Madrigali del Cinquecento

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Madrigali del Cinquecento
Agnolo Allori detto il Bronzino,
Ritratto di Laura Battiferri,
Firenze, Palazzo Vecchio
“T’amo, mia vita,
la mia cara vita”
Madrigali del Cinquecento
a cura di Salvatore Ritrovato
“T’amo, mia vita, la mia cara vita” / Madrigali del Cinquecento
T
emo che sia difficile rivendicare al madrigale un suo
ruolo nella storia della poesia italiana senza prenderne in considerazione alcune peculiari risorse formali. A differenza del sonetto, il madrigale non
ha una struttura strofica fissa, anzi
mostra variazioni sensibili di epoca
in epoca: lo schema del madrigale
trecentesco (che ebbe, per intendersi, nel Petrarca il suo modello) non
ha niente a che vedere con quello
cinque-secentesco adottato dal Tasso
o dal Marino (e l’uno tanto diverso
dall’altro). Come la ballata e la frottola, il madrigale nutre un rapporto
speciale con la realizzazione musicale, ottenendo un successo di dimensioni internazionali; il suo declino,
nel Seicento, è legato anche alla fine
della polifonia vocale.
Infine, il madrigale rientra tra i generi della poesia moderna come una
raffinata e dotta citazione, anzi come
l’‘icona’ di una classicità viva nella
sua misura, toccante nella sua concisione. Così, dalle Myricæ di Pascoli
ai Madrigali notturni di D’Annunzio, dal Saba di Amorosa spina e di
certe Mediterranee al Bertolucci più
raccolto de Le formiche, dal Pasolini
dei Madrigali a Dio al Sereni del
“Madrigale a Nefertiti”, attraversando
a più riprese Montale (dagli Ossi di
seppia ai Mottetti, dai “Madrigali fiorentini” della Bufera all’umile, malinconica musicalità di certi Xenia : “Ho
sceso, dandoti il braccio, almeno un
milione di scale…”), possiamo rintracciare la nuova fortuna della sua
memoria, rifusa nei suoi due principali schemi sopra citati, e accolta nel
nuovo sistema metrico del verso libero a prescindere dai periodici ritorni
ai valori o addirittura ai ‘plusvalori’
della tradizione (e bene ha fatto Gabriella Sica a tentare una rapida incursione, certamente da approfondire, in Scrivere in versi. Metrica e poesia, Il Saggiatore, Milano 2003, n. ed.,
pp. 124-134). Fatto di una leggerezza
e (sia lecito prendere in prestito da
Zygmunt Bauman) di una ‘liquidità’
intesa come infermità formale nel sistema letterario del Cinquecento, il
madrigale riesce forse a indicare inediti sentieri all’interpretazione della
poesia contemporanea.
Il madrigale piace perché è moderno, ed è moderno perché ha poche
‘certezze’: distico finale a rima baciata, alternanza di versi lunghi e brevi
(cioè endecasillabi e settenari: vale
per il modello cinque-secentesco), e
lunghezza generalmente inferiore ai
quattordici versi. Piace inoltre perché
è ‘democratico’: nasce, sì, in ambiente colto, con l’intenzione però di risultare, grazie alla sua semplicità, accessibile a qualunque lettore che,
nell’ideale élite alfabetizzata della società cinquecentesca, abbia voglia di
cimentarsi con la scrittura poetica. E
la semplicità consiste nel selezionare
e rastremare il linguaggio lirico petrarchesco, diventando (osservava
già Carducci) “un idillio lavorato a
piccole immagini, tanto più netto e
vivace, quanto più circoscritto lo spazio entro il quale si girava e più semplice il contorno”.
D’altra parte, non è vero che sia più
facile tenere in equilibrio una forma
breve come il madrigale che una forma lunga come la canzone. Ogni distrazione è fatale. Una parola di troppo, una rima banale, un periodo frettoloso compromette senza rimedio il
madrigale, che perciò deve mirare al
più alto livello di compiutezza espressiva, nella misura ovviamente consentita alla sua brevità. Qui, infatti, è
anche il limite del madrigale. Di che
cosa può parlare una poesia di una
decina di versi? Certamente non di
imprese eroiche. Piuttosto, di dilemmi sentimentali, impressioni paesaggistiche, riflessioni epigrammatiche,
scherzi onomastici, complimenti galanti, invettive, preghiere, dediche,
ecc. E si sa che una forma breve guadagna in intensità e profondità quel
che perde in estensione. Intensità e
profondità dipendono dalla diversa
personalità dei poeti: Tasso, Guarini,
Strozzi il Vecchio, Tansillo, Della Casa, Ariosto, la Matraini, i meno conosciuti Rinaldi e Leoni, e così via, non
esclusi i numerosi ‘dilettanti’ (quella
moltitudine poetante sempre esistita
nella storia della letteratura, e che al-
lora accedeva al madrigale, come al
sonetto, anche in cerca di una visibilità sociale), senza dimenticare la
straordinaria esperienza di Michelangelo (che per la sua drammatica carica introspettiva richiederebbe un discorso a parte), ognuno dimostra una
sua cifra espressiva, al riparo tanto da
rigide generalizzazioni storiografiche, quanto da classificazioni stilistiche che finiscono spesso per isterilire la lettura.
E tuttavia dalla rosa di autori qui selezionati emerge un canone da tramandare e, naturalmente, da discutere, a partire da quei nove poeti che
(forse a somiglianza della corona dei
lirici greci) Carlo Fiamma individuò,
spingendo il suo sguardo tra Cinque
e Seicento, nella più celebre antologia del madrigale dell’epoca (Gareggiamento poetico, Venezia 1611): sono “il dottissimo Tasso, il purissimo
Casoni, il vivace Guerini, il concettuoso Rinaldi, il numeroso Leoni, il
dolce Marini, il leggiadrissimo Petracci, il grazioso e facile Murtola,
l’armonioso Chiabrera”. Nomi non
‘inventati’, come si suol dire (a parte
il Petracci, fragile rimatore ma abile
organizzatore): spiccano però gli assenti Michelangelo e Strozzi senior.
Del primo non fu nota l’opera poetica fino all’edizione del pronipote,
che la emendò a proprio arbitrio, del
1623; del secondo esisteva solo la
parziale, anche se significativa, raccolta postuma fiorentina, del 1593.
Due voci fuori dal coro che i posteri,
quattro secoli dopo, hanno riportato
al centro della scena.
Non so quanto la collocazione geografica abbia pesato sulla marginalità, ormai vendicata, di un poeta intenso come Strozzi: certamente il suo
stile ha un che di severamente appartato e drammatico che negli altri – chi
“dottissimo”, chi “purissimo”, e così
via – si stenta a immaginare. Sensualità e discrezione percorrono, in misura analoga, “‘T’amo, mia vita, la
mia cara vita’” del Guarini e “L’Arno,
il bell’Arno già, ma nudo campo” dello Strozzi: la differenza è nel timbro.
Varcata la compassata retorica dell’incipit, ascoltiamo infatti il respiro
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“T’amo, mia vita, la mia cara vita” / Madrigali del Cinquecento
mobile ed elastico del verso; puntia- Tocca al lettore moderno identificarmo lo sguardo sulle volubili tensioni ne i segnali e distinguere, nella contidelle strofe, contese fra endecasillabi nuità del percorso, i dislivelli e gli
e settenari; avvertiamo la nota in- scarti.
confondibile di una cadenza ora più
Perciò ho ritenuto opportuno diaccesa ora più languida.
sporre i testi in un ordine cronologiComunque, il madrigale ‘d’autore’ co che tenga conto sia della loro data
(cioè di quei poeti che ne praticarono di pubblicazione e, quando è stato
con fede e consapevolezza la scrittu- possibile, di composizione, sia delra: penso innanzitutto a Michelangelo, Tasso, Strozzi, Guarini, Rinaldi) mostra un passo più sicuro di
quello compiuto
dai tanti che si avvicinarono tangenzialmente al madrigale. Ogni nuova lettura comparata di madrigali,
semplicemente
istruita su un tema
che attraversa e
circoscrive testi
lontani negli anni,
accerta la capacità
del genere ad adattare le costanti formali e i tratti appaSopra, madrigale autografo di Michelangelo Buorentemente immo- narroti, in Michelangelo: poesia e scultura, a cura
bili del suo piccolo di J. Katz Nelson, note di M. Residori, Electa 2003.
mondo alla sensi- A destra, Torquato Tasso, madrigale autografo 351,
bilità del poeta. tratto dal Codice Falconieri (Bergamo, A. Mai).
l’età degli autori. È evidente l’evoluzione di un gusto e quindi di uno stile proprio del madrigale, all’interno,
ça va sans dire, della poesia del secolo: turbamenti di una malinconia
impalpabile, tenui e scherzose fantasie, paesaggi delicatamente tratteggiati con impressionistica levità, sfumano lentamente in una sensualità
più aspra e sottile,
in una malinconia
sempre più cupa.
Inquieto anche
nella sua letterarietà, lo scenario
madrigalesco perde, infine, quell’originario desiderio
di idillica ingenuità
(una fantasiosa etimologia lo faceva
discendere da un
canto di pastori di
mandrie: mandrialis) a favore di una
leggerezza più ironica, persino autoironica, e sostenuta,
che prelude a un
addio improvviso
ma, nella memoria
della poesia italiana, non definitivo.
Studi sul madrigale cinquecentesco: U.
Schulz-Buschhaus, Das Madrigal. Zur Stilgeschichte der italienischen Lyrik zwischen Renaissance und Barock, Bad Homburg v. d.
H.-Berlin-Zurich, Gehlen 1969; M. Ariani,
G.B. Strozzi, il Manierismo e il Madrigale del
’500: strutture ideologiche e strutture formali, in G.B. Strozzi il Vecchio, Madrigali inediti, Urbino, Argalia 1975, pp. VII-CLXV; A.
Martini, Ritratto del madrigale poetico fra
Cinque e Seicento, “Lettere italiane”, XXXII,
1981, pp. 529-548; A. Daniele, Teoria e prassi del madrigale libero nel Cinquecento (con
alcune note sui madrigali musicati da Andrea Gabrieli), in Andrea Gabrieli e il suo
tempo (1585-1985), Atti Convegno Internazionale (Venezia, 16-18 settembre 1985), a
cura di F. Degrada, Firenze, Olschki 1987,
pp. 75-169; S. Ritrovato, Forme e stili del madrigale cinquecentesco, in “Studi e problemi
di critica testuale”, 62, aprile 2001, pp. 131154; S. Ritrovato, Antologie e canoni del madrigale cinquecentesco, in “Studi e problemi
di critica testuale”, 69, ottobre 2004.
ficiosi madrigali, fatti per la signora Ippolita Benigni sua moglie, Venezia 1604; C. Matraini, Rime e lettere, a cura di G. Rabitti, Bologna 1989; A. Pocaterra, Dui Dialoghi della vergogna, con alcune prose e rime, Reggio 1607; Rime di diversi celebri poeti dell’età nostra nuovamente raccolte e poste in
luce, Bergamo 1587; Rime di diversi elevati
ingegni de la città di Udine raccolte da Giacomo Bratteolo, Udine 1597; Rime di quei
della Notte, Bologna 1631; C. Rinaldi, De’
madrigali, prima e seconda parte, Bologna
1588; C. Rinaldi, Delle rime, parte terza, Bologna 1590; C. Rinaldi, Rime, parte quinta,
Bologna 1594; C. Rinaldi, Rime, parte sesta,
Bologna 1598; C. Rinaldi, Canzoniere, Bologna 1601; C. Rinaldi, Lettere , Venezia
1617; G.B. Strozzi il Vecchio, Madrigali, Firenze 1593; G.B. Strozzi il Vecchio, Madrigali inediti , a cura di M. Ariani, Urbino
1975; T. Tasso, Le rime, a cura di A. Solerti,
4 voll., Bologna 1898-1902 (nuova edizione
a cura di B. Basile, Roma 1994).
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Edizioni dei testi antologizzati: L. Ariosto, Lirica, a cura di G. Fatini, Bari 1924; B.
Baldi, Il lauro. Scherzo giovanile , Pavia
1600; L. Battiferri, Il primo libro delle opere
toscane, a cura di E.M. Guidi, Urbino 2000;
De le rime di diversi nobili poeti toscani di
Dionigi Atanagi, Venezia 1565; I fiori delle
rime de’ poeti illustri nuovamente raccolti et
ordinati da Girolamo Ruscelli , Venezia
1558; Gioie poetiche di madrigali del sig. Ieronimo Casone e d’altri celebri poeti de’ nostri tempi, raccolte dal sig. Gherardo Borgogni, Pavia 1593; L. Groto, Delle rime, nuovamente ristampate e corrette , Venezia
1587; B. Guarini, Opere, a cura di M. Guglielminetti, Torino 1971; G. Guidiccioni - F.
Coppetta Beccuti, Rime, a cura di E. Chiòrboli, Bari 1912; Libro quarto delle rime di diversi eccellentiss. autori nella lingua volgare. Novamente raccolte, Bologna 1551; G.B.
Leoni, Madrigali, Venezia 1601; Lirici del
Cinquecento, a cura di L. Baldacci, Milano
1975; Michelangelo, Rime, a cura di E.N. Girardi, Bari 1960; M. Manfredi, Cento arti-
Salvatore Ritrovato
“T’amo, mia vita, la mia cara vita” / Madrigali del Cinquecento
LUDOVICO ARIOSTO (1474-1533)
Quel foco, ch’io pensai che fuss’estinto
dal tempo, da gli affanni ed il star lunge,
signor, pur arde, e cosa tal v’aggiunge,
ch’altro non sono ormai che fiamma ed esca.
La vaga fera mia che pur m’infresca
le care antiche piaghe,
acciò mai non s’appaghe
l’alma del pianto che pur or comincio,
errando lungo il Mincio
più che mai bella e cruda oggi m’apparve,
ed in un punto, ond’io ne muoia, sparve.
Ché con la morte appresso
perdo ’l presente, e l’avvenir m’è tolto;
e d’un leggiadro volto
ardo e spero sanar, che morto viva
negli anni ove la vita non arriva.
S
ì come per levar, donna, si pone
in pietra alpestra e dura
una viva figura,
che là più cresce u’ più la pietra scema;
tal alcun’opre buone,
per l’alma che pur trema,
cela il superchio della propria carne
co’ l’inculta sua cruda e dura scorza.
Tu pur dalle mie streme
parti puo’ sol levarne,
ch’in me non è di me voler né forza.
MICHELANGELO BUONARROTI (1475-1564)
C
Come può esser ch’io non sia più mio?
O Dio, o Dio, o Dio,
chi m’ha tolto a me stesso,
c’a me fusse più presso
o più di me potessi che poss’io?
O Dio, o Dio, o Dio,
come mi passa el core
chi non par che mi tocchi?
Che cosa è questo, Amore,
c’al core entra per gli occhi,
per poco spazio dentro par che cresca?
E s’avvien che trabocchi?
M
entre c’al tempo la mie vita fugge,
amor più mi distrugge,
né mi perdona un’ora,
com’i’ credetti già dopo molt’anni.
L’alma, che trema e rugge,
com’uom c’a torto mora,
di me si duol, de’ sua etterni danni.
Fra ’l timore e gl’inganni
d’amore e morte, allor tal dubbio sento,
ch’i’ cerco in un momento
del me’ di loro, e di poi il peggio piglio;
sì dal mal uso è vinto il buon consiglio.
P
asso inanzi a me stesso
con alto e buon concetto,
ostei pur si delibra,
indomit’ e selvaggia,
ch’i’ arda, mora e caggia
a quel c’a peso non sie pure un’oncia;
e ’l sangue a libra a libra
mi svena, e sfibra e ’l corpo all’alma sconcia.
La si gode e racconcia
nel suo fidato specchio,
ove sé vede equale al paradiso;
po’, volta a me, mi concia
sì, c’oltr’all’esser vecchio,
in quel col mie fo più bello il suo viso,
ond’io vie più deriso
son d’esser brutto; e pur m’è gran ventura,
s’i’ vinco, a farla bella, la natura.
C
ome portato ho già più tempo in seno
l’immagin, donna, del tuo volto impressa,
or che morte s’appressa,
con previlegio Amor ne stampi l’alma,
che del carcer terreno
felice sie ’l dipor suo grieve salma.
Per procella o per calma
con tal segno sicura
sie come croce contro a’ suoi avversari;
e donde in ciel ti rubò la natura,
ritorni, norma agli angeli alti e chiari,
c’a rinnovar s’impari
là sù pel mondo un spirto in carne involto,
che dopo te gli resti il tuo bel volto.
e ’l tempo gli prometto
ch’aver non deggio. O pensier vano e stolto!
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“T’amo, mia vita, la mia cara vita” / Madrigali del Cinquecento
P
erché l’età ne ’nvola
il desir cieco e sordo,
con la morte m’accordo,
stanco e vicino all’ultima parola.
L’alma che teme e cola
quel che l’occhio non vede,
come da cosa perigliosa e vaga,
dal tuo bel volto, donna, m’allontana.
Amor, c’al ver non cede,
di nuovo il cor m’appaga
di foco e speme; e non già cosa umana
mi par, mi dice, amar…
O
r d’un fier ghiaccio, or d’un ardente foco,
or d’anni o guai, or di vergogna armato,
l’avvenir nel passato
specchio con trista e dolorosa speme;
e ’l ben, per durar poco,
sento non men che ’l mal m’affligge e preme.
Alla buona, alla rie fortuna insieme,
di me già stanche, ognor chieggio perdono:
e veggio ben che della vita sono
ventura e grazia l’ore brieve e corte,
se la miseria medica la morte.
vi mostraste in un punto, onde di speme
e di timor m’empiete,
e tanti effetti dolci, acerbi e fieri
nel cor arso per voi vengono insieme
ad ogn’or che volete;
or poi che voi mia vita e morte sète,
occhi felici, occhi beati e cari
siate sempre sereni, allegri e chiari.
PIETRO BARIGNANO (fine sec. XV-1540/50)
Morte m’ha sciolto, ahi lasso,
da l’amoroso nodo, e i lumi ha spento,
che mi scorgeano al cielo,
ond’or la strada palpitando imparo,
et ov’ella è, che sotto un breve sasso
lassat’ha in un momento
le mie lunghe speranze e ’l suo bel velo.
Né mi fu ’l viver caro,
poich’ella mi mostrò nel dipartire,
che dolce vita a tempo era il morire.
D
ebile è il legno carco e disarmato,
oscuro pien di scogli e tempestoso
MATTEO BANDELLO (1485-1561)
Occhi che più bramate,
occhi, di que’ begli occhi il dolce giro,
s’i’ mi sento morir quando lo miro?
Non v’accorgete come l’arso core
misero piange, sempre
che vi specchiate in que’ superbi rai?
Cangiasi l’alma d’una in mille tempre,
e di se stessa fore
va vaneggiando con tormenti e guai,
onde con duri lai
scoprir volendo l’aspro mio martiro,
invece di parlar sempre sospiro.
il mar, dove gioioso
lieto e contento fui già del mio stato:
aspra fortuna or mi conduce ’n parte
dove la lucida e benigna stella
piú non vedrò, ch’era mia fida scorta.
O quante volte da mortal procella
senz’altra calamita, lumi o carte
mi trassi in porto a via sicura e corta.
Ma la speranza mia non è ancor morta,
che un certo lume par che mi accompagni,
e dica: “A che ti lagni?
Io da lei son che ti sostegno, ingrato”.
GIOVANNI GUIDICCIONI (1500-1541)
VERONICA GAMBARA (1485-1550)
Occhi lucenti e belli
come esser può che in un medesmo instante
nascan da voi sì nove forme e sante?
Lieti, mesti, superbi, umili, alteri
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Il bianco e dolce cigno
cantando muore, ed io
piagnendo giungo al fin del viver mio.
Strana e diversa sorte:
ch’ei muore sconsolato,
ed io moro beato!
“T’amo, mia vita, la mia cara vita” / Madrigali del Cinquecento
Dolce e soave morte,
a me vie più gradita
ch’ogni gioiosa vita!
Morte, che nel morire
m’empi di gioia tutto e di desire,
per te son sì felice,
ch’io moro e nasco a par de la fenice.
GIOVANNI DELLA CASA (1503-1556)
Stolto mio core ove sì lieto vai?
Al mio cibo soave.
Ma tosto a me piangendo tornerai.
Già no mi è il pianger grave.
Dunque di duol ti pasci?
Altr’esca Amor non have.
Che sia dunque il digiun, se ’l cibo è guai?
O falso empio Signore
che l’aspro tuo dolore
di gioia, e di piacer circondi e pasci,
e lacrimoso cresci, e lieto nasci.
GIOVAN BATTISTA STROZZI IL VECCHIO
(1505-1571)
Gelido suo ruscel chiaro e tranquillo
m’insegnò Amor di state a mezzo ’l giorno;
ardean le selve, ardean le piagge e i colli.
Ond’io, ch’al più gran gielo ardo e sfavillo,
subito corsi, ma sì puro adorno
girsene il vidi, che turbar no ’l volli;
sol mi specchiava, e ’n dolce ombrosa sponda
mi stava intento al mormorar dell’onda.
D
al Ciel cadeo gentil candida
di grembo scorsa alla rosata aurora;
ROSA
e quasi un fugitivo raggio vago
d’Arno appigliossi in chiara riva ombrosa:
d’Arno, che sì bel fior non vide ancora.
Lasso io, che sol d’odor l’anima appago,
la man subito stesi: ella sparìo
mille spine lasciando nel cor mio.
I
GIOVAN BATTISTA GIRALDI CINZIO
(1504-1573)
Qualunque uom spera forse esser contento
in questa vita breve,
ferma la speme sua sul vago vento,
perché come al sol neve
ogni nostro piacer qui si distrugge,
e ratto se ne fugge,
più d’ogni cosa lieve.
E chi a mirare è intento
con occhio puro il nostro stato, vede
che poco ne tien fede
il mondo in cosa alcuna,
e che ciò ch’è tra noi sotto la luna
ad ogni arbitrio suo volve e rivolve
la fallace fortuna,
non men che Borea la minuta polve.
n volando per l’aere il mio cor lieve
come augellin fu colto
a bel filo d’or teso infra la neve
all’aria del bel volto:
videlo empio fanciullo, e così involto
quasi scherzando il prese,
e ’n quelle fiamme accese
de’ begli occhi avventollo; ond’ei pur arse,
e fumo, ed ombra via subito sparse.
D
olcissimo RIPOSO,
della Notte figliuol, del sogno padre,
che ’nvisibile spieghi per l’ombroso
aer quelle penn’ adre,
ecco il cieco silenzio, eccone a squadre
le mute ombre notturne al tuo soggiorno;
deh per quest’occhi omai
ché non fai nel mio cor fosco ritorno?
nel mio cor sì, che mai non vide giorno.
R
iposata lunghissima, che mai
non ti risvegli, nostra ultima sera,
deh vienne, odine omai;
ch’una sol volta io pera,
non mille e mille, come a questa fera
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“T’amo, mia vita, la mia cara vita” / Madrigali del Cinquecento
piace, che ’l mondo chiama
vita, che sì ’l mondo ama; oh mondo cieco,
stanco io son, né d’errar bramo più teco.
T
orna,
purpureo, e quante luci,
quanti fior, quante erbette,
MAGGIO
e quante aurette ha costassù, n’adduci:
a te solo il Ciel dette
di poter qui ritrarre il Paradiso;
a te solo, e al bel viso,
ove, se mai per sole o ghiaccio perdi,
tu sempre ti rinfiori e ti rinverdi.
In occasione di una grande siccità
e conseguente magra dell’Arno
L’Arno, il bell’Arno già, ma nudo campo
or d’arena cocente,
ch’ amarissimamente
io di più dure ognor lagrime stampo,
umile e ’nchino al solar carro ardente
pur si rivolge e lagrimar vorria.
Ma dove son le stille? Acerba e ria
sete gli ha ’l seno asciutto
e secco, anzi arso tutto.
C
andide nubi il sol tutte di rose
sparse nel suo sparire;
così già mi dipinse il mio desire
bianche guance amorose,
poi né del sol men ratto si nascose
entro nel core; ond’io
le mie lagrime accolsi, e più non dissi:
solo ben piansi e scrissi
(né sì forte, aspro e rio)
in questa scorza, e ’n quella il dolor mio.
Sscurissima
parito il sol de le mie luci: o sera
infelice,
che svelta da radice
tutta la mia purpurea primavera,
di sì fosc’ombra nera
non pur l’anima imbruni,
ma tanti in sen m’aduni, in sen mi chiudi
abissi, e inferni dispietati e crudi.
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E
ran le guance, di ch’io piango e scrivo,
due freschissime rose;
e due stelle amorose
gli occhi; il crine un sottil lucid’or vivo,
e sorgea fuor de’ bei rubini un rivo
d’ambrosia: or tutto in polve (ond’io pur ploro)
è ’l mio sommo tesoro.
T
orna il dì lungo, torna
a sì gran passi il breve;
e torna la stagion carica e greve
di pomi, e l’altra di fior mille adorna;
riedene chi n’aggiorna e chi n’assera:
sol la mia stella altera,
il mio Sol che languir sempre mi vede,
da’ bei colli del Cielo ancor non riede.
Ldelle’onda
lascia, e gli scogli
sempre atre nebulose rive,
e qui meco t’accogli,
o Filli, in questi poggi e ’n queste olive,
dove l’alma si vive,
sì riposata e lieta,
che tal non si consola e non s’aqueta
afflitto pellegrino
là ver la sera al fin di suo cammino.
O
mbra io seguo di sempre fuggitivo
dolce ch’io non gustai,
né scorsi mai per questo ombroso rivo
di lagrime e di guai,
che non vengon se non per morte manco;
e son già stanco e vinto; né per questo
m’arrendo, né m’arresto.
A
ltre più dolci riposate olive
il mio stanco pensiero
mostrami, ed altre rive
più fresche, ed ombre al fin del mio sentiero;
ond’io seco al ciel pur levomi, e spero
di ritrovarmi in braccio
al mio santo riposo; ivi né ghiaccio
né sol mai l’erbe ancide;
ma il bel verde novello eterno ride.
“T’amo, mia vita, la mia cara vita” / Madrigali del Cinquecento
F
ermate, Ore, fermate;
a che tal batter d’ali? Io veggio il lido
o porto, o porto fido
di Posa, e sparse intorno alme beate,
ch’or sì dolce cantate,
e rendete a colui di mia salvezza
grazie, ch’altro non prezza
che trarne al Cielo; e basta a tanto volo,
e basta a tanta grazia un sospir solo.
vinto da voi nel bel sereno cielo,
porsi di nubi, innanzi agli occhi, un velo.
Che, dunque, dir potrei?
Incolpat’a voi stessi il fallir mio,
se non ritrovo il come:
ché la troppo beltà vi toglie il nome.
CHIARA MATRAINI (1514-1597)
R
isi, e piansi d’Amor; né però mai
se non in fiamma, o ’n onda, o ’n vento scrissi:
spesso mercé trovai
crudel; sempre in me morto, in altri vissi:
or da’ più scuri Abissi al Ciel m’alzai,
or ne pur caddi giuso;
stanco al fin qui son chiuso.
Zefiro spira e tremolar d’intorno
fa sopra le fiorite e verdi sponde
i fior, l’erbe e le fronde
d’ogni bel chiaro e limpido ruscello,
e sopra ogn’arboscello, ogn’augelletto
di questo in quel boschetto
lieto sen va cantando d’ogni intorno.
Il ciel vago ed adorno
d’insolito splendore oggi si mostra,
e con lieto soggiorno
di fior l’erbe e le piante ingemma e inostra.
FRANCESCO BECCUTI DETTO IL COPPETTA
(1509-1553)
“Voi, caduchi ligustri,
col vivace amaranto
e la volubil Clizia e ’l molle acanto,
e voi, tra’ fiori illustri,
Narciso, Aiace, Adon, Croco e Iacinto,
e la purpurea rosa e ’l bianco giglio
e di perso e di giallo e di vermiglio
ogni cespo dipinto
s’inchini a questa sola
amorosetta e candida viola”.
Così ragiona il re de’ fiumi, ed io,
lungi così bel fior, piango e disio.
LUIGI TANSILLO (1510-1568)
Occhi leggiadri e belli,
occhi, non occhi. E che? Non so che dire.
Ancor che da la terra io prenda ardire
poggiare al ciel, che fo? S’i’ dico, stelle
mento, ché non fu mai, né fian, sì belle.
S’io l’agguagliassi al sol, nulla direi;
perché l’ho pur vist’io con gli occhi miei,
V
enut’era ’l mio Sole al mio languire,
più che mai bello in sonno a consolarme,
e, vinto da pietà del mio martìre,
mi dicea con parole
rare nel mondo o sole:
“Perché sì mesta in fra sospiri e pianto
tutta la verde etade,
senz’aver mai di voi stessa pietade,
vi consumate tanto?
Deh, prendete di mia gioia conforto,
ch’io son vivo e non morto;
volgete il pianto in amoroso riso!”.
E appressandomi il viso,
mi diè fra dui rubin due fresche rose,
non mai nell’odorifer orïente
viste più belle o in terren paradiso,
la cui sì bella vista
e ’l disusato odore
tornâr subito al core
la smarrit’alma sconsolata e trista:
cose ch’a pena in Ciel veder si ponno.
Deh, perché non fu eterno un sì bel sonno?
21
“T’amo, mia vita, la mia cara vita” / Madrigali del Cinquecento
REMIGIO NANNINI (1518?-1580 ca)
MUZIO MANFREDI (1535-1607)
Quanto di me più fortunate sete,
onde felici e chiare
che correndone al mare
la ninfa vedrete;
quanto beate poi
queste lagrime son ch’io verso in voi,
che trovandola scalza, ove ella siede,
le baceran cosí correndo il piede.
O piangess’io almen tanto
ch’io mi cangiassi in pianto,
ch’io pure riveder con voi vorrei
quella bella cagion de’ pianti miei.
Ippolita, che fai?
Ercole qui non è, non ci è Teseo,
ma un roco e mesto Orfeo,
che de la tua beltà sol pensa e canta,
ma d’arrivare al ver già non si vanta.
Per me non so se gloriosa andrai,
che ’l mio canto non è ma un tragger guai.
Dunque, deh pon giù l’arme,
che contra te non vo’ né posso aitarme;
e se pur vuoi sfogar l’ira e ’l furore,
recidi il capo: è già trafitto il core.
V
irbia, di là dal monte
ier si disser di te cose stupende.
LAURA BATTIFERRI (1523-1589)
Temprato aer sereno,
che sì tranquilla infondi e lunga vita;
vago, dolce e soave colle ameno,
ov’Amor l’alme a poetare invita;
e tu, verde e fiorita
piaggia, che vedi ogn’ora
l’alto Pastor che i toschi lidi onora,
felici erbette e voi,
ch’ascoltate i leggiadri accenti suoi:
ahi quante volte il giorno
a voi col pensier torno!
Dicean, fra l’altre, che quel chiaro fonte
ove tu ti bagnasti,
prese virtù che chi l’appressa accende
d’amorosi pensier, di desir casti.
Dicean ch’ove ballasti
nati eran fiori in tanta copia e tali
che saranno immortali.
Dicean ch’ove cantasti
al suon de la tua cetra,
vi risponde ancor Eco infin de l’etra.
Disser molt’altre cose in lor favella,
ma non sepper mai dir quanto sei bella.
BATTISTA GUARINI (1538-1612)
GASPARA STAMPA (1523-1554)
Il cor verrebbe teco
nel tuo partir, signore,
s’egli fosse più meco,
poi che con gli occhi tuoi mi prese Amore.
Dunque verranno teco i sospir miei,
che sol mi son restati
fidi compagni e grati,
e le voci e gli omei;
e se vedi mancarti la lor scorta,
pensa ch’io sarò morta.
22
Felicità d’usignuolo
Dolcissimo usignuolo,
tu chiami la tua cara compagnia
cantando “Vieni, vieni, anima mia”.
A me canto non vale,
e non ho come tu da volar ale.
O felice augelletto,
come nel tuo diletto
ti ricompensa ben l’alma natura:
se ti negò saver, ti diè ventura.
“T’amo, mia vita, la mia cara vita” / Madrigali del Cinquecento
Cangiati sguardi
Recidiva d’amore
Occhi, un tempo mia vita,
occhi, di questo cor dolci sostegni,
voi mi negate aita?
Questi son ben della mia morte i segni.
Non più speme o conforto,
tempo è sol di morire; a che più tardo?
Occhi, ch’a sì gran torto
morir mi fate, a che torcete il guardo?
Forse per non mirar come v’adoro?
Mirate almen ch’io moro.
E così, a poco a poco,
torno farfalla semplicetta al foco,
e nel fallace sguardo
un’altra volta mi nudrico e ardo.
Ahi che piaga d’amore
quanto si cura più tanto men sana!
Ch’ogni fatica è vana,
quando fu punto un giovinetto core
dal primo e dolce strale.
Chi spegne antico incendio, il fa immortale.
Parola di donna amante
Umana fragilità
“T’amo, mia vita”, la mia cara vita
dolcemente mi dice; e ’n questa sola
sì soave parola
par che trasformi lietamente il core,
per farmene signore.
O voce di dolcezza e di diletto!
Prendila tosto Amore,
stampala nel mio petto,
spiri solo per lei l’anima mia.
“T’amo, mia vita”, la mia vita sia.
Questa vita mortale,
che par sì bella, è quasi piuma al vento
che la porta e la perde in un momento;
e s’ella pur con temerari giri
talor s’avanza e sale,
e librata su l’ale
pender da sé ne l’aria anco la miri,
è sol perché di sua natura è leve.
Ma poco dura, e ’n breve,
dopo mille rivolte e mille strade,
perch’ella è pur di terra, a terra cade.
Di partenza restia
Parto o non parto? Ahi come
resto, se parte la corporea salma?
O come parto, se qui resta l’alma?
E se ne l’alma è vita,
come non moro, se di lei son privo?
O come moro, s’a la pena i’ vivo?
Ahi fiera dipartita!
Come m’insegna la mia dura sorte
che ’l partir degli amanti è viva morte.
Foco di sdegno
LUIGI GROTO (1541-1585)
Dirò (se dir mi lece)
il prezioso vino che a me porto
fu in casa vostra a ber, lasso, m’ha morto.
Ma se ’l vino quest’opra in me non fece,
tornerò a dir (né cangerò parere)
colei m’ha morto, che mel diede a bere.
La bella mano, in loco
di darmi vino a ber mi diede foco,
che ratto al cor mi scese,
spens’una e un’altra maggior sete accese.
Ardo sì, ma non t’amo,
perfida e dispietata,
indegnamente amata
da sì leale amante.
Più non sarà che del mio duol ti vante,
ch’i’ ho già sano il core;
e s’ardo, ardo di sdegno e non d’amore.
23
“T’amo, mia vita, la mia cara vita” / Madrigali del Cinquecento
GIROLAMO CASONI (metà sec. XVI-ante 1593)
Descrive l’apparir de l’aurora
e de la sua donna
Amante desia esser ombra
Ecco mormorar l’onde
e tremolar le fronde
a l’aura mattutina e gli arboscelli,
e sovra i verdi rami i vaghi augelli
cantar soavemente
e rider l’orïente;
ecco già l’alba appare
e si specchia nel mare,
e rasserena il cielo
e le campagne imperla il dolce gelo,
e gli alti monti indora.
O bella e vaga Aurora,
l’aura è tua messaggera, e tu de l’aura
ch’ogni arso cor ristaura.
Quell’ombra esser vorrei,
che ’l dì vi segue leggiadretta e bella
che s’or son servo, i’ sarei vostr’ancella.
E quando parte il sole,
m’asconderei sotto i leggiadri panni.
Lasso, ben ne gl’affanni
ombra ignuda d’uom vivo Amor mi fai,
ma non mi giungi a la mia donna mai.
TORQUATO TASSO (1544-1595)
Paragona il canto di Laura a’ dolcissimi
suoni fatti naturalmente e dimostra gli
effetti de la sua meravigliosa armonia.
Non fonte o fiume od aura
odo in più dolce suon di quel di Laura;
né ’n lauro o ’n pino o ’n mirto
mormorar s’udì mai più dolce spirto.
O felice a cui spira,
e quel beato che per lei sospira!
Ché se gl’inspira il core,
puote al cielo aspirar col suo valore.
Parla con l’Aure e con l’Ore, pregando
l’une che si fermino, l’altre che portino
i suoi lamenti a la sua donna.
Ore, fermate il volo
nel lucido orïente,
mentre se ’n vola il ciel rapidamente;
e carolando intorno
a l’alba mattutina
ch’esce da la marina,
l’umana vita ritardate e ’l giorno.
E voi, Aure veloci,
portate i miei sospiri
là dove Laura spiri,
e riportate a me sue chiare voci,
sì che l’ascolti io solo,
sol voi presenti e ’l signor nostro Amore,
Aure soavi ed Ore.
Fa comparazione de la signora Laura a l’aura.
Messaggera de l’alba
è quest’aura terrena,
e torbida talor, talor serena:
Laura mia par celeste,
così bella io la veggio
dopo l’aurora in fresco e verde seggio:
di fior l’una riveste
il dilettoso aprile,
l’altra fiorir fa l’amoroso stile.
24
S
ecco è l’arbor gentile
che mai le fronde e ’l verde
o per gelo o per fulmine non perde.
O mutata è la legge
de la natura, o ’l sole
men può di quel che suole;
e sol le stelle Amore e ’l mondo regge,
e col piombo e con l’oro
miracoli rinova,
e fa vendetta nova
d’antico oltraggio ne l’amato alloro.
Ma se nel lieto aprile
rinverdir al mio crin non dee corona,
secchesi anco Permesso in Elicona.
“T’amo, mia vita, la mia cara vita” / Madrigali del Cinquecento
Q
ual rugiada o qual pianto
quai lagrime eran quelle
che sparger vidi dal notturno manto
e dal candido volto de le stelle?
E perché seminò la bianca luna
di cristalline stelle un puro nembo
a l’erba fresca in grembo?
Perché ne l’aria bruna
s’udìan, quasi dolendo, intorno intorno
gir l’aure insino al giorno?
Fur segni forse de la tua partita,
vita de la mia vita?
T
acciono i boschi e i fiumi,
e ’l mar senza onda giace,
ne le spelonche i venti han tregua e pace,
e ne la notte bruna
alto silenzio fa la bianca luna;
e noi tegnamo ascose
le dolcezze amorose.
Amor non parli o spiri,
sien muti i baci e muti i miei sospiri.
U
n’ape esser vorrei,
donna bella e crudele,
che susurrando in voi suggesse il mèle;
e, non potendo il cor, potesse almeno
pungervi il bianco seno,
e ’n sì dolce ferita
vendicata lasciar la propria vita.
In morte della signora Flaminia […]
ad istanza del signor Giulio Mosti
O vaga tortorella,
tu la tua compagnia
ed io piango colei che non fu mia.
Misera vedovella,
tu sovra il nudo ramo,
a piè del secco tronco io la richiamo;
ma l’aura solo e ’l vento
risponde mormorando al mio lamento.
GIOVAN BATTISTA LEONI (1542?-1613?)
Scusa di amorosa incontinenza
nelle presenti rime
Quella cieca d’amor fiamma vorace
che m’arse il core, e traviò la mente,
ecco che non ancora estinta giace,
anzi nel gelo altrui fassi più ardente;
e da contrari affetti
agitata sovente
del mio folle sperar rende maggiori,
e più dolci gli ardori;
muse voi, che i pensier, l’opere, i detti
reggeste un tempo e gli amorosi errori,
se guidaste l’ardire
publicate il pentire,
poiché di questo mio vano desio
la colpa è vostra, e il pentirsi è mio.
Coscienza amorosa
Dove il liquido argento
d’un vago ruscelletto
discorrendo facea tra l’erba e i sassi
co ’l garrir de gli augei dolce concento,
mentre Fillide mia dormendo stassi,
e sicura e contenta si riposa,
Amor lo sai tu, che vedi ogni cosa,
un bacio ne furai.
Ora se allor peccai,
e che ’l furto mi faccia contumace,
io vorrei con tua pace
confessarle il delitto, e al suo bel volto
restituire il tolto.
Parole, pensieri, e versi inutili
Tanto so d’esser vivo,
quanto di voi ragiono, penso o scrivo;
ma non ponno aiutarmi
pensier, parole, o carmi,
sì ch’io non pera nel cospetto vostro,
e non divenga in me cieca la mente,
muta la lingua, inutile l’inchiostro.
Così vivo lontan, moro presente
tormento inaudito,
et in me sete voi fine infinito
di speranze, di pianto e di querele,
spirto omicida, anima mia crudele.
25
“T’amo, mia vita, la mia cara vita” / Madrigali del Cinquecento
Penna temprata da bella donna
È la penna ministra de la lingua,
e la lingua del core;
ma l’una e l’altra attendono da voi
del loro proprio poter l’uso migliore.
Se mi temprate l’una, perché sia
co’ caratteri suoi
atta ad espor quel che la lingua vuole;
temprate ancora questa lingua mia,
sì ch’io esprima o produca le parole
conformi a quel concetto,
che voi cor mio dettate in questo petto:
e se spietata man ferisce l’una
l’altra ferisca ancor bocca importuna,
perch’ad ambi saran vita e soccorsi,
all’una le ferite, a l’altra i morsi.
ANNIBALE POCATERRA (1559-1593)
Lamento di bella donna, a cui si ruppe
lo specchio
Chi fia più, che mi mostra il mio bel viso,
poiché destin crudele
ti fa rotto cader specchio fedele?
Bella donna così dicea piangendo,
e poi sospesa alquanto
cominciò raddoppiando a gli occhi il pianto.
Ahi, che troppo t’intendo.
Meglio mi mostri tu rotto, che intiero,
di mia bellezza il vero.
Or veggio in te la mia beltà mortale,
com’eri tu, lucida sì, ma frale.
CESARE RINALDI (1559-1636)
Stringimi, vita mia,
mentre ti stringo anch’io, e dolcemente
scherza al mio scherzo, e baciami sovente,
mesci note amorose
fra i dolcissimi baci,
e facciam dolci guerre e dolci paci;
vibrin le lingue ascose
fra le labra serpendo, e coi sospiri
il tuo cor, il mio cor morendo spiri;
26
spiri sì, ma rinasca, e vita e morte
dolce il piacer n’apporte,
e acciò resti infinito
sia tu Salmace, ed io sia Ermafrodito.
A
tra è la notte e l’ali
porta; notte son io
oscura, e l’ali porta il desir mio.
Umida cieca e fredda
è quella; umido rende
me il pianto amaro che da gli occhi scende,
cieco senza il mio sole, e mi raffredda
un gelato timore
che si dilata per le vene al core,
ond’in notte converso ogn’or mi sfaccio
volo e non veggo, irrigo e sempre agghiaccio.
N
on mi dier già spavento
del silvoso Apennin mille ruine,
or d’una sì pavento
che non oso tentar mezo né fine.
Quivi non duri sassi
fan del periglio fede,
ma Amor ch’armato stassi
al varco; e s’alcun poggia in un istante
l’uccide ascoso, e l’uccisor non vede
il peregrino errante.
Questa è dunque d’amor rupe mortale:
mille salir vorrian, nissun vi sale.
I
naspettata giunse
la bell’amata a l’Oro, e nol sapesti.
Felice s’eri allor presente; avresti
tu, fra delizie tante,
lei forse resa di nemica amante,
or dolci acque spruzzando
nel leggiadro suo viso,
or con vago sorriso
vari fior, vari frutti a lei donando.
Che sai? Fra l’acque certo, e i doni e ’l riso
spento in virtù d’Amore
avria lo sdegno, e a te donato il core.
O
r ch’è giunto il partire
è giunto anch’il morire.
Meco verrà la salma,
resterà teco l’alma.
Dirà il corpo: “I’ vo mesto”.
“T’amo, mia vita, la mia cara vita” / Madrigali del Cinquecento
Dirà il cor: “Lieto i’ resto”.
Talché di te, di core, e d’alma privo
morrò partendo, e partirò non vivo.
C
hiudi de l’atra Notte o queto figlio
queste mie luci al sonno,
che l’apre il pianto e se n’è fatto donno.
Quella infusa tua verga in Lete sia,
che soave mi tocchi:
leverà l’uno, e darà l’altro a gli occhi.
Deh che ’l fa Clori mia,
se con le labra tocca, e pria ne l’onde
d’Amor la verga de i coralli infonde.
C
he vid’io? che sognai?
Vidi candida mano
darmi giunta a la mia di fede il segno.
Anch’io fede giurai,
ma infida essa vegg’or colma di sdegno.
Deh, che fu il sogno vano,
ch’uscì l’ingannator per farmi scorno
da la porta d’avorio, e non di corno!
V
aga mi siede in grembo
Lidia cantando, e saporoso intanto
da le mie labbra un nembo
stilla di baci ed interrompe il canto.
Gioie in amor veraci,
essa alterna le voci, io alterno i baci;
e mentre i’ bacio e dolci ella distingue
note d’amor vivaci,
è diverso il pensier d’ambe le lingue.
Troncasi il bacio e ’l canto, e ’n un s’unisce,
e l’orecchia e la bocca in un gioisce.
O
r che gioiscon l’erbe
anco il mio cor gioisce
e lieto canta ogn’ora
benignissimo april che ’l crin m’infiora,
dolci voglie ed acerbe
nobil pensier condisce
e ’n verdeggiante ramo
dolcemente risuona “i’ t’amo, i’ t’amo”;
ben t’amo, o bianca Aurora,
e senza amor, che ’l pregio a morte invola,
la vita è mobil aura, e corre, e vola.
Cane invidiato
Quel vezzoso animal, ch’a te sì lieto
or corre ed or s’arretra,
scherzi e lusinghe a suo’ bei scherzi impetra.
Ma che? Quel dir “mia vita”,
quel baciar dolce, e quelle dolci note
son morti baci a lui, son voci ignote.
Deh vieni ove t’invita,
a le mie labbra Amor, deh vieni omai,
tanto ti renderò quanto mi dài.
E se pur tua vaghezza
colà ti stringe e sprezza il mio tormento,
dimmi, baciando un can, non baci il vento?
Vana imaginazion d’amante
Amor sovra un bel rio
mi scorge, e mentr’io pur mi specchio e tremo,
dic’ei: “Tu se’ a l’estremo”.
“Ben a l’estremo sei”, par che risponda
l’imagin mia ne l’onda,
e mi ramenta quel ch’i’ non oblio.
Ma che, temer vogl’io?
No, chi m’apre il mio mal? Chi sen duol meco?
Ne l’acque un muto, e fuor de l’acque un cieco.
Lucciole intorno alla carrozza di bellissima
donna nel mese di novembre
Non è il novembre la stagion de’ fiori,
mute farfalle erranti,
dispensiere di luce,
ch’a nobil carro avanti
tessete in cieca notte aurei splendori.
Non è il novembre la stagion de’ fiori,
lucciolette vaganti,
pompe del lieto aprile, e chi v’induce
a intempestivi errori?
Hanvi forse ingannate
di due guance rosate i bei colori?
Non è il novembre la stagion de’ fiori.
F
ar penitenza del commesso errore,
trarsi dal core ogni pensiero immondo,
ricco d’amor, di fede,
correr il mondo, e non gradire il mondo,
questo è un farsi nel ciel del cielo erede:
27
“T’amo, mia vita, la mia cara vita” / Madrigali del Cinquecento
BERNARDINO BALDI (1553-1616)
misero chi si crede
in questo de la terra ermo confine
coglier le rose e non calcar le spine.
A’ madrigali
FERDINANDO MONTEGNACO (1571-1603)
N
O
V
IT
À
N
O
V
IT
À
L’ombra, mentre s’estende,
segue il real suo oggetto,
ovunque il piè lo scorge, o lungi, o presso:
et io faccio l’istesso
con voi, segno perfetto
e centro del mio core,
fatto linea amorosa, ombra d’Amore.
Poverelle mie rime,
se v’abbattete dove
alto suonò il gran Tosco,
siavi rifugio il bosco;
peroché lo splendor che da lui move,
ogni luce minor cela e opprime,
come le stelle imbruna
il bianco ardor de la rotonda luna.
Clara Janés
Lucio Mariani
ARCANGELO
D’OMBRA
IL SANDALO
DI EMPEDOCLE
A cura di Annelisa Addolorato
E 13,50
28
E 12,50