Il perturbante in Frankenstein

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Il perturbante in Frankenstein
Anno accademico 2013-2014
Poetiche del sublime nella letteratura inglese
Prof. Giuseppe Massara
Il perturbante in Frankenstein
Marianna Bruni
matricola 1212657
Nella lettura di Frankenstein, di Mary Shelley, è facile ritrovare la maggior parte
dei temi e degli stilemi del romanzo gotico: dallo scenario del castello in cui si
verificano sovrannaturali apparizioni, alla tenebrosa immagine del villain: l‘eroe
del male condannato ad errare perpetuamente sulla terra; dalla persecuzioni di
soavi fanciulle (prima Justine, poi Elisabeth, ma anche Agatha e l‘araba Safie),
alle lunghe descrizioni di una natura sublime, segno della paura e del senso di
colpa nei confronti dell‘ordine divino e naturale che accompagnano l‘uomo
borghese nel suo viaggio di autoaffermazione individuale.
Ma la modernità dell‘opera è data da quel particolare effetto angoscioso che
Freud definisce e canonizza come perturbante nell‘omonimo saggio Das
Unheimliche, edito nel 1919, a distanza di un secolo dalla pubblicazione di
Frankenstein.
Il senso del perturbante, nell‘opera della Shelley, è strettamente correlato alla
realtà empirica 1 : scaturisce sempre da un‘immagine, da ciò che è visibile
all‘occhio umano, dalla vivida descrizione del corpo e degli elementi fisici.
Il sentimento del perturbante si manifesta, per la prima volta, attraverso l‘occhio
spaventato di Frankenstein, che, ormai libero dal proprio genio e dalla propria
furia creatrice, inorridisce alla vista della creatura:
I saw the dull yellow eye of the creature open; […]
His limbs were in proportion, and I had selected his features as beautiful.
Beautiful! Great God! His yellow skin scarcely covered the work of muscles
and arteries beneath; his hair was of a lustrous black, and flowing; his teeth
of a pearly whiteness; but these luxuriances only formed a more horrid
contrast with his watery eyes, that seemed almost of the same colour as
the dun-white sockets in which they were set, his shrivelled complexion and
straight black lips. […]
Unable to endure the aspect of the being I had created, I rushed out of the
room […]
1
Non é un caso che, sin dall‘inizio della narrazione, la scrittrice, attraverso le parole del
capitano Walton, si preoccupi di predisporre il lettore ad un ascolto il più possibile reale e
veritiero, al di là dell‘argomento e dell‘ambientazione meravigliosi: «Prepare to hear of
occurrences which are usually deemed marvellous. Were we among the tamer scenes of
nature I might fear to encounter your unbelief, perhaps your ridicule; but many things will
appear possible in these wild and mysterious regions which would provoke the laughter of
those unacquainted with the ever-varied powers of nature; nor can I doubt but that my tale
conveys in its series internal evidence of the truth of the events of which it is composed».
(MARY SHELLEY, Frankenstein, Feedbooks EPUB edition, pp. 34-35).
~1~
Oh! No mortal could support the horror of that countenance.2
Sono gli aspetti esteriori a determinare il passaggio dalla bellezza alla
deformità: sono quella pelle gialla, gli occhi e i denti bianchi in forte contrasto
con capelli e labbra neri, dal sapore così straniero, esotico e coloniale, che
risvegliano nello scienziato la paura ancestrale nei confronti di ciò che è altro,
ignoto, diverso. E, dopo questa prima, non ci sono, nel testo, altre immagini che
descrivano le caratteristiche fisiche della creatura. La scrittrice si concentra,
piuttosto, sugli effetti che la visione del mostro provoca. Il secondo incontro, tra
creatore e creatura, è emblematico a tal proposito, perché chiarisce l‘origine del
perturbante:
As I said this I suddenly beheld the figure of a man, at some distance,
advancing towards me with superhuman speed. […]
His stature, also, as he approached, seemed to exceed that of man. I was
troubled; a mist came over my eyes, and I felt a faintness seize me, […]
I perceived, as the shape came nearer (sight tremendous and abhorred!)
that it was the wretch whom I had created.I trembled with rage and horror,
[…]
He approached; his countenance bespoke bitter anguish, combined with
disdain and malignity, while its unearthly ugliness rendered it almost too
horrible for human eyes.3
La statura e la velocità sovrumane alle quali si avvicina la creatura generano, in
Frankenstein, una confusione mentale e un indebolimento fisico. Provocano,
cioè, un effetto sublime, di stordimento dei sensi, seguito, successivamente, dal
già noto orrore scaturito dalla deformità. In queste poche righe, Mary Shelley
sembra unire i concetti di sublime e perturbante, così come poi teorizzati
rispettivamente da Burke4 e Freud.
Burke fa del terrore il principio dominante di ciò che è sublime. Egli attribuisce al
terrore una forma di piacere, non ‗positiva‘ (pleasure), ma ‗negativa‘, definita
come ―diletto‖ (delight), e legata alla distanza tra soggetto terrorizzato e oggetto
2
3
4
Ivi, cap. 5, pp. 90,91,93
Ivi, cap. 10, pp. 172-173
Nel suo A philosophical enquiry into the origin our ideas of the sublime and beautiful del
1757.
~2~
terrorizzante.
Il
sublime
terrorizza
perché
rappresenta
una
minaccia
all‘autoconservazione dell‘individuo, ma, al tempo stesso, diletta, se il pericolo è
posto a una certa distanza e quindi percepito come non imminente.
Frankenstein, per un attimo, è in grado di provare quel delight sublime di cui
parla Burke. Ma la creatura si avvicina troppo velocemente, annullando la
distanza di sicurezza, così da scaraventarlo velocemente nell‘angoscia di un
perturbante che rappresenta, di nuovo, una forte minaccia alla sopravvivenza
stessa del soggetto. Il mostro, infatti, «da assicurazione di continuazione della
vita»5, scopo per il quale é nato, «diventa perturbante presagio di morte»6. La
creatura, originariamente, è il frutto della genialità e dello splendore
dell‘intelletto, rappresenta il superamento della paura e dell‘ impotenza
dell‘uomo davanti all‘ineluttabilità della morte. Ma la sua valenza positiva, la sua
funzione protettrice si perde nel momento stesso in cui viene generata e si fa
corpo, elemento concreto. Nel passaggio da forza ideale e immaginativa a
oggetto sensibile della realtà empirica, la creatura perde la sua natura vitale e si
trasforma nel suo contrario, in forza distruttrice.
C‘è qui l‘apice del perturbante freudiano, da intendersi (con un piccolo debito a
Schelling) come il ritorno di qualcosa di familiare che è stato rimosso, come la
manifestazione di paure infantili, legate allo sviluppo di un Io narcisistico, che
riaffiorano o che non sono mai andate via del tutto. Ma il perturbante, in Freud
come in Mary Shelley, non si risolve tutto nel binomio vita-morte. Esso si
declina attraverso molteplici aspetti, quali il tema del doppio, la magia, la
predestinazione, la coazione a ripetere, l‘«onnipotenza dei pensieri 7 ». E di
nuovo, nella costruzione di questi altri effetti perturbanti, la scrittrice pone
l‘immagine reale come elemento rivelatore. È questo un aspetto consolidato al
punto tale che, a metà romanzo, persino la creatura è oramai consapevole
dell‘effetto spaventoso che la propria visione suscita: «I had sagacity enough to
discover that the unnatural hideousness of my person was the chief object of
5
6
7
SIGMUND FREUD, Il perturbante, a cura di C.L.Musatti, Roma, Theoria, 1993, p. 637
Ivi, p. 637
Ivi, p. 643
~3~
horror with those who had formerly beheld me»8. Così, con astuzia, decide di
rivelarsi al vecchio e cieco De Lacey per tentare un nuovo tipo di incontro e
avvicinamento all‘altro, all‘uomo, basato sulla parola, sul risveglio del pathos
attraverso il logos. Ma l‘inganno non riesce, e anche questo tentativo di trovare
amore, affetto o simpatia si rivela vano e fallimentare.
De Lacey rappresenta, seppure in misura ridotta, il doppio di Frankenstein
perché é simbolo ed espressione di tutti quegli aspetti della figura paterna di cui
la creatura sente la mancanza: è un padre mite e accogliente, un creatore
gentile, buono e amorevole, pronto a sacrificare ricchezza, status sociale, nome
e reputazione per la felicità dei figli. Insomma è una figura completamente
positiva, in cui è anche possibile un certo grado di identificazione,
immedesimazione ed empatia (da parte del mostro), perché anche lui è afflitto
da un disturbo fisico, ossia dalla cecità9.
In più, questo primo, fallimentare, ‗esperimento‘ di relazione paterna anticipa
l‘esito del colloquio tra la creatura e Frankenstein; ne è la prefigurazione. La
narrazione del mostro comincia, infatti, all‘insegna di un tentato occultamento
del campo visivo, a favore della parola:
[È ancora Frankenstein a parlare] «Thus I relieve thee, my creator», he
said, and placed his hated hands before my eyes, which I flung from me
with violence; «thus I take from thee a sight which you abhor. Still thou
canst listen to me and grant me thy compassion».10
Ma, nonostante più volte nel corso del racconto le parole del mostro riescano a
suscitare pietà, tale sentimento non può essere che momentaneo:
[Il narratore è sempre Frankenstein] His words had a strange effect upon
me. I compassionated him and sometimes felt a wish to console him, but
when I looked upon him, when I saw the filthy mass that moved and talked,
8
9
10
MARY SHELLEY, Frankenstein, Feedbooks EPUB edition, cap. 15, pp. 241
Anche questo elemento, contiene in sé un che di perturbante, determinato dal complesso di
castrazione, esemplificato da Freud, nel proprio saggio, attraverso il racconto L’uomo della
sabbia, di E.T.A. Hoffman (al quale è anche affidato lo sdoppiamento in figura paterna buona
e cattiva).
Ivi, cap. 10, p. 177
~4~
my heart sickened and my feelings were altered to those of horror and
hatred.11
In questa scena, sono presenti, insieme, le tematiche perturbanti della
predestinazione e del ritorno dell‘uguale.
La spaventosa visione di un corpo così innaturale riporta Frankenstein alla
realtà e la creatura all‘emarginazione a alla solitudine, al perpetrarsi
dell‘abbandono; insomma a una sconfitta che non ha niente a che vedere con
l‘indole e il temperamento, quanto piuttosto con un destino tragico, edipico, cui il
mostro è condannato per il solo fatto di essere tale, di esistere.
Ma allora, perché è così importante quest‘elemento fisico e visivo nel
perturbante di Mary Shelley? La risposta è data dalla filosofa e psicanalista
Rosi Braidotti nel libro Madri mostri e macchine, in cui scrive:
I mostri sono esseri umani nati con malformazioni congenite dell‘organismo
corporeo. Essi rappresentano anche l‘intermedio, l‘ibrido, l‘ambivalente,
come si evince dall‘antica radice greca della parola mostri: teras, che
significa allo stesso tempo orribile e meraviglioso, oggetto di aberrazione e
adorazione. […] La filosofia naturalista aveva avuto delle difficoltà ad
affrontare questi oggetti di abiezione. La costituzione della teratologia come
scienza ci offre un esempio paradigmatico dei modi in cui la razionalità
scientifica ha trattato le differenze di tipo corporeo. Il discorso sui mostri
come oggetto di studi evidenzia una questione che ritengo di grande
importanza: lo statuto della differenza all‘interno del pensiero razionale. Il
mostro è l‘incarnazione della differenza dalla norma dell‘umano-base: è un
deviante, un a-normale, un‘anomalia, è abnorme12.
L‘immagine deforme della creatura é portatrice di perturbante perché reca in sé
una problematicità implicita, una dimensione moderna, dialettica e conflittuale,
di ricerca e analisi dell‘Io.
Il mostro si inserisce, così, in virtù del proprio statuto, all‘interno del discorso
scientifico e lo fa in qualità di strumento di accrescimento cognitivo e indagine
ontologica.
11
12
Ivi, cap. 17, p. 271
ROSI BRAIDOTTI, Madri mostri e macchine, trad. it e cura Anna Maria Crispino, Manifesto
libri, 1996, p.20
~5~
Anche lo specchio, in quanto oggetto di conoscenza del sé e dell‘altro, é uno
strumento del perturbante freudiano. La superficie riflettente reca un potere del
rimosso fortemente evocativo e simbolico perché raffigurazione fisica del
raddoppiamento, della divisione o dello scambio dell‘Io.
La creatura – o almeno la sua parte autentica, gentile e buona – si specchia
nell‘acqua che rimanda la propria immagine, e, come un moderno Narciso,
subisce lo stesso destino di morte.13
I had admired the perfect forms of my cottagers—their grace, beauty, and
delicate complexions; but how was I terrified when I viewed myself in a
transparent pool! At first I started back, unable to believe that it was indeed
I who was reflected in the mirror; and when I became fully convinced that I
was in reality the monster that I am, I was filled with the bitterest sensations
of despondence and mortification. Alas! I did not yet entirely know the fatal
effects of this miserable deformity.14
Inizialmente, il mostro, come Narciso, esita, non riconosce come tale la propria
immagine. Poi arriva alla verità, alla consapevolezza, ma invece di innamorarsi
del proprio riflesso, come nel mito, accade esattamente l‘opposto: passa
velocemente dal rapimento estatico, da un sentimento di stupore e meraviglia,
allo spavento e all‘orrore. Anche dopo l‘avvenuto riconoscimento, infatti, la
creatura continua a provare un senso di angosciosa confusione determinato
dalla scissione del proprio essere, dal fatto che il proprio riflesso non coincide
effettivamente con il proprio Io. La bruttezza esteriore non corrisponde a quella
interiore. Almeno inizialmente, infatti, la creatura è un campionario di virtù: è
amabile, gentile, di indole buona, si prodiga per gli altri (aiuta la famiglia De
13
14
La storia di Eco e di Narciso viene raccontata da Ovidio nel terzo libro delle Metamorfosi (vv.
339-510). Narciso é un ragazzo bellissimo, figlio di Cefiso e della ninfa Liriope. Alla sua
nascita, l‘indovino Tiresia predice lunga vita solo a patto che non conosca sé stesso. In virtù
della propria bellezza, in molti si innamorano di lui. Tra questi, la ninfa Eco, che, non
venendo ricambiata, muore consumata dal dolore. L‘incapacità di amare di Narciso viene
punita dalla dea Nemesi che lo induce, durante una battuta di caccia nel bosco, a sedersi
sull‘orlo di una fonte per dissetarsi. Narciso vede la propria immagine riflessa, non la
riconosce come propria e si innamora di sé. Inizialmente non si riconosce, poi, dopo essersi
contemplato a lungo, raggiunge la verità, la consapevolezza e con essa, la morte. Distrutto
dall‘amore per quello che ora sa essere sé stesso, il giovane si lascia morire trasformandosi
in un bellissimo fiore giallo.
Ivi, cap. 12, pp. 203-204
~6~
Lacey, subito dopo aver scoperto che cosa sono la povertà, la fatica e la
sofferenza), è persino vegetariana. Successivamente, comincia a vedersi
attraverso lo specchio e lo sguardo altrui, a perdere il senso di sé, della propria
identità, a ‗morire‘ in senso figurato per rinascere così come l‘altro –in primis il
proprio creatore – la immagina e percepisce. In questo, si completa il parallelo
con Narciso, il cui destino di morte è fatalmente segnato dalla dea Nemesi
quanto dal proprio riflesso ingannatore, portatore di morte e autodistruzione.
L‘immagine dello specchio, dunque, è particolarmente perturbante perché
genera una confusione cognitiva: l‘essere non si riconosce, anzi, c‘è una forte
frattura ontologica determinata dalla visione contraddittoria di un Io che è, al
tempo stesso, sé e Altro da sè.
Avviene, qui, ciò che il filosofo e psicanalista francese Jaques Lacan, nel 1936,
ha teorizzato come stadio dello specchio. Tra i sei e gli otto mesi, quando è
ancora un infante, il bambino, davanti allo specchio e in braccio alla madre,
recepisce la propria immagine riflessa come quella di un altro individuo, come
un elemento della realtà esterna, qualcosa di lontano e completamente avulso
dal proprio Io. Ma, nel momento in cui incrocia lo sguardo della madre nello
specchio, l‘immagine gli si rivela come propria e avviene il riconoscimento.
Senza lo sguardo della madre, non ci sarebbe l‘identificazione dell‘ Io.
In Frankenstein, la visione della sua stessa deformità ha, per la creatura, la
stessa funzione ‗rivelatrice‘ che, nello stadio dello specchio, ha lo sguardo della
madre. A proposito della propria mostruosità, infatti, la creatura rivela:
I cherished hope, it is true, but it vanished when I beheld my person
reflected in water or my shadow in the moonshine, even as that frail image
and that inconstant shade.15
L‘ombra è un ulteriore elemento, ma ha la stessa funzione dello specchio.
Anch‘essa rimanda, come lo specchio, un‘immagine speculare utile a dare, al
mostro, la consapevolezza di una deviazione dalla norma che è sintomo di
malvagità, riportando così alla presenza dello sguardo dell‘Altro nel proprio sé,
al mutamento. L‘ombra è la testimonianza visibile della scissione dell‘Io. Più la
15
Ivi, cap. 15, p. 239
~7~
creatura si vede, si scopre, attraverso lo sguardo altrui, più perde il senso del
proprio Io e diventa ciò che l‘Altro riconosce e si aspetta. Non è un caso che la
creatura ritrovi, nella foresta di Ingolsadt, il diario di Frankenstein, in cui vi è una
descrizione particolareggiata che sottolinea tutto il disgusto e l‘orrore dello
scienziato nei confronti della propria creazione. La scrittura privata è da sempre
un grande strumento di indagine introspettiva: si ricorre ad essa per far
comprendere meglio i processi all‘interno della coscienza individuale. Inoltre, la
forma diaristica è la più indicata a favorire l‘identificazione diretta tra autore e
lettore; in questo caso, quindi, tra Frankenstein e il mostro.
Sotto gli effetti della paura, del dolore, del rifiuto, della devianza e della follia
implicite e sottese alla propria natura, la creatura sente la sua identità
dissolversi, sfibrarsi, annullarsi. Così, infine, la creatura assume l‘immagine
dell‘universo che la circonda e diventa mostro.
Allo stesso modo dello specchio, anche la finestra possiede una valenza
evocativa e perturbante, fortemente legata al mutamento d‘indole della
creatura, ma qui il discorso si amplia. La finestra, infatti, gode di una doppia
natura: se da una parte è una superficie riflettente, dall‘altra è un elemento
architettonico. Rappresenta, quindi, un‘evoluzione del concetto simbolico di
specchio, perché, se da un lato (in quanto superficie riflettente) non fa che
integrare quell‘aspetto di indagine ontologica demandata allo specchio, dall‘altro
(in quanto elemento architettonico) si pone come barriera separatrice, come
confine reale e ideale tra l‘umano e il sovrumano – quest‘ultimo da intendersi
più come un sovrumano dionisiaco, demoniaco, dannato, che prettamente
sublime:
I trembled and my heart failed within me, when, on looking up, I saw by the
light of the moon the daemon at the casement. A ghastly grin wrinkled his
lips as he gazed on me, where I sat fulfilling the task which he had allotted
to me.16
Non è un caso che la finestra compaia nella parte conclusiva della narrazione,
che è quella più oscura di tutto il romanzo perché contiene il più elevato e
16
Ivi, cap. 20, p. 309
~8~
ravvicinato numero di morti. In un rapido climax ascendente, si passa dalla
morte di William (ancora nella parte centrale dell‘opera) a quella della
governante Justine, del caro amico d‘infanzia Clerval, fino a raggiungere l‘apice
con la più tragica e sentita, ossia quella di Elisabeth (e, di conseguenza, per
crepacuore, del padre):
While I still hung over her in the agony of despair, I happened to look up.
The windows of theroom had before been darkened, and I felt a kind of
panic on seeing the pale yellow light of the moon illuminate the chamber.
The shutters had been thrown back, and with a sensation of horror not to
be described, I saw at the open window a figure the most hideous and
abhorred.17
La finestra, perlopiù aperta, si configura, dunque, come il segnale rivelatore del
passaggio del mostro-demone. In qualità di elemento architettonico, essa non è
solo una barriera separatrice tra due realtà diverse, opposte e inconciliabili, ma
rappresenta anche un varco, il punto di convergenza e comunicazione tra due
mondi: quello apollineo di Frankenstein e quello dionisiaco della creatura. Si
viene così a creare una dialettica spaziale tra il dentro e il fuori che è l‘emblema
di tante altre (normale-anormale; vita-morte; Io-Altro; scienza-religione) e che
altro non è che rappresentazione visiva del tema del doppio.
La critica ha spesso letto la creatura come il doppio di Frankenstein, e per di più
non come
l‘incarnazione delle passioni, dell‘aspetto irrazionale, ma come
rappresentazione dell‘intelletto dello scienziato e, in un quadro più generale,
come immagine potenziata della ragione umana. Il mostro, infatti, nasce da
quella scintilla di vita che è il genio creativo di Frankenstein, la sua prima
reazione al mondo esterno, che passa attraverso i sensi (vista e udito) é di
totale stordimento e confusione: non distingue i colori, non sopporta la luce, gli
odori, i rumori:
A strange multiplicity of sensations seized me, and I saw, felt, heard, and
smelt at the same time; […]
By degrees, I remember, a stronger light pressed upon my nerves, so that I
was obliged to shut my eyes. […]
17
Ivi, cap. 23, pp. 368-369
~9~
I felt light, and hunger, and thirst, and darkness; innumerable sounds rang
in my ears, and on all sides various scents saluted me.18
Anche Frankenstein, dopo la creazione, sembra diverso: è spaventato, in balia
completa delle proprie passioni, al punto da cadere in uno stato di confusione e
delirio febbrile tipicamente romantico. Se prima era risoluto e deciso, ora lo
scienziato è diventato vittima di sé stesso, non fa che indugiare, evitare di agire
al punto da rimanere impotente persino davanti alle continue minacce di
vendetta del mostro. Quella forza vitale, quell‘ardore creativo dal quale era
pervaso mentre seguiva il proprio progetto lo ha abbandonato. Dice di sè,
rivolto a Walton:
My imagination was vivid, yet my powers of analysis and application were
intense; […]
I trod heaven in my thoughts, now exulting in my powers, now burning with
the idea of their effects. […]
Oh! My friend, if you had known me as I once was, you would not recognize
me in this state of degradation.19
Ma, nonostante tutti questi aspetti antitetici, rimane difficile credere a una
separazione netta tra la creatura e Frankenstein, tra razionale e irrazionale,
ragione e pulsione, intelletto ed emozione, così come viene rappresentata,
invece, ne Lo strano caso del Dr. Jekyll e Mr. Hide di R. L. Stevenson.
In realtà, per una lettura di questo tipo, mancano proprio i presupposti storici e
teorici. L‘era della Regina Vittoria, che porta con sé una forte ambivalenza
legata al trionfo del perbenismo borghese e dell‘apparenza dietro la quale si
può nascondere ogni tipo di nefandezza, non è ancora sorta. E inoltre, per
quanto diversa e innovativa sia, l‘opera di Mary Shelley ancora risente del
canone gotico, in cui l‘intreccio è fondamentale e l‘aspetto narrativo risulta
ancora predominante rispetto alla caratterizzazione dei personaggi.
La costruzione psicologica di Frankenstein e del mostro é piuttosto debole, non
c‘è conflitto. Anche il legame tra i due é determinato molto dal plot (prima é la
18
19
Ivi, cap. 11, pp. 180,182)
Ivi, cap. 24, p. 399
~ 10 ~
creatura a inseguire lo scienziato, poi i ruoli si invertono), dal tema
dell‘inseguimento e della quest che rientra pienamente nel canone della
letteratura gotica.
Al femminile, il doppio si basa sulla coazione a ripetere e sulla predestinazione.
La donna amata da Frankenstein, Elisabeth, è in realtà il doppio della madre
Caroline. Il loro legame è fortissimo, si fonda sulla condivisione dello stesso
destino, sia nella vita, che nella morte. Entrambe diventano orfane in tenera età
ma vengono accolte dal loro futuro marito; entrambe sono donne belle, amabili
e caritatevoli che si prodigano per la comunità e accudiscono i malati. Quando
Elisabeth viene colpita dalla scarlattina, Caroline si rifiuta di starle lontana,
sceglie invece di accudirla fino al contagio, segnando così la propria fine e
prendendo il posto di Elisabeth nella morte.
Ma il parallelo diventa ancora più forte nell‘incubo che Frankenstein ha la notte
successiva alla creazione. In sogno, l‘immagine di Caroline coincide fino al
punto da sostituirsi con quella figlia:
I thought I saw Elizabeth, in the bloom of health, walking in the streets of
Ingolstadt. Delighted and surprised, I embraced her, but as I imprinted the
first kiss on her lips, they became livid with the hue of death; her features
appeared to change, and I thought that I held the corpse of my dead
mother in my arms; a shroud enveloped her form, and I saw the graveworms crawling in the folds of the flannel. I started from my sleep with
horror; a cold dew covered my forehead, my teeth chattered, and every
limb became convulsed.20
Appare chiaro come la visione non faccia che preannunciare il destino di morte
di Elisabeth attraverso il suo doppio.
In Frankenstein, dunque, il tema del doppio è determinato da tratti fisici,
psichici, eventi e situazioni che ritornano sempre uguali, e va letto proprio in
funzione del perturbante freudiano. Un perturbante che, nell‘opera di Mary
Shelley, scaturisce dalle immagini e ha un carattere prettamente visivo.
20
Ivi, cap. 5, p. 369
~ 11 ~
BIBLIOGRAFIA
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Manifesto libri, 1996
BURKE EDMUND, Inchiesta sul bello e il sublime, a cura di Giuseppe Sertoli e
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FIEDLER LESLIE, Romanzo nero, terrore e senso di colpa, in Amore e morte nel
romanzo americano, trad. it, Longanesi, Milano 1963 (ed. originale 1960), (pp. 141143)
FREUD SIGMUND, Il perturbante, a cura di C. L. Musatti, Roma, Theoria, 1993, p. 637
HAUSER ARNOLD, Storia sociale dell’arte, trad. it, Einaudi, Torino, 1955 (pp. 216-222)
OVIDIO PUBLIO NASONE, Metamorfosi, Einaudi, Torino, 2011
PRAZ MARIO, Storia della letteratura inglese, Einaudi, Torino, 1996
SHELLEY MARY, Frankenstein, Feedbooks EPUB edition
~ 12 ~