Lambrusco, vitigno antico, ma vino moderno

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Lambrusco, vitigno antico, ma vino moderno
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Modena
Economica Numero 5
settembre‐ottobre 2014
LAMBRUSCO,
vitigno antico
ma vino moderno
Il successo di oggi deriva dal rispetto
della tradizione rimasta immutata nel tempo
SANDRO BELLEI
L
a citazione è d’obbligo: «Lambrusco era il nettare degli Dei contenuti nei
pistoni». Sono le parole di uno dei più famosi cantanti italiani, Francesco
Guccini, grande appassionato di Lambrusco. Il “pistone” era un’unità di capacità per le navi che trasportavano vino, pari a 2 litri, ma poi è divenuto
il modo popolare di chiamare la bottiglia di vino, quella di Lambrusco in
particolare. «E dal momento che quelle bottiglie non erano in giro tutti i giorni, era
una vera festa ogni volta che potevamo aprirne una», ricorda il famoso cantautore di
Pavana. Il Lambrusco è un vino prezioso non soltanto per i contadini, per i quali è da
sempre una delle più importanti fonti di reddito. Nel XIX secolo e all’inizio del XX, nelle
locande e trattorie di Modena, era venduto a un prezzo tre volte superiore a quello
del vino comune. Spesso era più costoso di un intero pasto. Un altro indizio della sua
importanza è che il Lambrusco è stato sempre venduto in bottiglia, mentre gli altri vini
erano serviti alla spina.
Questo l’elogio di un goloso consumatore come Guccini che, essendo nato a cavallo
fra Emilia e Toscana, ha preferito le allegre bollicine all’importanza dei mille rossi
che nascono “di là dall’acqua” con il Chianti come vessillifero. Non è trascurabile,
ma un parere personale. Quel che conta, oggi, è che finalmente l’importanza del
Lambrusco è stata riconosciuta a livello internazionale. Uno dei pezzi più importanti
della nostra ricca argenteria di famiglia ha ottenuto l’apprezzamento del mercato
globale. Non solo è il vino rosso italiano più venduto al mondo. Anche sul mercato
interno, dove i sommelier non l’avevano mai proposto con entusiasmo, vittime come
sono stati a lungo della convinzione che fosse eternamente il Belloni della situazione,
sempre secondo dietro a piemontesi, toscani e veneti, il Lambrusco sta lentamente
ma con grande successo guadagnando posizioni che sino a qualche anno fa poteva
solamente sognare.
La vendemmia, a causa delle pessime condizioni climatiche estive, non è stata
al top. I consumatori, però, hanno la fortuna di poter contare ancora sul vino
della passata stagione, che al contrario ha toccato punte di assoluta eccellenza.
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Un vino
riconosciuto
a livello
internazionale
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Oggi i sei Lambruschi che si fregiano
del marchio DOC si trovano su tutte le
tavole. Per un vino ottenere il marchio
DOC (Denominazione di origine controllata) è un passo che ne certifica la
straordinaria qualità. Significa che è
prodotto con uve provenienti da zone
ben delimitate, secondo precisi disciplinari di produzione, stabiliti a norma
di legge con un apposito decreto ministeriale. Da alcuni anni, questo marchio italiano è confluito (come quello
DOCG, Denominazione di origine controllata e garantita) nella denominazione DOP (Denominazione di origine
protetta) voluta dall’Unione Europea.
Tre Lambruschi DOC, dal 1961, sono
originari del territorio modenese, il
Lambrusco di Sorbara, il Lambrusco
Grasparossa di Castelvetro e il
Lambrusco Salamino di Santa Croce.
Il Sorbara si produce nella fascia mediana della provincia di Modena, là dove si
avvicinano maggiormente il Secchia e
il Panaro. Il loro limo è considerato un
toccasana per le radici di queste uve.
La composizione deve essere a carico di due uve DOC: minimo un 60% di
Sorbara e massimo un 40% di Salamino.
Il Grasparossa di Castelvetro si produce a
sud della via Emilia, nella zona collinare
e pedecollinare. Almeno l’85% delle uve
deve essere Grasparossa, ma si possono
utilizzare, fino a un massimo del 15%,
anche altri Lambruschi, come il Malbo
Gentile, di origine ligure, importato in
zona dalla marchesa Gigliola di Carrara,
e il Fortana, importato dalla Côte-d’Or
(Borgogna) nel 1528, altrimenti chiamato
Uva d’oro.
Il Salamino di Santa Croce ha un disciplinare quasi monovitigno, con un 90%
minimo di Salamino e la possibilità di ricorrere per un massimo del 10% ad altri
Lambruschi, al Fortana o all’Ancellotta,
un vitigno la cui massima diffusione si
trova nel territorio reggiano, nella zona di
Massenzatico.
Le molte cantine che si sono insediate sul territorio delimitato dalle zone
di produzione stanno raggiungendo
qualità un tempo imprevedibili. A testimoniarlo stanno i numerosi premi
che le etichette modenesi collezionano
nei concorsi dove le caratteristiche più
ricercate sono proprio i connotati dei
Lambruschi, gli stessi che da qualche
tempo pretendono con insistenza i consumatori e ai quali si sono convertiti con
convinzione i sommelier, i sacerdoti laici
del vino, divenuto prezioso accompagnamento di ogni cibo e non più, come
un tempo, bevanda qualsiasi da mettere
sulla tavola.
Il successo di oggi deriva dal rispetto della tradizione rimasta immutata nel tempo e grazie alla quale, sebbene da poco,
per la loro coerenza, i produttori stanno
riscuotendo ovunque, in casa e fuori, i
consensi che meritano.
Un tempo chi produceva il vino in casa
seguiva indicazioni che sono valide ancora oggi sia nella “formula” per mescolare
le uve sia nella tecnica della vinificazione. Ognuno aveva un piccolo segreto che
non confidava a nessuno e al quale attribuiva la buona riuscita del vino. Quando
il Lambrusco non riusciva bene, invece,
c’era pronta una muta responsabile: la
colpa era scaricata sempre sulla Luna.
L’anno successivo, in genere, un piccolo
aggiustamento alla proporzione delle uve
bastava a rimediare all’insuccesso della
stagione precedente.
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A fare il vino, in genere, pensava il capofamiglia, che in autunno si chiudeva in cantina per una settimana e provvedeva quasi
da solo al ciclo completo della lavorazione.
La fermentazione, secondo la stagione fosse più o meno calda, durava due o tre giorni. Quando il vino iniziava a “bollire” era il
momento, insieme con il primo assaggio,
di decidere se travasarlo dal tino per passarlo nelle damigiane o lasciarlo ancora
un po’ a prendere sapore e colore dalle
vinacce, la cosiddetta “presa di spuma”.
Se restava in damigiana, attendeva la Luna
buona per essere imbottigliato e tappato.
Ai primi caldi estivi era pronto da bere, con
la sua bella spuma violacea, capace di riempire in un attimo la pancia del bicchiere
e di ritirarsi con altrettanta velocità.
Chi faceva il vino in casa non si accontentava quasi mai di produrre soltanto
quello migliore. Levato dalla botte al vèin
scèt, il vino schietto, toglieva il “cappello” di vinacce ormai secche (l’operazione, in dialetto, si chiama sgraspadùra),
aggiungeva altra uva e il mattino successivo otteneva un vinello (vèin sopè) di 5-6
gradi. Ancora molto gradevole, era adatto per accompagnare la colazione del
mattino, che un tempo, in campagna,
era a base di gnocco fritto nello strutto e salume, o per alleviare l’arsura dei
pomeriggi di solleone durante il lavoro
nei campi. Chi non s’accontentava neanche di questo “secondo vino” (o vèin
sutìl, vino sottile, annacquato) sfruttava
il residuo, impalpabile, tenore zuccherino dell’uva, gettando altra acqua sulle
graspe esauste. Con un rozzo torchietto ricavava al turciòun (il nome derivava dall’operazione di torchiatura) e al
puntalòun. Nel secondo caso, il nome
dipendeva dall’abitudine di puntellare
le vinacce contro il soffitto della cantina
perché restassero immerse nell’acqua
del tino e potessero offrire un’ultima
parvenza di vino. Se ne ricavava un vinello di appena 2-3 gradi, in pratica acqua colorata, bevuta anche dalle donne
e dai bambini, che si trovava soltanto
sulle tavole più povere.
Chi afferma che questo è un vino di serie B, senza quarti di nobiltà, si sbaglia
di grosso. Il Lambrusco vanta una storia
che pochi altri vitigni italiani possiedono.
A sbaragliare i detrattori dell’unico champagne rouge italiano (a fargli concorrenza c’è solo la marchigiana Vernaccia di
Serrapetrona, ma in limitata produzione
e in versione solo amabile) basterebbe
ricordare che ha conquistato in fretta i
gusti dei consumatori, perché è un vino
fresco, beverino, naturalmente frizzante, proprio le doti più richieste oggi dal
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Vanta una storia
che pochi vini
possiedono
mercato. I vini a lunga conservazione e
di grande stoffa sono ancora apprezzati
dagli intenditori, ma non più consumati
nella misura di un tempo. Con le esigenze alimentari sono mutati anche i gusti.
Come ci siamo disabituati a cibi pesantemente calorici, un tempo giustificati dal
lavoro più lungo e faticoso, dal moto solo
a piedi e dalla permanenza in ambienti poco riscaldati, così oggi preferiamo
bevande meno alcoliche, che non appesantiscano l’organismo e lascino lucido
il cervello.
Il Lambrusco è un vino antico nato moderno. È giovane, non troppo alcolico, di
pronta beva, dotato di grande personalità ma non impegnativo, ricco per natura
di quella liberatoria anidride carbonica
che in altre bevande l’industria aggiunge artificialmente per renderle più gradevoli al palato. Il vitigno Lambrusco
appartiene a una famiglia complessa.
Molti ampelografi (gli studiosi delle varietà di vite coltivate) l’hanno studiata: il
conto delle cultivar individuate sarebbe
troppo lungo. Il giornalista e scrittore
modenese Paolo Monelli, il primo a capire che anche il vino meritava una fatica
letteraria, in O.P., Optimus Potor, ossia il
vero bevitore, definì il Lambrusco «rusticano al gusto e profumato di viola, che
gorgoglia e minaccia come un vecchio
vino generoso che invecchiare non sa».
Chi crede che il Lambrusco, come altri
ottimi vini “provinciali” senza bisogno
di lungo invecchiamento (Sangiovese,
Gutturnio e Teroldego, per fare solo tre
esempi), perda il confronto con Barolo
e Barbaresco? L’affermano i produttori
piemontesi, rimasti tra i pochi in Italia
a proporre vini da invecchiamento, una
sofisticata filosofia enologica che vanta
estimatori in tutto il mondo e merita
rispetto, ma contrasta con le leggi del
mercato moderno. Per intenderci, quello
di tutti i giorni.
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