Il perturbante in Frankenstein
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Il perturbante in Frankenstein
Anno accademico 2013-2014 Poetiche del sublime nella letteratura inglese Prof. Giuseppe Massara Il perturbante in Frankenstein Marianna Bruni matricola 1212657 Nella lettura di Frankenstein, di Mary Shelley, è facile ritrovare la maggior parte dei temi e degli stilemi del romanzo gotico: dallo scenario del castello in cui si verificano sovrannaturali apparizioni, alla tenebrosa immagine del villain: l‘eroe del male condannato ad errare perpetuamente sulla terra; dalla persecuzioni di soavi fanciulle (prima Justine, poi Elisabeth, ma anche Agatha e l‘araba Safie), alle lunghe descrizioni di una natura sublime, segno della paura e del senso di colpa nei confronti dell‘ordine divino e naturale che accompagnano l‘uomo borghese nel suo viaggio di autoaffermazione individuale. Ma la modernità dell‘opera è data da quel particolare effetto angoscioso che Freud definisce e canonizza come perturbante nell‘omonimo saggio Das Unheimliche, edito nel 1919, a distanza di un secolo dalla pubblicazione di Frankenstein. Il senso del perturbante, nell‘opera della Shelley, è strettamente correlato alla realtà empirica 1 : scaturisce sempre da un‘immagine, da ciò che è visibile all‘occhio umano, dalla vivida descrizione del corpo e degli elementi fisici. Il sentimento del perturbante si manifesta, per la prima volta, attraverso l‘occhio spaventato di Frankenstein, che, ormai libero dal proprio genio e dalla propria furia creatrice, inorridisce alla vista della creatura: I saw the dull yellow eye of the creature open; […] His limbs were in proportion, and I had selected his features as beautiful. Beautiful! Great God! His yellow skin scarcely covered the work of muscles and arteries beneath; his hair was of a lustrous black, and flowing; his teeth of a pearly whiteness; but these luxuriances only formed a more horrid contrast with his watery eyes, that seemed almost of the same colour as the dun-white sockets in which they were set, his shrivelled complexion and straight black lips. […] Unable to endure the aspect of the being I had created, I rushed out of the room […] 1 Non é un caso che, sin dall‘inizio della narrazione, la scrittrice, attraverso le parole del capitano Walton, si preoccupi di predisporre il lettore ad un ascolto il più possibile reale e veritiero, al di là dell‘argomento e dell‘ambientazione meravigliosi: «Prepare to hear of occurrences which are usually deemed marvellous. Were we among the tamer scenes of nature I might fear to encounter your unbelief, perhaps your ridicule; but many things will appear possible in these wild and mysterious regions which would provoke the laughter of those unacquainted with the ever-varied powers of nature; nor can I doubt but that my tale conveys in its series internal evidence of the truth of the events of which it is composed». (MARY SHELLEY, Frankenstein, Feedbooks EPUB edition, pp. 34-35). ~1~ Oh! No mortal could support the horror of that countenance.2 Sono gli aspetti esteriori a determinare il passaggio dalla bellezza alla deformità: sono quella pelle gialla, gli occhi e i denti bianchi in forte contrasto con capelli e labbra neri, dal sapore così straniero, esotico e coloniale, che risvegliano nello scienziato la paura ancestrale nei confronti di ciò che è altro, ignoto, diverso. E, dopo questa prima, non ci sono, nel testo, altre immagini che descrivano le caratteristiche fisiche della creatura. La scrittrice si concentra, piuttosto, sugli effetti che la visione del mostro provoca. Il secondo incontro, tra creatore e creatura, è emblematico a tal proposito, perché chiarisce l‘origine del perturbante: As I said this I suddenly beheld the figure of a man, at some distance, advancing towards me with superhuman speed. […] His stature, also, as he approached, seemed to exceed that of man. I was troubled; a mist came over my eyes, and I felt a faintness seize me, […] I perceived, as the shape came nearer (sight tremendous and abhorred!) that it was the wretch whom I had created.I trembled with rage and horror, […] He approached; his countenance bespoke bitter anguish, combined with disdain and malignity, while its unearthly ugliness rendered it almost too horrible for human eyes.3 La statura e la velocità sovrumane alle quali si avvicina la creatura generano, in Frankenstein, una confusione mentale e un indebolimento fisico. Provocano, cioè, un effetto sublime, di stordimento dei sensi, seguito, successivamente, dal già noto orrore scaturito dalla deformità. In queste poche righe, Mary Shelley sembra unire i concetti di sublime e perturbante, così come poi teorizzati rispettivamente da Burke4 e Freud. Burke fa del terrore il principio dominante di ciò che è sublime. Egli attribuisce al terrore una forma di piacere, non ‗positiva‘ (pleasure), ma ‗negativa‘, definita come ―diletto‖ (delight), e legata alla distanza tra soggetto terrorizzato e oggetto 2 3 4 Ivi, cap. 5, pp. 90,91,93 Ivi, cap. 10, pp. 172-173 Nel suo A philosophical enquiry into the origin our ideas of the sublime and beautiful del 1757. ~2~ terrorizzante. Il sublime terrorizza perché rappresenta una minaccia all‘autoconservazione dell‘individuo, ma, al tempo stesso, diletta, se il pericolo è posto a una certa distanza e quindi percepito come non imminente. Frankenstein, per un attimo, è in grado di provare quel delight sublime di cui parla Burke. Ma la creatura si avvicina troppo velocemente, annullando la distanza di sicurezza, così da scaraventarlo velocemente nell‘angoscia di un perturbante che rappresenta, di nuovo, una forte minaccia alla sopravvivenza stessa del soggetto. Il mostro, infatti, «da assicurazione di continuazione della vita»5, scopo per il quale é nato, «diventa perturbante presagio di morte»6. La creatura, originariamente, è il frutto della genialità e dello splendore dell‘intelletto, rappresenta il superamento della paura e dell‘ impotenza dell‘uomo davanti all‘ineluttabilità della morte. Ma la sua valenza positiva, la sua funzione protettrice si perde nel momento stesso in cui viene generata e si fa corpo, elemento concreto. Nel passaggio da forza ideale e immaginativa a oggetto sensibile della realtà empirica, la creatura perde la sua natura vitale e si trasforma nel suo contrario, in forza distruttrice. C‘è qui l‘apice del perturbante freudiano, da intendersi (con un piccolo debito a Schelling) come il ritorno di qualcosa di familiare che è stato rimosso, come la manifestazione di paure infantili, legate allo sviluppo di un Io narcisistico, che riaffiorano o che non sono mai andate via del tutto. Ma il perturbante, in Freud come in Mary Shelley, non si risolve tutto nel binomio vita-morte. Esso si declina attraverso molteplici aspetti, quali il tema del doppio, la magia, la predestinazione, la coazione a ripetere, l‘«onnipotenza dei pensieri 7 ». E di nuovo, nella costruzione di questi altri effetti perturbanti, la scrittrice pone l‘immagine reale come elemento rivelatore. È questo un aspetto consolidato al punto tale che, a metà romanzo, persino la creatura è oramai consapevole dell‘effetto spaventoso che la propria visione suscita: «I had sagacity enough to discover that the unnatural hideousness of my person was the chief object of 5 6 7 SIGMUND FREUD, Il perturbante, a cura di C.L.Musatti, Roma, Theoria, 1993, p. 637 Ivi, p. 637 Ivi, p. 643 ~3~ horror with those who had formerly beheld me»8. Così, con astuzia, decide di rivelarsi al vecchio e cieco De Lacey per tentare un nuovo tipo di incontro e avvicinamento all‘altro, all‘uomo, basato sulla parola, sul risveglio del pathos attraverso il logos. Ma l‘inganno non riesce, e anche questo tentativo di trovare amore, affetto o simpatia si rivela vano e fallimentare. De Lacey rappresenta, seppure in misura ridotta, il doppio di Frankenstein perché é simbolo ed espressione di tutti quegli aspetti della figura paterna di cui la creatura sente la mancanza: è un padre mite e accogliente, un creatore gentile, buono e amorevole, pronto a sacrificare ricchezza, status sociale, nome e reputazione per la felicità dei figli. Insomma è una figura completamente positiva, in cui è anche possibile un certo grado di identificazione, immedesimazione ed empatia (da parte del mostro), perché anche lui è afflitto da un disturbo fisico, ossia dalla cecità9. In più, questo primo, fallimentare, ‗esperimento‘ di relazione paterna anticipa l‘esito del colloquio tra la creatura e Frankenstein; ne è la prefigurazione. La narrazione del mostro comincia, infatti, all‘insegna di un tentato occultamento del campo visivo, a favore della parola: [È ancora Frankenstein a parlare] «Thus I relieve thee, my creator», he said, and placed his hated hands before my eyes, which I flung from me with violence; «thus I take from thee a sight which you abhor. Still thou canst listen to me and grant me thy compassion».10 Ma, nonostante più volte nel corso del racconto le parole del mostro riescano a suscitare pietà, tale sentimento non può essere che momentaneo: [Il narratore è sempre Frankenstein] His words had a strange effect upon me. I compassionated him and sometimes felt a wish to console him, but when I looked upon him, when I saw the filthy mass that moved and talked, 8 9 10 MARY SHELLEY, Frankenstein, Feedbooks EPUB edition, cap. 15, pp. 241 Anche questo elemento, contiene in sé un che di perturbante, determinato dal complesso di castrazione, esemplificato da Freud, nel proprio saggio, attraverso il racconto L’uomo della sabbia, di E.T.A. Hoffman (al quale è anche affidato lo sdoppiamento in figura paterna buona e cattiva). Ivi, cap. 10, p. 177 ~4~ my heart sickened and my feelings were altered to those of horror and hatred.11 In questa scena, sono presenti, insieme, le tematiche perturbanti della predestinazione e del ritorno dell‘uguale. La spaventosa visione di un corpo così innaturale riporta Frankenstein alla realtà e la creatura all‘emarginazione a alla solitudine, al perpetrarsi dell‘abbandono; insomma a una sconfitta che non ha niente a che vedere con l‘indole e il temperamento, quanto piuttosto con un destino tragico, edipico, cui il mostro è condannato per il solo fatto di essere tale, di esistere. Ma allora, perché è così importante quest‘elemento fisico e visivo nel perturbante di Mary Shelley? La risposta è data dalla filosofa e psicanalista Rosi Braidotti nel libro Madri mostri e macchine, in cui scrive: I mostri sono esseri umani nati con malformazioni congenite dell‘organismo corporeo. Essi rappresentano anche l‘intermedio, l‘ibrido, l‘ambivalente, come si evince dall‘antica radice greca della parola mostri: teras, che significa allo stesso tempo orribile e meraviglioso, oggetto di aberrazione e adorazione. […] La filosofia naturalista aveva avuto delle difficoltà ad affrontare questi oggetti di abiezione. La costituzione della teratologia come scienza ci offre un esempio paradigmatico dei modi in cui la razionalità scientifica ha trattato le differenze di tipo corporeo. Il discorso sui mostri come oggetto di studi evidenzia una questione che ritengo di grande importanza: lo statuto della differenza all‘interno del pensiero razionale. Il mostro è l‘incarnazione della differenza dalla norma dell‘umano-base: è un deviante, un a-normale, un‘anomalia, è abnorme12. L‘immagine deforme della creatura é portatrice di perturbante perché reca in sé una problematicità implicita, una dimensione moderna, dialettica e conflittuale, di ricerca e analisi dell‘Io. Il mostro si inserisce, così, in virtù del proprio statuto, all‘interno del discorso scientifico e lo fa in qualità di strumento di accrescimento cognitivo e indagine ontologica. 11 12 Ivi, cap. 17, p. 271 ROSI BRAIDOTTI, Madri mostri e macchine, trad. it e cura Anna Maria Crispino, Manifesto libri, 1996, p.20 ~5~ Anche lo specchio, in quanto oggetto di conoscenza del sé e dell‘altro, é uno strumento del perturbante freudiano. La superficie riflettente reca un potere del rimosso fortemente evocativo e simbolico perché raffigurazione fisica del raddoppiamento, della divisione o dello scambio dell‘Io. La creatura – o almeno la sua parte autentica, gentile e buona – si specchia nell‘acqua che rimanda la propria immagine, e, come un moderno Narciso, subisce lo stesso destino di morte.13 I had admired the perfect forms of my cottagers—their grace, beauty, and delicate complexions; but how was I terrified when I viewed myself in a transparent pool! At first I started back, unable to believe that it was indeed I who was reflected in the mirror; and when I became fully convinced that I was in reality the monster that I am, I was filled with the bitterest sensations of despondence and mortification. Alas! I did not yet entirely know the fatal effects of this miserable deformity.14 Inizialmente, il mostro, come Narciso, esita, non riconosce come tale la propria immagine. Poi arriva alla verità, alla consapevolezza, ma invece di innamorarsi del proprio riflesso, come nel mito, accade esattamente l‘opposto: passa velocemente dal rapimento estatico, da un sentimento di stupore e meraviglia, allo spavento e all‘orrore. Anche dopo l‘avvenuto riconoscimento, infatti, la creatura continua a provare un senso di angosciosa confusione determinato dalla scissione del proprio essere, dal fatto che il proprio riflesso non coincide effettivamente con il proprio Io. La bruttezza esteriore non corrisponde a quella interiore. Almeno inizialmente, infatti, la creatura è un campionario di virtù: è amabile, gentile, di indole buona, si prodiga per gli altri (aiuta la famiglia De 13 14 La storia di Eco e di Narciso viene raccontata da Ovidio nel terzo libro delle Metamorfosi (vv. 339-510). Narciso é un ragazzo bellissimo, figlio di Cefiso e della ninfa Liriope. Alla sua nascita, l‘indovino Tiresia predice lunga vita solo a patto che non conosca sé stesso. In virtù della propria bellezza, in molti si innamorano di lui. Tra questi, la ninfa Eco, che, non venendo ricambiata, muore consumata dal dolore. L‘incapacità di amare di Narciso viene punita dalla dea Nemesi che lo induce, durante una battuta di caccia nel bosco, a sedersi sull‘orlo di una fonte per dissetarsi. Narciso vede la propria immagine riflessa, non la riconosce come propria e si innamora di sé. Inizialmente non si riconosce, poi, dopo essersi contemplato a lungo, raggiunge la verità, la consapevolezza e con essa, la morte. Distrutto dall‘amore per quello che ora sa essere sé stesso, il giovane si lascia morire trasformandosi in un bellissimo fiore giallo. Ivi, cap. 12, pp. 203-204 ~6~ Lacey, subito dopo aver scoperto che cosa sono la povertà, la fatica e la sofferenza), è persino vegetariana. Successivamente, comincia a vedersi attraverso lo specchio e lo sguardo altrui, a perdere il senso di sé, della propria identità, a ‗morire‘ in senso figurato per rinascere così come l‘altro –in primis il proprio creatore – la immagina e percepisce. In questo, si completa il parallelo con Narciso, il cui destino di morte è fatalmente segnato dalla dea Nemesi quanto dal proprio riflesso ingannatore, portatore di morte e autodistruzione. L‘immagine dello specchio, dunque, è particolarmente perturbante perché genera una confusione cognitiva: l‘essere non si riconosce, anzi, c‘è una forte frattura ontologica determinata dalla visione contraddittoria di un Io che è, al tempo stesso, sé e Altro da sè. Avviene, qui, ciò che il filosofo e psicanalista francese Jaques Lacan, nel 1936, ha teorizzato come stadio dello specchio. Tra i sei e gli otto mesi, quando è ancora un infante, il bambino, davanti allo specchio e in braccio alla madre, recepisce la propria immagine riflessa come quella di un altro individuo, come un elemento della realtà esterna, qualcosa di lontano e completamente avulso dal proprio Io. Ma, nel momento in cui incrocia lo sguardo della madre nello specchio, l‘immagine gli si rivela come propria e avviene il riconoscimento. Senza lo sguardo della madre, non ci sarebbe l‘identificazione dell‘ Io. In Frankenstein, la visione della sua stessa deformità ha, per la creatura, la stessa funzione ‗rivelatrice‘ che, nello stadio dello specchio, ha lo sguardo della madre. A proposito della propria mostruosità, infatti, la creatura rivela: I cherished hope, it is true, but it vanished when I beheld my person reflected in water or my shadow in the moonshine, even as that frail image and that inconstant shade.15 L‘ombra è un ulteriore elemento, ma ha la stessa funzione dello specchio. Anch‘essa rimanda, come lo specchio, un‘immagine speculare utile a dare, al mostro, la consapevolezza di una deviazione dalla norma che è sintomo di malvagità, riportando così alla presenza dello sguardo dell‘Altro nel proprio sé, al mutamento. L‘ombra è la testimonianza visibile della scissione dell‘Io. Più la 15 Ivi, cap. 15, p. 239 ~7~ creatura si vede, si scopre, attraverso lo sguardo altrui, più perde il senso del proprio Io e diventa ciò che l‘Altro riconosce e si aspetta. Non è un caso che la creatura ritrovi, nella foresta di Ingolsadt, il diario di Frankenstein, in cui vi è una descrizione particolareggiata che sottolinea tutto il disgusto e l‘orrore dello scienziato nei confronti della propria creazione. La scrittura privata è da sempre un grande strumento di indagine introspettiva: si ricorre ad essa per far comprendere meglio i processi all‘interno della coscienza individuale. Inoltre, la forma diaristica è la più indicata a favorire l‘identificazione diretta tra autore e lettore; in questo caso, quindi, tra Frankenstein e il mostro. Sotto gli effetti della paura, del dolore, del rifiuto, della devianza e della follia implicite e sottese alla propria natura, la creatura sente la sua identità dissolversi, sfibrarsi, annullarsi. Così, infine, la creatura assume l‘immagine dell‘universo che la circonda e diventa mostro. Allo stesso modo dello specchio, anche la finestra possiede una valenza evocativa e perturbante, fortemente legata al mutamento d‘indole della creatura, ma qui il discorso si amplia. La finestra, infatti, gode di una doppia natura: se da una parte è una superficie riflettente, dall‘altra è un elemento architettonico. Rappresenta, quindi, un‘evoluzione del concetto simbolico di specchio, perché, se da un lato (in quanto superficie riflettente) non fa che integrare quell‘aspetto di indagine ontologica demandata allo specchio, dall‘altro (in quanto elemento architettonico) si pone come barriera separatrice, come confine reale e ideale tra l‘umano e il sovrumano – quest‘ultimo da intendersi più come un sovrumano dionisiaco, demoniaco, dannato, che prettamente sublime: I trembled and my heart failed within me, when, on looking up, I saw by the light of the moon the daemon at the casement. A ghastly grin wrinkled his lips as he gazed on me, where I sat fulfilling the task which he had allotted to me.16 Non è un caso che la finestra compaia nella parte conclusiva della narrazione, che è quella più oscura di tutto il romanzo perché contiene il più elevato e 16 Ivi, cap. 20, p. 309 ~8~ ravvicinato numero di morti. In un rapido climax ascendente, si passa dalla morte di William (ancora nella parte centrale dell‘opera) a quella della governante Justine, del caro amico d‘infanzia Clerval, fino a raggiungere l‘apice con la più tragica e sentita, ossia quella di Elisabeth (e, di conseguenza, per crepacuore, del padre): While I still hung over her in the agony of despair, I happened to look up. The windows of theroom had before been darkened, and I felt a kind of panic on seeing the pale yellow light of the moon illuminate the chamber. The shutters had been thrown back, and with a sensation of horror not to be described, I saw at the open window a figure the most hideous and abhorred.17 La finestra, perlopiù aperta, si configura, dunque, come il segnale rivelatore del passaggio del mostro-demone. In qualità di elemento architettonico, essa non è solo una barriera separatrice tra due realtà diverse, opposte e inconciliabili, ma rappresenta anche un varco, il punto di convergenza e comunicazione tra due mondi: quello apollineo di Frankenstein e quello dionisiaco della creatura. Si viene così a creare una dialettica spaziale tra il dentro e il fuori che è l‘emblema di tante altre (normale-anormale; vita-morte; Io-Altro; scienza-religione) e che altro non è che rappresentazione visiva del tema del doppio. La critica ha spesso letto la creatura come il doppio di Frankenstein, e per di più non come l‘incarnazione delle passioni, dell‘aspetto irrazionale, ma come rappresentazione dell‘intelletto dello scienziato e, in un quadro più generale, come immagine potenziata della ragione umana. Il mostro, infatti, nasce da quella scintilla di vita che è il genio creativo di Frankenstein, la sua prima reazione al mondo esterno, che passa attraverso i sensi (vista e udito) é di totale stordimento e confusione: non distingue i colori, non sopporta la luce, gli odori, i rumori: A strange multiplicity of sensations seized me, and I saw, felt, heard, and smelt at the same time; […] By degrees, I remember, a stronger light pressed upon my nerves, so that I was obliged to shut my eyes. […] 17 Ivi, cap. 23, pp. 368-369 ~9~ I felt light, and hunger, and thirst, and darkness; innumerable sounds rang in my ears, and on all sides various scents saluted me.18 Anche Frankenstein, dopo la creazione, sembra diverso: è spaventato, in balia completa delle proprie passioni, al punto da cadere in uno stato di confusione e delirio febbrile tipicamente romantico. Se prima era risoluto e deciso, ora lo scienziato è diventato vittima di sé stesso, non fa che indugiare, evitare di agire al punto da rimanere impotente persino davanti alle continue minacce di vendetta del mostro. Quella forza vitale, quell‘ardore creativo dal quale era pervaso mentre seguiva il proprio progetto lo ha abbandonato. Dice di sè, rivolto a Walton: My imagination was vivid, yet my powers of analysis and application were intense; […] I trod heaven in my thoughts, now exulting in my powers, now burning with the idea of their effects. […] Oh! My friend, if you had known me as I once was, you would not recognize me in this state of degradation.19 Ma, nonostante tutti questi aspetti antitetici, rimane difficile credere a una separazione netta tra la creatura e Frankenstein, tra razionale e irrazionale, ragione e pulsione, intelletto ed emozione, così come viene rappresentata, invece, ne Lo strano caso del Dr. Jekyll e Mr. Hide di R. L. Stevenson. In realtà, per una lettura di questo tipo, mancano proprio i presupposti storici e teorici. L‘era della Regina Vittoria, che porta con sé una forte ambivalenza legata al trionfo del perbenismo borghese e dell‘apparenza dietro la quale si può nascondere ogni tipo di nefandezza, non è ancora sorta. E inoltre, per quanto diversa e innovativa sia, l‘opera di Mary Shelley ancora risente del canone gotico, in cui l‘intreccio è fondamentale e l‘aspetto narrativo risulta ancora predominante rispetto alla caratterizzazione dei personaggi. La costruzione psicologica di Frankenstein e del mostro é piuttosto debole, non c‘è conflitto. Anche il legame tra i due é determinato molto dal plot (prima é la 18 19 Ivi, cap. 11, pp. 180,182) Ivi, cap. 24, p. 399 ~ 10 ~ creatura a inseguire lo scienziato, poi i ruoli si invertono), dal tema dell‘inseguimento e della quest che rientra pienamente nel canone della letteratura gotica. Al femminile, il doppio si basa sulla coazione a ripetere e sulla predestinazione. La donna amata da Frankenstein, Elisabeth, è in realtà il doppio della madre Caroline. Il loro legame è fortissimo, si fonda sulla condivisione dello stesso destino, sia nella vita, che nella morte. Entrambe diventano orfane in tenera età ma vengono accolte dal loro futuro marito; entrambe sono donne belle, amabili e caritatevoli che si prodigano per la comunità e accudiscono i malati. Quando Elisabeth viene colpita dalla scarlattina, Caroline si rifiuta di starle lontana, sceglie invece di accudirla fino al contagio, segnando così la propria fine e prendendo il posto di Elisabeth nella morte. Ma il parallelo diventa ancora più forte nell‘incubo che Frankenstein ha la notte successiva alla creazione. In sogno, l‘immagine di Caroline coincide fino al punto da sostituirsi con quella figlia: I thought I saw Elizabeth, in the bloom of health, walking in the streets of Ingolstadt. Delighted and surprised, I embraced her, but as I imprinted the first kiss on her lips, they became livid with the hue of death; her features appeared to change, and I thought that I held the corpse of my dead mother in my arms; a shroud enveloped her form, and I saw the graveworms crawling in the folds of the flannel. I started from my sleep with horror; a cold dew covered my forehead, my teeth chattered, and every limb became convulsed.20 Appare chiaro come la visione non faccia che preannunciare il destino di morte di Elisabeth attraverso il suo doppio. In Frankenstein, dunque, il tema del doppio è determinato da tratti fisici, psichici, eventi e situazioni che ritornano sempre uguali, e va letto proprio in funzione del perturbante freudiano. Un perturbante che, nell‘opera di Mary Shelley, scaturisce dalle immagini e ha un carattere prettamente visivo. 20 Ivi, cap. 5, p. 369 ~ 11 ~ BIBLIOGRAFIA BRAIDOTTI ROSI, Madri mostri e macchine, trad. it a cura di Anna Maria Crispino, Manifesto libri, 1996 BURKE EDMUND, Inchiesta sul bello e il sublime, a cura di Giuseppe Sertoli e Goffredo Miglietta, Palermo, Aesthetica, 2006 FIEDLER LESLIE, Romanzo nero, terrore e senso di colpa, in Amore e morte nel romanzo americano, trad. it, Longanesi, Milano 1963 (ed. originale 1960), (pp. 141143) FREUD SIGMUND, Il perturbante, a cura di C. L. Musatti, Roma, Theoria, 1993, p. 637 HAUSER ARNOLD, Storia sociale dell’arte, trad. it, Einaudi, Torino, 1955 (pp. 216-222) OVIDIO PUBLIO NASONE, Metamorfosi, Einaudi, Torino, 2011 PRAZ MARIO, Storia della letteratura inglese, Einaudi, Torino, 1996 SHELLEY MARY, Frankenstein, Feedbooks EPUB edition ~ 12 ~