Vita nuova, Arte, Gardenia, Giardini, Tutti Fotografi, e a case editrici per libri e enciclopedie. Sue immagini in bianco e nero sono nelle collezioni della Bibliothéque Nationale de France e del Musée des Arts et Traditions Populaires a Parigi. Ha tradotto libri sulla natura e la fotografia dal Francese e dall'Inglese. Ha pubblicato i volumi: Paludi d'Italia, presso Priuli e Verlucca di Ivrea (1979) Parco del Ticino (in collaborazione), presso Musumeci di Aosta (1980) Guida alla Caccia Fotografica (in collaborazione), presso Zanichelli di Bologna (1985) Rose Antiche in bianco e nero e Nuovi Giardini a Parigi, presso Silvana Editoriale (2003), come cataloghi di mostre di fotografia In foresta, presso Interbooks (1992), con presentazione di Carlo Bertelli, come catalogo di mostra di fotografia. Ha esposto ampiamente in Italia e all’estero. SILVANO BACCIARDI LE GRATE NEL TEMPO Un cammino dello sguardo. Così il gesuita Ignace de la Potterie (1914-2003) ha definito il cristianesimo. Definizione bella quanto illuminante, sulla strada di Ignazio di Loyola e, necessariamente, di Agostino. Guardare, contemplare, vedere, toccare. Erano state queste le vie indicate dal fondatore della Compagnia di Gesù per quella che si può definire una fede sperimentale, che ha la sua base già nella Scrittura neotestamentaria. Nel vangelo di Giovanni il verbo vedere viene usato ben 13 volte, in una progressione che sempre Ignace de la Potterie ha evidenziato, e che costituisce il passaggio fondamentale attraverso il quale Tommaso giunge a credere alla resurrezione di Cristo. Ricordiamo l’episodio. Dopo la resurrezione, alcuni suoi compagni dissero a Tommaso di aver veduto Gesù. Ma lui rimase incredulo. Avrebbe creduto solo, disse, dopo aver visto le mani di Gesù coi segni dei chiodi e messo un dito nel suo costato. Otto giorni dopo, mentre egli era in casa insieme ad altri, Gesù si presentò e gli disse: «Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, e mettila nel mio costato; e non essere più incredulo ma credente!». A quel punto Tommaso non ebbe più dubbi, ma Gesù aggiunse: «Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno!». Da quel momento, nonostante la beatitudine di quelli che non hanno bisogno di aver visto, la frase “perché hai veduto hai creduto” è rimasta a indicare un nesso fondamentale per tutta la storia del cristianesimo: quello tra il vedere e il credere. Un nesso che comunque è già implicito nella figura del Cristo che si fa uomo e dunque visibile. In questo passaggio del vangelo di Giovanni, Tommaso si rivela come l’incredulo, ma anche e soprattutto come colui che vuole vedere e, vedendo, vuole consapevolmente credere. Una consapevolezza magnificamente espressa nella frase di Ignace de la Potterie: “la fede cristiana è un cammino dello sguardo”. Ma nella sua forma cattolica, il cristianesimo è anche un cammino della voce e, dunque, dell’udito, così come vediamo bene in questa istallazione di Silvano Bacciardi – una composizione di grate di confessionali. Fu un’invenzione straordinaria quella del confessionale, una delle più importanti della storia delle religioni. Autore ne fu Carlo Borromeo nel Cinquecento, a Milano. Inizialmente, a qualcuno parve un semplice oggetto di arredamento delle chiese. Ma, in realtà, ere un’idea geniale – fra quelle che maggiormente sono servite a fare del cattolicesimo la più complessa delle religioni e, dal punto di vista del rituale, la più teatrale. Nel confessionale, il penitente, stando inginocchiato, parla con il confessore attraverso una grata di metallo con buchi che formano spesso delle figure e più frequentemente un crocefisso. Non è dato sapere se a Carlo Borromeo l’idea sia venuta pensando al muro del pianto di Gerusalemme, nelle cui fessure gli ebrei infilano le loro preghiere. Un muro davanti al quale l’orante chiede, ma che non da indicazioni, se non quelle che la coscienza del fedele si dà. La grata di Borromeo è una grata parlante, attraverso la quale il penitente può domandare e ascoltare la risposta. Ma è anche di più. Al tempo dell’arcivescovo milanese non si sapeva nulla della cosidetta mente bicamerale descritta dal grande psicologo americano Julien Jaynes nel suo bellissimo The Origin of Consciousness in the Breakdown of Bicameral Mind. Attraverso una serie di rimandi letterari e archeologici, Jaynes ha mostrato come fino a poche migliaia di anni fa, l’uomo era solito sentire delle voci, in base alle quali prendeva le sue decisioni. Tali voci, che venivano dalla parte destra del cervello, si sono quietate con la comparsa della coscienza, che ha avuto la sua origine nello sviluppo del linguaggio e nella parte sinistra del cervello. Nondimeno, talvolta esse tornano in modo blando e nei casi di schizofrenia in modo invasivo. Alla luce di quanto dice Jaynes, si può arrivare a pensare che la voce del confessore che viene da dietro la grata possa talvolta essere inconsciamente percepita come una di quelle voci sentite dai nostri antenati al tempo della mente bicamerale. Il confessore è lì. Il penitente può quasi sentirne il respiro, ma la sua voce può sembrare giungere da una lontananza abissale. Penso a tutto questo davanti all’istallazione di Silvano Bacciardi. E se distolgo lo sguardo, mi sembra di sentire il respiro di migliaia di penitenti che hanno consumato le grate. Diego Mormorio SILVIA AMODIO L’ARTE DEL RITRATTO “Il carattere del personaggio deve risultare totalmente chiaro a prima vista” scriveva nel 1870 Albert S. Southworth, titolare a Boston di una raffinato atelier di ritratti fotografici. Per ottenerli di devono superare sia i risultati deludenti della fotografia identificativa che comprime il soggetto nella quotidianità più scontata, sia l’estetica cara alla pittura di maniera che lo esalta collocandolo in un mondo ideale. Solo un fotografo dotato di consapevolezza critica sa andare alla ricerca della personalità autentica di chi gli sta di fronte realizzando “una rappresentazione evocativa nel senso spirituale, psicologico e anche fisico” come suggeriva acutamente di fare Frederick Evans, pregevole autore inglese di fine Ottocento che pure ritrattista non era. In fondo, tutto si è sempre giocato in quello spazio limitato che da sempre separa e insieme unisce il fotografo e il suo soggetto costretti a un intrigante gioco di rispecchiamento, a un continuo inseguirsi fra l’uno che sottilmente sfugge pur dichiarandosi disponibile a farsi catturare e l’altro che lo attende con la pazienza e la determinazione di chi sa di poter cogliere un frammento prezioso di realtà da restituirgli. Ecco perché il fotografo ritrattista deve possedere due doti essenziali: la determinazione dell’attento regista di tutta l’operazione cui presiede e la sensibilità di chi sa esplorare gli animi con tutta la delicatezza necessaria. Silvia Amodio padroneggia entrambe queste capacità, come le sue opere stanno a testimoniare. Sa benissimo che il ritratto non è solo la raffigurazione del soggetto ripreso ma è anche la traccia, sottintesa ma non per questo meno evidente, del fotografo che lo ha realizzato. Perciò non si sottrae al gioco del riconoscimento, ma fa in modo che la sua sia una presenza discreta, garbata come sa esserlo lei nel suo approccio con la fotografia stessa, lasciando in tal modo traccia del suo stile. Gli elementi fondamentali che lo caratterizzano sono strettamente connessi. Quelli legati alla tecnica hanno, apparentemente, poca evidenza perché la fotografa sceglie ambienti di una semplicità essenziale, posiziona le luci in modo che appaiano del tutto naturali, non cerca effetti insoliti o spettacolari. Ovviamente questo risultato è frutto di una sapiente regia e di scelte attente, premesse sottintese che offrono ai soggetti una dimensione talmente priva di forzature da consentire di sentirsi perfettamente a proprio agio. Facendoli posare in modo che si staglino su uno sfondo neutro, chiede loro semplicemente di essere se stessi, di osservarla mentre li ritrae con la stessa naturale curiosità con cui ci si rapporta, in un confronto silenzioso, con una persona che ci interessa. E se di fronte alle situazioni più difficili – dai problemi delle persone affette da albinismo al tema della malnutrizione in Burkina Faso ai bambini lavoratori in Perù – sa far emergere la dignità dei suoi soggetti, quando indaga sul rapporto fra i cani e i loro padroni usa la fotografia per un’indagine che coglie aspetti psicologici e antropologici con sorprendente profondità. Ed è qui che Silvia Amodio mette in campo il vero elemento essenziale del suo stile che coniuga una spiccata sensibilità estetica a un altrettanto intenso convincimento etico. E’ così coinvolta nel suo lavoro da non frapporre un distacco nei confronti dei soggetti che riprende che in tal modo finiscono per appartenerle. Perché, se un ritratto è quello di chi sta in posa, cento ritratti sono in ultima analisi l’autoritratto del fotografo che li ha realizzati. Roberto Mutti EMANUELA COLOMBO IT HAPPENS Tutte queste donne sono state vittima di violenza. Sono riuscite ad uscire dal loro inferno e mi hanno raccontato la loro storia. Perché non succeda mai più. In Italia sono 6 milioni e 788mila le donne che hanno subito almeno una volta nella vita violenza fisica o sessuale. Solamente nel 2014, sono state 152 le donne vittime di femminicidio, 117 di loro hanno perso la vita in ambito familiare, nella maggioranza dei casi per mano del marito, del fidanzato o del compagno, attuale o passato. I motivi sono sempre gli stessi: gelosia, possesso, una separazione non accettata. Numeri che confermano anno dopo anno il consolidarsi di un fenomeno che non conosce sosta. Eppure, per ogni donna che in Italia perde la vita in maniera violenta ce ne sono moltissime che alla spirale della violenza e della sopraffazione fisica e psicologia sia dei loro uomini che delle famigli d’origine, riescono a sottrarsi. Lo fanno grazie al lavoro incessante di associazioni, centri antiviolenza e case famiglia diffusi su tutto il territorio nazionale. Tra mille difficoltà, operatori e volontari lavorano ogni giorno per offrire alle donne vittime di violenza familiare, ma anche di tratta sessuale, protezione, supporto psicologico, consulenza legale e l'appiglio che serve per ricucire i fili di un'esistenza spezzate. È la speranza di poter tornare ad avere il controllo sulla propria vita: essere belle e libere, lavorare, crescere i figli, uscire con le amiche, viaggiare, per trovare il proprio posto nel mondo. La speranza di tornare a vivere. Emanuela Colombo nasce nel 1974. Dopo la laurea in Scienze della Comunicazione allo IULM di Milano, lavora nel settore commerciale coltivando l’interesse per la fotografia con grande passione. Nel 2007 interrompe la sua carriera lavorativa per dedicarsi a tempo pieno alla fotografia. Frequenta il Master in Photography and Visual Design organizzato da NABA in collaborazione con FORMA. Ha documentato le attività del Cesvi in Brasile, Perù, Haiti, Uganda, Sudafrica, Pakistan, Vietnam. Dall'inizio del 2007 collaboro diverse ONG per la produzione di reportage/storie riguardanti le loro attività in Italia e all’estero. Dal 2010 fotografa in studio specializzandosi nel ritratto di animali, domestici e non. Ha pubblicato suoi lavori su testate italiane ed estere. ESPOSIZIONI CITTA’ DI BUSTO ARSIZIO - Varie sedi PALAZZO MARLIANI CICOGNA – PIAZZA VITTORIO EMANUELE II – BUSTO ARSIZIO (VA) 6 MARZO – 10 APRILE 2016 ORARI DI VISITA: DAL MARTEDI AL SABATO 15-19 - DOMENICA 16-19 / INGRESSO LIBERO - ACCESSO FACILITATO AI DISABILI CHIUSO DOMENICA 27 MARZO 2016 PASQUA GIORGIO BIANCHI Ucraina, oltre i silenzi "Nei miei progetti non c’è mai nulla di già scritto, è un puzzle che si compone giorno dopo giorno. Solo ad un certo punto quando la storia comincia a prendere forma mi dedico alla ricerca delle 'tessere' mancanti". A dire queste parole è Giorgio Bianchi, fotografo romano nato nel 1973, è stato più volte in Ucraini, per raccontare, con i suoi scatti, la guerra nei territori occupati dai filorussi. Si trova lì già da metà febbraio per il portale 'Girandoloni.com', un nuovo progetto giornalistico, voluto da Giampiero Venturi, che affronta argomenti di politica internazionale e di grande attualità ma dedica ampio spazio anche a tematiche molto più leggere. I primi di marzo, Bianchi si trova a Donetsk, nell'Est del Paese, una terra dove l'esercito regolare di Kiev combatte contro i soldati separatisti dell'autoproclamata Repubblica di Donetsk, filorussa e non riconosciuta dall'Occidente. Giorgio conosce bene l'Ucraina C'è già stato l'anno scorso durante la rivolta di Maidan e con il suo reportage "Behond Kiev's barricades" ha documentato quei momenti. Il suo lavoro ha vinto due importanti premi, il primo come Best new talent al "Prix de la Phoyographie, Paris" e il secondo come Overall winner del Terry O' Neill Award 2014, istituito in partnership con il quotidiano The Guardian ,che ha poi pubblicato le sue immagini. Giorgio Bianchi nasce a Roma nel 1973. Ha avuto da sempre una grande passione per la fotografia al punto di lasciare anni fa il suo lavoro a tempo indeterminato per dedicarsi completamente ad essa. Dopo un paio di anni trascorsi nel Sud-est asiatico, lavorando come assistente per un fotografo che organizzava workshop, ha finalmente deciso di intraprendere la sua carriera di fotoreporter. Nella sua fotografia cerca di porre sempre l’accento sulle questioni politiche, sociali ed antropologiche. Le sue immagini sono state esibite in numerose mostre personali e collettive in italia ed all’estero: Strand Gallery (Londra), Royal Geographical Society (Londra), MIBAC (Roma). Il suo lavoro è stato pubblicato su giornali e riviste nazionali ed internazionali (Il Guardian, Il Manifesto, Gente di Fotografia, Fotografia Reflex) oltre che su numerose gallerie on line tra le quali spicca il Forward Thinking Museum. Giorgio Bianchi ha ricevuto svariati premi e menzioni d’onore: Best New Talent all’edizione 2014 del PX3 di Parigi, overall winner all’edizione 2014 del Terry O’ Neill Award, Discovery of the year all’edizione 2014 del Monochrome Award, overall winner all’edizione 2015 del Lugano Photo Days (Open category) e finalista all’edizione 2015 del Manuel Rivera-Ortiz Foundation for Documentary Photography & Film Grant. OLIVIA LAVERGNE JUNGLES Olivia Lavergne è nata a Parigi nel 1979. Dopo gli studi di letteratura, si dedica alla fotografia e dal 2003 lavora come artista. Ha trascorso tre anni presso l'Università di Parigi VIII frequentando anche la Scuola Nazionale di Arti Decorative, dove ha completato un Master in Fotografia e un corso post laurea in Arte Contemporanea. Nelle sue immagini c’è sempre una richiamo poetico alla dilatazione del tempo, con richiami carichi di teatralità e mistero, sempre in dialogo con la realtà. Nel 2010 espone ad Arles, in concomitanza ai rinomati Rencontres de la Photographie. Viaggia a Berlino, New York, Stati Uniti e la Guyana. La sua ricerca è rivolta alla forma, cura particolarmente la composizione in dialogo con la luce, esplorando in modo personale la fitta foresta tropicale, dalla vegetazione rigogliosa. Con la serie “Jungles” trae dall’esperienza del vero una visione immaginaria, molto personale, tramutando il paesaggio in una sorta di dipinto fotografica, rafforzando l’aspetto insolito delle scene. La scelta sapiente della luce e una raffinata tecnica di ripresa, evidenziano le forme vegetali arricchite da una gradevole gamma tonale, che va dall’ocra al verde, all’azzurro. La serie presentata in questa mostra vuole rappresentare l’esplorazione di un territorio unitamente alla metamorfosi tipica dell’ambiente, che omaggia di bellezza chi lo sa cogliere e apprezzare. Olivia è interessata alla vegetazione impenetrabile, alle foreste rigogliose e alla giungla, considerandolo un punto di partenza per trovare i giusti stimoli per le sue ricerche espressive. PHILIPPE ORDIONI BAROCCO Lavorando a stretto contatto con sua figlia, Claire Ordioni, l’autore ha immaginato diverse serie di ritratti barocchi che ci sfidano su marginalità di genere, sulla follia, sul nostro rapporto con la stravaganza e la differenza di genere. Con "Barocco", si scopre un insolito cast di personaggi sperimentando una demenza immaginata. Sensibili e sensuali, i soggetti concepiti si abbandonano alle loro ansie per appropriarsi di una propria realtà. Philippe Ordioni, dal 2008 al 2012, in collaborazione con l'artista visivo Rodia Bayginot, partecipa a un "work in progress" comprendente più di duemila ritratti. Dal 2010, con la figlia Claire Ordioni, progetta una serie di ritratti ispirati all'espressionismo tedesco, che ci interrogano sul nostro rapporto con le stranezze e le differenze, producendo molte serie. Usa la fotografia come mezzo di espressione artistica, dando vita a serie tematiche di cui cura con minuzia sostanza e forma, nel divenire delle emozioni che scaturiscono nell’atto dello scatto. ISTITUTO ITALIANO DI FOTOGRAFIA PREMIATO STUDIO PROMESSI SPOSI Il confronto fra scrittura e fotografia è sempre produttivo e ricco di sorprese perché questi sono due linguaggi solo apparentemente lontani come dimostrano i tanti scrittori (Luigi Capuana, Giovanni Verga, Federico De Roberto, Luigi Barzini jr, Leo Longanesi, Lewis Carroll, August Strindberg, Jack London, Èmile Zola, Antonia Pozzi, George Bernard Shaw, per non citali tutti) che alla fotografia si sono dedicati con passione e spesso con risultati pregevoli. Per quanto si possano trovare analogie tematiche, questi autori non hanno però mai interpretato i loro racconti: non c’è un Rosso Malpelo nei ritratti di Verga, né una Nanà in quelli di Zola e perfino Lewis Carroll che la sua Alice Lidell la fotografò davvero non la rese così eterea e delicata come appariva nei sui romanzi. Reinterpretare fotograficamente un’opera letteraria è, dunque, un’operazione assai complessa e comunque concettualmente diversa. Le rare volte in cui l’incontro è avvenuto fra contemporanei i risultati sono stati controversi e valga per tutti l’edizione Bompiani del 1953 di “Conversazioni in Sicilia” di Elio Vittorini che Luigi Crocenzi interpretò fotograficamente con una straordinaria capacità innovativa non riconosciuta come tale, tuttavia, dallo scrittore. Meglio, dunque, osservare l’opera letteraria da una certa distanza temporale così da assicurare un confronto fra diversi. Perché scegliere un’opera come “I Promessi Sposi” da proporre ai giovani studenti dell’Istituto Italiano di Fotografia chiedendo loro di analizzarla, studiarla e – sia pure guidati nelle lezioni seminariali – interpretarla a ideale conclusione del loro percorso di studi? La ragione è semplice: il romanzo manzoniano è inserito nei programmi scolastici in una posizione di apparente privilegio essendo la sua lettura imposta come obbligo ma, probabilmente per questa ragione, raramente viene approfondito con sguardo originale uscendo cioè da una stucchevole ripetizione legata all’aspetto linguistico. E’ proprio in questa diversa direzione più legata all’aspetto visivo ci si è mossi evitando due possibili errori: quello di ricostruire in modo filologico il mondo descritto da Manzoni (in un’epoca, non dimentichiamolo, che ancora non aveva conosciuto l’avvento dell’immagine fotografica) e quello opposto di incanalarlo in una attualizzazione forzata e quindi decisamente falsa. Piuttosto c’è da chiedersi come un giovane di oggi legga quelle pagine, in che rapporto si metta con i sentimenti lì descritti, che analogie e differenze trovi con il mondo in cui viviamo. Alcune ulteriori domande sono poi fondamentali: chi potrebbero essere oggi i Bravi, di quali efferatezze si macchierebbero i potenti e quali atti di liberalità elargirebbero i generosi, a quali valori si appellerebbero una Lucia e un Renzo contemporanei? Lasciati liberi di esprimere le loro riflessioni critiche e contemporaneamente indirizzati a un metodo di lavoro rigoroso, incoraggiati a coniugare la strada dell’interpretazione personale con quella della collaborazione collettiva, gli studenti sono stati così “costretti” a confrontarsi con il romanzo. I risultati qui pubblicati creano un nuovo percorso decisamente originale che per un verso resta spesso fedele allo spirito del libro e dall’altro lo usa come spunto per creare altre immagini, altre prospettive, altre visoni del mondo. Seguendo le proprie inclinazioni tecniche ed espressive e mettendo a frutto quanto imparato, questi giovani autori hanno messo a punto la loro creatività anche se il ritratto – diversamente declinato nelle sue tante sfaccettature che vanno dal serio all’ironico, dall’onirico al provocatorio – è stato il genere più utilizzato come a ribadire la centralità dei personaggi della vicenda. Non mancano gli still life che caratterizzano un panorama ricco di dichiarati e pregevoli omaggi alla fotografia di food, le ironiche allusioni al mondo della moda, le sottili citazioni cinematografiche, i paesaggi, attentamente ricostruiti sui luoghi reali dove si svolgono le vicende. Davvero degne di nota, infine, le indagini concettuali che prendono spunto dal romanzo per arrivare a una riflessione metafotografica capace di far riflettere soprattutto sulle potenzialità espressive del mezzo. Che lo si veda con un certo distacco critico o che ce ne si senta tuttora coinvolti, che se ne scruti il carattere storico o che se ne isoli un personaggio per osservarlo con tenerezza o con audace spirito provocatorio, sta di fatto che “I Promessi Sposi” può ancora fungere da stimolo per una riflessione a trecentosessanta gradi. A questo punto verrebbe voglia di immaginare che mondo sarebbe stato se la fotografia in quell’epoca fosse stata già inventata e fosse entrata, come per noi, nella vita quotidiana: forse ci sarebbero rimaste le immagini un po’ mosse dell’assalto ai forni magari scattate da un manifestante, un bel reportage scattato all’interno del Lazzaretto per documentare la dedizione dei medici e le sofferenze dei malati, le fotografie segnaletiche dei Bravi inserite in qualche scheda della polizia locale, una fototessera di Fra’ Cristoforo, l’immagine di gruppo delle suore del convento di Monza con i sorrisi forzati tipici di queste situazioni, una Polaroid un po’ scura scattata per fissare in immagine il dispiacere per l’addio ai monti. Senza contare che Renzo e Lucia, una volta sposati e magari poco soddisfatti del settore tessile, avrebbero potuto benissimo aprire uno studio fotografico a Porta Venezia e divenire “fornitori di Sua Maestà” come avrebbero recitato i loro cartelli pubblicitari. Roberto Mutti YANN BIGANT CHINESE CITY “Città cinesi” è un progetto fotografico realizzato durante il mio vagare notturno nella città di Chengdu a partire dal 2009, e poi in maniera più estesa in altre città della Cina. Questo vagabondare in Chengdu sono immersioni, notte dopo notte, in un oceano di luce diffusa che trasforma il paesaggio urbano. Attraverso l'omogeneità dei toni, la successione dei viali e dei vicoli, la scala e il vuoto degli spazi che rivelano tracce della presenza umana, queste escursioni notturne si avvicinano all'esplorazione dei fondali marini. Le costruzioni sono masse che dominano e sfumano nelle altezze, che perdono la loro presenza iscrivendosi in una trama di fondo. I luoghi e le scene assumono tutta la loro importanza, rivelando un'essenza priva di contesto e interpretazioni che producono i colori del giorno. Gli spazi vasti, aperti e fortemente illuminati di notte non sono frequenti. Infondono al limite della coscienza un sentimento di ansia. Così io attraverso un mondo smisurato ma luminoso, che si alterna tra il riparo dei vicoli e le luci delle periferie. D'altra parte la costanza di questi paesaggi leggermente nebbiosi e quasi monocromatici, col passare delle notti, e da una via all'altra, è affascinante. Mentre la tranquillità delle scene e il soffocamento dei suoni creano un rifugio per la solitudine, le luci abbaglianti dei viali così brutalmente vuoti ipnotizzano la mente. Io allora fotografo con tutta l'intensità dei paesaggi fantastici. Attraverso Chengdu, si rivela l'identità virtuale che una città può avere in seguito a vari decenni di disordini e di mancato sviluppo, contribuendo questi alla distruzione di numerosi elementi visivi. Le metropoli dei paesi emergenti sono spesso percepite come ricostruite allo stesso modo, in opposizione alle città europee cariche invece di simboli distintivi. Avendo attraversato differenti città dette nuove in Asia, ho cercato di focalizzare la ricerca su Chengdu su vari piani. La mia attenzione si è rivolta verso scene che evocano la “Cina millenaria”, un'idea tanto vaga quanto affascinante alimentata dagli esploratori e dagli orientalisti nell'ambito dell'immaginario occidentale. Questi diversi elementi contribuiscono a far insorgere immagini che si trovano al bivio tra la ricerca visiva e la proiezione di soggetti mentali del fotografo che incrociano la ricerca di una realtà visiva da una parte, e le finzioni del fotografo d'altra parte. PATRICK LECLERC ANIMALS Patrick Leclerc (1960) è un fotografo francese che lavora principalmente nella moda e nella realizzazione di progetti multimediali.Dopo la formazione nella scuola di fotografia Effet, comincia la sua carriera nell’ambito del cinema a fianco di importanti registi come Bertrand Tavernier, Yves Boisset, Jean-Claude Messaien, e ancora Pierre Granire Deferire (19811984). In seguito si orienta verso la fotografia di moda, come assistente del fotografo Jean Larivière.Nel 1985 si unisce al gruppo di lavoro dello Studio Canubis a Lione dove si forma, sotto il punto di vista tecnico, sviluppando uno stile personale. Nel 1990, si trasferisce a Grenoble per l’apertura dei nuovi locali dello Studio Canubis.Nel 1993, si associa a diversi fotografi per creare lo studio Lucy in the sky.Divenuto indipendente dal 2001, Patrick collabora con riviste, con importanti aziende e con agenzie di comunicazione.Grazie alla sua continua ricerca personale e artistica, riceve diversi riconoscimenti importanti, tra cui il World Cookbook Awards e il Prix Cointreau per il libro Michelle Chapoutier, nel 2010.Nel 2014, durante gli incontri Europei di fotografia di Arles, Patrick presenta la mostra espositiva Animals. Nel 2015, il suo lavoro è esposto nella Galleria Pygmaphore di Grenoble e nella Galleria Throckmorton di New York. Stéphane Noël LOS ULTIMOS CARBONEROS Stéphane Noël è nato in Belgio nel 1969. Segue prima une formazione scolastica nelle arti grafiche e poi si laurea in fotografia nel 1995. Nel 2004 si specializza nella stampa fotografica alla gomma bicromatata. Dopo alcune mostre dei suoi lavori in bianco e nero, espone, per la prima volta le sue stampe alla gomma bicromatata nel 2011 con il sostegno di Auxipress. Da allora ha partecipato a numerose mostre ed eventi culturali in Francia, Spagna, Inghilterra,Germani, Olanda e nel Belgio.Si avvicina alla fotografia per passione e non farne un mestiere, non volendone fare fonte di lavoro negando la sua libertà progettuale ritenendo che la sua principale attività professionale dovesse essere del tutto diversa. “Ho avuta la fortuna di suscitare interesse col mio lavoro fotografico presso persone del settore, da questo si sono aperte delle opportunità sempre crescenti. Oggi, la fotografia è diventata la mia unica attività, così da una parte lavoro alle mostre dei miei lavori personali e da un'altra ricevo committenze specifiche. La fotografia è un mezzo di espressione. È un po' come una terapia personale, un mezzo per incontrare gente, luoghi e mettersi in situazioni e contesti che non familiari così da poter scambiare esperienze, imparare dalle competenze altrui e incontare culture. E non ultimo, trovare le risposte alle domande che si pongono lungo il proprio cammino artistico PERICOPE EXPLORE THE WORLD THROUGHT A LENS Marco Maria Zanin, Edoardo Romagnoli, Paolo Ciregia, Vittoria Gerardi Nella definizione di Periscopio leggiamo “un tubo alle cui estremità vi sono degli specchi paralleli tra loro e posti a un angolo di 45… il che permette una visione a giro d’orizzonte, su un piano diverso da quello iniziale mantenendo nascosto l’osservatore”. PERISCOPE è un progetto ideato da Claudio Composti, direttore della mc2gallery di Milano e photoeditor_curator di mostre. Partendo da un punto di vista d’osservazione provilegiato, grazie alla partecipazione a fiere, letture portfolio a festival e studio visits, con PERISCOPE si vuole dare una “visione d’orizzonte” su artisti italiani e internazionali che utilizzano la fotografia come mezzo espressivo, a volte da scoprire, a volte già conosciuti, a volte esordienti di talento. PERESTROJKA / Paolo Ciregia Viviamo in una società in cui le nostre percezioni visive sono continuamente bombardate, davanti ai nostri occhi scorre ogni giorno, una quantità spropositata di immagini di guerra e devastazione, per le quali non nutriamo nessun interesse e che, in definitiva, non vediamo più; una grandissima abbuffata di corpi e volti, che ci hanno trasformato in più o meno inconsapevoli voyeur, assuefatti da immagini che non ci indignano e non ci spingono neppure a riflettere. La vera riflessione scaturisce, paradossalmente, nel momento in cui a mancare nell'immagine sono proprio quegli elementi riconducibili alla guerra, come i corpi senza vita e le armi. Paolo Ciregia utilizza foto reportagistiche del proprio archivio, scattate nell'arco dei quattro anni in cui ha seguito e documentato il conflitto ucraino, da Piazza Maidan, al distacco della Crimea e alla guerra nel Donbass, che “ricostruisce” attraverso sovrapposizioni, tagli, corrosioni, creando così un repertorio iconografico diverso, in grado di rielaborare e stravolgere il modo di raccontare la guerra, senza tuttavia privare le immagini delle loro radici storiche e culturali, proponendo elaborazioni dal sapore sovietico, fatto di echi costruttivisti. Un linguaggio che si declina secondo il concetto di Perestrojka, termine russo che significa ricostruzione, utilizzato per indicare l’insieme di riforme politico-economiche che, negli anni '80, cercano di riscrivere un nuovo profilo politico meno rigido e totalitario da parte del regime sovietico, tuttavia queste iniziative fallirono portando alla fine della supremazia comunista e probabilmente, anche alla nascita delle attuali tensioni in Ucraina, esattamente come a fallire, è stato questo modo odierno di raccontare la guerra che, necessita senza dubbio di un nuovo approccio in grado di scuotere nuovamente le coscienze. L'altro concetto fondamentale della Perestrojka è quello di Glasnost, “trasparenza”, che prevedeva (un'apparente) lotta alla corruzione e una maggiore libertà di espressione, trasparenza che viene declinata pressoché letteralmente dall'artista, attraverso la vera e propria eliminazione delle parti più sconvenienti delle immagini di guerra, quelle cui ormai siamo abituati, o attraverso la corrosione dei volti, attraverso la quale, l'artista esprime l'alienazione, la mancanza di identità del popolo ucraino, da sempre soggetto al dominio russo, e la carenza di possibilità dovuta ad una realtà opprimente e stagnante, che nemmeno attraverso la recente rivoluzione è stato possibile cambiare; la censura dell'immagine diviene paradossalmente un potentissimo strumento di denuncia e critica sociale. I corpi, già privi di vita, vengono privati della loro immagine, ormai vuota di significato; attraverso la bidimensionalità del taglio si avverte paradossalmente la percezione della tridimensionalità, del peso e dello spazio fisico celato dietro questa assenza, una sagoma bianca entro la quale proiettare ognuno di noi. Testo critico a cura di Giulia Guidi Vittoria Gerardi è una giovane fotografa (classe 1996). Ha studiato all’ICP di NY ed in occasione del Festival Fotografico Europeo del 2016 presenta per la prima volta parte del progetto fotografico “Confine”, dedicato alla Death Valley, scattato durante il suo viaggio negli Stati Uniti nell’Estate 2015. La Death Valley si estende per 139 Miglia nella parte desertica più ad Est della California ed è la zona più calda ed umida del Nord America. E’ caratterizzata da massicci montuosi e da vaste estensioni di terreni ricoperti di sale che rivelano uno scenario alieno dove nessun essere vivente può sopravvivere per le condizioni estreme del clima. L’idea della luce accecante che avvolge ogni cosa ed il paesaggio alienante vengono resi, con sorprendente capacita’ di manipolazione del negativo in camera oscura , alternando elementi del paesaggio e linee geometriche, giocando tra l’inconsistenza e la materia, perlopiù come segni di luce e tempo. Ne deriva una personalissima percezione del paesaggio, violento ed estremo che Vittoria enfatizza nelle tonalita’ particolari delle stampe fotografiche uniche ed irripetibili, che ottiene sperimentando in bilico tra casualita’ e controllo con i prodotti chimici e la sensibilta’ della carta. Edoardo Romagnoli La prima foto alla Luna risale al 1988 e rappresenta l’inizio del lavoro di Edoardo Romagnoli. La Luna è oggetto di un’ instancabile osservazione. Come Leopardi nel suo "Canto notturno di un pastore errante dell' Asia", così Romagnoli interroga la luna, per antonomasia ispiratrice di amanti e poeti , usandone l' immagine fotografica così come Leopardi usava le parole, come eutanasia per i suoi dolori. Attraverso l’ immagine della Luna, ripresa muovendo la macchina in presa diretta senza alcun intervento di post produzione, Romagnoli ritrae quel momento intimo di riflessione nella notte, quando tutto sembra possibile (o più terribile) nel buio, ponendosi quella domanda che da sempre l’uomo si fa ed a cui la Luna , come sempre, non risponde. Ed è proprio attraverso il movimento dell'immagine della Luna che Romagnoli sottolinea l’ossessivo ripetere senza fine (e risposta) della domanda stessa. Cosi come fanno i pastori nomadi dell'Asia centrale, che trascorrono le notti seduti su una pietra a guardare la Luna e improvvisare parole tristissime su arie egualmente malinconiche, dalla notte dei tempi. La Luna infatti è protagonista fin dagli anni '80 delle sue lunghe sperimentazioni fotografiche, rinnovando ad ogni scatto il fascino originale deI lavoro che si approfondisce nel tempo, come un dialogo sempre più serrato con il satellite naturale della Terra, che vive di luce riflessa, luce che è al centro dell' interesse di romagnoli, vero foto-grafo cioè "scrittore con la luce". Edoardo Romagnoli Vive e lavora a Milano (classe 1952). Inizia a fotografare durante i suoi viaggi e per diversi anni si dedica al reportage. Dagli anni novanta sviluppa la propria ricerca personale ed espone in mostre collettive e personali in Italia e all’Estero, tra cui la collettiva “I Maestri della fotografia” presso il Guggenheim di Venezia. ______________________________________________________________________________________ Os Argonautas | Marco Maria Zanin La consistenza della memoria è messa a dura prova di fronte alle dinamiche della metropoli post-moderna. I supporti materiali su cui essa si deposita, siano essi monumenti, antichi edifici, oggetti o album di famiglia, sono puntualmente ingoiati o demoliti dagli effetti di una forza cieca che spinge verso il nuovo, verso il massimo profitto, che trasforma rapidamente il tessuto sociale e urbano della città e lascia i suoi abitanti senza radici. San Paolo del Brasile è la più grande città ‘italiana’ dopo Roma. Qui, a partire dal 1865 si riversò gran parte dei flussi migratori che dall’Italia, soprattutto dalle campagne del Veneto, si dirigevano oltreoceano. Oggi è una metropoli di venti milioni di abitanti, capitale culturale di una delle più dinamiche economie emergenti, un complesso, gigantesco e caotico organismo di cemento in cui convivono e cozzano una moltitudine di storie, etnie, religioni, classi sociali, in una corsa continua verso il futuro. Os Argonautas è il desiderio di immergersi in questo tumulto per ricomporre i resti di una memoria che ha legato le storie di due Paesi contribuendo allo sviluppo economico e culturale di entrambi, una forma peculiare di una pratica eterna, quella del viaggio verso un destino migliore. Tra gli argonauti approdati in Brasile ci sono stati grandi imprenditori, artisti e altre figure rilevanti, ma i protagonisti di questa indagine sono quegli ‘ultimi’, contadini e artigiani, che hanno lasciato le loro terre come unica alternativa alla miseria. Essi sono spesso senza volto perché le loro identità si perdono nel tempo, e senza nome perché non esiste una storia che si sia preoccupata di tramandare le loro gesta. Le loro presenze si confondono nel peso e nel rumore del tempo, reso ancora più graffiante dai ritmi della metropoli. Rimangono pochi segni, qualche ricordo attorcigliato a un sogno, forme che prendono altre forme. Materia riemersa, ora disponibile per essere lavorata. Marco Maria Zanin nasce a Padova nell’ottobre 1983. Si laurea prima in Lettere e Filosofia e poi in Relazioni Internazionali, ottenendo un master in psicologia. Sviluppa contemporaneamente l’attività artistica, e compie numerosi viaggi e soggiorni in diverse parti del mondo, mettendo in pratica quell’esercizio di ‘dislocamento’ fondamentale per l’analisi critica dei contesti sociali, e per alimentare la sua ricerca tesa a individuare gli spazi comuni della comunità umana. Mito e archetipo come matrici sommerse dei comportamenti contemporanei sono il centro della sua indagine, che si snoda sull’osservazione della relazione tra l’uomo, il territorio e il tempo. Sceglie come strumento privilegiato la fotografia, che è spesso usata mescolando tecniche diverse e superando i confini di altre discipline artistiche. Vive e lavora tra Padova e San Paolo del Brasile. _____________________________________________________________________________________ BIBLIOTECA COMUNALE – VIA MARLIANI – BUSTO ARSIZIO (VA) 5 MARZO – 10 APRILE 2016 ORARI DI VISITA: DAL LUNEDI AL VENERDI 10-18,30 – SABATO E DOMENICA 10-17,30 INGRESSO LIBERO CHIUSO SABATO 26 E DOMENICA 27 MARZO 2016 - PASQUA STUDENTI LICEO ARTISTICO CANDIANI AUTORITRATTI, RECONDITE VISIONI Autori: Iafullo Nicholas, Rotolo Luana, Ribolla Giulia, Lecchi Benedetta, Metta Giulia e Cunati Viviana. “Poso, so che sto posando, voglio che voi lo sappiate, ma questo supplemento di messaggio non deve minimamente alterare...la preziosa essenza della mia persona” (Roland Barthes). Autoritratto come rappresentazione delle emozioni, come esteriorizzazione del propri intimi sentimenti, che diventa autonalisi personale, profondo sguardo introspettivo. In un’epoca in cui la propria vita diventa pubblica tramite i Social Network, gli alunni del Liceo Artistico “Paolo Candiani” hanno posato cercando di mantenere una visione intimistica del proprio “Io”, lontana da quel mondo che è caratterizzato dalla condivisione di ogni singolo attimo della propria esistenza, che, a volte, rischia di creare una realtà illusoria colma di solitudine e narcisismo. GALLERIA LIBRERIA BORAGNO – VIA MILANO, 7 / CENTRO STORICO – BUSTO ARSIZIO (VA) 12 MARZO – 30 MARZO 2016 ORARI DI VISITA: DAL LUNEDI AL VENERDI 16-19 – SABATO E DOMENICA 10-13 E 15-18,30 INGRESSO LIBERO CHIUSO DOMENICA 27 MARZO 2016 - PASQUA LORENZO CACCIA IN PRESENZA DI LUCE A cura di Carla Trotti Lorenzo Caccia, giovane fotografo lombardo, classe 1989, sin da piccolo ha sviluppato una grande passione per la montagna. Il suo interesse è poliedrico e spazia dalla fotografia di paesaggio, a quella naturalistica e sportiva nel contesto dell’ambiente Alpino. Perché “la fotografia” – spiega Lorenzo “è il linguaggio con il quale posso trasmettere le mie emozioni. E’ un libro aperto, ogni giorno una nuova pagina e ogni anno un nuovo capitolo nel quale immergersi per scoprire nuove tecniche, nuovi stili. Perché la fotografia è sinonimo di viaggio, esplorazione, scoperta…l’essenza stessa della Montagna.” Nell’ambito del Festival Fotografico Europeo, viene presentata una selezione di scatti, nati dalla passione per la fotografia, per la montagna e per la luce, anche quando quest’ultima si trasforma in oscurità. L’esposizione, attraverso la bellezza e la forza delle immagini, mira a sensibilizzare il pubblico sull'importanza del paesaggio montano come patrimonio ambientale da conservare, tutelare e consegnare alle future generazioni. _____________________________________________________________________________________ GALLERIA LIBRERIA BORAGNO – VIA MILANO, 4 / CENTRO STORICO – BUSTO ARSIZIO (VA) 2 APRILE – 17 APRILE 2016 ORARI DI VISITA: DAL LUNEDI AL VENERDI 16-19 – SABATO E DOMENICA 10-13 E 15-18,30 INGRESSO LIBERO ANTONIO LOCATI BUSTO ARSIZIO. IL PRESENTE RACCONTA A cura di Carla Trotti Antonio Locati è architetto e “fotografo autodidatta”; si occupa di progettazione architettonica, di pianificazione urbanistica; negli ultimi anni, soprattutto in occasione dei suoi viaggi, e pur digiuno di tecnica fotografica, ha fissato sulla pellicola tutto quanto sollecitava la sua sensibilità nell’osservazione delle cose e delle persone. In occasione del Festival Fotografico Europeo 2016, viene proposta una selezione di fotografie, scattate tra il 2014 e il 2015, facenti parte di un progetto personale di documentazione del territorio. Antonio Locati ha ricercato e fissato, tramite il proprio obiettivo, tracce di vita quotidiana, in luoghi noti o in angoli più nascosti della sua città. Si tratta di un affascinante percorso urbano e fotografico, che mostra le importanti trasformazioni subite dal territorio negli ultimi decenni, offrendo nel contempo un’opportunità di riflessione sulla ricerca di nuove iconografie del paesaggio urbano. “Le cose si scoprono attraverso i ricordi che se ne hanno. Ricordare una cosa significa vederla – ora soltanto – per la prima volta” (Cesare Pavese) SHOW ROOM CACCIA CORNICI – VIA MATTEOTTI, 10 – BUSTO ARSIZIO (VA) 5 MARZO – 10 APRILE 2016 ORARI DI VISITA: DAL MARTEDI AL VENERDI 16,30-19 – SABATO 10-12 E 15,30-19 INGRESSO LIBERO CHIUSO DOMENICA 27 MARZO 2016 – PASQUA CLAUDIO ARGENTIERO DALLA LUCE, IL COLORE Fotografie dipinte a mano dall’autore Pensare alla fotografia come mera oggettività, è una considerazione superficiale, anche se ampiamente dibattuta fin dagli esordi. Oggi si parla di fotografia tesa a interpretare la realtà, che vuole comunicare o svelare, o più comunemente affermare un’idea, suggerendo nuove visioni. L’elemento che contraddistingue quindi uno scatto è il contenuto, è il “vedere”, come segno distintivo di una particolare sensibilità che sa cogliere tracce che si animano, attivando un processo di creatività che conduce a suggestioni che hanno un indefinibile sapore poetico. Se quindi lo scrivere con la luce è analizzare il dato sensibile, Claudio Argentiero non solo sublima il visibile attraverso una nota stilistica tutta sua, l’infrarosso, ma si lascia coinvolgere da una concezione impressionista che è tutt’uno con il proprio spazio interiore, grazie al quale trae linfa la sua predisposizione alla manualità, passando dallo scatto al pennello. La lunga esperienza in camera oscura e l’approfondita conoscenza della stampa alla gomma bicromata, ha condotto l’autore a riscoprire una pratica fotografica di fine Ottocento, il pittorialismo, nato per elevare la fotografia alla pittura, ma da lui utilizzato per rendere l’opera un esemplare unico, ricercando sfumature di colore inaspettate. Così Claudio Argentiero spezza ogni schema fotografico precostituito, scostandosi dal perfezionismo digitale, non certo rincorrendo gusti estetici o nostalgici processi di stampa, ma affermando la preziosità dell’intervento artigianale su uno scatto già pregiato, per la tecnica - l’infrarosso – per la stampa – carte naturali realizzate a mano – e per la ricerca della luce, magnificamente plasmata ai voleri dell’autore. Ogni immagine in bianco e nero, è stampata con procedimenti certificati e garantiti, comunemente detti “stampa a pigmenti naturali fine art”, arricchiti da raffinati interventi di colore che si declinano in gradazioni tonali che svelano dettagli celati, che amplificano il senso della percezione estetica. Il gesto si integra alla materia, ma non si confonde con la essa, vive nella rugosità della carta che disegna ineguagliabili prospettive e il dipingere con grande perizia alcune parti escludendone altre, enfatizza la ricerca di nuove prospettive evocando una sorta di archeologia dell’immaginario o vibranti scene della natura, che divengono segni. Adottando antichi metodi, ripensando a una fotografia che meritatamente viene riconosciuta dai collezionisti e dai critici d’arte, Claudio Argentiero alimenta un dibattito, tra passato e presente, tra unicità e ripetibilità, tra il ricreare la realtà e il puro atto creativo del fare, che non è finzione ma riluttanza alle tecnologie usurpanti e replicate. _____________________________________________________________________________________ FONDAZIONE BANDERA PER L’ARTE – VIA ANDREA COSTA, 29 – BUSTO ARSIZIO (VA) 13 MARZO – 10 APRILE 2016 ORARI DI VISITA: VENERDI, SABATO E DOMENICA 15-19 INGRESSO LIBERO - ACCESSO FACILITATO AI DISABILI CHIUSO SABATO 26 E DOMENICA 27 MARZO 2016 - PASQUA ORIZZONTI, DELLO SPAZIO E DELLA MENTE Mostra di paesaggio degli studenti del secondo anno professionale dell’Istituto Italiano di Fotografia, seguiti dal docente Erminio Annunzi A cura di Erminio Annunzi L’Orizzonte, una linea che divide in due, realtà contrarie ed opposte; un confine in cui tutto si annulla ed i significati delle cose cambiano. Ma cosa succederebbe se questa linea scomparisse? I due mondi collasserebbero uno sull’altro? Oppure verrebbero a crearsi nuovi mondi e nuove realtà nate dalla precedente e legate dal medesimo filo conduttore che dice: “ nulla si crea e nulla si distrugge ma tutto si trasforma”? In questo lavoro dedicato alla fotografia di paesaggio, gli studenti del secondo anno professionale, hanno costruito sapientemente, un percorso visivo carico di molteplici suggestioni che invitano l’osservatore ad entrare in sintonia con le fotografie. Linee reali, immaginarie, immaginarie ma reali, realtà conformi, segni difformi: ognuna nella direzione di tracciare vie visive che segnino il percorso del paesaggio in forma di personale sentire. Sentire con il cuore, con l’anima e con la ragione. STUDENTI LICEO ARTISTICO P. CANDIANI BUSTO, LA CITTA’ SVELATA Beatrice Messori, Beatrice Sola, Daniele Fontana, Giulia Metta, Giulia Ribolla, Iafullo Nicholas, Laura Brucato, Luana Rotolo, Mirella Basile, Matteo Morandi, Rachele Forasacco, Silvia Diana, Siri Crespi. La città di Busto Arsizio immortalata da 12 giovani autori. La loro visione svela attraverso i dettagli, le architetture antiche, i silenzi della notte e i luoghi abbandonati, tracce del passato di questa città. La vita quotidiana, attraverso i luoghi di passaggio, ci fa notare come spesso le persone siano ormai occupate a perdersi dentro lo screen di un cellulare dimenticando che la bellezza si può scorgere anche all’interno di una pozzanghera o nelle forme e nei colori di un muro scrostato. _____________________________________________________________________________________ BOTTEGA ARTIGIANA – VIA ZAPPELLINI, 4 – BUSTO ARSIZIO (VA) 26 MARZO – 10 APRILE 2016 (VISITABILE FINO AL 23 APRILE) ORARI DI VISITA: VENERDÌ E SABATO 15-19 - DOMENICA 10-12 /15-19 - INGRESSO LIBERO CHIUSO DOMENICA 27 MARZO 2016 - PASQUA UGO PANELLA AFGHANISTAN. LA POESIA DEL CAMBIAMENTO Le donne camminano veloci sulla strada e si ha quasi l’impressione di sentire il frusciare dei loro burka il cui azzurro intenso risalta nel fondo della neve che ricopre il paesaggio. Più avanti un vecchio avanza fra le bancarelle di un mercato, lo sguardo curioso e una mano forte che regge il sacco poggiato sulla spalla. Siamo in Afghanistan e Ugo Panella, gran conoscitore di questo paese che ha inquadrato innumerevoli volte nel mirino della sua fotocamera, proprio dalle persone parte per raccontarcelo. Lo fa con il garbo che ne caratterizza lo stile ma anche con quella capacità di analisi grazie alla quale fa emergere la dimensione dell’inaspettato come quando coglie una donna che, con un gesto di grande e gioiosa teatralità, solleva il burka e sorride all’obiettivo. Non è un sorriso qualsiasi: quella donna ha patito una serie indicibile di ingiustizie e di torture fisiche e psicologiche, se oggi appare serena è perché, grazie a un aiuto del microcredito, ha potuto riscattarsi umanamente prima ancora che professionalmente. […]. L’obiettivo di Panella si allarga fino a cogliere un paesaggio di misteriosa bellezza dominato dalla presenza di un lago o interrotto dai bassi edifici di un villaggio che interrompe la mancanza di figure umane. In Afghanistan la parola “legalità” assume un peso specifico molto particolare perché dà un senso non retorico ad altre importanti termini come dignità, riscatto, rispetto, stima, libertà. […] Le vere protagoniste del cambiamento sono però le donne: le bambine che sono tornate ad acquisire il loro diritto ad andare a scuola, la ragazza che scrive sul suo computer portatile mettendo in mostra gli occhi elegantemente truccati e, soprattutto, le donne del microcredito. […] Ma l’immagine più bella è quella di un gruppo di donne riprese in un gioco di sguardi attentissimi, forse timorosi, sicuramente decisi a scommettere sul futuro ed è bello che Ugo Panella le riprende in un simbolico controluce che conferisce alla fotografia un’atmosfera intensamente poetica. Roberto Mutti Ugo Panella, inizia la carriera di fotogiornalista documentando i conflitti del Centro America alla fine degli anni ’70, in particolare la guerra civile in Nicaragua e più tardi quella in Salvador. Ha raccontato la vita negli slums di Nairobi, il lavoro di migliaia di uomini che per pochi dollari al giorno, smantellano navi cargo in disuso nel porto di Cittagong in Bangladesh, la vita in un cimitero del Cairo abitato da quasi due milioni di senza tetto e che hanno fatto delle tombe la loro casa. Il suo lavoro lo ha portato anche in Albania, Argentina, India, Sri Lanka, Filippine, Cipro, Palestina, Somalia, Etiopia, Afghanistan, Iraq. Nel 2001, in Sierra Leone, ha affiancato l’impegno di I.M.C. (International Medical Corp) nel recupero dei bambini soldato, mentre con Handicap International ha seguito i campi profughi per i mutilati della guerra civile. Nel 1998 è stato il primo fotogiornalista, insieme all’inviata esteri di Repubblica Renata Pisu, a denunciare in Bangladesh la condizione di migliaia di ragazze sfigurate dall’acido solforico per aver rifiutato le avances di uomini violenti. Il suo reportage è stato pubblicato dalle maggiori testate internazionali, portando all’attenzione del mondo questo dramma, tanto da costringere il governo a varare leggi severissime contro i responsabili di tali crimini. Attualmente, in collaborazione con Soleterre, sta seguendo un progetto articolato in quattro continenti sui tumori infantili derivanti da disastri ambientali, documentando i progetti sanitari e l’assistenza alle famiglie dei bambini malati. Collabora assiduamente con Pangea onlus documentando i loro progetti di microcredito in India e Afghanistan. Nel 2009 a Sarzana, ha ricevuto il premio al fotogiornalismo Eugenio Montale. ESPOSIZIONI CITTA’ DI CASTELLANZA VILLA POMINI – VIA DON LUIGI TESTORI, 14 - CASTELLANZA (VA) 6 MARZO – 3 APRILE 2016 ORARI DI VISITA: VENERDÌ E SABATO 15-19 - DOMENICA 10-12,30 /15-19 - INGRESSO LIBERO - ACCESSO FACILITATO AI DISABILI CHIUSO DOMENICA 27 MARZO 2016 - PASQUA LOUIS BLANC cORpuS “cORpuS è una serie iniziata quasi per caso, dopo una foto creata per un concorso che ha avuto un riconoscimento inatteso. Guardando quest’immagine ho preso coscienza che il corpo visto attraverso l’obiettivo fotografico può suscitare interrogazioni ed emozioni. Ho voluto quindi seguire questa strada senza veramente sapere dove tutto questo mi avrebbe portato. Per realizzare un’immagine parto da un’idea preliminare immaginando o visualizzando il risultato finale, l’immagine si costruisce poco a poco, come una scultura, fino ad arrivare ad un’immagine che mi “parla”, che sembra abitata e che, il più delle volte è lontana dall’idea di partenza. Il risultato finale è un miscuglio di intenzioni e di imprevisti. Interessante è, in questa serie l’immagine che può dare il corpo associando una posa a una messa in scena fotografica, è come se il corpo abbia un linguaggio che ci sfugge”. Ciò che mi interessa è creare un rapporto con lo spettatore e condividere con lui un’emozione. “ In una parola è un viaggio appassionante e io sento che c’è ancora molto da scoprire” Louis Blanc prende coscienza del corpo attraverso l’obiettivo, suscitando intense emozioni. La sua serie “Corpus”, restituisce nuove entità ai corpi, di grande impatto visivo. Sceglie un punto di vista per valorizzare al massimo la torsione dei corpi, trovando soluzioni inedite e originali che esplorano possibilità espressive inattese. Non solo i corpi si mostrano in una veste nuova, ma anche lo sguardo diviene penetrante, plasmando nuove sculture umane. Parte da una idea preliminare, lavorando gradualmente per ottenere le forme e le fisionomie desiderate, abitate da più soggetti, giungendo all’immagine finale attraverso un lavoro compositivo minuzioso, utilizzando la luce naturale per foggiare le sue sculture. Nato 59 anni fa a Saint-Etienne (Loire) abita nella regione di Toulouse da una quindicina di anni e da cinque a Ville Rose. Dopo due esperienze fotografiche (una breve con una reflex Minolta XC2 negli anni ’80 e una più lunga negli anno 2000 con una compact numerica) prende coscienza nel 2010 che il suo lavoro è circoscritto e acquista la prima Reflex numerica, e lì….. scopre la fotografia! Da autodidatta apprende le tecniche fotografiche da riviste specializzate e in forum consacrati alla fotografia sottoponendo i miei lavori alla critica costruttiva. Questo interesse per la foto si trasforma presto in passione e con naturalezza senza volerlo due campi di interesse emergono: L’architettura in senso largo: edifici religiosi, storici e paesaggi urbani; Il lavoro sull’immagine del corpo che può suscitare domande e emozioni se fotografato e messo in scena in un certo modo. La serie cORpuS fa parte di questo secondo campo. Dopo varie esposizioni iniziali, ha vinto un concorso sul “linguaggio del corpo” organizzato dalla rivista Réponse Photo e dal Festival Européen della Photo de NU di Arles; il primo premio era un’esposizione a questo festival, dove ho avuto la possibilità di esporre nel maggio del 2012 delle stampe della serie cORpuS. Ha esposto in molti luoghi in Francia e all’estero. JACOB AUE SOBOL CON TE Courtesy by mc2Gallery Sobol è nato in Danimarca ed è cresciuto nella periferia a sud di Copenhagen. Dopo essersi spostato dal Canada alla Groenlandia fino a Tokyo, nel 2008 ha fatto ritorno in Danimarca, dove ora vive e lavora. Ha studiato presso European Film College e, successivamente, è stato ammesso al Fatamorgana, scuola danese di fotografia d’arte. Già membro della MAGNUM è tra i protagonisti più interessanti del panorama mondiale. Qui ha sviluppato uno stile unico ed espressivo, caratterizzato dall’uso del bianco e nero. Le sue immagini raccontano di emozioni e di condivisione. La presenza stessa dell’artista è riconoscibile nei suoi scatti tanto quanto i suoi distintivi tratti estetici, che vedono i bianchi staccarsi con violenza dai neri, eliminando ogni traccia dei mezzi toni. L’uso del bianco e nero è, infatti, utile all’artista per raggiungere in modo diretto le questioni essenziali, eliminando le specificità di spazio e tempo, rendendo così autonome le immagini. Il fotografo sembra immergersi sia stilisticamente sia psicologicamente all’interno dei suoi soggetti. Dal primo momento, il lavoro di Sobol sembra assumere il ruolo di diario documentario, che racconta della capacità dell’artista di entrare in relazione con le situazioni di cui parla. Il suo tratto stilistico s’inserisce allora nella tradizione della scuola di fotografia nordica, nata con Christer Strömholm e proseguita con Aders Petersen. Questa derivazione non si limita all’uso del bianco e nero ma trova corrispondenza anche nell’attenzione alla vita e alle relazioni che il fotografo riesce a instaurare con le diverse realtà che documenta. E’ possibile quindi parlare di un approccio personale e intimo alla fotografia. I suoi lavori sono il prodotto delle sue emozioni, per questo motivo cerca di bloccare il pensiero razionale, lasciando la composizione in balìa del suo inconscio. Lo scopo è allora creare un’immagine che possa essere interpretata attraverso l’immaginazione e l’emozione dell’osservatore. I suoi progetti nascono quindi come specchio delle sue esperienze personali. Come in “Arrivals and Departures” ha attraversato, sul mitico treno della Transiberiana, la Russia. L’idea alla base di questi scatti è documentare le storie più intime delle persone che incontra nelle diverse città, utilizzando il treno come strumento di connessione tra le diverse realtà di Mosca, Ulan Bator e Beijing. Sebbene quindi tutto appaia nuovo agli occhi dell’artista, la sua ambizione rimane invariata: utilizzare la fotocamera come uno strumento per creare un contatto il più vicino e intimo, incontrando l’altro. Questi scatti ambiscono quindi a dire altro rispetto a quello che mostrano: focalizzare le emozioni e gli stati d’animo non ancora definiti sopra gli elementi capaci di stabilire connessioni e renderci dipendenti gli uni dagli altri. Così come nella mostra “Con TE” in cui i suoi scatti diventano lo specchio delle sue emozioni e del suo sentire. Da CON–DIVIDERE. Con Te. Con noi. ROBERT RAMSER L’USURE DU TEMPS L’usura del tempo è una serie di immagini sul tema del wabi-sabi. Fondamento dell’arte giapponese incarnato nella “via del tè” di Sen No Rikyu, “elogio all’ombra” di Junishiro Tanizaki o semplicemente nelle Haiku dei poeti il wabi-sabi è definito dall’architetto giapponese Tadao Ando: “lo wabi-sabi e l’arte giapponese di trovare la bellezza nell’imperfezione e nella profondita della natura, l’accettazione nel ciclo naturale della crescita, del declino, della morte. Un’arte che venera la semplicità, la lentezza, l’ordine ma soprattutto l’autenticità. Lo wabi-sabi sono i mercati delle pulci, non i grandi supermercati; il legno naturale piuttosto che quello stratificato; la carta di riso piuttosto che il vetro. Celebra le fessure, le lucertole, i segni del tempo, del clima e dell’usura. Ci ricorda che siamo esseri effimeri su questo pianeta, che i nostri corpi e il mondo che ci circonda sono polvere e torneranno ad essere polvere”. Ho voluto applicare il metodo del wabi-sabi al metodo fotografico. Mi ha ispirato tutto ciò che le tecnologie moderne non sono: imperfezione, autenticità, caducità, usura del tempo. Di fronte alle milioni di immagini del quotidiano, ho provato il bisogno di ritrovare il grano aleatorio del film argenteo, la lentezza e la resa dell’apparecchio di formato medio. Immobilizzando un istante del flusso del tempo che passa, le immagini-oggetto evocano lo stile poetico degli haiku e sembrano scintillare nel soffio della modernità. Lavoro con vecchi apparecchi di formato medio e realizzo io stesso le mie stampe su carta argentea baritate che tratto con il selenio/seppia al fine di rafforzarne la bellezza e di garantire delle condizioni di archiviazione ottimali, con edizioni limitate a 15 esemplari. Nato ad Arles da padre svizzero e madre francese, Robert Ramser si occupa di fotografia fin dagli anni ’70. Ha scoperto l’Asia durante un viaggio in Sikkim nel 1978, poco dopo l’annessione all’India di questo piccolo regno fino ad allora proibito. Viaggia per il mondo per coglierne l’essenza, con la discrezione di un poeta che sa tradurre in versi anche il minimo sussurro. Immagini capaci di coniugare gusto estetico e sentimenti, ritrovando nella visione la bellezza dei silenzi, che ognuno potrà ascoltare e vivere pienamente. Irène JONAS ESTATE IN GRAN BRETAGNA Granelli di sabbia cuocenti che scorrono tra le dita, il tuffo dalle rocce a pesca, la bassa marea accompagnata dalle grida dei gabbiani, segreti infantili si fondono con il rumore delle onde, i gesti che si ripetono giorno dopo giorno in maniera quasi immutabile, ma mai noiosa. “Le vacanze estive", tanto attese, sembrano durare un'eternità, ma terminano sempre troppo in fretta. Queste immagini vogliono suggerire un senso di libertà e parlare del tempo sospeso della fanciullezza, come momenti che rimangono a lungo nei nostri ricordi. Irène Jonas e sociologa e fotografa indipendente. Lavora sulla fotografia di famiglia e della memorie. Ha esposto in Francia e in altri Paesi FABIO PREDA SPAZI METAFISICI Attraverso questo lavoro di ricerca sulla città di Milano, tutt’ora aperto ed in fase di sviluppo, l’autore vuole proporre una nuova e diversa visione estetica degli elementi architettonici, cercando di astrarre i soggetti dalla realtà in cui si trovano, per isolarli e sospenderli in spazi e tempi ideali, esaltando le proprie linee, forme e bellezze. Attraverso il vuoto creato intorno al soggetto e grazie a luci e ombre surreali suggerite dalle sensazioni dell'autore, i soggetti vengono congelati per essere osservati e ammirati con tutta l'attenzione che essi meritano, allontanandoli per un istante dalla realtà caotica e frettolosa della metropoli contemporanea. Gli elementi chiave della città di Milano, l’antico e il moderno, si fondono insieme, diventano semplici astrazioni e allo stesso tempo luoghi metafisici senza una precisa collocazione e dimensione che ognuno di noi può interpretare con la propria esperienza e soggettività. Fabio Preda - Classe 1964, vive e lavora a Milano. Subito dopo la laurea in Scienze dell'Informazione segue un Master in Tecnologia dell'Informazione, presso un centro di ricerche del Politecnico di Milano, in cui si specializza in sistemi digitali. Oltre all’attività di consulente informatico e Project Manager, ha sempre portato avanti l’attività fotografica per passione dall’età di 15 anni. Inizia la sua avventura fotografica frequentando il Parco Nazionale dello Stelvio. Sulle tracce di fotografi più esperti, apprende nuove conoscenze tecniche nell'ambito della fotografia naturalistica e di paesaggio. Fra gli anni '80 e '90 entra in contatto con la Società Italiana di Caccia Fotografica che successivamente frequenta e da cui riceve nuovi stimoli. Durante questo periodo partecipa ad alcuni concorsi fotografici vincendo alcuni premi con immagini di fotografia naturalistica. A metà del decennio 2000-2010 passa a strumenti digitali grazie al cambiamento tecnologico e riparte con nuovi stimoli e forti motivazioni, iniziando nuove ricerche personali grazie anche alle sue conoscenze informatiche e digitali e all'uso dei software per il digital-imaging. Nel 2007 entra a far parte dell'A.F.I. (Archivio Fotografico Italiano) con cui partecipa ad alcuni progetti e mostre collettive legati in modo particolare al territorio italiano. Tiene corsi di Fotografia presso AFI, associazioni ed organizzazioni varie, in particolare nell'ambito della fotografia digitale. E’ stato membro del Consiglio Direttivo di A.F.I. Nel 2008, insieme ad alcuni amici fotografi, crea il gruppo Safarifoto ed organizza insieme a loro vari corsi di fotografia e workshop naturalistici. Tutt'ora tiene corsi di fotografia, partecipa a progetti editoriali dell’AFI e porta avanti propri progetti fotografici. ESPOSIZIONI CITTA’ DI OLGIATE OLONA CHIESA OPAI – SANTI INNOCENTI DI VILLA GONZAGA – VIA LUIGIA GREPPI, 4 – OLGIATE OLONA (VA) 19 MARZO – 10 APRILE 2016 ORARI DI VISITA: SABATO 15-18,30 DOMENICA 10-12 /15-18,30 - INGRESSO LIBERO CHIUSO DOMENICA 27 MARZO 2016 - PASQUA ISTANTANEE ITALIANE AUTORI: Alessia Recupero, Giuseppe Cozzi, Claudio Argentiero, Virgilio Carnisio, Mario Vidor, Maurizio Galimberti, Pietro L’Annunziata, Marco Ferrando Guardare l’Italia attraverso un principio transitorio, diviene un di esercizio della visione che spinge gli autori a ricercare un proprio stile interpretativo, lontano dai cliché retorici e dai luoghi più conosciuti, sviluppando maggiormente l’approccio intellettuale e meditativo, e al tempo stesso affettivo. In questa mostra vengono proposte una serie di immagini, apparentemente ordinarie e intime, che ritraggono spazi e territori prevalentemente della provincia, senza sensazionalismi, come a voler raccontare la quotidianità, trovando nella semplicità una sorta di vena poetica. Un breve ma intenso viaggio tra piazze e borghi, vicoli e città, centri e periferie, tra un passato ancora presente e un contemporaneo spesso dissonante e asprigno, tra memoria e salvaguardia. La relazione tra fotografia e paesaggio è fin dagli esordi un connubio significante, e molti sono i progetti sviluppati in tal senso, nel documentare le trasformazioni di un modo remoto proiettato alla modernità, ineluttabilmente transitoria. Sono proprio i mutamenti a stimolare continue ricerche, come metafora per esprimere concetti, anche di natura sociale. Un paesaggio ricco e stratificato, sia storicamente che geograficamente, che nelle immagini in mostra trova una plausibile dimensione, a volte provvisoria altre volte esaustiva, mai scontata e appariscente. TEATRINO DI VILLA GONZAGA – VIA LUIGIA GREPPI, 4 – OLGIATE OLONA (VA) 19 MARZO – 10 APRILE 2016 ORARI DI VISITA: SABATO 15-18,30 DOMENICA 10-12 /15-18,30 - INGRESSO LIBERO CHIUSO DOMENICA 27 MARZO 2016 - PASQUA SGUARDI DI LUCE LA PROVINCIA DI VARESE DAI LAGHI AI MONTI, PASSANDO PER IL TICINO AUTORI: Giuseppe Cozzi, Franco Sala e Lino Torretta, Claudio Argentiero, Roberto Bosio, Davide Niglia, Franco Pontiggia Ci siamo chiesti cosa caratterizza la provincia di Varese, rispetto altri territori. Forse i sette laghi racchiusi tra le vallate, le dimore storiche sparse nel territorio, la storia industriale, le alture ricoperte da un manto verde, il Sacro Monte, che serba nell’ascesa verso la vetta spiritualità e mistero, il binomio uomo-ambiente, i silenzi del Parco del Campo dei Fiori o del Ticino, o ancora il vento che anima le foreste, oppure la realtà agricola che pochi conoscono, con punte di eccellenza. Raccogliere le memorie del passato, cogliere le tipicità, le tradizioni, i prodotti enogastronomici, i personaggi, il tessuto produttivo. Segni, prospettive, paesaggi, volti e scenari che sapranno conquistare, in un abbraccio che vuole essere un mosaico di esperienze. ESPOSIZIONI CITTA’ DI GALLARATE MUSEO MA*GA – VIA – EGIDIO DE MAGRI, 1 – GALLARATE (VA) FINO AL 28 MARZO 2016 COMPRESO ORARI DI VISITA: DAL MARTEDÌ A VENERDÌ 10/12,30 – 14/18 – SABATO E DOMENICA 11/19 - INGRESSO LIBERO MARCO INTROINI RITRATTI DI MONUMENTI La mostra presenta trenta opere fotografiche inedite di Marco Introini nate dal suo interesse per l’architettura e per il monumento inteso come documento e stratificazione materiale della memoria collettiva. L’opera nasce dalla collaborazione tra il fotografo e la storica impresa di restauro Gasparoli. Oggetto dell’indagine sono alcuni dei grandi edifici restaurati da Gasparoli negli ultimi anni, tra i quali a Milano La Ca’ Granda, Galleria Vittorio Emanuele, Casa Manzoni, Sant’Ambrogio, San Lorenzo, a Monza, Villa Reale, e nel territorio della Provincia di Varese l’oratorio Visconteo di Albizzate. Fotografare i processi evolutivi urbani è una pratica che ha da sempre percorso l’attività di Marco Introini e costituisce uno strumento originale per riflettere sull’architettura e sulla città. La volontà di documentare il gesto conservativo e artistico del restauro di Gasparoli diventa occasione di creazione di nuove opere d’arte capaci di raccontare la nostra storia, la cura del nostro patrimonio in immagini di grande intensità artistica. Marco Introini nasce a Milano nel 1968. Dopo la laurea in Architettura, diventa fotografo documentarista e docente di Fotografia dell’Architettura e Tecnica della Rappresentazione presso il Politecnico di Milano. Nel 2006 il suo lavoro viene presentato nel catalogo del Padiglione Italia della X Biennale di Architettura. Nel corso del 2015, per la Regione Lombardia e il MIBACT, si è dedicato alla documentazione fotografica dell’architettura in Lombardia dal dopoguerra ad oggi. Viene inoltre invitato da OIGO (Osservatorio Internazionale sulle Grandi Opere) per partecipare a una campagna d’indagine fotografica sul territorio calabrese dal titolo The Third Island. Nello stesso anno il progetto fotografico Milano Illuminista, nato dalla volontà di rappresentare quel pensiero e quel particolare momento storico che ha pienamente coinvolto la città di Milano, viene selezionato nel 2015 dal Fondo Malerba per la Fotografia. Ad oggi ha al suo attivo diverse pubblicazioni, mostre fotografiche di architettura e di paesaggio, tra le ultime Multan_Pakistan, la città murata, Silvana Editoriale e la Chiesa di vetro, Electa Architettura. PALAZZO MINOLETTI – PIAZZA GARIBALDI - GALLARATE (VA) 20 MARZO – 10 APRILE 2016 ORARI DI VISITA: DAL LUNEDÌ AL VENERDÌ 10-13 – 16-18 – SABATO E DOMENICA 10/12,30 – 15-18,30 - INGRESSO LIBERO CHIUSO DOMENICA 27 MARZO 2016 - PASQUA CLAUDIO ARGENTIERO GALLARATE, DAL CENTRO NOBILITANDO LA PERIFERIA Libro in mostra Claudio Argentiero ci accompagna in un viaggio della memoria che sfocia nella attualità: via Matteotti prima che fosse contornata dall’Istituto Falcone, ruderi, gru al lavoro, ciminiere, con il tempo gradualmente e in buona parte sacrificate a chissà poi che cosa. Dove saranno quella farmacia e quelle case sventrate. Interrogativi che lasciamo ai lettori svelare e agli stessi affidare l’itinerario gallaratese, senza timore di smarrirsi, ma anzi quasi entrando in una favola, fra la nebbia che non sale ai proverbiali irti colli, ma, opalescente “vestita” dai raggi lunari, colloca in una dimensione onirica piazza Garibaldi e la Madonnina del Carmine della Contrada del brodo. La neve: con i suoi riflessi, e a un tempo candida e immacolata, ammanta la biblioteca, la Crocetta, i giardini pubblici, il Maga con la sua agorà, il cippo intronizzato davanti alle vecchie scuole elementari dalla antica dedica nobiliare, il cimitero monumentale, luogo del “Non ti scordar di me” e delle passeggiate nei luoghi dell’eternità, scendendo anche sul torrente Arno. E tutto questo insieme di un candore abbagliante, ombreggiato d’azzurro come da pallide nuvolette, appare come un grande, stupendo, giardino incantato, dormente sotto il bianco manto. è invece nel tepore di un sole primaverile che una figura, quasi eterea e comunque significante, si affaccia dal monumento ai Caduti di piazza Risorgimento rivolgendo lo sguardo verso la gotica chiesa di San Francesco e al termine di una fuga prospettica svettano alcune torri di via Marsala, mentre frettolosi passanti solcano i portici dello storico Fajetto e in questa speciale “Via Lattea” cittadina non mancano, comete giunte dal secolo precedente, le testimonianze di archeologia industriale. Campi, interni domestici del passato, officine, macchinari, personale addetto alla produzione, dal centro nobilitando la periferia. Il sole è tornato ad alzarsi, dopo aver trascolorato nelle tinte rosate dell’aurora, e illumina, fotografati da Argentiero da un cielo opale, i tetti e il centro storico con la fontana e una vivace umanità cittadina, oltre ad una statua protesa dall’alto della Basilica di Santa Maria Assunta in un gesto quasi benedicente. Ha scritto l’antico poeta greco Simonide che “La città è la maestra dell’uomo” e il più attuale poeta italiano Gian Pietro Lucini aggiunge in rima: “Ciborio pratico della felicità/ tutto questo ti porge la città”. Elio Bertozzi 96 METRICUBI D’ARTE - VIA PARINI, 8 - GALLARATE (VA) 2 APRILE – 16 APRILE 2016 ORARI DI VISITA: DAL MARTEDI AL SABATO 10-12 / 15,30-19 - INGRESSO LIBERO ROBERTO BOSIO ACQUE, ATMOSFERE, TERRITORIO La fotografia da sempre rappresenta un modo per guardare il mondo, di valutarne la bellezza, di scoprirne note poetiche, ma anche visioni che possono sembrare surreali. Lo scatto è un atto di forte intensità partecipativa sospeso in una dimensione onirica, di cui lo stesso fotografo, a volte, è inconsapevole. Così Roberto Bosio decide di fotografare in modo razionale scegliendo inquadratura, angolazione e cavalletto, catturando atmosfere e paesaggi, esaltando l’interazione tra foschie e territorio, tra scorci e bagliori di luce, senza un perché ma lasciandosi ammaliare dalla preziosità del secondo, irripetibile, capace di conservare memorie nel tempo. Il click è tutt'uno con la comprensione del mondo, paesaggi, sguardi ed oggetti perduti vivificano nella luce, nelle trasparenze fino a creare dei bozzetti dal gusto ottocentesco. Bosio ricerca così la forma che diventa contenuto, coniugando la lettura del paesaggio, tecnicamente razionale, con la capacità di esprimerla attraverso il mirino, dosando sintesi e peculiarità di un territorio. La fotografia di Roberto Bosio gioca in primo luogo sulla suggestione, si tratta di immagini dalla forte carica emotiva, spesso inattese, dalle quali lo spettatore trae spunto per riflettere sul tempo e sulla lentezza che arricchisce la capacità di vedere. Il progetto fotografico è stato condotto per anni, esplorando un vasto territorio che va dai Navigli, all'alto milanese fino alla valle Olona, tutto in analogico e stampato personalmente dall'autore in camera oscura. (Alfiuccia Musumeci) Roberto Bosio Inizia ad interessarsi di fotografia a partire dal 1991, partecipando a diverse ricerche finalizzate alla documentazione del paesaggio lombardo, alle quali tutt’ora lavora e ha collaborato con editori per alcuni libri e con l’Unione Industriali della provincia di Varese. E ‘impegnato in campagne fotografiche per la pubblicazione di volumi e per la realizzazione di mostre itineranti. Da tempo si dedica inoltre a ricerche personali, ottenendo consensi di critica per l’originalità dei progetti e delle tecniche impiegate. Ha sperimentato antiche tecniche di stampa partecipando a corsi specifici. Annovera numerose esposizioni collettive ed è autore di mostre personali, presentate in Italia e all’estero. Particolarmente apprezzato il progetto fotografico “Interni d'arte”, pubblicato nel libro della collana d'autore AFI, “Varese una provincia d'amare”(2013). Qui Bosio intraprende un viaggio nel varesotto, tra Rinascimento ed Ottocento, coniugando amabilmente ville storiche e interni con elementi originari, scale marmoree, boiserie, pavimenti in legno e volte affrescate. Una ricerca affascinante attraverso il tempo e lo spazio, le luci e i colori e le gradazioni cromatiche di villa Buttafava, villa Cicogna Mozzoni, villa Bossi, villa Borghi. Il suo percorso di documentazione sulla valle Olona è stato, in parte, pubblicato nel libro “Il tempo della valle” ( 2012), edito sempre dall'AFI, così come in “Terre, identità, lavoro. L'agricoltura vista dalla fotografia” (2012) dove Bosio si concentra sull'architettura agricola in abbandono nella provincia di Novara. Un lavoro che si colloca tra la documentazione di un bene collettivo da tutelare e una più attenta interpretazione fotografica che, nella sua pulizia formale, svela un mondo poetico e ammaliante. Tuttavia la ricerca fotografica di Roberto Bosio non è mai paga, così scopriamo anche lavori di sperimentazione sulle geometrie del corpo, nel libro “Fotografia d'autore. Gli sguardi, le storie, le ricerche” (2013). Il lavoro di Bosio tratteggia una particolare visione del corpo umano femminile; poco interessato ad una visione realistica, trasforma il corpo in forme spigolose e solide, ma anche sinuose ed armoniose dalla fisionomia astratta e coinvolgente. Il suo ultimo progetto fotografico indaga la città di Legnano, scegliendo la notte come momento massimo di espressione. I suoi scatti rivelano dicotomie percettive, da una parte il silenzio, dall'altra la vivacità dei colori e dei luoghi di ritrovo che, paradossalmente, vivono una dimensione tutta propria di notte, quasi sospesa e misteriosa, lontana dalla frenesia cittadina. E' possibile godere di questo viaggio onirico sfogliando le pagine del libro “Legnano, la città, gli sguardi, la luce” (2015). Ultima sua pubblicazione “NOVARA, dialoghi visivi tra architetture e paesaggio” ( 2015). E’ membro dell’Archivio Fotografico Italiano con compiti organizzativi e progettuali. ESPOSIZIONE A TORNAVENTO DI LONATE POZZOLO CENTRO PARCO DOGANA AUSTROUNGARICA – VIA DE AMICIS SN -TORNAVENTO DI LONATE P. (VA) 5 – 31 MARZO 2016 ORARI DI VISITA: SABATO E DOMENICA 10-18 INGRESSO LIBERO / ACCESSO FACILITATO AI DISABILI IN COLLABORAZIONE CON ESTER PRODUZIONI, CON IL PATROCINIO DI PARCO LOMBARDO DELLA VALLE DEL TICINO MARCO URSO LA MIA WILDLIFE. LA FOTOGRAFIA DI MARCO URSO IN 4 CONTINENTI Con una serie di avvincenti scatti, stampati su carta fine art, realizzati negli ultimi anni in 4 continenti, Marco ci propone la sua Wildlife, fatta di fotografie di “espressioni” di diverse specie colte sul campo, più che di ricerca dell’estetica didascalica nell’immagine naturalistica. Gli animali sono così rappresentati in momenti, anche buffi e ironici, che ci danno un senso di somiglianza con i nostri gesti e comportamenti, facendoci entrare in modo meno consueto nel loro mondo. www.photoxplorica.com Marco Urso inizia a fotografare da adolescente con una modesta macchina a telemetro. Sviluppa e stampa da solo e vince il suo primo concorso all’età di diciannove anni con un reportage su Venezia. Dopo gli studi di Medicina e Chirurgia e un’esperienza di quasi un anno all’Istituto Nazionale di Cardiologia di Città del Messico, tornato in Italia, accetta un lavoro che credeva transitorio e che poi invece diventerà la sua professione per quasi trent’anni: diventa il direttore generale di un importante tour operator internazionale che si occupa di formazione linguistica in presenza sia in aula che all’estero e online. A venticinque anni diventa anche il più giovane dirigente in Lombardia. In questa sua esperienza professionale si occupa anche di progettare ed erogare percorsi formativi per aziende ed enti multinazionali e nazionali come IBM, Microsoft, Enel, Ministero della Pubblica Istruzione, Arma dei Carabinieri, partendo dall’analisi dei bisogni per arrivare a calibrare la giusta risposta didattica di comune accordo con i diversi responsabili della formazione. Fonda e gestisce due riviste, un’associazione culturale dedicata ai viaggi e per un periodo è stato il responsabile del comitato nazionale FIAVET per i giovani viaggiatori. Sono trent’anni di opportunità e successi, di continue sfide che lo portano in giro per il mondo, ma con ritmi troppo frenetici perché possa cogliere l’essenza delle cose decide di cambiare vita e lascia una carriera all’apice, tanti privilegi e comodità e inizia una vita più semplice, ma immensamente più ricca e con più spazio per gli interessi personali, tra cui la fotografia. Marco è un “wildlife and travel photographer”, ovvero dedica i propri scatti a soggetti di reportage di viaggio e di natura. I due ambiti, fotograficamente parlando, hanno molto in comune, chiedendo entrambi una sintesi di tecnica, repentina visione fotografica e specchio di uno stato interiore. Per Marco le nozioni dei suoi studi e l’esperienza professionale riaffiorano, congiunte, nell’interesse per l’uomo e le sue diverse culture e per il comportamento delle specie in natura. Curiosità, ma anche studio e conseguente voglia di approfondimento, ripresa fotografica e impegno per la salvaguardia della natura e delle sue immense bellezze. Marco dedica particolare attenzione alla luce in ripresa, alla composizione come narrazione di una storia e ai suoi lavori applica solo una minima postproduzione. Le sue foto sono state utilizzate per libri di natura e viaggi in tutto il mondo e sono state pubblicate da riviste come National Geographic, Nature Images, Nature Best, Outdoor Photographer, Asferico, Natura e Oasis, Go Nordic. E’ stato vincitore o finalista in vari concorsi nazionali e internazionali, come quello del National Geographic, Wildlife Photographer of the Year, Travel Photographer of the Year, Hasselblad Awards, Nature Best, Outdoor Photographer of the Year, Campionato Italiano di Fotografia Naturalistica, Glanzlichter, GDT, Bio Photocontest , riportando più di cento riconoscimenti negli ultimi due anni. Le sue foto sono state esposte a Washington allo Smithsonian Museum, a Londra alla Royal Geographical Societ oltre che Colonia, Singapore, San Pietroburgo e Mosca. Ha visitato e viaggiato in settantaquattro paesi. Scrive e pubblica articoli e servizi sulle riviste Oasis, Natura, Asferico. Image Mag, ed in lingua inglese e tedesca, sul magazine Go Nordic. E’ socio del Circolo Fotografico Milanese . Fa parte della FIAF, della FIAP, dell’AFNI, di cui è il delegato per la Lombardia e del GDT tedesco. E’ un X-PHOTOGRAPHER Fuji. Nel 2014 è entrato a far parte della Squadra Nazionale Italiana di Fotografia Naturalistica che ha poi vinto la medaglia d’oro ai campionati mondiali. Nel 2015 ha fatto poi parte anche della Nazionale di Fotografia di Viaggio vincendola medaglia d’oro ai campionati mondiali. Nel 2015 ha ideato e promosso la nascita dell’Accademia di Fotografia a Chiaverano (TO) e a Manerba del Garda (BS), dove vengono proposti corsi di fotografia naturalistica e di viaggio a vari livelli. ESPOSIZIONI CITTA’ DI VARESE SPAZIO LAVIT – VIA UBERTI, 42 - VARESE 2 APRILE – 16 APRILE 2016 ORARI DI VISITA: DAL MARTEDI AL SABATO DALLE 17 ALLE 19,30 GIACOMO VANETTI BURN MY SHADOW La fotografia di Giacomo Vanetti scandaglia i tratti di una corporeità che è messa in discussione del concetto stesso di unitarietà organica. Dove confina l'epidermide umana? Gli organi conservano ancora una forma di organizzazione interna oppure é la gola a sentire e il ventre a fiutare? L'ossessione per un corpo essenzialmente calato nella contemporaneità, che non é mai in condizione di "essere", ma sempre di "divenire", dà vita a una ripetizione differente che coglie e ricoglie un'anatomia fatta di gesti rubati, pose silenziose. L'amore manifesto per le declinazioni che la tecnica fotografica anche nella sua radice analogica rende possibile, é controcanto formale all'individuazione di scene che esprimono la loro complessità sin dalla prima resa in immagine, senza essere necessariamente sottoposte a rielaborazione digitale. I soggetti vengono taLvolta filmati e rifotografati dall'artista stesso, in un gioco di rimandi metalinguistici che innesta reazioni inattese. La "piega", la sbavatura, l'errore sono parte integrante di una manifestazione figurale che trascende ogni possibilità mimetica, e che esibisce senza pudore un'eccedenza oscura: il "retropensiero" del desiderio. Testo di Camilla Martinelli Giacomo Vanetti nasce a Varese nel 1974. Dopo il Liceo scientifico si iscrive alla facoltà di Disegno Industriale del Politecnico di Milano dove si Laurea in Grafica e Comunicazione Visiva nel 2001. Durante la carriera universitaria ha l’opportunità grazie ad una borsa di studio di frequentare l’Accademia di Belle Arti di Granada dove, oltre a diplomarsi in litografia, segue con successo corsi di fotografia, serigrafia e incisione. Dopo La Laurea, e dopo una collaborazione con il Politecnico di Milano come Cultore della Materia Fotografica e un periodo di lavoro come assistente fotografo di architettura, frequenta l’Istituto Italiano di Fotografia, sempre di Milano, collaborando come tecnico di studio. Si diploma in Fotografia nel 2004. L’interesse per la sperimentazione sui mezzi e linguaggi fotografici ha sempre caratterizzato la sua ricerca portandolo ad utilizzare differenti tecniche di lavoro sia analogiche che digitali. Pur dedicandosi con passione anche alla fotografia di reportage e commerciale il copro del suo lavoro indaga principalmente la figura umana e il medium fotografico. Ha tenuto mostre personali e collettive in Italia e in Europa e le sue opere fanno parte di collezioni pubbliche e private. Vive e lavora a Varese. ______________________________________________________________________________________ SALA VERATTI – VIA VERATTI, 20 – VARESE 5 MARZO – 26 MARZO 2016 ORARI DI VISITA: DA MARTEDÌ A DOMENICA : 9.30 / 12.30 E 14.00 / 18.00 FRANCO PONTIGGIA DAI LUOGHI AMATI GUARDANDO L’EUROPA Una selezione di scatti che offrono una lettura dei differenti generi fotografici praticati da Franco Pontiggia, della sua capacità di cogliere l’attimo, della sensibilità e percezione nel raccontare la vita, di riprendere paesaggi e atmosfere con grande maestria. Franco Pontiggia, giornalista e pubblicista, nasce a Varese nel 1938. Comincia a fotografare nel 1965, coltivando una passione già viva fin dalla giovane età e nata con l’amore per il viaggio e per l’osservazione curiosa degli spettacoli della vita. Professionalmente nasce come fotografo di basket, con immagini pubblicate su una enciclopedia Mondatori. Caratterizzano la sua carriera di fotogiornalista numerosi premi, tra cui l’Obelisco di Cristallo, conferitogli alla Photokina di Colonia nel 1970, il Primo Premio Colore nel concorso nazionale giornalisti del 1985 e una segnalazione del World Press di Amsterdam. Numerosi sono i suoi lavori fotografici: tre cartelle con sue foto di grande formato e oltre dieci libri in gran parte ispirati dall’amore per il territorio varesino e per i suoi abitanti. Sono per lo più opere articolate, in un sottile equilibrio tra l’immagine e la parola, anche ironica, scritta da grandi firme come quelle di Piero Chiara, Gaspare Morgione e Chiara Zocchi. I più noti: Varese ieri e oggi; I luoghi Amati ; I Luoghi della Vita; I Luoghi, le acque, i ludi; Albe e luci dei luoghi amati; La Festa della Vita; Profumo di Provincia; La scoperta di Varese; I Mondi dentro al Mondo; Donne Donne. Ha altresì collaborato a testate prestigiose, come: Atlante, Atlas, Weekend, Corriere della Sera Illustrato, Epoca, Gente Viaggi, Bell’Italia, Bell’Europa. Ha girato l’Europa e il mondo con sguardo attento e sensibile, realizzando fotografie memorabili, pubblicate su libri e riviste. Si spegne nel febbraio 2006, lasciando un patrimonio di immagini e di sapere, che la moglie e la famiglia custodiscono con amore. Le immagini selezionate, catalogate e inserite nella collezione, seguono un comune filo conduttore, che ha sempre contraddistinto il lavoro di Franco: I luoghi amati, come omaggio alla propria Terra e ai Paesi che più lo hanno affascinato; La Festa della Vita, come metafora dell’esistenza, racchiusa negli scatti delle tante persone che ha incontrato, sguardi di una tenerezza inaudita. cogliendone ESPOSIZIONI A MILANO EX FORNACE – NAVIGLIO PAVESE, 16 - MILANO 20 MARZO – 3 APRILE 2016 ORARI DI VISITA: DAL LUNEDI AL VENERDI 9-12 – 14-17 /SABATO E DOMENICA 10-18 INGRESSO LIBERO ACCESSO FACILITATO AI DISABILI CHIUSO DOMENICA 27 MARZO 2016 - PASQUA MILANO, dalle corti ai grattacieli Autori Vari: Virgilio Carnisio, Claudio Argentiero, Roberto Venegoni, Silvia Lagostina, Mario Vidor, Andrea Bertani Per comprendere una città bisogna viverla pienamente anche nelle sue trasformazioni, andando alla ricerca dei segni del passato per confrontarli, senza retorica e malinconie, con i nuovi disegni urbani. Nel dialogo che prende forma con lo spazio cittadino, grazie a una attenta e meditata indagine visiva, emergono sorprendenti giustapposizioni, forme e simmetrie che compongono un mosaico di esperienze, arricchite da atmosfere e prospettive insolite che ci parlano dell’uomo e dell’abitare. Ed è proprio il concetto dell’abitare che ha stimolato il curatore della mostra e del festival, Claudio Argentiero, a scegliere gli autori e a selezionare le immagini più consone a favorire un dialogo continuo, tra passato e presente. Se nelle fotografie degli anni ’60 di Carnisio Virgilio vi si trovano le corti a ringhiera e la semplicità del vivere, le periferie in costruzione e le botteghe d’un tempo, negli scatti di Roberto Venegoni e Silvia Lagostina quello che colpisce sono gli edifici sorti nei quartieri suburbani, luoghi apparentemente anonimi rivitalizzati dal colore e da uno studio attento alle geometrie. Negli scatti di Andrea Bertani, attento osservatore dei cambiamenti, vi si trovano concetti spaziali tesi a dare risalto a segmenti architettonici che dialogano con lo spazio, mentre nelle fotografie di Mario Vidor sono i castelli di vetro ad imporsi, con i loro riflessi che illuminano la città, rispecchiando la vita nei silenzi dei nuovi quartieri edificati per l’Expo. Infine, le fotografie di Claudio Argentiero, sono un variegato itinerario di visioni, che indagano il rapporto tra città e campagna, giacigli di fortuna e spazi giovanili, chiudendo un percorso finalizzato a favorire la comprensione di una città in continuo mutamento. BIBLIOTECA CENTRALE – PALAZZO SORMANI – CORSO DI PORTA VITTORIA, 6 - MILANO 14 MARZO -1APRILE 2016 ORARI DI VISITA: DA LUNEDÌ A SABATO 10 – 19 INGRESSO LIBERO / ACCESSO FACILITATO AI DISABILI MEZZI PUBBLICI: BUS 54, 60, 73, 84, 94/ TRAM 12, 23, 27/ M1 (SAN BABILA), M3 (MISSORI ) CLAUDIO ARGENTIERO PAESAGGIO PERDUTO Ci sono voluti poco più di cinquant’anni per trasformare la società contadina in una civiltà consumistica sfuggente, forse più agiata ma meno attenta ai ritmi della natura, alle tradizioni, ad un paesaggio capace di coniugare, nella lentezza del tempo e la cadenza delle stagioni, l’opera umana con lo sviluppo, la città con la campagna. Una civiltà, quella rurale, che si può definire scomparsa, almeno nella concezione oggettiva del termine, lasciando al destino le tante strutture architettoniche che una volta accoglievano braccianti e salariate del luogo, ma anche provenienti da altre parti, per mondare o lavorare nei campi. L’industrializzazione e la meccanizzazione hanno ingoiato il paesaggio agricolo. Le nuove generazioni possono solo immaginare gli scenari di vita che hanno identificato per secoli i rapporti umani, l’identità dei luoghi, le storie, le piccole cose di cui andare fieri. Questa serie fotografica fa parte di un progetto ampio e articolato a cui l’autore lavora da anni, in varie zone d’Italia, interamente dedicato agli edifici agresti, o cascine, con la finalità di testimoniare attraverso le immagini quei beni architettonici che sono documentazione di un passato non lontano, di grande fascino, che merita considerazione. Il Paesaggio è dentro di noi, lo osserviamo patendo la perdita della bellezza, subendone la scomparsa, feriti nell’animo. Non vi sono nostalgie, ma consapevolezze, poiché non sono unicamente le grandi architetture e le sontuose sale nobiliari a raffigurare la nostra Italia, ma anche i piccoli immobili, divenuti scrigni di quiete, in cui ritrovare atmosfere che lente dominano il silenzio. Claudio Argentiero da oltre venticinque anni si occupa di fotografia, prediligendo la ricerca personale. E’ da sempre interessato alla documentazione del territorio e dei suoi mutamenti, producendo immagini per mostre e libri, collaborando con enti pubblici e privati. Dal 1988 cura e organizza mostre ed eventi fotografici di rilievo, tra cui il Festival Fotografico Europeo. Stampatore, sperimenta la fotografia infrarosso, le antiche tecniche e le più moderne tecnologie digitali fine art, in stretta collaborazione con Epson. Ha esposto in importanti spazi in Italia e all’estero, ad Arles da 12 anni, ha al suo attivo svariati libri, e alcuni sono in uscita nell’anno in corso. Si dedica con particolare interesse anche al ritratto e al corpo, con un proprio stile, lavorando in stretto contatto con diversi artisti. Sue immagini fanno parte di collezioni pubbliche private, anche straniere. HOEPLI – LIBRERIA INTERNAZIONALE - Via Hoepli 5 - 20121 Milano – MM Duomo 12 MARZO - 2 APRILE 2016 Info +39 02 864871 – [email protected] – www.hoepli.it Twitter @Hoepli_1870 – Facebook Hoepli – La Grande Libreria Online Orari di Apertura – Lun-Sab: 10.00-19.30 CLAUDIO ARGENTIERO L’ANIMA DELLE RISAIE LIBRO IN MOSTRA Un viaggiatore, tra presente e passato, tra riflessi di acque e di luce, tra memorie e miraggi. Non si può non restare piacevolmente sorpresi dalla pregevole ricerca fotografica, oramai decennale, condotta da Claudio Argentiero nelle terre del riso, tra Vercelli e Novara. Il suo viaggio inizia quasi per caso, attratto da storie tramandate più che da un gusto estetico e, ancora più, dal bisogno di relazionarsi con la gente "della fatica" che per curiosa sete visiva. Un percorso tra risaie squadrate, linee geometriche piatte a perdita d´occhio, tra volti segnati dal tempo e dai ricordi, celati spesso in nude pietre, dove inesorabilmente si incontrano tracce di dolori consumati tra le risaie, vinti dai ritmi di lavoro, spesso in condizioni ambientali proibitivi. Filari di alberi, paesaggi multiformi, specchi d'acqua dove cielo e terra dialogano, svelano quindi morbide vedute, impreziosite da liriche atmosfere rarefatte, lontane dal realismo, come in un miraggio nel quale è concesso perdersi, abbandonare le proprie sicurezze e lasciarsi stupire dalle più piccole cose. Ed ecco la gente e i moti dell'animo al passare del tempo, visi canuti e rugosi sorrisi diventano incisivi quadri narrativi che evocano l'epopea delle mondariso, suggerendo riflessioni su ciò che fu e quello che diviene. Le risaie sembrano oggi richiamare un mondo cristallizzato, fatto di valori e ruralità pregnanti, accompagnato da filastrocche e canti popolari che si perdono in meste distese di campi, strappati alla mano dell’uomo moderno, disincantato e in bilico tra il percepire la natura e il volerla plasmare. L’aspetto dei cascinali e le forme stesse della vita contadina, nel tempo, sono profondamente mutati e le danze attorno al fuoco dei cortili o i rituali degli uomini seduti ad un tavolo d'osteria intenti nel gioco delle carte, hanno ceduto il loro tempo a suoni metallici e alla trasformazione meccanica, cancellando numerose professionalità, vanto, un tempo, dell'individuo. Lo sguardo dell'autore è, a tratti, sognante e in talune immagini trascendentale, ma sempre immerso sacralmente nel silenzio incontrato, nei meandri di sensazioni che prendono vita, elogiando la semplicità e scrivendo, con la luce, poesie del quotidiano. L'empatia viscerale che Claudio Argentiero è riuscito ad instaurare con il territorio che lo ha accolto e con la gente che ha incontrato si fa sentire ancor più prepotentemente se si legge il suo lavoro globalmente, sottraendolo al fluire del tempo, annotando come sia costantemente presente una partenza, un ritorno, una rottura e una riconciliazione di stili, sguardi e linguaggi corrispondenti a periodi creativi che denotano una personalità nostalgica, dotata di una sensibilità non comune, capace di cogliere il passato nel presente amandolo e adattandosi, con disinvoltura, all'incanto che la vita offre, anche quando resta adombrato. Un sentire dell'anima di cui i riflessi d’acqua si appropriano, una fugace magia di un mondo velato dove i silenzi si riempiono di racconti al lento planare di foglie. Uno sguardo sul mondo delle risaie in punta di piedi, un omaggio alle geometrie del territorio, alle genti e alle memorie che diventano incanti. Ufficio stampa festival: e-mail: [email protected] / [email protected] Sito web: www.europhotofestival.it Claudio Argentiero Mobile: 347 5902640 e-mail: [email protected] Organizzazione Festival Claudio Argentiero: Ideazione e direzione artistica Alfiuccia Musumeci: coordinamento / pianificazione attività / comunicazione Francesco Cunocchiella e Alessia Recupero: Grafica comunicazione, guida e catalogo Fabio Preda: Sito internet / Corsi / Worshop Roberto Bosio - Gabriele Cova - Giuseppe Cozzi - Marco Villa - Marco Ferrando Domenico Galli: Coordinamento allestimenti e attrezzature