La tecnica del Buddhismo Theravada Shamatha

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La tecnica del Buddhismo Theravada Shamatha
Luigi Vannucci
http://www.percorsiyoga.it
La tecnica
del Buddhismo
Theravada
Vipassana-Shamatha
Scuola di formazione insegnanti yoga
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SAMADHI
Vannucci Luigi
Meditazione: la tecnica del Buddhismo Teravada Vipassana-Shamata
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Vannucci Luigi
Meditazione: la tecnica del Buddhismo Teravada Vipassana-Shamata
Si mihi difficilis formam natura negavit,
ingenio formae damna rependo meae
Se la natura matrigna mi ha negato la bellezza,
con l'ingegno supplisco ai difetti della mia forma
Ovidio (Epist., XV, 31)
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Meditazione: la tecnica del Buddhismo Teravada Vipassana-Shamata
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Meditazione: la tecnica del Buddhismo Teravada Vipassana-Shamata
Introduzione
E’ con i primi anni ’70 che la meditazione della visione profonda (Vipassana-Shamata)
incomincia a diffondersi e diventa popolare in occidente. La Vipassana-Shamata è una
tecnica del buddhismo che porta alla percezione intuitiva dell’impermanenza (Anicca),
della sofferenza (Dukkha) e dell’assenza di un sé personale (Anatta).
Benché oggi questa tecnica sia nota in occidente in tutti i suoi aspetti solo quella che
utilizza lo strumento della consapevolezza, cioè la Vipassana (meditazione della chiara
visione), è divenuta popolare.
La pratica della meditazione della concentrazione profonda (Shamatha), invece, non ha
raggiunto altrettanta notorietà.
Negli insegnamenti buddhisti, al contrario, le due vie si intrecciano, non sono separate per
la semplice ragione che ambedue funzionano e, assieme, funzionano meglio. Bisogna poi
tener conto della predisposizione e maggior propensione di ogni individuo verso un tipo di
pratica o un altro. I due sistemi di meditazione sono, perciò, integrati e complementari,
quindi, sostanzialmente inscindibili.
Il testo di riferimento a riguardo è il Tipitaka il classico Buddhista composto da tre parti:
Vinaya, codice di disciplina; Sutta, discorsi pubblici del Buddha; Abhidhamma, una vasta e
dettagliata descrizione degli stati di coscienza che costituisce un vero e proprio trattato di
psicologia tradizionale. Non è a caso, quindi, che il maestro tibetano Chogyam Trungpa
abbia affermato che il buddhismo sarebbe arrivato all’occidente sotto forma di psicologia.
La parte dell’Abhidhamma che si occupa della meditazione è stata compendiata nel I
secolo d.C. nell’opera Vimuttimagga dal saggio Upatissa e, nel V secolo d.C., nell’opera
Visuddhimagga [1] dal monaco Buddhaghosa. Questo testo tratta degli atteggiamenti,
condizioni e modalità per praticare la meditazione, delle esperienze che si succedono
nelle varie fasi della pratica e delle loro conseguenze psicologiche.
Più recentemente si sono occupate degli effetti della meditazione anche le neuro-scienze.
Il riconoscimento degli effetti benefici della pratica ha portato alla definizione dei protocolli
di Mindfulness utilizzati in campo terapeutico. Le applicazioni riguardano principalmente la
Mindfulness-Based Stress Reduction (MBSR) e la Mindfulness-Based Cognitive Therapy
(MBCT), sviluppata da Jon Kabat-Zinn nel 1979 presso il Medical Center della University
of Massachusetts. Queste tecniche sono finalizzate ad applicazioni specifiche asservite al
trattamento di patologie [2-5]. Lo scopo di queste tecniche è quindi settoriale e non si
rivestono dei significati ontologici cui la meditazione fa riferimento.
La meditazione, invece, è un’investigazione continua della realtà attraverso l’esame
puntuale del processo di percezione.
Il suo scopo è quello di sollevare il velo delle apparenze e di giungere a scorgere la
struttura intima delle cose, cioè la Realtà nella sua essenza. A tal fine, come vedremo,
contrariamente a quanto si pensa, è estremamente utile anche il supporto della scienza.
La necessità di un tale processo di chiarificazione deriva direttamente dall’influenza sulle
nostre azioni che ha il nostro modo di pensare come ben chiarisce Swami Sivananda
Saraswati:
L'uomo semina un pensiero e raccoglie un'azione,
semina un'azione e raccoglie un'abitudine,
semina un'abitudine e raccoglie un carattere,
semina un carattere e raccoglie un destino.
L'uomo costruisce il suo avvenire,
con il proprio pensare e agire.
Egli può cambiarlo
perché ne è il vero padrone.
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Capitolo 1 - Cos’è la meditazione
Nella storia dell’umanità e in più parti del globo sono state sviluppate molte forme di
pratica meditativa: le più note sono quelle nate nelle culture indiane associate allo yoga e
alle varie forme di Buddhismo. Le tecniche meditative sono, però, presenti anche tra gli
indiani d’America, tra i Sufi, nella cabbalah ebraica, nella mistica cristiana e nella moderna
cultura occidentale nelle forme della Meditazione Trascendentale e della Mindfulness [6].
L’elenco che abbiamo fatto non è esaustivo e potrebbe essere ampliato considerando vari
tipi di tecnica: analitica, recettiva, contemplativa, di concentrazione etc..
Il significato più arcaico della parola “meditare” è quello di “medicare” [7], solo
successivamente ha assunto il senso di “misurare con la mente” o anche di “ordire”
“tramare”, “macchinare”. Quindi la “meditazione” è il “medicamento della mente”.
A parte il significato etimologico, riguardo alla meditazione vi sono altri
fraintendimenti che è bene dissolvere subito considerato che lo scopo della meditazione è
proprio il chiaro discernimento della realtà.
1.
La meditazione non è solo rilassamento, quest’ultimo ne è solo una componente. E’
lo strumento per raggiungere la consapevolezza.
2.
La meditazione non induce necessariamente stati strani o alterati, dipende dal tipo di
pratica e dal praticante.
3.
La meditazione non sviluppa poteri soprannaturali. Esperienze strane, che pur si
possono presentare, non hanno natura paranormale. Esse, di solito sono dannose
per i nuovi praticanti poiché sono seducenti e possono costituire una trappola che
impedisce ulteriori sviluppi. L’atteggiamento migliore è non attribuire a tali esperienze
alcuna importanza.
4.
La meditazione non induce stati di trance. Durante la trance ipnotica il soggetto è
influenzabile dai comandi esterni, durante la meditazione il praticante ha il completo
e lucido controllo di sé stesso.
5.
La meditazione non è un antidepressivo, è capace di generare felicità e sensazioni
piacevoli ma queste vengono dal rilassamento, dall’abbandono delle preoccupazioni
e delle tensioni. Meditare con un’aspettativa di felicità significa introdurre tensioni
nella pratica, paradossalmente la felicità arriva solo se non viene ricercata.
6.
La meditazione non è astrazione dalla realtà ma al contrario e lo sviluppo di una
piena consapevolezza di essa. Capire esattamente come siamo fatti e come è fatto il
mondo attorno a noi è la precondizione per cambiare in meglio noi stessi e il mondo.
7.
La meditazione, se fatta correttamente, non è dannosa anzi, al contrario,
l’accrescimento della consapevolezza induce è una protezione contro i pericoli.
Tuttavia, è anche vero che può comportare dei rischi, allo stesso modo di ogni altra
attività umana deve essere praticata in modo graduale, naturale e senza forzature.
8.
La meditazione non dà risultati evidenti in tempi rapidi. E’ vero che manifesta effetti in
tempi rapidi, però essi sono effetti sottili di cui si rischia di non accorgersi se si è alla
ricerca solo di qualche cambiamento evidente. I benefici cominciano subito e
crescono col tempo poiché l’effetto della pratica è cumulativo.
9.
La meditazione non è un’attività praticabile solo da persone eccezionali, al contrario
sono le persone comuni ad aver bisogno di meditare.
10. La meditazione non è un’attività per soli santi. Non è necessario essere persone
compiutamente morali per meditare. Infatti, la moralità richiede controllo mentale e
difficilmente questo è presente in quantità sufficiente senza un qualche tipo di
meditazione. In altre parole colui che aspetta di diventare perfettamente morale
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prima di iniziare a meditare sta aspettando qualcosa che non verrà mai. La sapienza
e la vera moralità, quella spontanea che nasce dal cuore e non dalla paura di
ritorsioni, crescono insieme perché si supportano l’una con l’altra, perciò vanno
coltivate ambedue contemporaneamente.
11. La meditazione non è egoistica anche se tale può sembrare. E’ certamente tempo
dedicato a sé stessi ma per liberarsi dall’attaccamento e dall’avversione. Finché
questi aspetti del carattere non sono superati anche le buone azioni non sono altro
che una manifestazione della propria egocentricità, apprezzabili, quindi, ma fatte in
maniera non totalmente gratuita.
12. La meditazione non è incomprensibile anche se ha a che fare con stati di coscienza
più profondi dell’usuale. In termini statistici il cammino che fa il praticante medio può
essere chiaramente descritto insieme agli effetti e ai meccanismi che li provocano.
Non può, però, essere descritta l’esperienza nella sua essenza poiché dipende dalla
persona e da molti fattori circostanziali. Non vi è nulla di automatico e prevedibile, da
una seduta all’altra si può fare un’esperienza completamente nuova. In sostanza per
comprendere, e non solo capire, cos’è la meditazione bisogna farne esperienza.
Per concludere, la meditazione è un’investigazione continua della realtà attraverso
l’esame puntuale del processo di percezione.
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Capitolo 2 – Considerazioni sul concetto Realtà
2.1 - La percezione
Una discussione in merito alla meditazione dovrebbe avere come oggetto di
trattazione, in primo luogo, il concetto di realtà.
Si sente spesso dire che lo scopo della meditazione sia la pace della mente. Questo
obbiettivo, invece, è solo un traguardo intermedio poiché il fine ultimo a cui idealmente si
tende è una consapevolezza totale che coincide con uno stato di coscienza di tipo divino
in cui si ha una perfetta cognizione di quale sia l’essenza del tutto.
Vale quindi la pena, per quanto possibile, avere un’idea della realtà quanto più
corretta e rappresentativa possibile ai fini di evitare quelle distorsioni che, incatenandoci a
preconcetti di difficile rimozione, pongono impedimento a intuizioni illuminanti.
Non si può parlare della realtà senza prendere in considerazione il processo di
percezione.
La nostra coscienza ha accesso alla realtà solo tramite strumenti. Strumenti artificiali,
cioè creati dall’uomo, o naturali, cioè i sensi. Questo vuol dire che essa non viene mai a
contatto con la realtà ma soltanto con una sua rappresentazione. La rappresentazione
della realtà è un costrutto della mente.
Caratteristica di ogni strumento, artificiale o naturale che sia, è quella di filtrare
l’informazione che fornisce. Questo vuol dire che l’informazione non arriva a destinazione
così come viene generata dalla realtà ma arriva distorta e solo in parte. Ciò è dovuto
all’efficienza dello strumento usato che funziona più o meno bene a seconda dei campi di
applicazione. In termini tecnici si dice che lo strumento ha un’accettanza finita nello spazio
delle fasi.
Ne sono un esempio la sensibilità dell’occhio allo spettro luminoso o la sensibilità
dell’orecchio alle frequenze acustiche. Infatti, siamo incapaci di vedere l’ultravioletto e
l’infrarosso e non siamo in grado di udire suoni che, ad esempio, i cani avvertono.
La nostra percettività, poi, non si annulla repentinamente, per esempio la percettività
acustica non passa dal 100% allo 0% cambiando di poco la frequenza ma diminuisce
gradualmente alle frequenze che sono a margine della nostra zona di sensibilità. In pratica
le frequenze di 20 e 20000 Hz sono ancora udibili, se non abbiamo problemi funzionali
all’orecchio, ma le avvertiamo con un volume più basso. Se, per esempio, ascoltando un
concerto, vogliamo udire tutte le frequenze con lo stesso volume con cui vengono
generate, il nostro amplificatore audio deve aumentare il volume di quelle basse e di
quelle alte, proporzionalmente alla inefficienza del nostro udito, utilizzando un circuito
elettronico compensativo chiamato loudness. Tecnicamente parlando si dice che la
risposta in frequenza dell’amplificatore non è piatta cioè è volutamente deformata affinché
il suono che avvertiamo corrisponda esattamente al suono così come è stato emesso.
Questo esempio ci fa capire che, per ogni individuo, esistono due realtà diverse
ambedue importanti: una è soggettiva ed è la rappresentazione che la mente ne fa, l’altra
è oggettiva ed è quella che genera la rappresentazione. Nessuna delle due è più
importante dell’altra poiché quella soggettiva è l’unica realtà cui abbiamo accesso che non
potrebbe esistere se non fosse generata dalla realtà oggettiva.
Poiché, anche quando usiamo strumenti artificiali, l’informazione ci arriva attraverso i
sensi, e poiché essi sono differenti per ognuno di noi si arriva a capire come ciascuno
abbia una propria rappresentazione della realtà la quale ha somiglianze con quella altrui
ma non vi coincide mai completamente.
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I buddhisti annoverano la mente nella stessa categoria dei sensi. Nell’Abhidhamma
tra gli oggetti prodotti dai sensi ci sono anche i pensieri. Quindi la mente viene considerata
come un sesto senso. Anche se agli occidentali questo sembra strano non è
sostanzialmente sbagliato.
Infatti, anche al mente è uno strumento e come tale è affetto da inefficienze. La
rappresentazione che essa fa della realtà a volte è falsata e non corrisponde nemmeno
all’informazione, già parziale e distorta, che i cinque sensi le offrono come materiale di
lavoro.
Sono, perciò, i limiti che hanno i nostri strumenti, biologici e no, a creare, per ognuno
di noi, una differente rappresentazione della realtà oggettiva e da ciò nascono le
incomprensioni!
2.2 – Il ruolo della scienza
Il metodo scientifico è ciò che sostanzialmente ha reso vincente la civiltà occidentale
in questi ultimi secoli. I prodotti che ne derivano sono così appetibili ed appetiti che anche
altre civiltà umane, con una millenaria storia alle spalle, hanno tendenza ad abbandonare
le proprie radici e quanto di positivo esse hanno in sé a favore del modello, pur non
perfetto, occidentale.
Il metodo scientifico, però, non è una panacea per tutti i problemi dell’uomo poiché
ha dei limiti. Se la consapevolezza di questi limiti fosse più diffusa esso non verrebbe né
mitizzato, né rifiutato a seguito di eventuali suoi default.
Cerchiamo, quindi, di capire in che cosa oggettivamente consiste e come e fino a
che punto possa essere di aiuto all’umanità.
Il metodo scientifico cerca di descrivere e spiegare fenomeni statisticamente
significativi.
Questo significa che il fenomeno avviene, con le modalità con cui viene descritto,
con una certa probabilità. Tuttavia, rimane sempre una probabilità, per quanto piccola, che
il fenomeno si verifichi diversamente o non si verifichi del tutto. Questa incertezza è pur
essa statisticamente calcolabile. In generale la probabilità che il fenomeno si verifichi
secondo la descrizione è molto alta al punto da essere impropriamente assimilata ad una
certezza. Ad esempio, normalmente quando qualcuno lancia una palla in alto si aspetta
che debba necessariamente tornare a terra, questo può essere vero in un sistema
idealizzato ma non è vero nella realtà perché la palla avrà un’altissima probabilità di
ritornare a terra ma potrebbe anche entrare in orbita e la probabilità di questo secondo
evento aumenta all’aumentare della velocità del lancio.
In altre parole, poiché di solito i fenomeni si verificano con alta probabilità
esattamente con le modalità della descrizione, si tende a considerarli ineluttabili certezze
ed ad attribuire alla scienza una capacità predittiva scevra da indeterminazioni. Le
indeterminazioni (che non sono incertezze), sono, invece, insite nella realtà stessa che
viene studiata e non nel metodo utilizzato che altro non può fare che rappresentarle quali
sono.
Un’accusa che, spesso, viene fatta alla scienza è quella di non voler riconoscere
l’esistenza di fenomeni inusuali e di assumere un atteggiamento aristotelico. In realtà è un
modo distorto di concepire il ruolo della scienza. Mi spiegherò meglio facendo due esempi
paradossali.
Teoricamente esiste la probabilità che un’oggetto che state osservando svanisca,
letteralmente sotto i vostri occhi, in una nuvola di atomi, a causa della contemporanea
rottura di tutti i legami atomici. Quest’evento è previsto dalla teoria ma ha una così bassa
probabilità di realizzarsi che può succedere una volta in miliardi e miliardi di anni. In altre
parole non è passato ancora abbastanza tempo, dalla nascita dell’universo ad oggi,
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perché l’evento abbia avuto luogo almeno una volta. Se poi dovesse effettivamente
accadere e fosse anche documentato si tratterebbe di un evento singolo senza nessuna
possibilità di ripetersi cioè privo di qualsiasi sistematicità; per questo motivo non avrebbe
rilevanza scientifica nonostante sia teoricamente ammissibile.
Viceversa (se esistesse) potremmo considerare Hogwarts, la scuola di magia di
Harry Potter, come un istituto scientifico dedicato allo studio di fenomeni inusuali. Infatti le
tecniche magiche che vi si insegnano producono fenomeni che, per quanto inusuali, sono
sistematici e come tali sono statisticamente significativi.
In conclusione i pregi ed i limiti del metodo scientifico hanno la stessa origine.
Da una parte il metodo descrive fenomeni riproducibili e solleva l’umanità dall’onere
di ripetere continuamente le stesse esperienze, accelerando così, esponenzialmente, lo
sviluppo cognitivo ed il progresso tecnologico.
Dall’altro sostanzialmente non si occupa di fenomeni che non siano statisticamente
significativi.
2.3 – La realtà secondo la scienza
2.3.1 – L’assimmetria
L’Universo è asimmetrico, ogni suo aspetto è differenziato. A seguito del Big-Bang la
rottura spontanea delle simmetrie ha generato le forze ed esse incessantemente fanno
interagire ogni sua più piccola parte con qualche altra parte di esso. Le forze, quindi, sono
il motore dell’Universo e lo mantengono in un perpetuo stato dinamico. Ciò non va inteso
nel senso restrittivo che tutto è in perenne movimento ma, più estensivamente, e cioè che
tutto è in continuo mutamento per effetto di un’interazione imperitura.
Il concetto di rottura spontanea di simmetria può essere spiegato con il seguente
esempio.
Una calamita che fosse riscaldata ad alta temperatura non mostrerebbe tra i suoi poli
alcun campo magnetico. Questo è dovuto al fatto la temperatura elevata, da un punto di
vista microscopico, altro non è che una grande e disordinata agitazione molecolare.
Questa agitazione impedisce alle molecole (nel caso della calamita dipolari) di orientarsi in
maniera preferenziale lungo un asse così da dar luogo al campo magnetico. Ad alta
temperatura quindi lo spazio tra i poli della calamita è del tutto simmetrico non è, cioè,
possibile distinguere una direzione dall’altra, sono tutte equivalenti. Quando la calamita si
raffredda i dipoli, al suo interno, tornano ad orientarsi in maniera preferenziale generando
un campo magnetico ed appare la forza (magnetica). In questa situazione lo spazio tra le
espansioni polari non è più simmetrico poiché esiste una direzione lungo la quale si
manifesta la forza con il polo nord da un lato e il polo sud d’altro.
Questo fenomeno che avviene senza essere indotto da fattori esterni si chiama
rottura spontanea di simmetria ed ha come conseguenza la generazione delle forze e il
comparire dell’interazione.
2.3.2 – L’interazione
L’interazione ha come caratteristica precipua la reciprocità, questo vuol dire che in
qualsiasi interazione gli elementi interagenti s’influenzano a vicenda e inducono mutui
cambiamenti. Di conseguenza essi assumono, inevitabilmente, ruolo di soggetto/oggetto
in cui contemporaneamente sono all’origine dell’azione e ne subiscono le conseguenze.
Questo contesto, scientificamente provato, ha rivoluzionato la concezione che l’uomo
ha di sé stesso scalzandolo dal ruolo egocentrico, che si era impropriamente attribuito, per
riportarlo nel suo ambito naturale: la realtà stessa. L’uomo non è avulso dalla realtà, non è
un osservatore esterno che con la sua osservazione non la influenza e non ne è
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influenzato cosicché ambedue rimangono uguali a sé stessi, ma ne fa parte e ne condivide
la sorte.
Le due più importanti teorie della fisica moderna, la relatività e la meccanica
quantistica, fino al giorno d’oggi sono state difficilmente conciliabili, tuttavia su un punto
vanno pienamente d’accordo: la realtà non esiste di per sé ma è generata dall’interazione.
Per la meccanica quantistica la realtà si trova in uno stato latente che si concretizza
solo al momento di un’interazione. Prima e dopo di essa l’oggetto che si vuole osservare è
solo un composito assieme di potenzialità non realizzate.
In relatività tutto ciò che non interagisce letteralmente non esiste. Ad esempio se un
osservatore ignora la presenza di una galassia lontana e questa interagisce con esso la
galassia è per lui realmente esistente anche se non ne è a conoscenza. Al contrario, se
esistesse una galassia così lontana che la luce non ha ancora avuto il tempo di
raggiungere l’osservatore in questione, per lui la galassia letteralmente non esiste.
In conclusione, qualsiasi cosa esista, esiste perché interagisce con qualcos’altro e il
processo avviene in continuazione così da darci l’impressione che le cose siano
stabilmente presenti ed immutabili. Da questa falsa impressione deriva l’arcaico concetto
di realtà che è ancora radicato nell’usuale modo di pensare e nella maggior parte delle
filosofie.
Diversamente la realtà si concretizza istante per istante ed è costantemente
mutevole a causa del fatto che ogni interazione induce una modifica degli elementi
interagenti.
2.3.3 – Lo spazio-tempo
Vi è, poi, da considerare un altro aspetto della realtà fisica.
L’universo è strutturato in quattro dimensioni, infatti il tempo non è un semplice
parametro della dinamica ma è una vera e propria dimensione al pari delle altre tre. Nella
dimensione tempo ogni cosa che esiste si muove con velocità generalmente diversa da
quella degli altri oggetti. Questo non è immediatamente colto dai sensi poiché le differenze
di velocità sono inferiori alla sensitività sensoriale e ciò induce a credere che tutto fluisca
nel tempo con lo stesso ritmo. Al contrario Passato, Presente e Futuro non hanno più una
valenza assoluta ma dipendono dal sistema di riferimento cioè dalla posizione
dell’osservatore nello spazio-tempo. In sintesi, a causa degli effetti relativistici, l’aspetto dei
fenomeni osservati dipende dalla posizione (detta sistema di riferimento) dell’osservatore
nello spazio-tempo cioè dal quando e dal dove egli si trovi.
Se ne può concludere che la realtà non è semplicemente ciò che si manifesta
localmente cioè in un luogo e/o in un istante particolare ma è comprensiva di tutte le cause
e tutti gli effetti e, quindi, deve condensare in sé passato, presente e futuro.
2.3.4 – La realtà
La Realtà è, perciò, immanente soltanto all’universo nella sua integrità, cioè alla
totalità di ciò che esiste ed all’intero processo evolutivo.
In questo senso la visione scientifica e quella filosofica buddhista dell’inter-causalità
e dell’impermanenza coincidono totalmente.
In conclusione, la scienza moderna, pur nei suoi limiti, non solo ha contribuito
all’accrescimento del benessere materiale dell’umanità ma ha anche svolto un ruolo di
primo piano nell’avvicinamento delle concezioni filosofiche, sostanzialmente diverse,
sviluppatesi in oriente ed in occidente.
2.4 – Il problema dell’incompletezza cognitiva
Abbiamo visto che la percezione, di qualsiasi natura essa sia, è soggetta a limiti e
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distorsioni.
Abbiamo anche visto che i metodi scientifici di ricerca hanno pur essi dei limiti
nell’indagare la realtà.
Non è sbagliato pensare che tutto ciò derivi dal fatto che l’uomo è un essere limitato
ma è un modo riduttivo di vedere le cose.
I limiti, infatti, sono intrinseci alla struttura stessa della creazione. Essa si presenta
differenziata in molteplici aspetti e già questo denuncia la sua natura limitata. Infatti,
qualsiasi cosa sia caratterizzabile in una qualche maniera vuol dire che si distingue per il
fatto di essere dotata di alcune specifiche qualità e, quindi, per il fatto di non possederne
altre. La sua natura è, perciò, limitata e parziale.
L’uomo fa parte di questo grande congegno che è l’universo e non se ne può
chiamare fuori, per cui tutti quanti gli aspetti del suo modo di percepire, conoscere,
speculare ed intuire sono parziali e limitati. Questo non vuol dire che non sia in grado di
penetrare la natura della realtà ma significa che la sua rappresentazione della realtà fisica
e metafisica non può che essere parziale.
Ci spiegheremo meglio con un esempio.
Il genere umano è come una grande comitiva di turisti che facendo un viaggio premio
a sorpresa giunge alla località di pernottamento a notte fonda. La mattina dopo ognuno di
loro ha la possibilità, aprendo la finestra, di rendersi conto di dove si trovi. Alcuni di essi,
avendo le camere rivolte verso il mare, pensano di essere in una località balneare, altri,
avendo le camere rivolte verso i monti, credono di trovarsi in una località montana.
Chi ha ragione ? Chi ha torto ? Ambedue le categorie di turisti del nostro esempio
hanno sia ragione che torto !
Ognuno di loro possiede un pezzo di verità, ma nessuno possiede la Verità tutta
intera !
Ed è questo che alimenta le discordie ed i litigi. Se fossimo in grado di vedere la
Verità nella sua interezza saremmo concordi sia nel modo di pensare che nel
comportamento.
La tolleranza verso gli altri oltre che essere indotta dalla compassione dovrebbe
discendere anche dalla semplice logica. Anche gli altri, infatti, possiedono un pezzo di
verità e, di solito, è proprio quello che a noi manca !
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Capitolo 3 - Percorso evolutivo della meditazione
3.1 - Le fasi della meditazione
Non è semplice descrivere il processo meditativo: per farlo dobbiamo operare una
distinzione analitica tra le varie “fasi” che invece, nella pratica meditativa, vengono vissute
come un tutt’uno, e sicuramente senza nette distinzioni categoriali.
Nel neofita, quando inizia a meditare, si installa una sorta di tensione tra la volontà di
mantenere l’attenzione sull’oggetto di meditazione e il divagare della mente.
La concentrazione è debole e nella mente si insinuano una quantità di pensieri che
distraggono, cosa ancora peggiore spesso il meditante inesperto neppure si accorge di
questa invasione di pensieri estranei alla meditazione, se non saltuariamente e dopo
qualche tempo.
Questa situazione è estremamente frustrante e può indurre alla rinuncia se non si
capisce che appartiene ad un normale evolversi dell’esperienza.
Se si continua con determinazione a coltivare la pratica della concentrazione si arriva
a quella che Buddhagosa definisce “concentrazione in un solo punto”. Il neofita ha
conseguito il suo primo successo: il raggiungimento di un’indifferenza protratta verso le
distrazioni vuoi che siano esterne, come i rumori, o interne come i sentimenti e le
emozioni.
Avanzando nella pratica egli acquista la capacità di rimanere concentrato, per periodi
prolungati, sull’oggetto di meditazione. A questo si accompagnerà una minore difficoltà nel
riportare la mente su di esso e una maggiore abilità nel riconoscere tempestivamente uno
stato mentale distraente. Il praticante è, però, ancora simile a un bambino che ha da poco
incominciato a camminare, non è ancora in grado di stare saldamente in piedi ma si sforza
di farlo in continuazione.
Quando il neofita realizza che la consapevolezza è distinta dagli oggetti mentali su
cui viene posta l’attenzione raggiunge il così detto “stato di accesso” alla meditazione
concentrata. Il meditante è ancora aperto ai sensi e può essere preda dei rumori e delle
sensazioni del corpo, tuttavia, l’oggetto di meditazione è ormai divenuto preminente
nonostante la mente non sia ancora totalmente immersa in esso.
Si tratta di uno stadio in cui i fattori mentali dell’assorbimento pieno, come la
concentrazione e la beatitudine, hanno già incominciato a manifestarsi anche se non sono
così forti da permanere stabilmente. Possono emergere moti dell’animo come turbamenti,
emozioni, commozioni, sentimenti; stati mentali quali imperturbabilità, piacere, felicità,
ardore o, addirittura, di rapimento estatico; ma anche percezioni fisiche come luce, lampi,
forme luminose, sensazioni di leggerezza, di galleggiamento del corpo in aria etc.. Tutte
queste sensazioni sono dovute per lo più all’instaurarsi di uno stato di rilassamento cui il
corpo non è abituato. Questo stato sviluppa una nuova, più espansa, sensibilità a tutto
quello che avviene in noi ed al di fuori di noi.
Alcuni meditanti sono soggetti anche a visioni che possono essere di varia natura,
terrificanti o benigne ma comunque estremamente realistiche.
Tutto ciò può indurre sia turbamenti che attaccamento, per questo è necessaria una
salda consapevolezza della transitorietà ed effimerità delle sensazioni provate. Inoltre lo
stadio “di accesso” è piuttosto precario e, per proteggerlo dalle fluttuazioni dell’attenzione
e stabilizzarlo, è necessaria una pratica assidua.
Lo stadio di accesso è una sorta di porta ineludibile (anche ai meditanti esperti) che
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Meditazione: la tecnica del Buddhismo Teravada Vipassana-Shamata
introduce alla meditazione profonda ed ai Jhana. Ciò che distingue i meditanti esperti dai
neofiti è il tempo di permanenza in questo stadio. Infatti, la concentrazione sull’oggetto di
meditazione conduce, in tempi differenziati a seconda dell’esperienza del meditante, ad
una situazione di rottura con la coscienza normale. Questa immersione piena nella
concentrazione è il Jhana [8-9].
La parola Jhana deriva da jha il cui equivalente sanscrito è dyai che significa
“bruciare”, “eliminare” o anche “assorbire”. I primi due significati probabilmente fanno
riferimento al Karma il terzo rende l’idea di uno stato meditativo totalmente caratterizzato
da una concentrazione assorta e profonda.
Esistono diversi livelli di Jhana attraverso i quali si sviluppa il cammino di
concentrazione. Essi sono divisi in due categorie: i Jhana Mondani e quelli Sovramondani,
i primi sono strutturati in otto livelli gli altri in quattro livelli.
I meditanti che, durante la pratica, raggiungono la concentrazione propria dei Jhana
Mondani sono detti “coloro che vivono felici in questa stessa vita”. La felicità deriva loro
dall’essere affrancati da attaccamento, bramosia, odio, avversione, torpore, irrequietezza,
dubbio, etc.. Il riscatto da tutti questi “impedimenti” viene conseguito col raggiungimento
dell’ottavo Jhana che conclude il processo di emancipazione.
I meditanti che riescono a raggiungere i Jhana Sovramondani sono detti “coloro che
si sono liberati e vivono in pace” poiché conseguono la liberazione dal Samsara (ciclo di
vita, morte e rinascita). I Jhana Sovramontani sono, quindi pertinenti solo ad un contesto
religioso.
Spiegare cosa siano i Jhana è arduo poiché i concetti umani sono legati alla
percezione sensoriale e i Jhana prescindono da essa. La descrizione, quindi, potrà essere
solo metaforica specialmente nel caso dei Jhana più elevati.
Gli otto Jhana Mondani si dividono in due classi quattro Jhana Materiali e quattro
Immateriali. I quattro Jhana Materiali sono stati che hanno ancora in parte a che fare con
l’esperienza sensoriale; i quattro Jhana Immateriali, invece, sono stati di consapevolezza
che si trovano oltre mondo cognitivo ordinario.
I primi quattro Jhana si raggiungono mediante la concentrazione su prodotti mentali
concreti come le sensazioni o i sentimenti. Ai Jhana Immateriali, invece, si accede
trascendendo ogni percezione di forma, per questo motivo sono chiamati Jhana senza
forma. Per immergersi nei Jhana Materiali la mente viene progressivamente allontanata da
ogni oggetto di distrazione per focalizzarsi sull’oggetto di meditazione, successivamente
esso viene via via sostituito da oggetti mentali sempre più indefiniti cioè sempre meno
caratterizzati e caratterizzabili fino ad arrivare alla nullità stessa, cioè al vuoto.
3.2 – Il percorso attraverso i Jhana
Nel percorso attraverso i Jhana possiamo imbatterci in alcuni fenomeni che li
caratterizzano e ci permettono di distinguere lo stato nel quale ci troviamo.
3.2.1 - Primo Jhana
Si riesce ad entrare nel primo Jhana solo se si ha un controllo, almeno parziale, degli
“impedimenti”. Se il meditante riesce a liberarsi da essi almeno per qualche tempo riesce
anche a permanere nel Jhana finché essi non si ripresentano. I meditanti con poca
esperienza si affrancano dagli impedimenti solo per qualche istante, per questo motivo lo
stato di Jhana dura pochissimo e può dissolversi nel giro di un attimo.
Per quanto breve l’esperienza fatta è impressionante, si diventa consapevoli della
possibilità di accedere ad uno stato mentale completamente differente dal pensiero e dalla
percezione ordinaria. Il perpetuo presentarsi di pensieri si arresta, il respiro stesso,
divenuto sottilissimo, è più simile ad un ricordo sfumato che ad una realtà. Il mondo
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Vannucci Luigi
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scompare e con esso il dolore fisico, la sensibilità però rimane come una potenzialità
latente sullo sfondo delle percezioni.
In questo stato di calma si è invasi da gioia ed euforia. Associati ad esse sorgono
anche stati di piacere fisico che possono manifestarsi con brividi, tremolii o pelle d’oca.
Il primo assaggio dello stato di Jhana spesso dura quanto un lampo ma è così
intenso da fornire consistenti motivazioni per la continuazione dell’esperienza meditativa.
Il pericolo che deriva da questa esperienza è l’attaccamento allo stato di benessere
che procura che porta all’incapacità di proseguire nei Jhana successivi.
3.2.2 - Secondo Jhana
E’ molto simile al primo ma in esso ogni tipo di pensiero verbale e concettuale viene
abbandonato. Non persiste neppure il pensiero del respiro.
3.2.3 - Terzo Jhana
E’ difficile riuscire a distaccarsi dalla gioia ma essa altro non è che una forma di
eccitazione e va lasciata andare. Lo strumento per liberarsene è l’equanimità cioè un
atteggiamento indifferente agli effetti che essa procura. Al posto della gioia subentra,
allora, la felicità che predispone la mente alla beatitudine e al raccoglimento.
La gioia è come una sorta di appagamento ed è per questo che può indurre
attaccamento, la felicità, invece, ha i connotati di uno stato sommesso di estasi
ininterrotta.
La fiducia in sé stessi e nella pratica aumenta e, con esse, si rafforzano
concentrazione e consapevolezza.
La beatitudine pervade ogni cellula del corpo il che ci dice che, se anche il mondo
esterno è svanito, il mondo materiale sussiste ancora attraverso la presenza di una
meravigliosa sensazione corporea.
3.2.4 - Quarto Jhana
Il primo Jhana è caratterizzato dalla sparizione delle sensazioni di dolore fisico, il
quarto è caratterizzato dalla scomparsa delle sensazioni piacevoli. L’allontanamento da
esse non richiede alcuno sforzo, esse si dissolvono spontaneamente in virtù di una
rafforzata equanimità.
Nel secondo Jhana sono scomparsi i pensieri verbali, nel quarto svanisce ogni sorta
di pensiero.
Non rimane nulla di spiacevole e nulla di piacevole, non resta alcun pensiero e
alcuna sensazione. Non vi è traccia neppure dell’impercettibile sensazione di respirare,
come avveniva nei Jhana precedenti.
Nulla è in grado di far uscire il meditante da questo Jhana se non la determinazione
del meditante stesso.
E’ uno stato di profonda unione tra presenza mentale (concentrazione) e
consapevolezza, la situazione ideale per penetrare profondamente nella natura
dell’esistenza, per percepire direttamente e con chiarezza le qualità primarie da cui è
caratterizzata: anicca (impermanenza), dukkha (sofferenza) e anatta (assenza di un sé
personale).
3.2.5 - Quinto Jhana
I Jhana Immateriali iniziano con il quinto. In essi la mente viene focalizzata su oggetti
di meditazione privi di proprietà definite.
Quello più facilmente reperibile è lo spazio mentale, un luogo senza connotati e
senza limiti dove pensieri e sensazioni si manifestano. Ora l’attenzione non va più a ciò
che in questo spazio sorge ma si focalizza sullo spazio stesso. È un luogo dove qualsiasi
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prodotto mentale viene ignorato e, quindi, senza forme e senza forma.
I prodotti della mente sono ancora vagamente presenti ma non vengono presi in
considerazione, si è consapevoli del loro apparire fluttuare e scomparire ma l’attenzione
non va mai ad essi, rivolgere l’interesse, anche solo per un attimo, a un prodotto della
mente significa uscire dal Jhana.
3.2.6 - Sesto Jhana
Quando diventiamo consapevoli dello spazio mentale ci accorgiamo anche dell’unico
aspetto che lo caratterizza, la sua illimitatezza.
Un oggetto di meditazione infinito richiede anche una consapevolezza infinita, è così
la coscienza del meditante si espande inseguendo l’espandersi della consapevolezza.
Contemporaneamente il distaccarsi dagli elementi distintivi finiti, tipici della nostra
esistenza, indebolisce il concetto e la sensazione di un sé separato.
Ogni cosa perde i suoi connotati rimane solo un luogo infinito in cui dimorare in pace.
3.2.7 - Settimo Jhana
Analogamente a quanto avviene per le fonti di distrazione, in cui l’attenzione
equanime focalizzata su una causa di deconcentrazione è in grado di dissolverne la
presenza, orientare la consapevolezza all’infinito spazio della mente lo priva di ogni sua
consistenza fino a farlo sparire.
Rimane allora solo la consapevolezza in se, priva di qualsivoglia oggetto di
contemplazione.
Il settimo Jhana è chiamato “base della vacuità” proprio perché vi è consapevolezza,
illimitata consapevolezza e pura consapevolezza senza alcunché d’altro eccetto la vacuità.
3.2.8 - Ottavo Jhana
La percezione della vacuità è ancora percezione, il passo successivo è quello di
ritrarre la mente dalla percezione stessa, per questo motivo l’ottavo viene chiamato “Jhana
di né percezione e di né non-percezione”.
Il meditante distoglie l’attenzione dalla, pur difficile, percezione della vacuità e rimane
in uno stato neutro che non è né di percezione né di non percezione.
Anche una minima traccia del desiderio o della volontà di conseguire questo stato o
di sfuggire alla consapevolezza del vuoto, che caratterizza il settimo Jhana, impedisce
l’accesso all’ottavo.
3.2.9 - I Jhana Sovramondani
Abbiamo visto che con il raggiungimento dell’ottavo Jhana Mondano il processo di
emancipazione dagli “impedimenti” si conclude.
Tuttavia, dal punto di vista religioso, non si conclude il processo soteriologico.
Infatti, secondo la tradizione Buddhista, coloro che riescono a raggiungere i Jhana
Mondani conseguono solo un controllo, più o meno efficace in dipendenza del livello di
Jhana raggiunto, degli “impedimenti”. Questa padronanza viene, però, persa quando il
praticante torna ad uno stato non-Jhanico nel quale gli “impedimenti” tornano a
ripresentarsi. Si capisce, allora, perché la felicità di questi meditanti viene considerata
circoscritta alla “vita”.
Coloro che, invece, riescono a raggiungere anche i Jhana Sovramondani” letteralmente
distruggono gli “impedimenti” che, conseguentemente, non possono più ripresentarsi. Per
questa ragione sono considerati “liberi” perché in essi non si ripresenta più il desiderio di
reincarnarsi. A motivo di ciò sono anche detti: “coloro che ritornano una volta” (vivono una
volta sola) o anche “coloro che non ritornano” o “coloro che non hanno alcun lavoro da
compiere” (Arahant).
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3.2.10 - Il Nirvana
Avendo raggiunto la consapevolezza dell’oggetto e del non-oggetto e la cessazione
di ogni consapevolezza su fenomeni fisici e mentali il meditante può finalmente immergersi
nel Nirvana.
In questo stato il meditante è arrivato all’estinzione delle motivazioni per il divenire.
Desideri, attaccamenti ed interessi semplicemente non esistono più e ne consegue un
irreversibile cambiamento della personalità.
Giungere allo stato Nirvanico significa arrivare al “risveglio” ed alla “liberazione”.
3.2.11 - Il Nirodh
Esiste uno stadio successivo al Nirvana che è poco noto agli occidentali, questo è lo
stato di Nirodh che significa cessazione totale.
In questo stato la cessazione dei processi della coscienza, raggiunta nel Nirvana, si
accompagna al rallentamento estremo dei processi fisici e corporali del meditante. Il suo
metabolismo diventa del tutto residuale, molto al di sotto di quello normale, ma il suo corpo
non si deteriora come fa quello di un cadavere.
3.3 – Shamata e/o Vipassana ?
Alcuni sono convinti che sia necessario uscire dallo stato Jhanico per praticare la
consapevolezza. In questo modo le due tecniche di Shamata e Vipassana sarebbero
alternative tra di loro.
Così non è !
Difatti, lo stato Jhanico è uno stato di “concentrazione profonda”, non è però uno
stato di “rapimento mentale”. Si può essere mentalmente rapiti nel fare le attività più
disparate come leggere, amare ma anche nel progettare e nell’odiare. Ciò che distingue il
rapimento mentale dalla concentrazione è la mancanza di lucidità, in altre parole esso è
un’attenzione in assenza di consapevolezza.
Si capisce, allora, che lo stato di rapimento mentale non è uno stato Jhanico e,
conseguentemente, non può esistere Shamata che non sia anche Vipassana.
Può esistere, invece, Vipassana in assenza Shamata. Al di fuori del Jhana, però, si
perdono le qualità che lo caratterizzano e gli impedimenti tornano a ripresentarsi. Infatti, lo
stato Jhanico li sopisce ma non li sopprime. In questa situazione per praticare la
consapevolezza è necessario riportare di volta in volta la mente all’oggetto di meditazione.
Inoltre, nella pratica della Vipassana permane il contatto con i sensi il che vuol dire
che si rimane nel regno della “differenziazione”. Anche il praticante più esperto, al sorgere
della sensazione, non può non percepirne le qualità e quindi le differenze rispetto ad altre
sensazioni. Ciò significa che, anche se la mente non si aggrappa ad esse, per un
fuggevole istante il meditante non è sostanzialmente equanime rispetto ad esse ma si
ritrova nell’usuale stato di “giudicante”. Questo istante viene, poi, cancellato dalla
consapevolezza dell’impermanenza che caratterizza ogni cosa ma, comunque, rimane un
ineludibile elemento di disturbo della meditazione.
Al contrario, nei Jhana superiori (a incominciare dal quarto) non c’è esperienza
sensoriale e, quindi, l’equanimità non è discontinua.
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Capitolo 4 – Gli strumenti della meditazione
4.1 - Il ruolo della concentrazione e della consapevolezza
Il Satipatthana Sutta è il “Discorso sui fondamenti delle consapevolezza” del Bhudda
([10] p. 546). Satipatthana è la pratica meditativa buddhista caratterizzata da due aspetti:
Shamatha la concentrazione e Vipassana la visione penetrativa.
La meditazione è, quindi, un’attività in cui si coltivano due qualità distinte: la
consapevolezza e la concentrazione. Esse funzionano armonicamente solo in maniera
congiunta per cui occorre coltivarle ambedue nella stessa misura.
Le funzioni di queste qualità mentali sono molto diverse.
La concentrazione, che è la metodologia su cui si basa la pratica della Shamatha, è
la capacità di focalizzare l’attenzione.
La consapevolezza, che è la metodologia su cui si basa la pratica della Vipassana, è
la capacità di guardare le cose esattamente per quello che sono, è, cioè, la capacità di
osservare in maniera equanime, senza analizzare ed esaminare.
Shamatha ci aiuta a focalizzare e stabilizzare l’attenzione sull’oggetto di meditazione,
Vipassana allarga la nostra visione fino alla comprensione della totalità dell’esistente.
I due aspetti della meditazione buddhista sono intimamente intrecciati. La
consapevolezza fa della concentrazione il suo strumento poiché non può fiorire in una
mente agitata. La concentrazione profonda, a sua volta, ha come prerequisito la
consapevolezza poiché non può continuare a sussistere se la consapevolezza non riporta
la mente all’oggetto di meditazione quando il pensiero divaga. Se l’una o l’altra
componente è debole la meditazione diventa distratta.
I due sistemi di meditazione sono, perciò, integrati e complementari, quindi,
sostanzialmente inscindibili.
Gli stadi iniziali della coltivazione mentale sono particolarmente delicati nel
mantenere l’equilibrio tra le due componenti della meditazione.
Di solito è più facile per il neofita iniziare con lo sviluppo della concentrazione poiché
la mente è incredibilmente attiva e, accentuare la funzione di consapevolezza in questo
stato, significherebbe cambiare continuamente l’oggetto di attenzione e divagare senza
fine. Perciò, la regola da seguire all’inizio è quella di dedicarsi alla concentrazione fino a
quando la mente non inizia a calmarsi acquistando la capacità di permanere, per un certo
tempo, ancorata ad un unico oggetto.
La capacità di non farsi afferrare dal flusso dei pensieri non arriva, però, utilizzando
metodi repressivi ma, in modo gentile, semplicemente col rendersi conto del loro sorgere,
perdurare e svanire. Capita a tutti nella vita di essere occupati in un’attività (lavorare,
guidare, fare attività sportiva, etc.) e, improvvisamente, chissà come, di accorgersi di
pensare qualcosa che non ha niente a che fare con quello che si sta facendo. Vien da
chiedersi allora attraverso quale catena di pensieri la nostra mente è arrivata fino a lì.
Quando ci accorgiamo di questo divagare incominciamo già a dar spazio alla
consapevolezza, è come se ci svegliassimo improvvisamente da una trance autoindotta.
Non a caso si sostiene che la meditazione porti al “risveglio e all’illuminazione”.
Il momento più importante della meditazione, allora, diventa non quello di maggior
consapevolezza ma quello in cui la meditazione finisce perché, alla fine della seduta
meditativa, si ha la scelta tra riprendere banalmente la vita usuale oppure assumere un
nuovo modo di comportarsi consono con quanto si è imparato.
Il momento forse più sconvolgente della carriera di un meditante è quello in cui, per
la prima volta, si accorgerà di star meditando in una situazione del tutto ordinaria. Non
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solo avrà raggiunto la consapevolezza di un atto di consapevolezza ma anche la
percezione della possibilità di trasformare permanente la propria coscienza.
4.2 - La concentrazione
La concentrazione può essere inizialmente sviluppata grazie a pura e semplice
volontà ma senza la consapevolezza non produce stati meditativi.
Infatti, da sola non può crescere poiché è attraverso la consapevolezza che si
diventa consci dello stato di concentrazione. Senza la consapevolezza è impossibile
ristabilire l’attenzione e stabilizzare la mente vagante a seguito delle distrazioni. In
assenza di consapevolezza, poi, la concentrazione da sola non è in grado di far luce sui
problemi e sulla natura della sofferenza.
La concentrazione può anche essere mal indirizzata e diventare attaccamento. Può,
perciò, essere utilmente usata o meno.
Un’esagerata concentrazione, in assenza di una corrispondente quantità di
consapevolezza che faccia da contrappeso, può portare alla sindrome del "Buddha di
pietra” che trasforma il meditante in un essere apatico e totalmente anestetizzato.
Tuttavia la concentrazione è indispensabile alla meditazione. E’ la concentrazione
sull’oggetto di meditazione, infatti, che rallenta il pensiero e dà spazio alla consapevolezza
accrescendo l’abilità nell’esaminare il corso del pensiero stesso. Ma per far questo la
mente va educata ad aderire ad un oggetto che la ancori e le impedisca di fluire con le
onde della fantasia.
Il Visuddhimagga contempla quaranta possibili oggetti di meditazione poiché ognuno
di essi meglio si adatta ad una persona piuttosto che ad un’altra. Ogni oggetto di
meditazione, infatti, ha effetti diversi sulla concentrazione e, conseguentemente, un
differente esito sulla meditazione. Lo scopo delle meditazioni differenziate è quello di
contrastare le tendenze cui siamo inclini a soggiacere. Vi sono anche oggetti di
meditazione di tipo più generale che si adattano a diverse tipologie di meditante. Uno di
questi è il respiro.
Quando la pratica progredisce, tali oggetti “di supporto” non sono più necessari,
poiché Shamatha diviene uno stato che può essere richiamato direttamente dal meditante
esperto.
Lo stato che si raggiunge praticando la Shamatha è simile a quello del fuoco di una
candela che non trema né ondeggia, ma rimane stabile nella sua luce. Esso rappresenta
una pausa nel flusso continuo dei pensieri, un riparo dal vento che perpetuamente
attraversa la mente impedendo alla fiamma di restare immobile.
4.3 - La consapevolezza
Se la concentrazione è la fiamma che non trema né ondeggia, la consapevolezza è
la luce che emana da essa ([10] p. 525), poiché illumina di comprensione le zone d’ombra
della nostra mente.
La mente, però, non si lascia domare facilmente anche ne siamo gli unici legittimi
proprietari. Ci si rende conto, allora, che siamo i custodi di qualcosa che non sappiamo
governare, e che, forse, non siamo neppure più sicuri di sapere cos’è. L’illusione della
coerenza e della continuità personale si lacera rivelando una realtà fatta di frammenti di
coscienza separati da abissi di incoscienza. Ci accorgiamo che per tenere ferma la
fiamma, abbiamo bisogno, anche, di essere consapevoli dello stato cui la fiamma si trova.
Tra i discorsi pubblici del Bhudda (Sutta) il Satipatthanasutta, conosciuto come
“Discorso sui fondamenti della consapevolezza” ([10] p. 546), è forse quello che più si
occupa dei metodi da utilizzare per rendere stabile l’attenzione.
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Etimologicamente, Satipatthana, è composto da due parole: Sati che è “presenza
mentale” e Patthana che significa sia “stabilirsi in modo vigoroso e fermo” che “applicarsi”.
La parola Sati non è legata al concetto statico di acquisito, ma a quello dinamico di
attività, di processo in corso che richiede volontà per avverarsi. Si tratta, quindi, di una
particolare accezione della parola italiana “consapevolezza”.
Spiegare cosa sia la consapevolezza a parole è impossibile poiché le parole sono
simboli concettuali che descrivono le nostre rappresentazioni mentali di una realtà esterna
alla mente e a cui la mente può accedere solo indirettamente. La consapevolezza, invece
è, per sua natura, preconcettuale.
Tenteremo, tuttavia, di darne un’idea attraverso delle analogie. In ogni caso per
arrivare alla piena comprensione di quanto verrà descritto vi è l’infallibile metodo della
diretta esperienza personale.
La consapevolezza nasce da un semplice processo di osservazione. Essa prende
atto delle esperienze ma non le analizza, non le classifica né le paragona. E’ solo
un’esperienza diretta, immediata ed equanime di tutto quello che accade senza alcuna
mediazione del pensiero.
La sua natura è, perciò, preconcettuale. Vale a dire che la consapevolezza compare
prima che il pensiero si formi, nel fuggevole momento che intercorre tra l’esperienza
stessa e la sua concettualizzazione. Prima che la mente sia messa a fuoco su quanto
avvenuto, in quel fugace istante che anticipa il processo concettuale, si raggiunge una
modalità di conoscenza profonda che va perduta non appena l’esperienza fatta viene
oggettivata in una statica rappresentazione mentale che la classifica separandola dal resto
dell’esistenza.
La consapevolezza è nel momento presente e riguarda ciò che avviene qui e ora. Se
ci si sofferma su un fatto del passato non è consapevoli di nulla perché non si fa
esperienza di nulla, abbiamo solo richiamato alla mente un ricordo. Accorgersi dell’atto di
ricordare è, invece, un atto di consapevolezza. Se l’atto di ricordare viene concettualizzato
in un’idea del tipo “sto ricordando” o se viene analizzato o giudicato, allora, si sta
pensando.
La consapevolezza è scevra da ogni personalizzazione perché prescinde da ogni
concetto, anche quelli dell’”io” e del “me”, è una sorta di vigilanza di quello che avviene nel
presente in assenza di un soggetto che compia l’azione di osservare.
Nel processo di percezione ordinaria la fase della consapevolezza è rapidissima e
non viene usualmente osservata. Siamo abituati a focalizzare l’attenzione sulle fasi
cognitive successive trascurando l’esperienza in se. Sostituiamo all’esperienza una lunga
divagante sequenza di pensieri simbolici concatenati che nascono dalla nostra mente e
nulla hanno a che fare con la realtà.
Lo scopo della pratica Vipassana è appunto quello di farci accorgere di questi
transitori momenti di consapevolezza e di prolungarli al massimo possibile per renderli
meno effimeri.
Nella tradizione Theravadin la considerazione in cui è tenuta la Vipassana è
particolarmente alta al punto che, in Occidente, questa pratica viene identificata con la
meditazione Buddhista Theravada tout court.
4.4 – L’assorbimento meditativo
Quattro sono le forme di attenzione, chiamate “forme di educazione mentale”,
contemplate nel Satipatthana Sutta: il corpo (Kaya), le sensazioni (Vedana), la mente in sé
(Citta) e gli oggetti mentali che la mente produce (Dhamma).
La Satipatthana è una pratica progressiva, che parte dagli oggetti su cui è più facile
portare e mantenere l’attenzione, com’è il corpo, per arrivare a quelli più astratti e difficili
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da afferrare, come i vari stati mentali e i prodotti della mente (pensieri, emozioni, etc.).
E’ ovvio che le pratiche più difficili non siano adatte ai principianti ma siano rivolte ai
meditanti più esperti, tuttavia la funzionalità del metodo, cioè la pratica della “presenza
mentale” è sempre la stessa indipendentemente dall’oggetto di meditazione e dalla
difficoltà a concentrarsi su di esso.
Anche lo scopo è sempre lo stesso: “decondizionare la mente” dall’ignoranza
riguardo all’origine della sofferenza, che non deriva da una causa esterna ma dal nostro
stesso comportamento, e dall’illusione riguardo alla nostra possibilità di eliminarla
attraverso il mero soddisfacimento dei desideri.
L’assorbimento meditativo (Samadhi) è raggiunto quando i concetti di “soggetto” e
“oggetto” scompaiono cosicché non si può più parlare di “concentrazione su un oggetto”
poiché rimane solo l’esperienza meditativa in sé. Samadhi non va, quindi, confuso con
Shamatha che è la concentrazione. Samadhi è il risultato della pratica combinata di
Shamatha e Vipassana che porta a Pativeddha, la conoscenza profonda.
Per molteplici ragioni, che non è possibile approfondire in questo contesto, le diverse
tradizioni hanno dato maggior rilievo all’una o all’altra pratica, ad esempio quella
Buddhista Tibetana dedica particolare attenzione allo sviluppo di Shamatha, al contrario la
tradizione Theravada è più orientata verso Vipassana.
Tuttavia, per accedere a Samadhi, Shamatha o Vipassana presi singolarmente non
sono sufficienti, infatti, Vipassana senza Shamatha è instabile, Shamatha senza
Vipassana manca di chiarezza ([10] p. 525). Questi due aspetti della meditazione sono
strettamente complementari e nessuno può fare a meno dell’altro.
Quando l’attenzione è continuativamente portata in ogni attività e si mantiene
consapevolezza di ogni azione anche lo stato di Samadhi continua a persiste nel tempo.
La divisione tra periodi meditativi non meditativi scompare e la meditazione non è più
un’attività effettuata da una persona ma è lo stato in cui si trova il meditante.
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Capitolo 5 - Modalità di meditazione
5.1 - Il luogo
Il luogo prescelto per meditare dovrebbe essere tranquillo e appartato. Si può
meditare anche in un contesto pubblico ma non conviene mettersi in mostra, in primo
luogo perché la curiosità altrui può infastidire secondariamente perché potrebbe essere
una forma di esibizionismo e, quindi, una deleteria manifestazione dell’ego.
E’ preferibile non trovarsi in ambienti rumorosi anche se non è necessario che il
luogo di meditazione sia acusticamente isolato. Le voci e la musica hanno una grande
attrattiva sulla mente quindi è meglio evitare che siano presenti.
In caso non fosse possibile isolarsi dai rumori essi vanno considerati come un
esercizio da superare per arrivare alla concentrazione.
Meditare sempre nello stesso luogo aiuta grazie al senso di familiarità e sicurezza
che esso induce.
Anche la compagnia di altri meditanti può essere di aiuto: per l’atmosfera un po’
mistica che si crea, per la ripetitività della pratica che induce un senso di ritualità, per
l’accordo preso col gruppo che frena il desiderio di eludere l’impegno di meditare preso
con sé stessi. Tuttavia, è essenziale essere auto sufficienti e meditare anche da soli. Il
gruppo può essere usato come aiuto ma non deve diventare una gruccia indispensabile.
5.2 - La durata
E’ fondamentale meditare con regolarità, in caso di impedimenti è preferibile fare una
breve ma non affrettata meditazione, anche di dieci minuti, che non fare nulla.
Uno dei problemi del nostro tempo è la densità di attività cui ci dedichiamo. Essa
spesso diventa una scusa per eludere il proprio impegno a meditare. E’ utile, perciò,
stabilire quanto tempo vogliamo dedicare alla meditazione scegliendo un periodo che sia
realistico. Se esageriamo ben presto ci accorgeremo di non poter mantenere l’impegno e
saremo tentati di abbandonare la pratica. Se invece non lo stabiliamo avremo tendenza a
meditare per brevi periodi e a saltare le sedute.
Sarebbe bene praticare per tutto il tempo che si desidera, ma tendenzialmente
questo induce i neofiti a ridurre il tempo di meditazione, al contrario può indurre i praticanti
esperti a prolungare la meditazione oltre il tempo che è concesso loro dagli altri impegni.
Il metodo più semplice è quella di puntare una sveglia, dal suono delicato e piacevole
all’ora in cui si intende finire di meditare e continuare per qualche minuto dopo lo squillo
per tornare gradatamente ad uno stato di coscienza normale. Questa prassi evita al
praticante (esperto o no) di distrarsi per guardare l’ora.
Per chi inizia un periodo di un quarto d’ora può essere sufficiente poiché gli
occidentali non hanno familiarità né con la postura richiesta né con la qualità mentali che
vengono coltivate durante la meditazione. Il tempo di meditazione va poi allungato un po’
alla volta.
Dopo un anno di pratica si può giungere a meditare con una certa agevolezza per
circa un’ora.
I praticanti esperti dedicano alla meditazione anche tre ore divise in un paio di sedute
durante la giornata.
La mancanza di familiarità con la postura può provocare dolori specialmente alle
gambe. Dobbiamo ricordarci che la meditazione non è una forma di ascetismo orientata
all’automortificazione e, quindi, non deve diventare una bieca gara di resistenza con sé
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stessi. Non c’è bisogno di dimostrare niente a nessuno, in particolar modo a sé stessi. Lo
sforzarsi è solo una controproducente esercitazione dell’ego.
5.3 - La postura
La meditazione non richiede una postura particolare. Si può praticare in svariate
posizioni e situazioni ad esempio seduti, coricati, in piedi, immobili o camminando etc..
Può anche essere utile cambiare ogni tanto sia postura che modalità di pratica per uscire
dall’abitudine e verificare il livello di concentrazione.
La scelta della posizione deve essere fatta solo in base a criteri di comodità al fine di
permettere un lungo permanere in stato di immobilità; può, perciò, andar bene anche l’uso
di una sedia.
La posizione seduta è quella più adatta alla meditazione perché favorisce la
concentrazione, minimizza il rischio che si sviluppi sonnolenza, che è più facilmente
indotta dalla posizione sdraiata, e minimizza anche le distrazioni dovute ai problemi di
equilibrio che si manifestano specialmente in posizioni in piedi e ad occhi chiusi.
Per assumere questa postura correttamente sono consigliabili alcuni accorgimenti.
1.
Indossare abiti comodi, è da evitare qualsiasi abbigliamento che strige il corpo.
2.
Posso essere usate indifferentemente le posizioni del Loto (Padmasana), del Saggio
(Siddhasana), del Saggio in Svastika (Svastikasana), seduti sui talloni cioè del
Diamante (Vajrasana) o semplicemente a gambe incrociate (Sukhasana).
3.
E’ consigliabile accomodarsi su un cuscino; questo supporto quasi sempre superfluo
per gli orientali, per la loro abitudine di sedere sul pavimento, è spesso
indispensabile agli occidentali al fine mantenere la schiena dritta. Il cuscino deve
essere piuttosto duro ed alto e va usato sedendosi sul suo margine in modo da avere
i glutei sollevati e la ginocchia che poggiano a terra mantenendo, però, il busto
perpendicolare al terreno e non inclinato in avanti. Esistono anche cusciti conformati
a questo scopo che hanno una forma di mezzaluna.
4.
Si assume la posizione con la colonna vertebrale perpendicolare al pavimento
inclinando in busto un po’ in avanti e portandolo poi in posizione ortogonale. Questo
movimento permette di sedersi sulle ossa iliache e non sui muscoli dei glutei che,
rimanendo nella parte posteriore del corpo contribuiscono al suo sostegno.
5.
Le spalle devono essere allineate, allargate ed alla stessa altezza.
6.
La testa è eretta, come se pendesse da un filo posto sulla sommità del capo, il
mento orizzontale, la nuca distesa con la lordosi cervicale ridotta al minimo. In
questa posizione il collo deve risultare rilassato e non in tensione. Se si manifestano
tensioni vuol dire che la posizione non è corretta.
7.
Le mani possono essere atteggiate a vari mudra tra cui citiamo i due più usati.
a) Cin mudra con le ultime falangi del pollice e dell’indice a contatto oppure con
l’indice che tocca la base del pollice e le altre dita distese. Il palmo delle mani
può essere rivolto verso l’alto o verso il basso.
b) Dhyani mudra con le mani in grembo, il palmo delle mani rivolto verso l’alto, la
mano sinistra sopra la destra. Eventualmente si pongono le estremità dei pollici a
contatto. Una variante prevede che la mano destra appoggi sulla sinistra. In
alternativa la mano sinistra viene appoggiata in grembo, con il palmo rivolto
verso l’alto, e la mano destra si appoggia al ginocchio destro con il palmo rivolto
verso il basso; oppure ambedue le mani appoggiano sulle ginocchia con il palmo
rivolto vero il basso.
8.
Il volto deve essere rivolto il avanti in modo che la testa non sia ruotata né a destra
né a sinistra.
9.
La mascella deve essere rilassata, senza denti serrati ma appena socchiusi, la lingua
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Vannucci Luigi
Meditazione: la tecnica del Buddhismo Teravada Vipassana-Shamata
deve riposare morbida all’interno della bocca eventualmente appoggiata al palato
immediatamente dietro gli incisivi. Anche i contorni della bocca devono essere
rilassati insieme all’intero volto.
10. Conviene chiudere gli occhi poiché essi sono il mezzo di percezione preferito dalla
nostra specie e, quindi, le immagini facilmente provocano distrazioni. La pratica ad
occhi chiusi rischia, però, di indurre sonnolenza. Se non si riesce a combatterla o se
combatterla provoca distrazione e meglio rimanere ad occhi aperti fissati sulla punta
del naso o sul pavimento a circa un metro di distanza davanti a noi. Anche questo
metodo ha però i suoi inconvenienti poiché mantenere lo sguardo fisso può
provocare insofferenza e lacrimazione.
11. La respirazione, calma, tranquilla, naturale e silenziosa deve avvenire attraverso il
naso. Più la respirazione è flebile maggiormente profonda è la concentrazione.
12. Se saltuariamente si avverte il bisogno di deglutire vuol dire che ci si sta
progressivamente rilassando. Se, invece, il bisogno è frequente è un tentativo di
distrare la mente dalla meditazione.
13. La posizione assunta va mantenuta nell’immobilità. Non bisogna cedere alla
tentazione di cambiarla a causa del disagio che provoca poiché anche la nuova
posizione ben presto risulterà disagevole e si avrà di nuovo il desiderio di cambiarla.
Se invece viene mantenuta la posizione inizialmente scelta la mente si distoglie da
questo pensiero ossessivo e la posizione potrà essere comodamente mantenuta a
lungo.
14. Se il disagio diventa sofferenza conviene coscientemente cambiare posizione in
piena consapevolezza e non variarla impercettibilmente di continuo, istintivamente.
15. Un dolore persistente può avere origine da una scorretta postura, è opportuno allora
fare i seguenti controlli:
a) che i vestiti indossati non stringano il corpo,
b) che il cuscino sia sufficientemente alto (una decina di cm),
c) di essere seduti sul bordo del cuscino e non al centro o all’indietro,
d) di poggiare i piedi su un tappetino sufficientemente spesso (almeno 1 cm),
e) che il busto non sia inclinato in avanti,
f) che la testa non penda in avanti,
g) che le mani siano comodamente appoggiate in grembo o sulle ginocchia,
h) che la schiena sia perpendicolare al pavimento,
i) che le spalle non siano cadenti.
Quando si esce dalla posizione è consigliabile sciogliere tutte le articolazioni ed
eventualmente fare un automassaggio.
5.4 - L’atteggiamento
La mente è un insieme di eventi e il praticante anche se ne è l’osservatore ne viene
inevitabilmente coinvolto. La meditazione è quindi un’osservazione partecipe, il soggetto
dell’azione, il meditante, è l’oggetto stesso della meditazione. Per questo motivo ciò che
viene osservato è influenzato dal modo di osservare. Di conseguenza, durante la
meditazione, è essenziale mantenere un corretto atteggiamento mentale che può essere
riassunto nei seguenti punti.
1.
Bisogna mettere da parte tutti i preconcetti.
2.
E’ indispensabile l’attenzione a quello che si sta facendo.
3.
Bisogna evitare qualsiasi catena associativa di pensiero.
4.
Bisogna stabilire in precedenza il tempo dedicato alla seduta di meditazione in modo
da non cedere alla tentazione di accorciarla per fare qualcosa di apparentemente più
utile, importante o urgente.
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Meditazione: la tecnica del Buddhismo Teravada Vipassana-Shamata
Bisogna essere rilassati.
Non bisogna sforzarsi, gli sforzi inducono tensioni ed impediscono il rilassamento.
Non bisogna essere ansiosi riguardo ad effetti e risultati.
Non bisogna essere precipitosi e precorrere i tempi a causa del desiderio di ottenere
risultati; la meditazione non è una gara con sé stessi e la fretta è antitetica alla
calma.
Non bisogna avere aspettative. Bisogna semplicemente osservare quello che
succede. L’atteggiamento corretto è quello dello sperimentatore che ha un puro e
semplice interesse per i risultati indipendentemente da quali essi siano.
Non bisogna guardare al futuro, ponendosi dei traguardi più o meno immediati. Non
si deve presupporre che la pratica dia i suoi frutti in tempi determinati, ciò dipende
dal praticante e dalle modalità della pratica. La meditazione è un processo di
rieducazione della mente che può richiedere anche più tempo di quello impiegato per
plasmarla nella forma in cui si trova. Bisogna convincersi che i risultati arrivano solo
col tempo.
Non bisogna guardare al passato, crogiolandosi nei risultati ottenuti.
Non bisogna avere attaccamenti per gli effetti della pratica. Questi posso essere
piacevoli e generare desiderio di risperimentarli ma ciò può frenare lo sviluppo del
praticante.
Non bisogna avere rifiuti verso gli effetti della pratica. Essa può generare immagini,
emozioni o stati d’animo spiacevoli i quali, se non vengono affrontati, frenano
anch’essi lo sviluppo del praticante. Bisogna accettare tutto quello che sorge senza
formulare giudizi.
Non bisogna ponderare sulle cose, la meditazione non è una forma di ragionamento
logico e non porta ad una percezione di tipo concettuale.
Non bisogna indugiare sui contrasti, gli aspetti contradditori sono dovuti alla
limitatezza delle capacità umane, se ne deve prendere consapevolmente atto ma
non esaurirsi a trovare a tutti i costi una soluzione.
Bisogna investigare su sé stessi, interrogarsi su tutto e non dare nulla per scontato.
Ogni affermazione va sottoposta alla prova dell’esperienza, i risultati devono fare da
guida verso la verità e le convinzioni devono essere temprate con le prove.
Essere orgogliosi dei risultati della pratica è sintomo che è stata fatta male.
Bisogna essere gentili con sé stessi, il desiderio di riuscire nella pratica può spingere
a cercare la performance.
Bisogna che la mente sia orientata verso pensieri etici e purificata da pensieri
negativi come: concupiscenza, cupidigia, gelosia, risentimento, orgoglio,
preoccupazione, paura, ansia, vergogna, senso di colpa, agitazione, noia etc..
Bisogna considerare tutti i problemi come sfide e le negatività come occasioni di
crescita. Bisogna comprendere che i vari tipi di emozioni negative che possono
sorgere sono normali reazioni umane che possono affliggere chiunque.
I risultati negativi della pratica non devono incidere sull’autostima, nessuno è perfetto
e l’unico materiale che abbiamo per lavorare siamo noi stessi.
5.5 - Le difficoltà
Durante la pratica della meditazione possono manifestarsi vari tipi di problemi. Sono
vicende attraverso le quali tutti passano e che tutti devono affrontare quindi, in un certo
senso, fanno parte della pratica stessa. Le difficoltà non sono da evitare ma da usare
poiché ci mettono a disposizione inestimabili occasioni di apprendimento.
Il segreto della capacità di far fronte ai problemi sta tutto nell’atteggiamento. Il motivo
per cui ci impantaniamo nel fango della vita e che continuamente fuggiamo ai problemi e
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Meditazione: la tecnica del Buddhismo Teravada Vipassana-Shamata
rincorriamo i desideri. Oppure mettiamo in atto strategie di auto suggestione cercando di
convincerci che le cose spiacevoli non esistono o che toccano soltanto gli altri. In
alternativa si arriva perfino al punto di negare l’evidenza convincendosi che è piacevole ciò
che, invece, piacevole non è.
La meditazione, al contrario, ci pone difronte alla realtà così come è, che sia
gradevole o meno.
Il dolore è inevitabile, prima o poi ci tocca e siamo costretti ad affrontarlo, la
sofferenza che propaga il dolore al di là dell’ambito in cui si manifesta, coinvolgendo i più
svariati aspetti della vita, si può, invece, evitare.
Esiste un unico modo, però, di sfuggire alla trappola della sofferenza, è quello di
studiare la trappola stessa ed imparare in che modo è costruita.
La prima cosa da fare è di non considerare i problemi come fardelli altrimenti la
sofferenza si accresce; bisogna, piuttosto, imparare ad osservare le esperienze spiacevoli
con calma e chiarezza. Quando sono esaminate accuratamente esse perdono la loro
presa e sono percepibili per quello che sono: impulsi che sorgono e svaniscono come le
immagini di un paesaggio sempre in moto. Come conseguenza di questa comprensione le
vicende della vita si semplificheranno e si appianeranno sempre di più nonostante le
difficoltà.
Per realizzare ciò, attraverso la meditazione, occorre, però, autodisciplina.
L’autodisciplina non è un’imposizione accompagnata da deterrenti e potenziali ritorsioni
ma è l’abilità di vedere fino in fondo ai propri impulsi. Essi lusingano o impauriscono ma
non hanno nessun potere reale. Ci si arrende ad essi per abitudine o perché non ci si è
mai preso il disturbo di guardare cosa c’è dietro le loro adulazioni o minacce. Dietro non
c’è assolutamente nulla, sono assolutamente privi di qualsiasi consistenza.
Guardando al nostro interno ad osservare le cose che ne emergono: agitazione,
ansia, impazienza, dolore etc. senza farsi coinvolgere, ci accorgeremo che esse
semplicemente spariscono, svaniscono naturalmente, senza alcun sforzo e senza lasciare
traccia.
La tecnica di osservare lo stato in cui siamo è un potente rimedio per affrontare quasi
tutte le situazioni di disagio in cui possiamo venire a trovarci durante la meditazione. Essa
non corrisponde all’inconscio disimpegno dell’attenzione dall’oggetto di meditazione per
portarlo sullo stato di disagio, ma deve essere un consapevole trasferimento della
concentrazione su di esso. Infatti, lo stato disagevole, di per se, può essere anch’esso un
oggetto di meditazione.
5.5.1 - Esagerato impegno e frustrazione
L’esagerato impegno è la prima cosa da evitare. I principianti, a causa delle loro
aspettative, sovente irrealistiche e spropositate, incominciano il cammino meditativo con
un impegno che spesso va al di là delle loro possibilità. I frutti di questo errato modo di
meditare non si fanno aspettare: scarsi risultati, stanchezza, senso di colpa,
autocondanna, etc..
Bisogna, perciò, imparare a riconoscere le situazioni deleterie che l’eccessivo sforzo
può indurre:
1.
tensione che è lo stato opposto al rilassamento che la meditazione richiede,
2.
meccanicità nella pratica che è esattamente l’opposto della consapevolezza,
3.
insoddisfazione che è mancanza di consapevolezza dei propri limiti,
4.
frustrazione che è mancanza di accettazione delle difficoltà,
5.
scoraggiamento che è l’opposto dell’impegno iniziale,
6.
rammarico che è una forma di auto indulgenza, una scusa per disimpegnarsi.
Invece che impegnarsi esageratamente bisogna, piuttosto, imparare a fluire con
qualsiasi cosa accada, a non prendersi troppo seriamente, a non condannarsi per i propri
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Meditazione: la tecnica del Buddhismo Teravada Vipassana-Shamata
errori ma a imparare da essi.
In sintesi, bisogna godersi la meditazione e non sovraccaricarsi di ansie e di sforzi.
5.5.2 - Difficoltà a concentrarsi
Essa può nascere da due tipi di fattori: esterni a noi stessi ed interni (più difficilmente
individuabili).
E’ ovvio che, per favorire la meditazione, i fattori esteri vadano preventivamente
rimossi. Tra essi sono annoverabili gli stati mentali creati dalla narrazione (film, romanzi,
etc.) o indotti dalla musica e gli stati emotivi indotti dalle vicende personali.
Vi sono poi i fattori di agitazione interni a noi stessi di cui spesso non riusciamo a
capire l’origine. In questo caso il rimedio è quello di mettersi in osservazione del fenomeno
senza formulare alcun giudizio di merito.
5.5.3 Il dubbio
Si può facilmente individuare e distinguere il dubbio da altre difficoltà. Esso assume
la forma di dialogo interno. Il meditante incomincia a porsi domande riguardo all’efficienza,
alla validità, alle modalità del metodo e riguardo al suo modo di meditare.
Non bisogna farsi ingannare dalle apparenze che travestono il dubbio da analisi
consapevole e rimanere incastrati in una sequenza di pensieri concettuali. Bisogna uscirne
fuori ed osservarlo dall’esterno arrivando a comprendere che l’esitazione è soltanto uno
stato mentale. Esso svanirà semplicemente avendone fatto un oggetto di osservazione.
5.5.4 - Avversione per la meditazione
Può capitare che si abbia un moto di rigetto nei confronti della meditazione. Le cause
del fenomeno sono molteplici, più o meno gravi.
La situazione più semplice da risolvere è quella causata da un’emozione
passeggera, in questo caso è sufficiente portare l’attenzione alla sensazione e già
quest’azione diventa un processo meditativo.
Una situazione più complicata si manifesta quando l’avversione permane a causa di
uno stato d’animo negativo. In questo caso bisogna capire da dove esso nasca e
successivamente eliminare il problema che lo ha generato. Con la risoluzione del
problema passerà anche la resistenza a meditare.
Un caso ancora più complesso si verifica quando il problema non è identificabile.
Bisogna allora mantenere l’attenzione sulla sensazione di avversione finché essa non
scemi. Non è facile mantenere questa determinazione ma alla fine vi è un premio. Quando
la sensazione di avversione scompare molto spesso si capiscono anche le ragioni e i
problemi che l’hanno generata.
Se l’avversione persiste bisogna impegnarsi in un riesame attento delle modalità di
meditazione, perché, molto probabilmente, si sta utilizzando un metodo sbagliato.
Esiste, infine, la possibilità che nessuna delle cause sopra citate sia all’origine
dell’avversione. Il problema, allora, non può essere risolto dal meditante stesso ma ha
bisogno dell’analisi di un meditante esperto che possa aiutare il principiante ad individuare
le ragioni di tipo metafisico che fanno da ostacolo.
5.5.5 - Il sopore
E’ uno stato mentale e non fisico per cui non ha a che fare con la sonnolenza.
Sopravviene in diversi gradi e in varia intensità.
E’ strettamente connesso con l’avversione poiché è uno di quei modi ingegnosi che
la mente usa per evitare le situazioni che non le piacciono.
Il sopore consiste nello spegnersi dell’apparato mentale e nell’offuscarsi della
vigilanza sensoriale e cognitiva. Una sorta di stupidità indotta travestita da sonno.
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Meditazione: la tecnica del Buddhismo Teravada Vipassana-Shamata
Il sopore è esattamente il contrario della consapevolezza e il rimedio ad esso è la
vigilanza. Questa sorveglianza dello stato mentale deve essere, però, estremamente
attenta ed abile a coglierne i sintomi fin dall’inizio. Infatti, se il sopore prende piede è già
troppo tardi per sfuggirgli poiché il suo potere sommergerà la consapevolezza.
5.5.6 - La sonnolenza
E’ quasi sempre indotta dalla stanchezza fisica. E’ un inconveniente che si manifesta
frequentemente e che spesso devono affrontare anche i meditanti esperti.
Il modo di combattere la sonnolenza è analogo al modo di combattere il dolore.
Occorre portare l’attenzione proprio allo stato di sonnolenza per capire quali caratteristiche
abbia, quali lo differenziano dal rilassamento, come agisce, e quali sono le sensazioni
fisiche premonitrici che ci possono aiutare a non caderne inconsciamente preda.
La presa di coscienza dello stato di sonnolenza di per sé è in grado di dissiparla.
Infatti, consapevolezza e sonno sono esperienze diametralmente opposte a meno che non
si utilizzino le tecniche dello Yoga Nidra [11] o, per quanto riguarda il sogno, quelle dello
Dzogchen [12].
Se la sonnolenza persiste si può cercare di dissolverla ripetendo alcune volte questo
ciclo respiratorio: inspirare profondamente, trattenere a lungo il respiro ed espirare
lentamente.
Naturalmente, per non incappare nella sonnolenza, è meglio evitare pasti
abbondanti, attività sportiva o lavori pesanti prima di meditare.
5.5.7 - Il torpore
Il “torpore” etimologicamente ha il significato di stordimento, rigidità, ottusità. Non
equivale, quindi, a “sopore” che significa essenzialmente sonno.
Questa precisazione è doverosa per capire la diversa natura dei due fenomeni.
Nel processo di meditazione il rilassamento va via via aumentando dando al
meditante una sensazione di calma e leggerezza che può arrivare a sembrare quasi un
distacco dal corpo.
E’ un tipo di sensazione molto piacevole che, però, nasconde una trappola. Il
godimento di questa sensazione induce una sorta di torpore estatico che distoglie
l’attenzione dall’oggetto di meditazione e riduce lo stato di consapevolezza.
Le sensazioni di beatitudine non vanno, però, rigettate, vanno accettate ed osservate
mantenendo la consapevolezza di quello che sono, semplici percezioni che perdurano per
qualche tempo e poi si dissolvono. Bisogna, tuttavia, fare attenzione che esse, grazie alla
loro gradevolezza non ci risucchino.
Il rimedio è semplice, è il mantenimento dell’attenzione sull’oggetto di meditazione e
il mantenimento della consapevolezza sul nostro stato mentale.
5.5.8 - La noia
Anche la noia è uno stato mentale. I possibili rimedi ad esso sono due.
Il primo consiste nell’usuale trasferimento dell’attenzione alla noia stessa cercando di
analizzarne le cause, la natura, il processo mentale che la genera e gli effetti mentali e
fisici.
Il secondo richiede consiste nel riportare l’attenzione all’oggetto di meditazione
cercando di guardarlo con occhi diversi, simili a quelli di un bambino che tutto ammira con
stupore. Infatti, quando si presuppone di conoscere qualcosa al punto che tornare ad
osservarla genera noia, non si sta veramente osservando l’oggetto nel suo stato attuale,
sempre dinamico e diverso, ma si sta concettualizzando l’oggetto stesso trasformandolo in
una rappresentazione mentale statica e quindi noiosa.
La consapevolezza, che coglie anche le infinitesime mutazioni dell’oggetto
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osservato, non può per sua natura essere noiosa.
5.5.9 - La paura
Tre sono le fonti che possono generare paura durante la meditazione.
La prima è un alto livello di concentrazione su un oggetto di meditazione sgradevole
o pauroso. La paura può anche manifestarsi usando un l’oggetto del tutto neutro come il
respiro, per esempio la paura di non poter respirare. Il fenomeno è indice di una
consapevolezza debole che viene facilmente distolta.
Una seconda fonte di paura sono i ricordi. Essi si manifestano già nell’inconscio,
sono presenti anche se non arrivano allo stato di pensieri e generano stati emotivi spesso
incontrollabili perché non se ne riconosce l’origine.
La terza fonte è la consapevolezza delle mutazioni che induce la pratica e l’ansia
riguardo al percorso che ci attende, in parole povere: la paura dell’ignoto. Abbattere il
muro delle illusioni e ritrovarsi faccia a faccia con una realtà che non conoscevamo prima,
anzi con la realtà nuda e cruda può indurre paura ma il percorso è ineludibile.
In tutti i casi il rimedio consiste nell’osservazione della paura, nel cogliere la sua
dinamica, nell’analizzare gli effetti che genera ma senza esserne coinvolti, come un
passante interessato ad un evento che non lo riguarda. Quando il fenomeno avrà
raggiunto il suo apice semplicemente scemerà e scomparirà. Nessun fantasia, ricordo od
ansia può nuocere, non vi è nulla di realmente consistente, vi è solo un’impressione che,
fatto il suo decorso, si dissolve.
5.5.10 - L’agitazione
L’agitazione è un sintomo che qualcosa sta accadendo a livello inconscio.
Tutte le volte che situazioni o pensieri spiacevoli si manifestano la tendenza non è
quella di affrontarli ma quella di eluderli. Per far ciò nascondiamo il problema alla mente
ma non per questo riusciamo a rimuoverlo. Il disagio, che il problema provoca, non
scompare e si manifesta in maniera sottile, intangibile e non identificabile sotto forma di
un’agitazione che impedisce il rilassamento.
L’agitazione, proprio perché indefinibile, non è facilmente rimovibile, bisogna
accettarla e convivervi finché è presente. Non bisogna, però, esserne dominati, ma
neppure entrarci in conflitto sforzandosi di cacciarla via.
La cosa giusta da fare è semplicemente guardarla da vicino. Con l’osservazione
attenta le cause nascoste e non rimosse dell’agitazione verranno a galla e, una volta
comprese ed affrontate, non saranno più in grado di creare situazioni di disagio.
5.5.11 – Il desiderio
Una qualsiasi distrazione può condurre al desiderio; desiderio di ottenere qualcosa
cui si sta pensando o di prolungare un’esperienza che si sta vivendo.
Per liberarsi da questo stato mentale occorre osservare cosa questa sensazione
provoca in noi, come evolve, per quanto perdura e come e perché scompare. Alla fine di
questo processo probabilmente saremo anche consapevoli di quali siano state le cause
che lo hanno generato.
5.5.12 - Le sensazioni strane
Durante la meditazione possono manifestarsi sensazioni di ogni tipo come: prurito,
formicolio, leggerezza, levitazione, ondeggiamento, potenza, aumento di dimensione o
rimpicciolimento, incapacità a muoversi.
Tutte esse originano da un’accresciuta sensibilità dovuta al rilassamento che migliora
la trasmissione sensoriale. Le percezioni si fanno, quindi, più ricche dando luogo a
sensazioni che possono essere anche bizzarre.
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5.5.13 - Intorpidimento delle gambe
E’ un problema che sovente affligge i principianti. L’intorpidimento nasce dalla
compressione dei nervi e non dalla mancanza di circolazione quindi non deve destare
preoccupazione.
Le persone che soffrono di vene varicose, invece, dovrebbero avere cautela
nell’assumere la posizione meditativa e privilegiare quelle posture che lasciano le gambe
più libere e meno intrecciate. Come abbiamo detto in precedenza va bene anche l’uso di
una sedia poiché l’essenza della meditazione non è la postura in se.
5.5.14 - Il dolore fisico
Mettersi in rapporto col dolore fisico è un processo che si articola in due fasi.
La prima è quella i cercare di liberarsi da esso mediante le cure. Le precedenti
considerazioni riguardo al dolore non intendevano indurre nessuno a non curarsi,
intendevano piuttosto aiutare coloro che nonostante le cure non riescono a liberarsene
completamente a conviverci.
La seconda fase è appunto quella di affrontare il dolore residuo, che le cure non
sono riuscite ad eliminare, trasformandolo in oggetto di meditazione.
Nonostante la cosa possa apparire controproducente l’atteggiamento giusto con il
dolore non è quello di ignorarlo ma di prenderne coscienza. Se il suo effetto è quello di
distogliere la mente dal suo oggetto di meditazione (per esempio il respiro) non è profiquo
lottare contro questa tendenza ma conviene far scivolare l’attenzione sul dolore stesso. Vi
si scopriranno due aspetti: la sensazione in sé e la resistenza a farne esperienza.
La resistenza è in parte fisica ed in parte mentale. Le reazione fisica si manifesta con
un irrigidimento dei muscoli attorno alla zona della sensazione dolorosa, quasi a volerla
isolare dal resto del corpo. Quella mentale è analoga a quella fisica poiché consiste in
rifiuto, allontanamento e respinta della sensazione. In ambedue i casi va allentata la
tensione e perseguito il rilassamento che, sorprendentemente, porterà con sé
l’attenuazione e, forse, anche la scomparsa del dolore stesso. Il calarsi nella sensazione
dolorosa, non accentua il dolore ma ci fa render conto che il dolore non è al di fuori di noi e
non lo possiamo rifiutare perché rifiuteremmo noi stessi. Questo argomento logico non ci
darebbe nessun aiuto se rimanesse solo sul piano intellettuale mentre la consapevolezza
che viene dall’esperienza è capace di distrugge la barriera psicologica interposta tra noi ed
il dolore.
La capacità di controllo del dolore può essere acquisita solo in maniera graduale; i
neofiti fanno perfino fatica a dominare dolori di piccola entità, mentre i praticanti esperti
riescono a padroneggiare anche dolori più intensi.
Bisogna, però, fare attenzione a non andare oltre la sensazione che si sta provando
perché il dolore potrebbe esserne accentuato. La mancanza di una consapevole visione
della sensazione dolorosa può far sorgere reazioni emotive quali la paura, l’ansia o la
rabbia. L’intento della pratica non è né masochista e neppure analgesico poiché quello
che si persegue è l’autocontrollo e non l’automortificazione o l’anestesia.
Questa capacità di padroneggiare il dolore fisico può essere successivamente estesa
a tutte le altre situazioni disagevoli della vita, fisiche e psicologiche.
5.6 - I metodi per minimizzare le difficoltà
Abbiamo analizzato nel capitolo precedente le possibili difficoltà che possono
insorgere nella pratica e visto come l’osservazione attenta dello stato in cui ci troviamo sia
un rimedio universale per affrontare le situazioni di disagio.
In alcuni giorni, però, questo rimedio non è efficace e la meditazione risulta
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Meditazione: la tecnica del Buddhismo Teravada Vipassana-Shamata
particolarmente difficile. Ciò è dovuto ad una carenza di concentrazione che lascia libera
la mente di vagare ogni dove e non è in grado di ancorarla né all’oggetto di meditazione
né alle situazioni di disagio.
In questo caso è utile ricorrere ad alcuni espedienti che possono aiutare a rimanere
concentrati.
5.6.1 - Valutare i tempi di distrazione
Nella distrazione si cade sempre senza accorgersene, altrimenti non saremmo da
essa ingannati. Quando se ne emerge per liberarsi completamente dalla presa del
pensiero che ha distolto l’attenzione dall’oggetto di meditazione, è utile cercare di valutare
quanto a lungo sia perdurata la distrazione.
Non è necessario fare un calcolo preciso ma semplicemente avere la sensazione del
tempo in cui siamo rimasti distratti prendendo a riferimento iniziale un evento quale, ad
esempio, un rumore o il manifestarsi di un pensiero.
Nell’utilizzo di questa tecnica il principiante tende a formulare un pensiero discorsivo,
ma mano che si diventa più esperti questo aspetto dovrebbe scomparire e rimanere solo
la sensazione di quanto tempo siamo rimasti distratti.
5.6.2 - Contare
E’ una tecnica che ancora la mente all’oggetto di meditazione. Bisogna, però, fare
attenzione che l’operazione di contare mentalmente non divenga l’attività principale della
mente. Deve rimanere un processo sullo sfondo dell’attività mentale mentre l’attenzione va
all’oggetto di meditazione. Quando e se il contare diventa una difficoltà l’attività va
abbandonata.
5.6.3 - Respirare profondamente
Ampliare ed approfondire le fasi respiratorie calma la mente e focalizza l’attenzione
sul respiro. Esso può essere usato come oggetto principale di meditazione oppure come
oggetto transitorio che al suo affievolirsi lascia spazio all’oggetto principale di meditazione.
5.6.4 - Aver continuativamente presente lo scopo
Quando il meditante non viene più coinvolto dai propri pensieri essi entrano nella
mente in maniera casuale. Essi escono dall’inconscio senza una ragione comprensibile e
si concretizzano in immagini, suoni concetti scorrelati tra di loro.
Essi sono piuttosto insidiosi perché la mente ha la tendenza a correre loro dietro per
capirne il senso.
La tecnica per non farsi trascinare via da essi è quella di avere continuativamente
presente lo scopo dell’attività meditazione che si sta facendo.
5.6.5 - Sostituire un pensiero distraente con un pensiero opposto
Vi sono pensieri persistenti, difficilmente rimovibili a causa della loro natura
ossessiva.
I pensieri di per se, non hanno consistenza reale e quindi non possono essere né
buoni né cattivi. Possono, invece, essere utili o dannosi all’attività di meditazione e alla
nostra vita stessa.
I pensieri dannosi sono collegati all’avversione, all’attaccamento, alla paura e alla
confusione. L’avidità, la cupidigia, la lussuria, la lascivia, l’avversione, l’odio, la rabbia, il
timore, l’ansia, il dubbio, l’irresolutezza etc. sono tutti pensieri dannosi che si trasformano
facilmente in ossessioni.
Al contrario distacco, purezza, onestà, sincerità, fiducia, generosità, serenità, calma,
coraggio, sicurezza, determinazione etc. sono tutti pensieri utili perché efficaci a
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Meditazione: la tecnica del Buddhismo Teravada Vipassana-Shamata
cancellare quelli deleteri.
La tecnica per rimuovere un pensiero dannoso è, quindi, quella di generare il
pensiero opposto che diventa l’oggetto di meditazione.
Bisogna, però, precisare che i pensieri positivi usati in tal guisa, producono solo uno
stato mentale provvisorio che si esaurisce con l’attività di meditazione. Per generare
nell’individuo un’attitudine permanente a comportarsi conformemente ad essi è necessario
aderire a tutto un percorso evolutivo che, attraverso varie tappe, trasforma intimamente
l’atteggiamento.
Questo è l’intento delle meditazioni buddhiste [13] focalizzate sull’equanimità,
l’amicizia, la gioia empatica, l’amore, la compassione, etc..
5.6.6 - Generare sensi di colpa
I pensieri ossessivi possono essere così radicati che neanche la tecnica di generare
il pensiero opposto può rimuoverli. In questo caso, quale estrema ratio, si può far leva su
una delle emozioni umane più distorte: il senso di colpa.
Si cerca immaginare tutte le conseguenze negative che il pensiero ossessivo genera
a noi e agli altri e come appariamo agli occhi altrui. Si immaginano gli atteggiamenti
negativi, nei nostri confronti, che vengono indotti negli altri a causa del nostro
comportamento fino anche ad arrivare al disgusto per noi stessi.
Bisogna, però, fare attenzione che il processo non mini l’autostima e non diventi uno
stato mentale persistente. Se appaiono segnali di questo tipo occorre sospenderlo.
Ugualmente questa tecnica va abbandonata non appena il pensiero ossessivo sia
indebolito abbastanza da poter essere combattuto usando la tecnica del pensiero opposto.
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Vannucci Luigi
Meditazione: la tecnica del Buddhismo Teravada Vipassana-Shamata
Capitolo 6 - La tecnica Vipassana
6.1 - Finalità ed effetti della tecnica Vipassana
In lingua pali la pratica della consapevolezza è designata dall’allocuzione BhavanaVipassana. Bhavana vuol dire “educazione”, “sviluppo”, “progresso” e viene dalla radice
bhu, che significa “diventare”. Vipassana è il composto di due parole: vi che ha molti
significati la cui accezione principale è “in modo speciale” e passana che significa
“percepire”. Quindi, l’allocuzione Bhavana-Vipassana significa “educazione a percepire in
maniera speciale”.
La Vipassana altro non è una forma di educazione mentale che insegna a rendersi
conto di che cosa stia realmente accadendo intorno a noi e al nostro interno. E’ una
progressiva reale scoperta delle proprie esperienze fatte al momento del loro apparire.
La Vipassana è la più antica delle pratiche Buddhiste che è descritta in uno dei
discorsi attribuiti al Buddha: il Sattipatthana Sutta.
Si tratta di una tecnica gentile che, in modo graduale e sistematico, coltiva lo
sviluppo della consapevolezza.
Attraverso di essa si impara ad essere presenti in ogni esperienza per quanto
piccola, semplice od usuale essa sia, si impara a fare attenzione ai propri pensieri senza,
per questo, esserne catturati. Lo scopo è quello di ristrutturare la mente poiché il suo
abituale modo di comportarsi, basato sulle reazioni automatiche piuttosto che sulle azioni,
induce una generalizzata disattenzione che non le permette di accorgersi della sua stessa
superficialità e la imprigiona in un circolo vizioso. Inoltre, a causa della disattenzione, i
problemi che non vengono sottoposti all’analisi della coscienza scivolano e si depositano
nell’inconscio per poi riemergere sotto forma di tensioni di cui non riusciamo ad individuare
l’origine.
Con la meditazione Vipassana si impara ad ignorare l’impulso che ci spinge
costantemente a sfuggire alle realtà spiacevoli col ritirarci nell’illusorio mondo di una
perennemente sfuggente gratificazione. Si impara a dominare le proprie paure, a
incominciare da quelle della malattia e della morte, e ci si cala nella realtà così come essa
è, un alternarsi di eventi favorevoli e no.
Il modo abituale di percepire e reagire è molto riduttivo poiché trascuriamo, a livello
cosciente, la quasi totalità dei fenomeni sensori reagendo a questi stimoli in maniera
programmata, del tutto standardizzata secondo un protocollo di desiderio-avversione che
non lascia spazio a nessun ulteriore analisi.
L’esempio tipico è quello della preoccupazione. Essa nasce quando la difficoltà non
si è ancora manifestata e diventa lei stessa un problema indipendentemente dal fatto che
la difficoltà che l’ha generata si realizzi o no. In sostanza la paura ha tendenza a tradurre
qualsiasi potenziale rischio in un pensiero ossessivo che ci infelicita la vita.
La capacità di rigettare i pensieri di natura ossessiva genera, invece, una visione
totalmente nuova ed oggettiva della realtà che ci permette di rimanere lucidi e sereni
anche in condizioni di reale difficoltà.
Una nuova visione del mondo include necessariamente anche una nuova visione del
proprio “io”. Nei riguardi di questo concetto usualmente ci si comporta con le stesse
modalità utilizzate per il resto del mondo esterno cioè creandone un immagine fittizia.
Quello che è un insieme fluido di sensazioni, emozioni e pensieri viene oggettivato in
un'unica entità, in cui ci identifichiamo, separata dal mondo esterno, immutabile e, quindi,
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Vannucci Luigi
Meditazione: la tecnica del Buddhismo Teravada Vipassana-Shamata
esclusa dal processo di perenne cambiamento dell’universo.
La meditazione Vipassana, che ci porta alla comprensione diretta tramite
l’esperienza dell’insostanzialità dei fenomeni a causa della loro impermanenza, ci
permette anche di realizzare la sostanziale inesistenza di un sé proprio ed isolato.
6.2 - La tecnica dell’attenzione
Nel Satipatthana Sutta è chiaramente detto che inizialmente l’attenzione va
all’oggetto di meditazione per poi spostarsi su tutti gli altri fenomeni fisici e mentali che
sorgono.
Quindi, la meditazione su un qualsiasi oggetto non si deve intendere ristretta ad esso
ma focalizzata su di esso al fine di sviluppare la concentrazione. Non si rimane aggrappati
ad un singolo oggetto, ma si osserva tutto ciò che sorge svanisce.
Il corpo è il primo oggetto di meditazione, generalmente considerato un primo “livello
d’accesso” alla meditazione vera e propria. L’attenzione posta sulle variazioni di stato del
corpo e della mente istante per istante si chiama Concentrazione Momentanea. Essa è
molto importante nella meditazione poiché qualsiasi esperienza perdura solo per un
attimo. Coglierla al volo non è facile e richiede una continua attenzione consapevole che si
sviluppa solo con la meditazione.
Per sviluppare la Concentrazione Momentanea vi è necessità di un oggetto, su cui
portare l’attenzione, caratterizzato da condizioni che cambiano nel tempo; un ottimo
oggetto di questo tipo sono le distrazioni. Esse non vanno concepite come una seccatura
negativa per la meditazione ma vanno usate a questo scopo.
Come abbiamo visto, quando sorge un qualsiasi stato mentale in grado di distogliere
il meditante dall’oggetto di meditazione questi deve portare l’attenzione sulla distrazione
stessa e farla diventare un momentaneo (nel senso di transitorio, provvisorio e
contingente) oggetto di meditazione.
L’attenzione va spostata per un tempo quanto più breve possibile, sufficiente, però, a
capire la natura della distrazione e a vederne l’evoluzione dall’inizio alla fine. Seguirne
l’evoluzione vuole dire, in pratica, che l’attenzione sulla distrazione deve perdurare per
tutto il tempo in cui essa è presente anche se questo sembra in contradizione con
l’impegno preso, in precedenza, di focalizzare l’attenzione su un particolare oggetto di
meditazione. In realtà non lo è, poiché è proprio l’attenzione sulla distrazione che la fa
dissolvere.
Nei meditanti esperti questo momentaneo spostamento di attenzione può diventare
veramente breve, cercheremo di spiegare come questo avviene.
Qualsiasi stato mentale si manifesta prima nell’inconscio per poi apparire nella mente
conscia. Nel stesso momento in cui lo stato mentale si affaccia alla mente conscia
compare anche l’attaccamento ad esso poiché è in quell’istante che si incomincia ad
identificarsi con esso. Non stiamo più semplicemente concependo un pensiero, siamo il
pensiero stesso che si sta sviluppando. Tutta questa sequenza avviene in un lampo e ci
ritroviamo invischiati nel pensiero distraente senza accorgercene. Il fatto di riuscire ad
osservarlo in maniera distaccata, senza esserne coinvolti, dissolve l’identificazione e
rompe la dipendenza della mente dalla distrazione. Le mente si dissocia dall’oggetto di
distrazione e può liberarsene per ritornare al oggetto iniziale di meditazione.
Nel meditante esperto la concentrazione è tale da rallentare l’evoluzione degli stati
mentali, questo gli dà il tempo di accorgersi della loro presenza ancora prima che si
manifestino al livello del conscio. Egli è in grado di cogliere il sorgere degli stati mentali già
al livello inconscio, prima che la mente si identifichi con essi, e, quindi, è in grado di esser
consapevole delle distrazioni prima di caderne invischiato. La sua attenzione sulle
distrazioni perdura, perciò, veramente molto poco.
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Vannucci Luigi
Meditazione: la tecnica del Buddhismo Teravada Vipassana-Shamata
Al contrario la lotta frontale contro le distrazioni è una battaglia persa, essa assorbe
energia e altro non fa che aumentare il coinvolgimento in esse e quindi la loro presa. La
distrazione, quindi, non va repressa parchè sarebbe controproducente, va semplicemente
osservata per un tempo quanto più breve possibile. Essa non è un nemico da sconfiggere
ma è il nostro oggetto di meditazione “secondario”, quello indispensabile allo sviluppo
della Concentrazione Momentanea. Sfumata che sia la distrazione la mente è libera di
ritornare all’oggetto di meditazione iniziale che è anche l’oggetto “primario” di meditazione.
Si capisce da ciò che non ha senso condannarsi per essersi distratti ma, se questo
dovesse comunque avvenire, anche il senso di colpa va considerato come una distrazione
che va rimosso alla stessa maniera delle altre per poi tornare all’oggetto di meditazione
primario.
Dal punto di vista della meditazione Vipassana la distrazione non esiste. Qualsiasi
cosa appaia alla mente è solo un’altra occasione per coltivare la consapevolezza. Si può
essere consapevoli perfino della mancanza di concentrazione e della mente che vaga.
Solo la consapevolezza conta, non è importante, se pure auspicabile, ottenere una
mente perfettamente calma e serena. Lo scopo ultimo è raggiungere una consapevolezza
senza interruzioni.
6.3 - La trappola dell’io
Abbiamo visto che la cosa più insidiosa per il meditante è l’identificazione con i propri
pensieri e le proprie sensazioni e che quest’identificazione avviene a livello conscio.
Quando l’”io” appare si genera un divario concettuale che si interpone tra la
consapevolezza e la realtà. I concetti di “me” e “mio” sono rappresentazioni mentali
insidiose ed estranee alla realtà stessa delle cose e portano all’identificazione.
Ovviamente ci si può accorgere di questo processo, anche se con difficoltà, e lo si può
trattare allo stesso modo di tutte le altre distrazioni.
Ad evitare l’identificazione, le esperienze fatte durante la meditazione devono essere
preconcettuali, nude e crude, non adulterate dalla costruzione di sovrastrutture concettuali.
Per far ciò occorre la massima tempestività, l’esperienza va colta immediatamente al suo
nascere e va seguita nella sua evoluzione fino all’estinzione. Abbiamo visto che l’attimo in
cui l’esperienza appare al conscio è l’attimo in cui l’”io” si identifica in essa, perdere
quest’istante significa ritrovarsi invischiati nell’esperienza invece che esserne spettatori
esterni. Il perdurare dell’esperienza dopo la sua estinzione è solo un ricordo che non solo
implica una relazione di coinvolgimento in essa cioè una personificazione dell’esperienza,
ma, per di più, rischia di farci perdere l’inizio dell’esperienza successiva. E’ molto facile
mancare un’esperienza ed ancora più facile è aggiungerci qualcosa che, in essa,
realmente presente non è.
La relazione con l’esperienza deve essere, perciò, sempre puntuale ed istantanea
mai in relazione col passato, che si basa sugli artefatti mentali chiamati ricordi, né con il
futuro che si basa sugli artefatti mentali chiamati progetti.
Per spiegarci meglio faremo un esempio.
Potrebbe capitare che durante la meditazione si manifesti un rumore. Se la mente
non è controllata essa immediatamente genera una serie di immagini e situazioni che
potrebbero aver prodotto il rumore percepito. La mente umana è molto abile ed abituata a
manipolare concetti ed è in grado di generarli a raffica. Come si può facilmente capire tutte
questi pensieri sono alieni da una qualsiasi realtà perché sono stati generati dalla mente e
non da un’esperienza. Cosa è successo della sensazione originale, della pura esperienza
di ascolto ? Si è persa nella confusione, è stata sommersa dalle fantasticherie e
completamente dimenticata.
E’ così che perdiamo contatto con la realtà e finiamo col vivere in un mondo
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Vannucci Luigi
Meditazione: la tecnica del Buddhismo Teravada Vipassana-Shamata
immaginario !
La formazione di concetti è un processo ingegnoso ed ingannevole che si insinua
nelle esperienze prendendone il controllo. L’esperienza è la sola cosa che conta, tutto il
resto è solo una chiacchiera mentale.
Rimanere nell’esperienza, però, non vuol dire andare a caccia di pensieri e
sensazioni. Non si tratta di incoraggiare, e ancor meno generare, alcun che. Si tratta solo
di osservare ciò che si presenta, senza opporsi e senza farsi trascinare.
Che l’”io” costantemente e caparbiamente cerchi di insinuarsi nell’esperienze che
facciamo lo possiamo dedurre da alcune considerazioni.
Gli stati mentali non sono tutti equivalenti, alcuni sono individuabili e rimovibili con
maggiore facilità altri meno. Quelli più facili da trattare sono proprio gli stati che
consideriamo negativi come: la paura, l’ansia, la rabbia etc.. L’attaccamento ed il desiderio
sono già più difficili da governare poiché possono concernere anche aspetti che riteniamo
nobili o altruistici. Per questo gli stati mentali più insidiosi di tutti sono proprio quelli positivi
come la pace, l’empatia, la compassione, etc..
Essi si presentano sempre più frequentemente col maturare dell’esperienza
meditativa e distaccarvisi è molto difficile. Infatti, è relativamente facile ripudiare gli aspetti
sgradevoli della nostra esistenza ma diventa difficile allontanarsi dai virtuosi.
Ci si accorgerà allora che la nostra disponibilità ad applicare le tecniche della
Vipassana a qualsiasi esperienza sorga non è sempre la stessa.
Bisogna, però, rendersi conto che anche gli attaccamenti positivi ci mantengono nel
fango dell’inconsapevolezza alla stessa maniera di quelli negativi perché sono solo il frutto
del nostro ego. E’ l’identificazione con essi che impedisce di osservarli dall’esterno e di
non sentirci protagonisti delle azioni etiche che generano.
Solo quando la mente è in grado di accorgersi delle sensazioni e degli stati d’animo e
mentali più nascosti e più sottili è veramente libera da qualsiasi irritante mentale per
quanto insidioso, nascosto e travestito sia, come, ad esempio, lo sono il desiderio etico e
l’attaccamento affettivo.
6.4 - Le metodologie della Vipassana
6.4.1 - L’attenzione sul respiro
Un caso utile per esemplificare quanto è stato detto in generale sulla Vipassana è
l’applicazione di questa tecnica al respiro.
Anapanasati è l’esercizio di “presenza mentale” rivolto al respiro. Esso consiste
nell’indirizzare l’attenzione verso l’atto respiratorio semplicemente osservandolo. Questo
significa che le modalità di respirazione, benché influenti sulla pratica, non sono
sostanzialmente importanti.
Il respiro è un oggetto facile da reperire in ogni momento, che richiede un’attenzione
continua per il suo incessante fluire, con molteplici aspetti da esperire e, soprattutto,
influente sullo stato mentale ed influenzato da esso. Inoltre, il respiro non è ancorato al
passato né proiettato nel futuro ma saldamente legato all’istante corrente per cui, quando
osserviamo il respiro, automaticamente collochiamo la nostra mente nel momento
presente.
Dopo essersi comodamente seduti ed aver assunto corretta postura e
atteggiamento, lasceremo andare qualsiasi pensiero o ricordo riguardante altre cose,
avvenimenti, sensazioni od emozioni. Questa operazione deve compiersi spontaneamente
e dolcemente, non deve essere un espulsione forzata dalla mente che riporterebbe
immediatamente il nostro pensiero sull’oggetto espulso. Il processo di abbandono di altri
oggetti mentali può avvenire semplicemente ponendo l’attenzione al respiro.
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Meditazione: la tecnica del Buddhismo Teravada Vipassana-Shamata
La focalizzazione dell’attenzione sul respiro porta spesso ad uno spontaneo controllo
di esso che, invece, è da evitare in modo da lasciarlo fluire spontaneamente e
normalmente senza influenzarlo in alcun modo. La tendenza a governare il respiro nasce
dal desiderio compulsivo di tenere sotto controllo ogni cosa, questo atteggiamento è
deleterio per la meditazione che, invece, richiede di lasciarsi andare.
All’inizio della pratica meditativa, per far percepire al neofita l’atto del respiro, gli
viene spesso consigliato di portare l’attenzione ai movimenti respiratori del corpo in
particolare quello dell’addome, che è il più evidente, e successivamente a quello toracico e
clavicolare. Un passo successivo è quello di osservare il flusso d’aria dalle narici.
Una volta presa coscienza dell’atto del respiro l’attenzione andrà agli attimi di
sospensione della respirazione. Quei due brevissimi istanti che intercorrono tra
un’inspirazione e un’espirazione e tra quest’ultima e l’inspirazione successiva. Queste
pause sono così brevi che normalmente non vengono notate ma se esercitiamo la
consapevolezza riusciremo ad accorgercene.
All’inizio della meditazione le varie fasi saranno brevi. Man mano che il corpo e la
mente si rilassano esse si allungheranno sempre di più. Si dilateranno, in particolare, i
momenti di sospensione del respiro.
Attenzione, soprattutto in questa fase di rilassamento, a non diventare preda della
sonnolenza. Bisogna rimanere vigili, che non significa guardinghi ed in tensione, e
costantemente attenti al fluire del respiro.
Può anche succedere che la mente divaghi, che si perda in una catena di pensieri
senza che noi ce ne accorgiamo. Questi lassi di tempo possono essere più o meno lunghi
ma si contraggono sempre di più fino a sparire col progredire nella pratica. Quando ci
accorgiamo di aver divagato non dobbiamo avere risentimento verso di noi, non dobbiamo
formulare alcun giudizio ma semplicemente prenderne atto e ricondurre gentilmente, ma
con fermezza, la mente all’oggetto della meditazione.
Tuttavia, specialmente nel caso di principianti, può accadere che dopo pochi attimi la
mente sia di nuovo catturata da una catena di pensieri; allora di nuovo, con calma,
gentilezza e consapevolezza, ricondurremo la mente al suo oggetto di attenzione.
Continueremo semplicemente a rifocalizzare la nostra attenzione tutte le volte che ce ne
sarà bisogno.
Per mantenere l’attenzione sul respiro possiamo usare alcuni metodi di ancoraggio
ad esso. Elenchiamo i più usuali in ordine di difficoltà:
1.
contare i respiri,
2.
stimare il perdurare di ogni fase respiratoria, contando i battiti del cuore,
3.
percepire il flusso dell’aria attraverso le narici,
4.
percepire la dilatazione e la contrazione del corpo con l’inspirazione e l’espirazione,
5.
percepire il movimento di distensione della schiena ed innalzamento delle spalle
all’inspirazione,
6.
percepire l’espansione differenziata delle varie parti del corpo,
7.
percepire la temperatura dell’aria in ingresso e in uscita,
8.
percepire la differenza di umidità dell’aria in uscita rispetto all’aria in entrata,
9.
percepire il percorso dell’aria all’interno delle narici,
10. porre l’attenzione al percorso dell’aria all’interno del corpo,
11. infine, un po’ più difficile rispetto alle altre percezioni, vi è quella sullo stato mentale.
Se i segnali fisici sembrano assenti non bisogna sforzarsi di sentirli poiché questo
causa tensione oppure induce sensazioni che nulla hanno a che vedere con la pratica.
Bisogna porre attenzione a cogliere qualsiasi sensazione venga e ad accettarla così
come è ma bisogna anche curare di non generarne. Dobbiamo fare attenzione alle
sensazioni reali non alle impressioni.
Col progredire della pratica il respiro si farà sempre più sottile e lento fino ad essere
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Meditazione: la tecnica del Buddhismo Teravada Vipassana-Shamata
quasi inavvertibile. Non bisogna preoccuparsi di ciò, il motivo sta nel fatto che i segnali
fisici e mentali associati al respiro si attenuano molto e diventano così flebili che è difficile
coglierli. Con l’esperienza si arriva ad accorgersi della loro presenza anche in queste
condizioni.
L’incessante fluire del respiro, ci porta alla consapevolezza del continuo mutare di
ogni cosa, a livello fisico e a livello mentale. Le sensazioni di pace e di piacere associate
alla sua sospensione ci fanno capire quanto sia insoddisfacente lo stato di perenne
impermanenza in cui viviamo.
Come abbiamo visto l’intero universo è in un persistente stato dinamico e ciò ci dice
che l’impermanenza fa parte della nostra stessa natura. Possiamo rallentare o
temporaneamente fermare l’agitazione della nostra mente ma non in maniera totale nel
corso della vita perché la pace totale della mente è incompatibile con la struttura di questo
mondo.
Da ciò, è semplice e naturale, per i credenti nella rincarnazione, arrivare alla
conclusione che chi raggiunge la pace totale, a questo mondo non fa più ritorno.
6.4.2 - L’attenzione dinamica
Mantenere l’attenzione mentre si è in azione, cioè sviluppare attenzione seguendo la
dinamica di un movimento, è più difficile che non mantenerla stando immobili. Più
l’ambiente è distraente e maggiormente le nostre azioni e i pensieri che le guidano sono
impegnativi maggiore è la difficoltà di raccoglimento. La situazione più difficile di tutte è
quella di riuscire a mantenere la concentrazione, su quello che stiamo facendo, anche
quando abbiamo una reazione istintiva che poco controlliamo come, ad esempio,
provando paura o durante un litigio.
E’ per questa ragione che vale la pena di provare a meditare anche in situazioni
meno favorevoli alla meditazione stessa. Una di queste, che non riserva però enormi
difficoltà, è la meditazione in cammino, cioè la così detta “Meditazione Camminata”.
Essa viene usata spesso durante i ritiri che si prolungano per più giornate al fine di
alternare i periodi statici (di circa un ora) con i necessari periodi di movimento più o meno
della stessa lunghezza.
Per effettuare la meditazione camminata è necessario disporre di uno spazio
personale in cui procedere in linea retta per più o meno una decina di passi, meglio se più
ampio.
Si inizia assumendo una posizione eretta stabile cercando di essere consapevoli
dell’equilibrio (apparentemente) statico come nella classica posizione yoga della
Montagna (Tadasana). Le braccia sono rilassate ai fianchi o portate dietro la schiena con
una mano che afferra il polso dell’altra.
Si incomincia a camminare in linea retta molto lentamente analizzando ogni piccolo
movimento del corpo. Si solleva un piede portando l’attenzione sulla contrazione dei
muscoli della gamba che si piega, cerchiamo di percepire durante questa azione
l’aumento di pressione sulle dita del piede nel momento in cui si distacca il tallone da terra.
Quindi prendiamo coscienza del sollevamento dell’intero piede da terra e del fatto
che restiamo in equilibrio su un piede solo.
Percepiamo poi l’avanzare della gamba e la sua distensione fino all’appoggio del
tallone a terra.
Successivamente abbiamo l’opportunità di vedere lo svolgersi di un movimento
complesso. Avvertiamo il corpo che si sposta i avanti e, contemporaneamente, il rullare
progressivo del piede che abbiamo portato in avanti con l’appoggio sequenziale del
tallone, della pianta ed, infine, delle dita del piede. Allo stesso tempo il piede rimasto
indietro si solleva a iniziare dal tallone per proseguire con pianta. Quando poi il piede che
abbiamo avanzato per primo è completamente appoggiato a terra e il busto e la gamba
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Meditazione: la tecnica del Buddhismo Teravada Vipassana-Shamata
sono allineati ed in verticale su di esso, apprezziamo lo stabilizzarsi dell’equilibrio ed
avvertiamo il totale sollevarsi da terra del piede rimasto indietro.
A questo punto ci ritroviamo ancora un solo piede e l’equilibrio torna ad essere
evidentemente dinamico, la gamba è piegata e possiamo avvertire l’abduzione dell’arto nel
mentre che il ginocchio dell’altra gamba si distende leggermente, a favorire il
distanziamento da terra del piede sollevato, per poi ripiegarsi un po’ ad anticipare
l’appoggio del piede che sta avanzando ed ammortizzare il contatto a terra.
Il ciclo adesso è completo è può incominciarne uno successivo.
Quando abbiamo raggiunto l’estremità dello spazio disponibile ci voltiamo e ci
fermiamo un po’ nella posizione di Tadasana ad apprezzare la sensazione di equilibrio
(apparentemente) statico che essa dà. Quindi si inizia a camminare con le stesse modalità
in linea retta nella direzione opposta a quella da cui siamo venuti.
Durante la Meditazione Camminata tutto deve avvenire con la più grande lentezza, il
corpo deve rimanere libero da tensioni e l’andatura deve essere quanto più spontanea
possibile. Non è del tutto facile attenersi a queste raccomandazioni poiché non siamo
abituati a camminare molto lentamente al punto che si possono manifestare anche
problemi di equilibrio.
Tuttavia, non è necessario deambulare in modo aggraziato poiché il movimento che
facciamo non vuole essere né una danza né un esercizio atletico ma solo e
semplicemente un gesto di consapevolezza.
Il nostro obbiettivo è quello di fare un’esperienza di piena vigilanza nel usuale e
troppo scontato gesto del camminare attraverso un’accresciuta, completa e ininterrotta
attenzione al gesto.
Se, durante l’azione, si evita di “pensare” e ci si limita a “sentire” avremo l’opportunità
di immergerci in una pura sensazione tattile e cinestetica che fluisce, senza fine, in un
continuo mutamento di nuda esperienza.
6.4.3 – Il movimento lento
La stessa tecnica della Meditazione Camminata può essere applicata anche ad altre
attività, infatti, ogni azione può essere decomposta in un insieme, quanto grande si voglia,
di gesti separati.
Una consapevolezza omnipervasiva può, quindi, essere sviluppata effettuando
alcune attività molto lentamente, facendo attenzione ad ogni sfumatura delle sensazioni.
Rallentare i movimenti consentirà di analizzarli a fondo e, cosa ancora più importante, di
avvertirli intensamente.
Questa tecnica può essere profiquamente applicata specialmente nei momenti di
relax, in cui non abbiamo nessuna ragione di fare le cose in fretta.
Per esempio mangiando un buon pasto, assaporando ogni boccone ed eseguendo
con attenzione ogni movimento del nostro nutrirci. Oppure gustando una bevanda,
cogliendone inizialmente l’aroma con l’olfatto e poi sorseggiandola con calma, avvertendo
la temperatura del liquido in bocca, accorgendosi dell’azione del deglutire etc..
6.4.4 - L’attenzione alla posizione
Molto di quello che facciamo rimane nell’inconscio. L’informazione che viene dai
sensi entra nei livelli più bassi della mente e non va oltre poiché il pensiero tende ad
essere sempre da un'altra parte rispetto al luogo e al momento che stiamo vivendo.
Uno degli aspetti della nostra esistenza verso il quale riserviamo meno attenzione è
proprio il corpo al punto da non essere consapevoli della maggior parte delle percezioni
sensoriali e cinestetiche.
Nel corso della giornata il corpo compie ogni sorta di contorsioni delle quali non ci
accorgiamo minimamente. E’ importante, quindi, diventare consapevoli di questa continua
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Meditazione: la tecnica del Buddhismo Teravada Vipassana-Shamata
susseguirsi di posture cercando di dedicare ad ognuna di esse qualche secondo di
attenzione. Ci si accorgerà in primo luogo di quante posizioni scorrette e faticose
assumiamo e ci si renderà conto del motivo per cui alla fine della giornata ci si sente
stanchi “senza avere fatto niente”. L’intento dell’attenzione rivolta alla postura non è, però,
quello di correggerla, anche se è una buona cosa farlo. E’ semplicemente quello di
accorgersi quale posizione abbiamo assunto senza esprimere alcun giudizio riguardo ad
essa. E’ una semplice equanime osservazione.
Questo metodo meditativo è in grado di sviluppare una grande consapevolezza
poiché, se seguito puntualmente, stimola continuamente l’attenzione e la consapevolezza
che incominciano a diventare un abito mentale.
Esso, un poco alla volta, è in grado di cambiare in profondità il modo di esperire
dell’individuo facendolo entrare in una dimensione delle sensazioni completamente nuova.
6.4.1 – La continuità dell’attenzione in tutte le situazioni
Il comportamento ottimale dell’individuo è quello di una consapevolezza mantenuta
istante per istante, indefessamente ed in tutte le situazioni.
E’ una meta non facile da raggiungere che richiede molto tempo per essere
conseguita. Occorre, però, perseguirla nella routine quotidiana cercando di saldare la
pratica della meditazione con le attività giornaliere attraverso l’impegno ad omogeneizzare
il comportamento.
Per raggiungere questo fine non occorrono tecniche sofisticate. Basta portare
l’attenzione anche nelle occupazioni più usuali quali mangiare, vestirsi, accudire alle
faccende domestiche etc. ed osservare gli stati mentali che esse generano. Quale che sia
lo stato mentale che si sta attraversando: noia, rabbia, depressione, felicità,
spensieratezza, allegria od altro, esso può diventare un oggetto di osservazione
equanime.
Per il meditante non esiste tempo sprecato poiché egli, rimanendo vigile e
consapevole, trasforma ogni istante ed ogni esperienza in occasione di meditazione.
La meditazione non deve essere relegata al tempo dedicato alla pratica ma deve
entrare in ogni attimo e in ogni aspetto della vita giacché, man mano che la pratica si
sviluppa, la presenza mentale si autoalimenta e torna di volta in volta a presentarsi più a
lungo, con maggior frequenza e minore difficoltà.
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Vannucci Luigi
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Capitolo 7 - La tecnica Shamatha
7.1 - La concentrazione
Per sviluppare la concentrazione inizialmente bisogna soprattutto rimuovere alcune
abitudini mentali , chiamate “impedimenti”, che ne bloccano lo sviluppo. La paura, l’ansia,
la vergogna, l’attaccamento, l’avidità, etc. sono vezzi cui la mente ha fatto tanta
assuefazione da arrivare addirittura con l’identificarcisi.
Si può, però, imparare a conoscerli e a sopirli così da esperire la vera natura della
mente che è fatta di calma, di gioia e di serenità. Una volta arrivati alla comprensione,
anche se si ritorna allo stato usuale, se ne mantiene la memoria e si incomincia a portare i
frammenti di questa esperienza nella vita di tutti i giorni. Essi diventano la base per
proseguire il lavoro di erosione delle cattive abitudini ed arrivare, passo passo, ad una
consapevolezza sempre più profonda.
Quando la mente diventa in grado di accorgersi anche delle sensazioni e degli stati
d’animo e mentali più sottili si fa esperienza di una grande calma scevra da qualsiasi
irritante psichico. Avidità, gelosia, invidia, odio, rabbia, agitazione, paura e quant’altro
ancora esiste di negativo semplicemente sparirà a favore di stati mentali chiari, belli e
felici. Essi non sono, però, stabili e spariscono col finire della pratica. Tuttavia, l’esperienza
fatta può cambiare le nostre convinzioni e la determinazione nel perseguire l’esperienza
meditativa. Non sono la liberazione ma la prova che ad essa, con la perseveranza, si può
arrivare.
Via via che la concentrazione si approfondisce si acquista l’abilità di vedere apparire
pensieri e sensazioni lentamente, in maniera sequenziale, con degli spazi vuoti tra di loro,
senza che ci sia tra l’uno e l’altro una concatenazione logica.
La consapevolezza sui pensieri è raggiunta quando non siamo coinvolti in essi, ci
accorgiamo del loro sorgere e del loro svanire e del fatto che, in generale, non hanno una
concatenazione logica tra loro. Questa mancanza di correlazione tra un pensiero e l’altro
porta ad un istante vuoto tra i due che un po’ alla volta può essere espanso lasciando la
mente sempre più libera non solo dal pensiero cosciente ma anche da immagini,
sensazioni, emozioni etc., è in questo vuoto che fiorisce la consapevolezza.
La consapevolezza è il precursore della concentrazione profonda. Infatti, per
riconoscere e rimuovere gli “impedimenti” che la ostacolano è necessaria consapevolezza.
Quando la mente sopraggiunge ad uno stato di assorbimento in cui sforzo,
concentrazione, comprensione e consapevolezza sono consolidati e lavorano in armonia
sinergica si arriva nel primo Jhana. In esso, e in tutti quelli successivi, le modalità di
operare della mente vanno al di là dell’ordinario schema concettuale basato su
sensazione, pensieri ed emozioni.
Alla consapevolezza prima del Jhana segue, dunque, una consapevolezza durante
lo stato di Jhana. In sostanza corretta concentrazione e corretta consapevolezza crescono
sempre assieme poiché l’una non può fare almeno dell’altra !
7.2 - Pericoli e benefici dei Jhana
Nel creare il vuoto mentale bisogna stare attenti ad un’insidia. Può accadere che
nella mente si crei un vuoto totale, in cui neppure la consapevolezza sia presente. E’ una
sorta di sonno senza sogni, uno stato ipnotico inerte. Ci si cade dentro senza
accorgersene, così come ci si addormenta ad occhi aperti senza presentire il sonno che
avanza. Questo stato può essere molto riposante ma per la pratica è fuorviante e
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Meditazione: la tecnica del Buddhismo Teravada Vipassana-Shamata
comporta il rischio di intrappolamento, è, quindi, molto pericoloso, così come è pericoloso
addormentarsi mentre si guida.
Un’altra insidia viene dalle caratteristiche di piacevolezza dello stato Jhanico poiché
la sua seduzione può sviluppare attaccamento.
Un terzo frequente errore indotto dal conseguimento dello stato Jhanico è un
sentimento di orgoglio. Il meditante che riesce a raggiungerlo può, nei fatti, ritenersi un
meditante evoluto. Questo in sé può essere un gesto di consapevolezza, ma
consapevolezza non è il paragonarsi ad altri giacché essa richiede un’osservazione
impersonale (che prescinde dal proprio io), equanime, pura e semplice della realtà.
Una concentrazione corretta è, invece, vigile e consapevole. La mente non presta
alcuna attenzione né al mondo esterno né a quello intimo, tuttavia, ad un livello residuale,
rimane perfettamente conscia di tutto quello che sta accadendo all’interno ed all’esterno
dell’individuo. E’ una forma di coscienza che coinvolge tutto ed è priva di un sé proprio il
quale, al contrario, sarebbe un chiaro indice di separazione dal tutto e di errata
concentrazione.
A causa dei pericoli sopra citati alcuni maestri ritengono i Jhana inutili o esercizi
sofisticati per meditanti progrediti. Essi, invece, sono necessari alla meditazione, per le
forti motivazioni che il meditante può trarre dal senso di pace e di gioia che essi donano,
ma ancor di più perché allenano alla vera forte concentrazione che è necessaria nella
Vipassana.
7.3 - Preparazione alla Shamata
La letteratura Pali sottolinea la necessità di una preparazione preliminare alla
meditazione.
Difatti, non è possibile conseguire i Jhana senza pace mentale. La pace, però, non è
raggiungibile senza una vita calma e tranquilla che prepari la strada alla meditazione con
un comportamento che non dia né sensi di colpa né attaccamenti.
Questo obbiettivo non va perseguito sforzarsi velleitariamente di cambiarla poiché
l’intenzionalità non realizzata non fa vivere nell’istante corrente ma in un futuro
immaginario.
I Jhana, al contrario, si conseguono nel vivere presente e si manifestano solo a chi si
accontenta, non a chi è fondamentalmente insoddisfatto. L’insoddisfazione è l’antitesi
stessa della pace e della gioia che i Jhana procurano.
Di seguito vengono elencate otto buone regole per prepararsi alla meditazione
Jhanica.
1. Eludere i desideri non è facile ma si può evitare che sorgano prestando una
continua attenzione a quello che stiamo facendo. Una persistente presenza
mentale non lascia spazio alla progettualità e, quindi, neanche al pensiero di
acquisire od ottenere alcunché. Questa è la “contentezza” che porta
all’appagamento e conduce ai Jhana. Se poi sorgo dei desideri essi possono
essere sopiti con la consapevolezza osservandoli per quello che sono:
semplici moti dell’animo che non ci portano alla felicità.
2. E’ necessario assumere un atteggiamento morale. Bisogna, però, rendersi
conto che la moralità non consiste in una serie di regole da osservare
cecamente ma in consigli di buona condotta che vanno seguiti ed usati con
discernimento e determinazione.
3. E’ necessario, anche, un buon controllo dei sensi. Le sensazioni
intrinsecamente non sono né belle né brutte ma sono oggetti sensoriali neutri.
E’ il nostro modo di percepirle, come piacevoli o sgradevoli, che genera in noi
attaccamento o avversione. Il metodo per evitare questa reazione è di
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osservare la sensazione nel suo sorgere, permanere e svanire per convincersi
della loro ineluttabile impermanenza ed inconsistente realtà. Non vale allora la
pena di considerare alcunché con odio o desiderio né, tantomeno, di
identificarsi in questi due moti dell’animo. Questo implica il relazionarsi con
l’ambiente senza le nozioni di ”io”, “me” o “mio”.
4. Quarto comportamento che facilita la pratica è l’isolamento. L’isolamento è da
intendersi sia fisico (dal resto del mondo) che mentale (da tutte le altre
occupazioni). Non è necessario ritirarsi in una caverna ma è utile trovare un
posto tranquillo lontano da altri o in cui anche gli altri accettino di creare
un’atmosfera atta alla meditazione. L’isolamento mentale, poi, richiede
assenza di attaccamento poiché, ciò che preoccupa od occupa la mente e che
ripetutamente ritorna ad ossessionarla, altro non è che l’oggetto di
attaccamento.
5. Nella pratica è anche necessaria l’energia perché senza energia si è fiacchi e
pigri e non si può progredire molto. Curare il proprio assetto energetico è
perciò il quinto comportamento preparatorio.
6. L’uso della saggezza è il sesto contegno preliminare alla pratica. Senza di
essa non è possibile capire se stiamo camminando correttamente o meno sul
sentiero dei Jhana e neppure diventano chiare le motivazioni che ci hanno
indotto a intraprendere un percorso tanto difficile.
7. Il settimo atteggiamento preparatorio è la fede. Al di là delle personali
convinzioni religiose di ognuno, per quanto concerne il contesto della
meditazione essa è da intendersi come fiducia. Fiducia nel percorso
meditativo e negli insegnamenti ricevuti. Ricordiamo che il dubbio, di cui
abbiamo già parlato, è un’irritante mentale che demolisce ogni
determinazione.
8. L’ottavo e ultimo atteggiamento preliminare alla concentrazione è proprio la
consapevolezza che, come abbiamo prima sottolineato, è il precursore stesso
della concentrazione, lo strumento che permette di rendersi conto sia delle
difficoltà che del progredire.
I Buddhisti sintetizzano questi atteggiamenti preparatori nel così detto nobile ottuplice
sentiero che si articola in:
1. retta visione, che permette di essere coscienti di tutti gli aspetti della pratica e
del suo scopo;
2. retta intenzione, che orienta correttamente i tre tipi di sforzo: il muoversi verso,
il lasciare andare e l’allontanarsi;
3. retta parola, sia perché essa è in grado di rafforzare gli abiti mentali ed essi i
comportamenti (corretti o meno) sia perché mentire o parlare di futilità è
deleterio;
4. retta azione, perché tutto quello che facciamo si ripercuote, oltre che sugli altri,
anche su di noi;
5. retti mezzi di sussistenza, poiché essa è essenziale e il modo con cui vi
provvediamo implica azioni che possono essere corrette o meno;
6. retto sforzo, poiché non deve essere né esagerato, né vano né mal diretto;
7. retta consapevolezza, con ciò si intende una consapevolezza vera, reale e
non apparente,
8. retta concentrazione, poiché, come abbiamo visto in precedenza ci sono
anche delle forme sbagliate di concentrazione.
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7.4 - Liberarsi dagli impedimenti
Prima ancora degli “impedimenti” ciò che ostacola il progresso nella meditazione
sono le “catene” che sono i precursori degli “impedimenti” stessi.
Le “catene” sono tendenze, non palesi, della mente da cui gli “impedimenti” traggono
origine e forza. Esse sono in tutto dieci, divise in due gruppi di cinque, dette “inferiori” e
“superiori”.
Le cinque “catene inferiori” sono le seguenti.
1. La dipendenza dai piaceri dei sensi, che ci illude riguardo alla possibilità che
qualcosa o qualcuno al di fuori di noi possa renderci felici.
2. L’avversione, generata dall’illusione che l’infelicità derivi dalla presenza nella
vita di alcune cose, persone o situazioni che non ci piacciono e che, quindi,
vanno eliminate.
3. Il dubbio, l’irritante mentale che demolisce la determinazione.
4. La credenza nei rituali, che è l’illusione di poter raggiungere il benessere e la
felicità semplicemente mediante la ripetizione di un qualche tipo di liturgia.
5. Il Sé separato permanente, cioè la convinzione che esista un Sé personale e
sostanziale. Questa illusione è quella che genera la bramosia ed anche il
desiderio di essere diversi e di cambiare la propria natura.
Le cinque “catene superiori” sono le seguenti.
1. Il desiderio di una piacevole esistenza materiale, che è l’illusione che il
benessere porti necessariamente felicità.
2. Il desiderio di un’esistenza immateriale, che è il desiderio di trascendere la vita
per un’ipotetica felicità in un altro mondo, pericoloso perché è il precursore del
suicidio.
3. L’inquietudine, che è l’insoddisfazione perenne per il momento presente.
4. La presunzione e l’autocompiacimento, che generano immagini distorte di se
stessi ed anche della realtà circostante.
5. L’ignoranza, che corrisponde all’incapacità di vedere la realtà.
Il metodo da seguire per spezzare le catene e sradicare gli impedimenti è il
seguente. Inizialmente occorre tenere a bada gli “impedimenti” per raggiungere uno stato
di concentrazione profonda, cioè uno dei Jhana. Dopodiché la consapevolezza incomincia
a farci vedere la reale natura della “catene” e questo indebolisce il legame che esse
esercitano. Ritornati allo stato normale gli “impedimenti” non avranno più la stessa forza
di prima, sarà quindi possibile, alla successiva meditazione, raggiungere una
concentrazione e una consapevolezza più profonde che ci permetteranno di fiaccare
ancora di più “catene” e “impedimenti”. Così, per approssimazioni successive è possibile
conseguire la completa liberazione da ambedue.
Una tecnica molto efficace, atta a indebolire “catene” ed “impedimenti”, che può
essere validamente usata come preparazione alla meditazione Shamata è quella della
recitazione dei Metta.
In lingua Pali con Metta si intende una gentilezza amorevole. Il termine è anche
usato ad indicare gli esercizi mentali atti a suscitare questo sentimento. Le parole dei
Metta, pronunciate o semplicemente mentalmente recitate, sviluppano i pensieri positivi
concernenti i concetti illustrati nei Metta e questi pensieri inducono stati gli d’animo di
benevolenza. I Metta sono, perciò, la preparazione perfetta per la meditazione orientata ai
Jhana poiché spazzano via tutti gli “impedimenti” e sono un rimedio specifico contro
qualsiasi stato mentale che ostacoli la concentrazione.
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7.5 – La concentrazione di accesso
La liberazione dagli impedimenti deve avvenire prima del conseguimento degli stati
Jhanici. Essi non vengono totalmente rimossi, poiché si ripresentano in maniera più o
meno evidente, quando il meditante termina la meditazione, ma vengono sopiti al punto
che, anche in uno stato normale, essi rimangono sotto controllo. L’efficacia del controllo
dipende dallo stato di preparazione e approfondimento che ha raggiunto il meditante.
Lo stato, preliminare ai Jhana, in cui si dominano completamente gli impedimenti è
detto “concentrazione di accesso”. In esso gli impedimenti, che altro non sono che cattive
abitudini mentali, vengono sostituiti con predisposizioni mentali positive quali la generosità,
la gentilezza amorevole, la compassione, la gioia, la felicità, etc..
Per fare ciò la mente viene orientata ad un unico oggetto di attenzione da scegliersi,
possibilmente, tra le quattro forme di attenzione raccomandate dal Satipatthana Sutta: il
corpo (Kaya), le sensazioni (Vedana), la mente in sé (Citta) e gli oggetti mentali che la
mente produce (Dhamma). I motivi della varietà di oggetti di meditazione sono due:
1. non esiste un oggetto che sia adatto per tutti,
2. l’oggetto usato non è importante poiché, una volta raggiunto il Jhana, viene
abbandonato; nel Jhana, infatti, la mente concentrata è autonoma e non dipende
da nessun fattore esteriore.
Tuttavia, una volta scelto l’oggetto di meditazione, esso non va cambiato perché il
variarlo distrae la mente e diminuisce la concentrazione.
Nello stato di concentrazione l’oggetto di meditazione diventa la sola cosa esistente,
la stessa esistenza del meditante scompare. Questa trasformazione avviene non tramite
un processo di identificazione con l’oggetto che porterebbe il meditante a particolarizzarsi
in esso ma mediante un’espansione all’infinito dell’oggetto di meditazione che va ad
invadere il più recondito dei pensieri divenendo la sola realtà soggettiva (vedi capitolo 2.1)
esistente.
Il processo di concentrazione si sviluppa più o meno allo stesso modo per tutti i
meditanti, indipendentemente dalla loro esperienza e dal loro stato di sviluppo. Ciò che li
differenzia è la velocità con cui i meditanti più esperti attraversano gli stati iniziali.
Prima di arrivare ad una concentrazione stabile l’attenzione vaga e vacilla sotto la
spinta degli impedimenti e man mano che la mente si quieta diventa sempre più facile
riportarla e mantenerla sull’oggetto di meditazione.
Durante la concentrazione di accesso è anche possibile che si manifestino strane
sensazioni come leggerezza, fluidità, levitazione o anche visioni. Queste sensazioni non
vanno ricercate e non bisogna farsi distrarre da esse ma continuare a portare l’attenzione
all’oggetto di meditazione.
Successivamente l’attributo mentale del raccoglimento matura sempre più e si
affacciano alla coscienza l’equanimità, la gioia e la felicità.
Queste sono le sensazioni veramente importanti a questo livello, al punto che alcuni
maestri consigliano di espandere le sensazioni piacevoli al fine di usarle come strumento
per entrare nel primo Jhana. Esse infatti stimolano e motivano a proseguire e perseguire
la pratica. Una volta appreso il metodo di concentrazione il meditante è in grado di
ritornare alle sensazioni di pace e felicità a piacimento e di permanere in esse per tutto il
tempo che vuole.
Non appena equanimità, gioia e felicità si manifestano vanno abbandonate le
tecniche che aiutano ad arrivare a questo punto come i Metta, i Mantra, etc..
Nel cruciale momento di transizione tra la concentrazione di accesso ed il primo
Jhana può manifestarsi un piccolo bagliore di luce. E’ un’esperienza fugace, difficile da
identificare e sulla quale ogni riflessione non solo è inutile ma controproducente poiché
rischia di riportare il meditante fuori dal primo Jhana. Per coloro che ne fanno esperienza,
però, può essere il segnale di ingresso nei Jhana.
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7.6 – La maestria nel controllo dei Jhana
La maestria nel controllo dei Jhana si consegue attraverso la padronanza delle
modalità di accesso, permanenza ed uscita dallo stato Jhanico e mediante la capacità di
riesaminare l’esperienza fatta.
L’abilità di entrare nello stato Jhanico migliora con la pratica, essa forma la
necessaria esperienza per riconoscere e ricreare le condizioni di accesso al Jhana.
La capacità di determinare a priori il tempo di permanenza in uno stato Jhanico è
inficiata dagli impedimenti per cui la perizia in questo campo aumenta con il loro
indebolirsi. Questo vuol dire che è povera negli stati Jhanici iniziali, che sono molto
influenzati dagli impedimenti, e man mano aumenta con progredire nei livelli superiori. Il
ruolo della consapevolezza in questo ambito è duplice: all’interno dello stato Jhanico è
quella di bloccare gli impedimenti che provocherebbero l’uscita da esso, all’esterno di esso
è quella di individuare il problema che ha provocato la fuoriuscita.
La capacità di emergere dallo stato Jhanico è altrettanto essenziale delle prime due.
Infatti, una volta sopita l’azione degli impedimenti, non vi è più nulla di spontaneo che
conduca al di fuori del Jhana e diventa indispensabile saperne uscire secondo il proprio
intendimento.
Infine bisogna anche saper riesaminare, alla luce della consapevolezza, ciò che è
avvenuto durante la meditazione. Occorre, in retrospettiva, capire quali siano stati i
benefici e quali le difficoltà, quali gli impedimenti superati e quali quelli ancora da vincere.
Il momento maggiormente fruttuoso per fare questo è all’uscita dallo stato meditativo ed è
per questo che molti maestri raccomandano di non perderlo.
7.7 – I Jhana Mondani Materiali
I primi quattro Jhana non hanno nome, sono semplicemente numerati.
7.7.1 – Primo Jhana
Quello che distingue questo stadio dagli altri è il permanere di una di una pur flebile
relazione con il mondo esterno. Il respiro è diventato sottilissimo o, addirittura,
impercettibile. Sono ancora presenti sensazioni e pensieri anche se in modo vago e
saltuario. Essi vanno del tutto ignorati poiché rischiano di trascinare il meditante fuori dal
Jhana.
Gli impedimenti sono ormai superati e da ciò nasce la gioia. Essa ha natura
puramente interiore e nessuna giustificazione esterna, non sorge, cioè da alcun piacere
mondano. Questo tipo di gioia è detto “basato sulla rinuncia” per distinguerlo dal quello
ordinario detto “basato sulla vita domestica”.
Sorgono stati d’animo di generosità, amicizia e compassione che non sono né
sentimenti né pensieri ma semplici riflessi esperienziali.
Cinque sono i fattori che contradistinguono il primo Jhana.
1. Vitakka, il rivolgere il pensiero all’oggetto di meditazione.
2. Vicara, mantenere a lungo pensieri retti.
3. Piti, la gioia interiore che porta con sé l’entusiasmo che può generare una
sensazione euforica; è presente in maniera anche più evidente nel secondo
Jhana.
4. Sukka, la felicità o beatitudine che si diversifica dalla gioia perché sostituisce
l’euforia e l’entusiasmo con una sensazione di calma e di pace; è presente anche
nel secondo e terzo Jhana nel quale si manifesta in maniera più evidente.
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5. Ekagatta, il raccoglimento che ha come presupposti la serenità, la tranquillità e la
concentrazione focalizzata su un solo punto e porta all’unificazione della mente.
Di questi cinque fattori i primi due sono presenti solo nel primo Jhana per cui vale la
pena di descriverli più in dettaglio.
Vitakka è basato su tre retti pensieri che proteggono la mente tenendo a bada gli
impedimenti.
1. La rinuncia è l’assenza di attaccamento verso la ricchezza, il potere ed i piaceri
mondani. Di essi il meditante non ha bisogno e se ne distacca naturalmente, non é
un atto di generosità poiché essa presuppone la rinuncia a qualcosa a cui si tiene.
La rinuncia viene coltivata attraverso la così detta “sostituzione fattoriale” che
consiste nel sostituire il desiderio per qualcosa con il desiderio per il suo opposto.
2. La gentilezza amorevole è la sistematica soppressione della malevolenza verso
chiunque ed ogni cosa. Un po’ alla volta essa conduce al completo assopimento
dell’odio che in genere è l’ultimo degli impedimenti a sparire.
3. La compassione è l’assenza di ogni crudeltà la quale deriva dall’aggressività che,
a sua volta, proviene dalla paura. Con lo svanire della paura spariscono anche i
timori che qualcuno o qualcosa possa farci del male e, di conseguenza, anche il
nostro desiderio di maltrattarlo. Si diventa, così, partecipi delle sofferenze altrui,
sia pure senza coinvolgimento, allo stesso modo in cui prendiamo coscienza e
diventiamo consapevoli senza farci emotivamente coinvolgere dalle nostre stesse
sofferenze.
La meditazione si sviluppa in questo modo: ci si concentra sui tre pensieri sopra
esposti (Vitakka) e si mantiene l’attenzione su di essi prolungatamente (Vicara).
Inizialmente i pensieri sono costrutti concettuali veri e propri al fine di bloccare gli
impedimenti, quando questi siano sopiti si porta la parte residuale della rappresentazione
mentale a livello non concettuale. La coltivazione prolungata, anche nella vita quotidiana,
di questi tre concetti porta alla riduzione e sparizione naturale e senza sforzo dell’avidità,
della crudeltà e dell’odio. A questo punto si può mietere un raccolto di calma, di pace, di
tranquillità, di serenità, di gioia e felicità.
Man mano che i fattori Jhanici si rafforzano e i rispettivi impedimenti svaniscono il
meditante compie un percorso di liberazione progressiva attraverso una successione di
otto ineludibili stadi ognuno dei quali sviluppa un “fattore di risveglio della coscienza” che,
secondo i Buddhisti, culminano nel Sotapanna (“ingresso nella corrente”) che porta
all’illuminazione.
Questi stadi del meccanismo di emancipazione sono consequenziali e si presentano
sempre nell’ordine nel seguito descritto.
1. Consapevolezza, del corpo, delle sensazioni, della mente e degli oggetti mentali.
2. Investigazione, stimolata dalla consapevolezza grazie al seguente meccanismo:
la concentrazione mantiene costantemente un oggetto di fronte la consapevolezza
ed essa vi presta una continua e rigorosa attenzione che porta, attraverso
l’investigazione, a svelarne la natura.
3. Energia, risvegliata dall’investigazione poiché la scoperta della vera natura delle
cose spinge ad esercitare la consapevolezza sempre più a lungo e senza sforzo.
4. Gioia, generata dal benessere che dà l’energia. Qualche volta, durante la
meditazione si può perfino arrivare al pianto indotto dalla pienezza di questa gioia
profonda. Dalla gioia sorgono gratitudine, gentilezza amorevole e compassione
per tutti gli esseri viventi. La gioia ha poi il potere di passare dal Jhana al normale
stato di coscienza e di riempire ed alimentare tutta la nostra vita.
5. Felicità, con la gioia arriva anche un senso di sicurezza e da esso una sensazione
di rilassamento che placa l’eccitazione gioiosa e la fa diventare felicità che, però,
ha solo un carattere temporaneo.
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6. Tranquillità, si sviluppa dallo stato di felicità grazie al rilassamento che esso
provoca conducendo il meditante ha un senso di soddisfazione e di pace
giustificato dal dileguarsi di ogni concezione illusoria.
7. Concentrazione, con la pace mentale arriva anche una capacità di attenzione
senza sforzo che permette di mantenere una consapevolezza continua e costante.
8. Equanimità, una consapevolezza senza interruzioni permette di riconoscere
chiaramente la natura impermanente di tutte le cose e da ciò si sviluppa un
atteggiamento di equanimità verso di esse. L’impermanenza può poi condurre ad
una sensazione di insoddisfazione che genera un senso di urgenza nel proseguire
nel spirituale.
7.7.2 – Secondo Jhana
L’urgenza spirituale non deve, però, sfociare in avidità. L’attaccamento, infatti,
porterebbe al blocco ed alla regressione del percorso spirituale. Progredire attraverso i
Jhana è come salire su una scala. Non si può montare sul gradino successivo senza aver
abbandonato quello precedente. Bisogna essere disposti a lasciare andare quello che si è
conquistato. Lo stato di gioia è molto piacevole e, quindi, allettante ma può diventare una
trappola.
In sostanza lo stato Jhanico raggiunto va protetto con la consapevolezza,
mantenendo la sensazione della sua presenza, ma senza alcun attaccamento.
Difatti, la mente arriva al secondo livello Jhanico scivolandovi dentro naturalmente,
senza alcuno sforzo. Fattori quali il desiderio, la volontà o l’impegno sono solo un ostacolo
a questa evoluzione. Questo vuol dire che bisogna lasciare andare sia Vitakka che Vitara
affinché la mente sia vuota da pensieri discorsivi. Il solo fatto di pensare di aver raggiunto
il secondo Jhana conduce al di fuori da esso. E’ un equilibrio molto delicato, se ne deve
avere consapevolezza senza passare per una conoscenza concettuale.
La consapevolezza ha un ruolo molto importante anche nel primo Jhana perché esso
è instabile e bisogna continuamente riportare la mente allo stato Jhanico. Nel secondo
Jhana, invece, essa ha un ruolo stabilizzante. Dalla relativa facilità con cui si riesce a
permanere nello stato Jhanico si sviluppa una “fiducia interiore” che ne è la caratteristica
più evidente. L’altra caratteristi precipua di questo livello è una grande gioia che no
svanisce ma si rinnova continuamente.
7.7.3 – Terzo Jhana
Anche l’ingresso nel terzo Jhana avviene senza alcuno sforzo o desiderio. Appena
sono presenti le condizioni per raggiungere il terzo Jhana la mente vi si introduce
spontaneamente. Con il conseguimento di questo livello ed il distacco dal secondo
svanisce anche la gioia. Essa viene lasciata andare naturalmente e senza rammarico
insieme al Jhana inferiore poiché la mente perde interesse per uno stato di sviluppo meno
evoluto e per le sue caratteristiche. E’ come l’abbandonare in età adulta i giocattoli che
erano tanto cari in età infantile.
All’entusiastica gioia (Piti) subentra la pace e con essa una tranquilla felicità (Sukka).
L’estasi in questo stato non è inferiore a quella dello stato precedente poiché, se la gioia è
paragonabile alla soddisfazione di conseguire qualcosa, la felicità è paragonabile al
godimento della cosa desiderata.
Nel terzo Jhana concentrazione e consapevolezza si sono molto rafforzati e,
conseguentemente, incomincia ad emergere l’equanimità.
7.7.4 – Quarto Jhana
Per raggiungere il quarto Jhana è necessario un alto livello di consapevolezza che
porta con sé anche una diffusa equanimità verso qualunque cosa o avvenimento.
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Sensazioni molto intense caratterizzano il quarto Jhana, grazie alla grande
consapevolezza raggiunta, ma esse non sono né piacevoli né sgradevoli a causa dello
spiccato atteggiamento di equanimità.
L’equanimità del quarto Jhana, e di quelli superiori, è uno stato di consapevolezza
senza sforzo poiché, grazie alla fusione della coscienza con la concentrazione, le
impressioni sensoriali non sorgono affatto.
L’emotività ed il pensiero verbale nel quarto Jhana sono del tutto assenti. Al
contrario, la comprensione non concettuale diventa stabile. Nel quarto Jhana il meditante
non pensa più, conosce in modo diretto.
La mente raggiunge l’unità, non c’è più una differenziazione tra coscienza,
consapevolezza e pensieri. Rimane solo un tutt’uno di pace e comprensione profonda.
La mente vede tutto con chiarezza e può essere pervasa da una bellissima luce non
prodotta dai sensi svelando così la sua intima natura di “chiara luce e vacuità”, vacuità
dovuta alla sua natura impermanente.
Nulla è più in grado di disturbare la meditazione, anche gli ultimi impedimenti sono
sopiti cosicché il meditante è in grado di rimanere in questo stato, del tutto neutro e
caratterizzato da un’equanimità ininterrotta, a volontà e di uscirne quando ha stabilito.
Il permanere nel quarto Jhana, in questo stato neutro di non-piacere e non-tormento,
è una pratica che rafforza il controllo sugli impedimenti sia nello stato Jhanico che al di
fuori di esso.
7.8 – I Jhana Mondani Immateriali
La Satipatthana è una pratica progressiva, che parte dagli oggetti su cui è più facile
portare e mantenere l’attenzione, com’è il corpo, per arrivare a quelli più astratti e difficili
da afferrare, come i vari stati mentali e i prodotti della mente (pensieri, emozioni, etc.).
La naturale evoluzione dei Jhana Mondani Materiali sono i Jhana Mondani
Immateriali detti Aruppa cioè “pacifiche liberazioni che trascendono la forma materiale”.
Per arrivare ad emanciparsi da una mente compulsiva e reattiva, però, i Jhana Mondani
Immateriali non sono necessari, anche se è vero che la loro pratica contribuisce alla
crescita della calma e della visione profonda. Si può, quindi, dire che i Jhana Mondani
Immateriali sono considerati superiori a quelli Mondani Materiali più per la maggiore
difficoltà che i meditanti incontrano nella pratica che per i frutti che se ne ottengono. In un
certo senso potrebbero essere considerati una sorta di pratica parallela simile ai quattro
Jhana Mondani Materiali maggiormente adatta a specifiche persone o a meditanti evoluti.
Bisogna, tuttavia, sottolineare che vi è un pericolo insito nella pratica dei Jhana
Materiali di cui non soffrono i Jhana Immateriali, si tratta dell’attaccamento o della
repulsione che possono suscitare gli oggetti di meditazione. Da questa possibile
mancanza di equanimità gli oggetti di meditazione dei Jhana Immateriali non sono affetti
poiché sono del tutto astratti.
Tra le due classi di Jhana vi è, poi, un’altra netta differenza. Nel passaggio da un
Jhana Materiale ad uno superiore i fattori del Jhana inferiore, in quanto più grossolani,
vengono abbandonati. Al contrario, nel passaggio da un Jhana Immateriale a quello
immediatamente superiore i fattori Jhanici rimangono gli stessi, quello che cambia è
l’oggetto di meditazione.
I due fattori che caratterizzano tutti i quattro Jhana Mondani Immateriali,
raccoglimento e sensazione neutra (né piacevole è sgradevole), rimangono una costante
del cammino. L’oggetto di meditazione, invece, diviene sempre più astratto, meno definito,
più difficile da concepire, da focalizzare e da mantenere come oggetto di attenzione. E’ per
questo che solo la perfetta padronanza di un Jhana permette il passaggio a quello
successivo.
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7.8.1 – Quinto Jhana ovvero primo Aruppa: la base dello spazio infinito
Abbiamo visto che quattro sono gli oggetti di attenzione, chiamati “fondamenti della
consapevolezza” descritti nel Satipatthana Sutta: il corpo (Kaya), le sensazioni (Vedana),
la mente in sé (Citta) e gli oggetti mentali che la mente produce (Dhamma).
Dopo aver osservato il respiro e le sensazioni del corpo, proviamo ad osservare il
flusso dei pensieri, senza fare alcunché, soltanto osservare il loro movimento e al
massimo annotare se sono pensieri piacevoli o spiacevoli (d’amore, d’odio, di rabbia etc.)
il loro permanere, la quantità e la frequenza con cui si presentano. Sorgerà ancora la
tentazione di “giudicarli” ma col tempo si impara ad osservare anche il giudizio stesso e
l’attenzione sarà indirizzata non solo verso i pensieri, ma anche verso “i pensieri che
hanno come argomento pensieri”, quali sono i giudizi.
Via via che la concentrazione si approfondisce i pensieri si presentano alla mente in
maniera sempre più lenta, più rarefatta e con meno concatenazioni logiche tra di loro. La
mancanza di correlazione permette l’insinuarsi di un spazio vuoto tra un pensiero e l’altro
che, un po’ alla volta, si espande lasciando la mente sempre più libera non solo dal
pensiero cosciente ma anche da immagini, sensazioni, emozioni etc.. Alla fine rimane solo
uno spazio infinito.
7.8.2 – Sesto Jhana ovvero secondo Aruppa: la base della coscienza infinita
Nel primo Aruppa esiste ancora un oggetto di meditazione (infinito) ed una coscienza
meditante. Per introdursi nel secondo Aruppa occorre espandere la coscienza nello spazio
infinito. In questo modo essa ne assume la qualità (l’infinità) e diventa un tutt’uno con
l’oggetto di meditazione.
Si tratta di un processo di unificazione in cui la coscienza assume
contemporaneamente ruolo di soggetto ed di oggetto.
Analogamente a quanto spiegato nel capitolo 7.5, dedicato alla concentrazione di
accesso, anche in questo caso il soggetto di meditazione non si identifica con il suo
oggetto (lo spazio infinito) ma semplicemente ne assume la caratteristiche.
7.8.3 – Settimo Jhana ovvero terzo Aruppa: la base della vacuità
Per arrivare a concentrarsi sulla base della vacuità il meditante deva svotare di
essenza la coscienza, arrivare cioè alla negazione di un Sé individuale e duraturo
(Anatta). In questo modo rimane solo un’infinita vacuità.
I primi tre Aruppa condividono la stessa caratteristica dell’oggetto di meditazione,
l’infinità. Tuttavia, in primi due si rapportano al terzo in maniera opposta. Il primo ed il
secondo Aruppa oggettivano l’infinito positivamente, concentrandosi sul contenuto (spazio
e coscienza); il terzo negativamente, concentrandosi sulla mancanza di contenuto.
7.8.4 – Ottavo Jhana ovvero quarto Aruppa: la base di né percezione né nonpercezione
La consapevolezza del terzo Aruppa è la consapevolezza della vacuità. La
consapevolezza di qualsiasi cosa, sia pure della vacuità, implica che essa viene percepita.
Pertanto, l’evoluzione successiva al terzo Aruppa consiste nell’eliminare questa
percezione. Tuttavia, la consapevolezza della non-percezione è una contradizione in
termini perché implicherebbe un soggetto che percepisce la mancanza di percezione. Per
questa ragione l’ultimo Aruppa è definito uno stato di consapevolezza di né percezione né
non-percezione.
L’astrusità di questo concetto rende ragione del fatto che non possa essere
sufficientemente descritto e spiegato tramite il pensiero concettuale ma se ne debba fare
un’esperienza consapevole.
Con il quarto Aruppa si raggiunge il massimo sviluppo possibile di serenità,
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concentrazione e consapevolezza.
Il processo soteriologico, tuttavia, non si conclude e, nella prospettiva Buddhista, al
credente si dischiude il cammino per i Jhana Sovramondani.
7.9 – I Jhana Sovramondani
Coloro che dominano i Jhana Mondani hanno il controllo degli impedimenti ma non li
distruggono, sono quindi detti “coloro che vivono felici in questa stessa vita” perché sono
affrancati da attaccamento, bramosia, odio, avversione, torpore, irrequietezza, dubbio,
etc.. Tuttavia gli impedimenti hanno tendenza a ripresentarsi e la realizzazione Jhanica
può andare perduta. Questo gli espone al rischio di riprovare desiderio per le cose dei
“regni di Braham” e quindi di rinascere sia pure in circostanze di vita migliori di quelle
attuali.
I meditanti che riescono a raggiungere i Jhana Sovramondani sono detti “coloro che
si sono liberati e vivono in pace” poiché letteralmente distruggono impedimenti e catene e
con esse il desiderio, essi conseguono, così, la liberazione dal Samsara (ciclo di vita,
morte e rinascita).
Vi sono due categorie di persone che riescono più facilmente in questa impresa.
I primi sono i “seguaci della fede” il cui sviluppo personale è basato su una fede
profonda. La loro fede è così grande che sono in grado di superare qualsiasi dubbio e di
raggiungere questo stadio Jhanico senza aver prima conseguito i Jhana Mondani.
La seconda categoria è quella dei “seguaci della saggezza”, essi prediligono un
percorso evolutivo basato sulla comprensione profonda. Questo tipo di persone realizza
una grande consapevolezza che permette loro di vedere così chiaramente la realtà che il
dubbio non può più sussistere. Anch’essi hanno la possibilità di raggiungere questo stadio
Jhanico senza aver conseguito i Jhana Mondani.
Tutti gli altri prima di arrivare a distruggere impedimenti e catene devono un poco alla
volta indebolirli con la realizzazione dei Jhana Mondani.
Ogni Jhana Sovramondano ha lo scopo di distruggere specificamente una o più
catene. In genere tutte le persone hanno una maggiore predilezione per un tipo di
percorso evolutivo piuttosto che per un altro, anche se non così marcatamente come i
“seguaci della fede” ed i “seguaci della saggezza”. Questo comporta che, a seconda della
predisposizione personale, le catene vengano distrutte in un certo ordine piuttosto che in
un altro.
Quattro sono le categorie di meditanti, detti “nobili discepoli”, partecipi del processo
evolutivo sovramondano: coloro che “entrano nella corrente”, coloro che “ritornano una
volta”, coloro che “non ritornano” e coloro che “non hanno più alcun lavoro da compiere”
cioè gli Arahant.
7.9.1 - Lo stadio di chi entra nella corrente
Il primo Jhana Sovramondano elimina le prime tre catene. Esse sono il dubbio,
l’attaccamento a riti e rituali e la credenza dell’esistenza di un sé isolato e permanente.
Come abbiamo detto, l’ordine in cui esse vengono distrutte dipende dalla predisposizione
personale.
Se si cammina sul sentiero della fede la prima catena ad essere distrutta è il dubbio;
diversamente, se si cammina sul sentiero della saggezza, la prima catena eliminata è la
convinzione dell’esistenza di un sé personale e sostanziale.
L’attaccamento ai rituali, che dovrebbero avere un fine soteriologico, svanisce col
dissolversi della cognizione di un sé proprio da salvare o anche con la rimozione di ogni
dubbio riguardo al progetto di salvezza indicato dal nobile ottuplice sentiero.
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7.9.2 - Lo stadio di chi ritorna una sola volta
L’eliminazione della convinzione riguardo all’esistenza di un sé separato e
permanente porta a vedere chiaramente la mescolanza dei cinque aggregati di cui è
composta questa illusione: forma, sensazione, percezione, volontà e coscienza.
Si percepisce anche con chiarezza il loro divenire e, quindi, l’impermanenza di tutta
la struttura.
Da qui nasce l’equanimità che distrugge la paura e, con essa, l’avidità. Con
l’affrancarsi da paura ed avidità pure l’odio si indebolisce anche se non sparisce del tutto
con questo Jhana (ricordiamo che il sentimento d’odio è l’ultimo a placarsi).
7.9.3 - Lo stadio di chi non ritorna
Nel terzo Jhana Sovramondano si dissolvono del tutto bramosia sensuale e odio.
Ambedue le catene hanno la stessa origine nell’avidità che è stata distrutta nel Jhana
precedente.
L’avidità, infatti, genera bramosia ed essa induce malevolenza nei confronti del
nostro prossimo e mancanza di accettazione verso le cose che non ci piacciono.
7.9.2 - Lo stadio di chi non ha più alcun lavoro da compiere (Arahant)
Nel quarto Jhana Sovramondano si dissolvono i pesanti legami delle ultime cinque
catene: desiderio per l’esistenza materiale, desiderio per l’esistenza immateriale,
ignoranza, presunzione ed inquietudine.
Ogni desiderio di qualsiasi natura sparisce, si alza il velo dell’ignoranza riguardo alle
quattro nobili verità e, come conseguenza, presunzione ed inquietudine spariscono.
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Capitolo 8 - Lo scopo della meditazione
8.1 - Prefazione
Di solito il capitolo che adduce le ragioni per perseguire una pratica si trova all’inizio
del testo sia per motivare il lettore ad effettuarla veramente che per stimolarlo alla lettura
dell’opera.
In questo caso ho voluto farne il capitolo conclusivo per due ragioni.
La prima è che, sebbene l’intento di fondo sia sempre lo stesso e cioè il
conseguimento della consapevolezza, le motivazioni per applicarsi alla meditazione, che
le varie culture hanno elaborato, sono svariate e diverse almeno nella forma se non nella
sostanza. Per trattarle tutte esaustivamente sarebbe, quindi, occorso uno studio ben più
ampio che esulava dalle finalità di questo lavoro.
Il secondo motivo è che, in considerazione del fatto che il presente testo tratta di una
tecnica di meditazione Buddhista, si è voluto esporre solo le motivazioni addotte
nell’ambito di questa cultura.
Vediamo, dunque, quali sono i traguardi, secondo i Buddhisti, da conseguire con la
meditazione Vipassana-Shamata.
Come accennato nell’introduzione, essi sono tre: arrivare alla percezione intuitiva
dell’impermanenza (Anicca), della sofferenza (Dukkha) e dell’assenza di un sé personale
(Anatta). Quindi, respiro, sensazioni, percezioni, attenzione, intenzione e coscienza sono
solo strumenti per arrivare ad essi.
8.2 - Anicca
Arrivare alla convincimento concettuale che tutto sia impermanente è piuttosto facile
specialmente alla luce delle moderne teorie scientifiche (si veda il capitolo sulla Realtà).
Più difficile è penetrare intuitivamente nella dinamica dell’esistenza e arrivare a
comprenderla in modo più profondo e sottile senza verbalizzazioni e/o concettualizzazioni.
Durante la meditazione si può, ad esempio, esperire l’impermanenza del respiro o di
altri fenomeni e sensazioni se il meditante è ancora aperto e soggetto agli stimoli
sensoriali.
Diversa è la situazione quando il meditante è raccolto nel suo stesso raccoglimento.
Allora non esiste più qualcosa individuabile come “oggetto” di meditazione, esiste solo una
consapevolezza preconcettuale aliena da qualsiasi pensiero speculativo. E’ questa
consapevolezza che ci dà la chiara sensazione dell’inafferrabilità di qualsiasi cosa a causa
del suo continuo divenire e, ancor più profondamente, dell’incapacità di afferrare alcunché
perché pure il soggetto di questa azione ha la stessa natura del resto, è cioè
impermanente e quindi del tutto vuoto e inconsistente.
8.3 - Dukkha
La chiara percezione dell’impermaneza conduce inevitabilmente alla frustrazione.
Appare evidente che tutti i conseguimenti ottenuti non sono duraturi e che qualsiasi
progettualità mira ad obbiettivi che non permangono, incominciano a dissolversi un attimo
dopo che si sono realizzati ammesso che tutto il lavoro fatto per raggiungerli ci permetta di
conseguirli effettivamente.
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Meditazione: la tecnica del Buddhismo Teravada Vipassana-Shamata
Se basiamo la nostra vita sul meccanismo di attaccamento sopra descritto diventa
inevitabile la sofferenza (Dukkha) perché il conseguimento di qualsiasi cosa richiede
quanto meno fatica e lavoro.
Il corpo richiede assistenza, provvedere ad essa è sofferenza. Le sensazioni
richiedono un continuo nutrimento, adempiere ad esso è sofferenza. Le sensazioni
sgradevoli sono sofferenza. Perfino i sentimenti positivi causano una sofferenza maggiore
di quanta gioia possano portare. Le relazioni con gli altri, se negative, sono sofferenza, se
positive, ci possono coinvolgere emotivamente in una sofferenza. La volitività è sofferenza
poiché prendere una decisione causa conflitto, se poi si continua a cambiare decisione,
alla ricerca di una migliore, la sofferenza non fa che aumentare. Addirittura gli stati di
coscienza più belli sono motivo di sofferenza a causa della loro volatilità. Se leggendo
questo paragrafo vi siete fatti emotivamente coinvolgere o se provate avversione verso
l’argomento della “sofferenza” anche questo è sofferenza.
Come si può vedere, anche senza citare situazioni di sofferenza palesi come la
fame, la povertà, la malattia, la morte etc., nella vita di tutti i giorni entra inevitabilmente la
sofferenza.
Questo non vuol dire che la vita sia ineluttabilmente vuota di piaceri ma vuol
focalizzare l’attenzione sul fatto che non è il conseguimento dei piaceri a evitarci gli stati di
sofferenza e che tutti i nostri sforzi alla fin fine sono esclusivamente rivolti ad eliminare o
allontanare la sofferenza.
Vale quindi la pena di capire qual è il modo migliore di farlo.
La liberazione dalla sofferenza avviene solo mediante la disillusione, la disillusione
da qualsiasi passione. Sono le passioni, infatti, a fare da collante, a tenerci attaccati a
cose, progetti e persone. E sono ancora le passioni a dare la fallace sensazione
dell’esistenza di un Sé personale duraturo.
Eliminare le passioni attraverso la concentrazione e la consapevolezza vuol dire
eliminare la sofferenza e iniziare ad erodere la sensazione del Sé.
8.4 - Anatta
Diversamente dall’approccio Cartesiano in cui l’uomo scopre proprio nel dubbio la
sua esistenza (cogito ergo sum) e nel suo pensiero la sua esistenza separata (res
cogitans) dal resto del mondo (res extensa), la filosofia Buddhista colloca l’uomo nel
contesto che gli è proprio, cioè la natura.
In occidente questo pensiero è maturato molto più tardi perché si scontrava con il
pregiudizio che l’uomo non potesse indagare sul Divino. Le cose della natura, in quanto
“creazione”, erano concepite come precipue della Divinità. Occorreva, perciò, separarle da
Essa per avere la libertà di indagarle senza portare offesa a Dio. Fu così che la “res
cogitans” rimase argomento di speculazione teologica e la “res extensa” divenne il campo
di studio della scienza. Anche se le contraddizioni del pensiero Cartesiano incominciarono
ad essere evidenti già ai suoi immediati epigoni, la schematizzazione radicale che
Cartesio aveva fatto permetteva alla scienza ed alla religione di occuparsi di argomenti
diversi e di non entrare in conflitto tra di loro. Per questo motivo il pensiero Cartesiano,
nonostante le carenze, ha profondamente influenzato l’occidente per un lungo periodo.
Bisogna arrivare al 1900 per assistere ad una rivoluzione su questo argomento,
promossa e verificata dalle scoperte scientifiche in fisica quantistica. Esse hanno riportato
lo sperimentatore, e quindi l’uomo, nel suo ambito specifico che appunto è la natura.
Secondo la meccanica quantistica l’uomo non può considerarsi un osservatore neutro ed
esterno dei fenomeni naturali ma, in quanto soggetto alle identiche leggi naturali che
guidano l’intero universo, è da questo influenzato e coinvolto.
L’uomo è, perciò, soggetto alla continua evoluzione cui è sottoposto tutto l’universo.
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Meditazione: la tecnica del Buddhismo Teravada Vipassana-Shamata
Per dirla con le parole dei Buddhisti anche l’uomo è impermanente. Questa
impermanenza non riguarda solo il corpo, che evidentemente muore e si disfa, ma
riguarda anche quello che consideriamo lo spirito. Secondo i Buddhisti, l’uomo non è
dotato di un imperituro principio materiale di natura incorporea con le caratteristiche di
un’anima, ma è un semplice aggregato di cinque componenti psichiche: forme, sensazioni,
percezioni, formazioni volitive e coscienza. Componenti che, a loro volta, possono essere
suddivise (addirittura all’infinito) in altre sotto componenti.
Questo modo di concepire le cose porta alla negazione dell’esistenza di un Sé
individuale e duraturo.
Si può arrivare alla consapevolezza di ciò con la meditazione quando si incomincia a
riconoscere le varie componenti della personalità come non identificabili con se stessi e ci
si incomincia a domandare quale sia la vera natura del Sé. L’abbandono
dell’identificazione con pensieri, sentimenti, emozioni, idee, stati d’animo allontana dai
concetti di “io”, “me”, “mio” e, conseguentemente anche dall’attaccamento e dalle paure.
A seguito del processo di smontamento dell’”io” personale ci si accorge, sia
intuitivamente che concettualmente, che nulla rimane o, comunque, che quello che rimane
è del tutto indefinibile.
L’”io” personale si dissolve e scompare.
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Meditazione: la tecnica del Buddhismo Teravada Vipassana-Shamata
Conclusioni
Le motivazioni che sono alla base delle considerazioni fatte in questo lavoro non
scaturiscono semplicemente dall’intento, sia pur lodevole, di far chiarezza sulle
potenzialità ed i limiti degli strumenti cognitivi umani ma dall’urgenza di riconoscere quale
sia veramente la natura della realtà. Il termine “urgenza” non è usato impropriamente
perché, come abbiamo visto nell’introduzione, citando Swami Sivananda Saraswati, il
nostro modo di pensare e, quindi, il nostro modo di concepire la realtà, influenza
pesantemente le nostre vite. Visto che abbiamo un tempo limitato da vivere e che le
distorsioni del pensiero e i loro effetti sono lunghi e difficili da rimuovere diventa urgente
incominciare a diventare consapevoli quanto prima.
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Meditazione: la tecnica del Buddhismo Teravada Vipassana-Shamata
Appendice - Neurofisiologia della meditazione
Prefazione
Negli ultimi anni ottanta la scienza si è interessata, per la prima volta, agli effetti
fisiologici provocati della meditazione.
Nel 1987 a Dharamsala, in India, si formò un gruppo di ricerca, cui facevano parte
biologi, psicologi, neuro-scienziati occidentali e monaci buddhisti di tradizione tibetana. Il
gruppo, nato sotto la spinta del Dalai Lama, che ne diventò il presidente onorario, aveva
l’intento di investigare su alcuni argomenti legati alle cosiddette “emozioni distruttive”.
Questa iniziativa ha consentito, nell’arco di un ventennio, lo scambio di informazioni tra
monaci e scienziati, in un clima di reciproca fiducia, dando lo stimolo alla diffusione ed allo
studio, anche in campo scientifico, della meditazione in occidente.
Gli strumenti
La sperimentazione viene, usualmente, condotta con la risonanza magnetica
funzionale (RMF) che utilizza l’immagine della risonanza magnetica nucleare (RMN) di un
organo o un tessuto per valutarne la funzionalità. Questa tecnica è in grado di visualizzare
la risposta emodinamica (cambiamenti nel contenuto di ossigeno del parenchima e dei
capillari) correlata all'attività neuronale del cervello o del midollo spinale. La
deossiemoglobina (emoglobina non ossigenata) è paramagnetica mentre l’ossiemoglobina
(emoglobina ossigenata) è diamagnetica; quindi, mediante la risonanza magnetica
nucleare, si possono osservare le variazioni di ossigenazione del sangue.
E’ ormai assodato da decenni che esiste un accoppiamento tra il flusso sanguigno e
il tasso metabolico; ovvero l'apporto di sangue è strettamente correlato nello spazio e nel
tempo alla necessità di sostanze nutrienti atte a sostenere il metabolismo dei tessuti.
In particolare, nel cervello le variazioni di attività neurale, inducono, con un ritardo di
qualche secondo, variazioni locali del flusso sanguigno e dell'ossigenazione. Tale risposta
emodinamica raggiunge il massimo dopo 4-5 s per poi tornare allo stato iniziale o a valori
ad esso inferiori. Le variazioni locali del flusso sanguigno cerebrale causano anche
modificazioni localizzate del volume sanguigno cerebrale e della concentrazione relativa di
ossiemoglobina e deossiemoglobina.
Questi differenti segnali possono essere rilevati dal diverso contrasto che genera
nell’immagine un'appropriata sequenza di impulsi RMN (Risonanza Magnetica Nucleare)
in funzione della BOLD (Blood Oxygenation Level Dependent). Le variazioni di contrasto
possono essere in positivo o in negativo rispetto al consumo di ossigeno medio.
Maggiore è l’intensità del segnale BOLD, minore è la concentrazione di
deossiemoglobina e più simile è la suscettività magnetica del sangue rispetto a quella dei
tessuti.
Un altro strumento che è stato utilizzato nella sperimentazione è
l’elettroencefalogramma (EEG) a duecentocinquantasei sensori (normalmente sono
trentadue).
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Meditazione: la tecnica del Buddhismo Teravada Vipassana-Shamata
Il metodo
Inizialmente viene chiesto ai monaci di iniziare da una condizione mentale neutra e,
successivamente di entrare in fasi specifiche di meditazione che implicano strategie
differenziate riguardo all’attenzione, alla cognizione e all’affettività.
In particolare il meditante viene indotto ad assumere tre stati psicologici:
1. una concentrazione verso ad un unico oggetto di attenzione,
2. una condizione mentale assolutamente attenta, limpida, libera da concatenazioni di
pensieri e da qualsiasi attività mentale intenzionale,
3. un’attenzione amorevole alle sofferenze altrui che generi uno stato di compassione per
chiunque.
Sono state fatte sperimentazioni anche con altre pratiche meditative proprie della tradizione
tibetana che implicavano sentimenti di devozione o attività di visualizzazione.
Sono stati coinvolti nella sperimentazione anche 175 non-meditanti che hanno
costituito il così detto “gruppo di controllo”. Ad essi è stato chiesto, dopo un periodo di
addestramento meditativo di una settimana, di provare a riprodurre lo stesso stato mentale
in cui si immergevano monaci con una media di ventimila ore di pratica.
I risultati
Durante la meditazione è stata osservata un’intensa attività nell’area prefrontale
corticale sinistra, in particolare nella banda di frequenza gamma delle onde celebrali.
L’attività di quest’area è stimolata dalle emozioni “positive”; al contrario, l’attività nell’area
prefrontale corticale destra è indotta da emozioni “negative” come la depressione, l’odio,
etc.. Un aumento di attività, se pur minimo rispetto a quello dei monaci, è stata pure
osservato nell’area prefrontale corticale sinistra anche nei soggetti del gruppo di controllo.
Richard Davidson, uno dei pionieri nella sperimentazione in questo campo, ha anche
dimostrato che, nei meditanti non esperti che avevano seguito un programma di training di
tre mesi, è osservabile uno spostamento dell’attività cerebrale verso il lato sinistro della
corteccia prefrontale del 20% [14].
Anche in Italia sono state condotte ricerche sugli effetti neurologici della meditazione.
In particolare, lo studio, svolto presso l’ITAB dell’Università di Chieti, dall’equipe dello
psicologo dr. Antonino Raffone, ha confermato i risultati della sperimentazione
statunitense.
Dai risultati ottenuti non si può, però, concludere che la corteccia corticale prefrontale
sia la sede delle emozioni perché esse sono fenomeni mentali complessi che coinvolgono
più regioni del cervello.
Con la scoperta della neuro-plasticità cerebrale e lo sviluppo di nuove tecnologie il
numero di esperimenti si è allargato. Infatti, è stata demolita la convinzione che il cervello
di un adulto non potesse né accrescere il numero di neuroni né cambiare la sua struttura.
Le recenti scoperte indicano, invece, che, in età adulta, il cervello, se adeguatamente
stimolato, è in grado di produrre nuovi neuroni e modificare il reticolo delle sinapsi.
Questo apre nuove prospettive per la comprensione degli effetti neurologici indotti
dalla meditazione.
Altri esperimenti hanno studiato gli effetti della meditazione sulla risposta immunitaria
e sugli stati di ansia e stress. Si è arrivati ad ipotizzare che una pratica meditativa assidua
potrebbe contribuire sia alla regolazione della produzione di cortisolo (l’ormone
strettamente correlato allo stress) che all’aumento della serotonina (neurotrasmettitore di
rilievo per l’umore poiché ha un’efficace azione antidepressiva).
Il controllo del cortisolo è estremamente importante per la salute. Infatti, elevati livelli di
cortisolo che perdurino anche quando le situazioni di stress sono superate provocano
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stanchezza cronica, squilibri ormonali, malattie cardiache, colesterolo alto, eccessivi livelli
di zuccheri nel sangue, grasso corporeo e basso livello di ormoni sessuali.
A seguito degli esperimenti che hanno evidenziato gli effetti della meditazione, si è
sviluppata anche la ricerca per l’applicazione della pratica in campo terapeutico. Essa è
sfociata nella formalizzazione, da parte del prof. Kabat-Zinn presso il Medical Center della
University of Massachusetts, del protocollo MBSR (Mindfulness-Based Stress Reduction), per la
terapia dello stress, dell’ansia e dolore cronico.
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Bibliografia
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[14] Ricard, M., Il gusto di essere felici, Sperling, 2009.
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Vannucci Luigi
Meditazione: la tecnica del Buddhismo Teravada Vipassana-Shamata
Indice
Introduzione……………………………………………………………………………..... pag.
Cos’è la meditazione………………………………………………………………….…… >>
Considerazioni su concetto di realtà…………………………………………………….. >>
La percezione…...…………………………………………………………………… >>
Il ruolo della scienza……………………………………………………………..….. >>
La realtà secondo la scienza……………………………………………………….. >>
Il problema dell’incompletezza cognitiva………………………………………….. >>
Percorso evolutivo della meditazione……………………………………………………. >>
Fasi della meditazione………………………………………………………………. >>
Il percorso attraverso i Jhana………………………………………………………. >>
Shamata e/o Vipassana ?.............................................................................. >>
Gli strumenti della meditazione…………………………………………………………... >>
Il ruolo della concentrazione e della consapevolezza………………………….... >>
La concentrazione…………………………………………………………………… >>
La consapevolezza………………………………………………………………….. >>
L’assorbimento meditativo………………………………………………………….. >>
Modalità di meditazione…………………………………………………………………… >>
Il luogo………………………………………………………………………………… >>
La durata……………………………………………………………………………… >>
La postura……………………………………………………………………………. >>
L’atteggiamento……………………………………………………………………… >>
Le difficoltà…………………………………………………………………………… >>
I metodi per minimizzare le difficoltà………………………………………………. >>
La tecnica Vipassana……………………………………………………………………… >>
Finalità ed effetti della tecnica Vipassana………………………………………… >>
La tecnica dell’attenzione…………………………………………………………… >>
La trappola dell’io……………………………………………………………………. >>
Le metodologie della Vipassana…………………………………………………… >>
La tecnica Shamata……………………………………………………………………….. >>
La concentrazione…………………………………………………………………… >>
Pericoli e benefici dei Jhana……………………………………………………….. >>
Preparazione alla Shamata………………………………………………………… >>
Liberarsi dagli impedimenti…………………………………………………………. >>
La concentrazione di accesso……………………………………………………… >>
La maestria nel controllo dei Jhana……………………………………………….. >>
I Jhana Mondani Materiali………………………………………………………….. >>
I Jhana Mondani Immateriali……………………………………………………….. >>
I Jhana Sovramondani……………………………………………………………… >>
Lo scopo della meditazione………………………………………………………………. >>
Prefazione……………………………………………………………………………. >>
Anicca………………………………………………………………………………… >>
Dukkha……………………………………………………………………………….. >>
Anatta………………………………………………………………………………… >>
Conclusioni…………………………………………………………………………………. >>
Appendice - Neurofisiologia della meditazione……………………………………….. >>
Bibliografia………………………………………………………………………………….. >>
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