Jay e Mark Duplass sono i campioni del cosiddetto mum

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Jay e Mark Duplass sono i campioni del cosiddetto mum
martedì 28 febbraio 2012
Cyrus
Jay e Mark Duplass, USA 2010, 92’
Jay e Mark Duplass sono i
campioni del cosiddetto mumblecore, ossia il cinema a
budget zero o poco più fatto
di relazioni, tante chiacchiere
spesso improvvisate e protagonisti 20/30enni senza
direzione. Insomma roba da
Sundance, come la loro opera prima The Puffy Chair (da
noi inedito) su una coppia che
scoppia mentre va a prendersi una poltrona. Il successivo
Baghead (anch’esso inedito)
aggiungeva elementi metacinematografici, raccontando
del ritiro di due autori di cinema e delle loro compagne per
scrivere un copione, con un’inattesa parentesi da slasher
movie.
Il relativo successo critico li ha
portati a una produzione dei
fratelli Scott per la Fox, con
attori affermati ma senza abbandonare il piglio indie, che
si concretizza in piccole storie
d’insolita quotidianità, protagonisti un po’ loser e dialoghi
a tratti rugginosi, come nella
vita di tutti i giorni. Cyrus,
film d’apertura del Festival di
Locarno 2010, mette in scena il superamento del divorzio da parte di John, grazie
all’interessamento romantico
di Molly. Questa è una piacevole 40enne non priva di
problemi che si tiene in casa il
figlio, Cyrus appunto, 25enne
(per gli standard Usa un bamboccione) con il quale ha un
rapporto d’interdipendenza a
tratti quasi morboso. In un film
dove il pregio principale della
regia è la discrezione, molto
dipende dagli attori e in questo senso le cose funzionano
bene, da John C. Reilly protagonista un po’ ingenuamente
entusiasta e un po’ machia-
vellico, alla sempre radiosa
Catherine Keener, alla bella
e brava Marisa Tomei, gentile ma incapace di scegliere.
La vera sorpresa è però Jonah
Hill, rotondo comico fattosi
notare soprattutto in Suxbad.
Tre menti sopra il pelo che
qui incarna una personalità
scissa, gentile e minacciosa,
ossessiva e remissiva, tonta e
ingegnosa, a tratti sorridente a
tratti con lo sguardo svuotato
che porta sempre sullo schermo una vena d’inquietudine.
Ciò nonostante Cyrus rimane
un piccolo film, peculiare e
pregevole nella sua appartenenza a un filone da noi poco
esplorato […].
Andrea Fornasiero
Film TV
Esponenti di un cinema indie
a suo modo istituzionalizzato,
tra le vetrine festivaliere di Sundance e Tribeca, i fratelli Duplass sbarcano in Europa trovando finalmente anche una
distribuzione in sala. Cyrus,
il loro terzo lungometraggio,
si presenta subito come un’opera di passaggio nella loro
filmografia. Passaggio da un
cinema teso ad esaltare esteticamente la povertà di budget
e di mezzi, eleggendola intelligentemente a materia stessa
del loro narrare – come in Baghead, mise en abyme divertita e divertente del loro piccolo
laboratorio cinematografico –
ad un cinema che si fa pian
piano più complesso e ricco.
Ed è proprio su questo crinale
che continuano ad operare
i Duplass: rimanendo da un
lato fedeli alla loro turbolenta messa in scena da cinema
veritè (macchina rigorosamente a mano e continui zoom a
sottolineare i sussulti emotivi
dei protagonisti) e dall’altro
riscoprendo le tradizionali
tematiche cassavetesiane del
cinema indipendente sponda
newyorkese, ossia il porre in
continuo primo piano le debolezze e i sentimenti dei personaggi/attori inquadrati.
Ecco che veniamo catapultati
nel tormentato mondo di John
(un immenso John C. Reilly,
capace di creare continue
interfacce emotive solo con
piccolissimi movimenti del volto) che dopo essere stato lasciato dalla moglie, ormai da
sette anni, non riesce ancora
a trovare una pace sentimentale. Risorge dal suo torpore
conoscendo Molly (la sempre bella Marisa Tomei) che
gli ridà speranza e calore,
ma l’intoppo più duro (e dai
risvolti comico/surreali) sarà
rappresentato dal figlio ventiduenne di lei, Cyrus appunto
(Jonah Hill), che farà di tutto
per impedire il loro amore. Il
film diventa così un interessantissimo ibrido, dove il cambio
di registro – anche recitativo
– da commedia a tragedia
viene continuamente inscritto
addirittura nella stessa inquadratura. Proprio come in Baghead i Duplass orchestrano
continue sciarade: mettono in
scena situazioni e sentimenti
per poi ribaltarli, insinuando
continuamente il dubbio sulla
autenticità di quello che noi
spettatori stiamo guardando.
Una piccola vertigine teorica sulla natura dello sguardo
insomma, che in questo film
trova il suo principale referente proprio in Cyrus, eletto
ben presto a protagonista
incontrastato della scena. Il
suo è uno sguardo innocente
e inquietante nel contempo,
comico e mostruoso. Sguardo
che nasconde abissi di dolore mascherato da gelosia e
ossessione materna, in un personaggio che appare come
parente strettissimo della galleria di “mostri” che popola
l’universo filmico di Todd Solondz. Una infantilità esibita
e impugnata come un’arma
(straordinaria l’inquadratura
di Cyrus che chiama John
impugnando un grosso e minaccioso coltello, con cui sta
preparando semplicemente un
sandwich) tesa a mascherare
un male radicato e profondissimo, di una ingenuità ancora
più profonda: l’ingenuità della
paura. Cyrus diventa così l’ennesimo ragazzo americano
senza padre dominato dal
sentimento della paura, vero e
proprio deus ex machina della
nostra società occidentale.
Pietro Masciullo
Sentieri Selvaggi
10 dicembre 2010