i prodotti derivati - Unione Nazionale Giovani Dottori Commercialisti

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i prodotti derivati - Unione Nazionale Giovani Dottori Commercialisti
Commissione di Studio UNGDCEC
Finanza Ordinaria e Straordinaria
I PRODOTTI DERIVATI
Il primo passo
Commissione di Studio UNGDCEC
Finanza Ordinaria e Straordinaria
27 settembre 2010
Commissione di Studio UNGDCEC “Finanza Ordinaria e Straordinaria”
Delegato di Giunta
Diego La Vecchia
Presidente
Andrea Onori
Segretario
Rossana Giacalone
Il presente documento è stato redatto dai seguenti membri della Commissione:
Bressan Romina
Ciolfi Toni
Giacalone Rossana
Mazza Paola
Onori Andrea
Pizzolato Silvia
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Sommario
Premessa .......................................................................................................................................................................... 4
1. Gli strumenti derivati: sintesi delle definizioni e delle loro caratteristiche ........................................................... 6
2. I rapporti e le responsabilità degli investitori (cenni) ............................................................................................ 12
3. I prodotti derivati come strumenti di controllo dei rischi finanziari d’impresa (cenni) ..................................... 18
4. Principi di contabilizzazione e trattamento fiscale degli strumenti derivati........................................................ 22
5. I contratti derivati negli Enti Locali (cenni) ........................................................................................................... 24
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Premessa
Il presente lavoro vuole essere l’inizio di un percorso per arrivare fino al cuore di ciò che sono
i “prodotti derivati”, o più semplicemente, i “derivati”.
Quello che ci proponiamo di fare è tessere una sorta di “filo di Arianna” che ci permetta di
non perdere mai la via e soprattutto che ci indichi, una volta raggiunta la meta, la strada per tornare
indietro e non rimanere imprigionati negli oscuri meccanismi di questi strumenti.
Il presente lavoro è il primo di una serie che accompagneranno anche l’uscita di un lavoro più
organico e complesso redatto sempre dalla Commissione Finanza Ordinaria e Straordinaria.
Prima di passare alla trattazione tecnica, contabile e fiscale, si vuole chiarire fin da ora quale
sia il cardine sul quale incentrare tutto il percorso della trattazione accademica.
Per comprenderne il significato recondito è necessario porsi delle semplici domande.
Cosa sono?
Cosa rappresentano?
A cosa servono?
Sono facili da utilizzare?
Come li posso utilizzare?
La via che ci conduce alla risposta della prima domanda deve essere percorsa con una
consapevolezza.
Stiamo entrando nel mondo della finanza; loro ne sono una tipologia tra le più complesse.
Se non si è esperti di finanza, si deve essere consapevoli che stiamo per affrontare un percorso
accidentato e soprattutto in parte ignoto, nel senso che i meccanismi finanziari e di mercato che
regolano e governano i prodotti derivati appaiono ai più talmente complessi che assumono anche
tratti di incomprensibilità nella loro costruzione e soprattutto nella loro dinamica futura.
Essi sono degli strumenti finanziari regolati da norme di mercato e da format standardizzati
dai mercati globali dove questi ultimi vengono scambiati.
Cosa rappresentano? … un rischio!
Un rischio che è associato ad una attività da cui gli stessi derivano. Un rischio che diviene
l’oggetto principale del prodotto derivato.
Pertanto i prodotti derivati sono strumenti finanziari il cui valore deriva dal valore attribuito
alla gestione del rischio associato all’attività che è alla base del prodotto stesso, meglio, il loro
valore deriva dall’andamento “rischioso” del valore di una attività, ovvero, dal verificarsi di un
evento osservabile nel futuro.
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Tale attività si chiama “attività sottostante” e di solito può essere di vario tipo: o una attività
finanziaria (azioni, indici, valute, etc.) o una attività reale (petrolio, oro, grano, etc.).
L’utilizzo dei prodotti derivati lo si può classificare in base a tre finalità che gli stessi si
prefiggono di soddisfare:
1. utilizzo per finalità di copertura;
2. utilizzo per finalità speculativa;
3. utilizzo per finalità di arbitraggio.
Conoscere lo scopo per cui gli stessi possono essere utilizzati non presuppone però un loro
facile utilizzo.
Questo concetto deve essere ben radicato nella consapevolezza dell’utilizzatore di tali
strumenti.
Perché non è facile il loro utilizzo?
Semplice, perché loro si prefiggono la gestione di un rischio e gestire un rischio, come ben
tutti possiamo dedurre, non è mai facile.
In primis perché il rischio di una attività dipende dal grado di variabili interne che
determinano le caratteristiche dell’attività stessa (cause endogene), in secundis perché il rischio
associato ad una attività dipende anche dalle condizioni del mercato in cui la stessa attività si trova
ad essere scambiata (cause esogene).
I prodotti derivati sono strumenti complessi e complicati nella loro struttura; si presuppongono,
pertanto, destinati ad operatori/investitori professionali, che sappiano cogliere le opportunità che
offrono e che per contro siano in grado di gestire i notevoli rischi che li caratterizzano.
Gli strumenti finanziari derivati li posso utilizzare mediante negoziazioni nei mercati
finanziari regolamentati e non regolamentati (questi ultimi sono ai più conosciuti come mercati
OTC).
La distinzione tra queste due tipologie di mercato risiede nel fatto che per i primi i mercati di
riferimento sono le borse europee se non quelle mondiali con le loro regole e le loro garanzie; di
fatto nei mercati borsistici vi sono regole di funzionamento precise riguardo ai soggetti che possono
al suo interno, alle tipologie di attività oggetto di contrattazione, alla forma dei contratti, alla
determinazione dei prezzi di scambio dei beni e alle modalità dei pagamenti.
Gli strumenti derivati scambiati all’interno dei mercati regolamentati hanno regole stabilite
dagli operatori/controllori del mercato stesso. Sono standardizzati in termini di prezzo, ammontare,
scadenza e termini di consegna.
A differenza di quelli appena descritti, i mercati OTC (Over the Counter) presentano
caratteristiche di flessibilità nella formazione dei contratti e nella loro gestione, tanto da essere i
mercati con i maggiori volumi in termini di quantità scambiate; a fronte di tale flessibilità si
supporto un maggiore rischio di insolvenza.
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Dalla consapevolezza dell’esistenza di questi due tipi di mercati si deve necessariamente e
serenamente evincere che esistono diversi tipologie di prodotti derivati che sono tipici dell’uno o
dell’altro mercato.
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1. Gli strumenti derivati: sintesi delle definizioni e delle loro caratteristiche
Nel nostro ordinamento giuridico non troviamo una definizione unitaria di strumento derivato.
Meglio, troviamo una definizione solo nel Testo Unico della Finanza (D.Lgs. 24 febbraio
1998, n. 58) il quale definisce, all’articolo 1, terzo comma, strumenti finanziari derivati, gli
strumenti finanziari previsti dal comma 2, lettere d), e), f), g), h), i), e j), nonché gli strumenti
finanziari previsti dal comma 1-bis, lettera d).
Qui di seguito si riportano le sole definizioni previste dalle lettere d) ed e):
•
Contratti di opzione, contratti finanziari a termine standardizzati (futures), swaps,
accordi per scambi futuri di tassi di interesse ed altri contratti derivati connessi a
valori mobiliari, valute tassi di interesse o rendimenti, od altri strumenti derivati,
indici finanziari o misure finanziarie che possono essere regolati con consegna fisica
del sottostante o attraverso il pagamento di differenziali in contanti (comma 2, lettera
d);
•
Contratti di opzione, contratti finanziari a termine standardizzati (futures), swaps,
accordi per scambi futuri di tassi di interesse ed altri contratti derivati connessi a
merci il cui regolamento avviene attraverso il pagamento di differenziali in
contanti o può avvenire in tal modo a discrezione di una delle parti, con esclusione
dei casi in cui tale facoltà consegua a inadempimento od altro evento che determina la
risoluzione del contratto (comma 2, lettera e).
Le ulteriori definizioni previste dalla normativa si riportano, per completezza di informazione,
nella nota in calce1.
Per contro il nostro Codice Civile, nel libro V – del lavoro, Titolo V – delle Società, agli
articoli 2427, 2427-bis e 2428, previsti per i contenuti della Nota Integrativa e della Relazione sulla
Gestione, per quanto riguarda la definizione di “strumento finanziario derivato”, fa un unico ed
esplicito rinvio alle definizioni previste dai principi contabili internazionali adottati dall’Unione
Europea.
•
1
Contratti di opzione, contratti finanziari a termine standardizzati (futures), swaps, accordi per scambi futuri di tassi di interesse ed altri contratti
derivati connessi a merci il cui regolamento può avvenire attraverso la consegna fisica del sottostante e che sono negoziati su un mercato
regolamentato e/o in un sistema multilaterale di negoziazione (comma 2, lettera f);
•
Contratti di opzione, contratti finanziari a termine standardizzati (futures), swaps, accordi per scambi futuri di tassi di interesse ed altri contratti
derivati connessi a merci il cui regolamento può avvenire attraverso la consegna del sottostante diversi da quelli indicati alla lettera f), che
non hanno scopi commerciali e aventi caratteristiche di altri strumenti finanziari (comma 2, lettera g);
•
Strumenti finanziari per il trasferimento del rischio di credito (comma 2, lettera h));
•
Contratti finanziari differenziali (comma 2, lettera i));
•
Contratti di opzione, contratti finanziari a termine standardizzati (futures), swaps, accordi per scambi futuri di tassi di interesse ed altri contratti
derivati connessi a variabili climatiche, tariffe di trasporto, quote di emissione, tassi di inflazione o altre statistiche economiche ufficiali il
cui regolamento avviene attraverso il pagamento di differenziali in contanti o può avvenire in tal modo a discrezione di una delle parti, nonché
altri contratti derivati connessi a beni, diritti, obblighi, indici e misure, diversi da quelli indicati alle lettere precedenti, aventi le
caratteristiche di altri strumenti finanziari derivati (comma 2, lettera j);
•
Qualsiasi altro titolo che comporta un regolamento in contanti determinato con riferimento a valori mobiliari (azioni, obbligazioni ed altri titoli
negoziati), a valute, a tassi di interesse, rendimenti, a merci, a indici o misure (comma 1-bis, lettera d)).
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I principi contabili internazionali di riferimento in tema di prodotti derivati sono gli IAS 32 e
39, nonché l’IFRS 7.
Lo IAS 39 definisce il derivato come uno strumento finanziario avente le seguenti
caratteristiche:
-
il suo valore cambia in relazione al variare di un’attività sottostante (underlying asset)
che può essere tipo di finanziario (tasso d’interesse, prezzo di uno strumento finanziario,
prezzo di una merce, tasso di cambio in valuta estera, indice di prezzi o di tassi) o di tipo
creditizio (merito o indici di credito);
-
non richiede un investimento netto iniziale o richiede un investimento netto iniziale che sia
minore di quanto sarebbe richiesto per altri tipi di contratti da cui ci si aspetterebbe una
risposta simile a cambiamenti di fattori di mercato;
-
è regolato a data futura.
Lo IAS 39 indica le caratteristiche che qualificano lo strumento finanziario derivato ma non
fornisce definizioni per ciascuna tipologia.
Le tipologie di derivati sono numerose ma possono essere classificate in due categorie:
⇒ contratti simmetrici (two-ways): sono vincolanti per entrambe le parti poiché ciascuna di
esse assume un impegno e al guadagno di una delle parti corrisponde la perdita speculare per
l’altra parte; le modalità di esecuzione sono già completamente prefissate alla stipula del
contratto. Ne sono un esempio i future, i forward, gli swap;
⇒ contratti asimmetrici (one-way): sono vincolanti per una sola delle parti, la quale assume
l’impegno, mentre l’altra parte ha la facoltà di eseguire il contratto e per riservarsi tale facoltà
paga un prezzo, manca quindi un’equivalenza nei risultati economici delle parti contraenti; le
modalità di esecuzione dipendono pertanto dalla scelta effettuata dalla parte che ha acquistato
la facoltà. Sono esempi di contratto one-way le opzioni.
Un’ulteriore distinzione che può farsi per i contratti derivati è la seguente:
⇒ contratti derivati con scambio di capitali: prevedono la facoltà o l’obbligo di porre i essere
con la controparte un’operazione di compravendita dell’attività sottostante nella qualità e nel
prezzo pattuito alla stipula del derivato;
⇒ contratti derivati senza scambio di capitali: prevedono l’obbligo di liquidazione di un
differenziale calcolato applicando al capitale di riferimento la differenza tra il prezzo corrente
dell’attività sottostante e il prezzo pattuito nel contratto.
La guida operativa al principio contabile IAS 39 ricorda che sono prodotti derivati i contratti a
termine, i futures, gli swaps, le opzioni.
Le categorie degli strumenti derivati più comuni scambiate nei mercati italiani sono:
•
I Contratti a termine (forward);
•
Futures;
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•
Swaps;
•
Opzioni (Call, Put, Cap, Floor, Collar);
I Contratti a temine o Contratti Forward
Sono accordi tra due parti consistenti nell’impegno a scambiarsi un’attività sottostante a una
data futura ad un certo prezzo (prezzo a termine o prezzo forward) definito al momento della
conclusione dell’accordo.
Tale tipologia di contratto si differenzia da quello a pronti (o contratto spot) in quanto
quest’ultimo è caratterizzato da un accordo di acquisto o vendita di una attività con regolamento
immediato.
Le caratteristiche principali dei contratti forward consistono nel fatto che le parti entrano nel
contratto senza il versamento di alcun premio, si obbligano ad eseguire una prestazione futura ed,
inoltre, nel fatto che lo scambio deve avvenire ad una data futura ed a un prezzo già fissato al
momento della stipulazione del contratto.
Vi è la contrapposizione di due “posizioni”, una definita “posizione lunga”: assunta da colui
che si impegna a comprare una attività sottostante ad una certa data ed ad un certo prezzo, ed
un’altra, definita posizione corta: assunta da colui che si impegna a vendere l’attività alla stessa
data ed allo stesso prezzo.
I contratti forward sono sempre negoziati in mercati over the counter ovvero in MERCATI
NON REGOLAMENTATI (mercati in cui gli intermediari mobiliari si propongono come
controparti contrattuali ed agiscono come price setter, fissando prezzi di acquisto e di vendita ai
quali sono disposti a concludere le transazioni).
I contratti forward hanno tipicamente ad oggetto merci (commodity forwards) ovvero azioni,
obbligazioni, titoli del debito pubblico e valute (currency forwards contracts), forme contrattuali
che prevedono il regolamento di differenziali determinati con riferimento ad un tasso di interesse
(forward rate agreements) o ad un indice azionario (equity forwards).
I Contratti “Futures”
Quando i contratti forwards sono negoziati in mercati regolamentati e con termini
standardizzati siamo in presenza dei cosiddetti contratti “futures”.
Il “futures” è un contratto standardizzato con il quale le parti si impegnano a scambiare ad una
certa data determinate attività oppure a versare o a riscuotere un importo determinato in base
all’andamento di un indicatore di riferimento.
I principali elementi di distinzione dai contratti forwards sono:
•
le modalità di stipulazione del contratto e il luogo di stipulazione del contratto.
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Per i contratti “futures” vi è una assunzione di un diverso livello di rischio, in quanto i
contratti non sono stipulati direttamente tra acquirente e venditore dello strumento
finanziario, ma c’è l’intervento della cassa di compensazione e garanzia (clearing house)
che assicura il buon esito dell’operazione;
•
Tempistica con la quale si procede alla liquidazione delle posizioni.
I futures prevedono la procedura del marking to market alla fine di ogni giornata (nei
contratti forwards il regolamento avviene alla scadenza);
•
per quanto la consegna fisica dell’attività sottostante alla scadenza sia contrattualmente
prestabilita, raramente il contratto si chiude in questo modo, in quanto prima della
scadenza si provvede a liquidare il contratto per compensazione.
I Contratti “SWAP”
Sono quei contratti che regolano una operazione di natura finanziaria mediante la quale due
parti si accordano per scambiarsi una serie di flussi monetari per un certo periodo di tempo e
secondo regole predeterminate.
Questi tipi di contratti sono scambiati esclusivamente sui mercati OTC e i contratti di comune
riferimento sono i contratti "SWAP SU INTERESSI” (interest rate swap – IRS) e i contratti “SWAP
SU DIVISE” (currency swap).
L’IRS è quel contratto secondo il quale le due parti contraenti si impegnano a scambiarsi, a
date prestabilite, flussi monetari, denominati nella stessa valuta e aventi la natura di interessi,
determinati applicando ad un capitale teorico di riferimento (nozionale – mai effettivamente
scambiato) i differenti tassi di interesse prestabiliti.
Il contratto definisce i seguenti aspetti dell’operazione finanziaria:
• Data di inizio operazione;
• Data di scadenza;
• Date dello scambio dei flussi di interesse;
• Date e modalità di determinazione del tasso variabile dell’operazione (se coincidono si da
luogo al solo versamento del differenziale dovuto dalla controparte che risulta debitrice netting).
I contratto presenta una struttura che vede, da un lato, una parte che si obbliga a versare un
flusso finanziario calcolato sulla base di un tasso fisso determinato contrattualmente, su un dato
ammontare di capitale e riceve in contropartita dei flussi monetari calcolati sul medesimo capitale,
ma con riferimento a un tasso di interesse variabile.
Dall’altro lato, l’altra parte che si vede obbligata a corrispondere un flusso determinato in base
ad un tasso variabile e riceve in contropartita un flusso calcolato in base al tasso fisso.
È considerato compratore colui che beneficia di un flusso netto positivo se i tassi aumentano,
mentre subisce una perdita se i tassi diminuiscono.
Chi acquista lo SWAP è pertanto un soggetto che spera nel rialzo dei tassi se è uno
speculatore puro ovvero lo teme se è un debitore a tasso variabile o creditore a tasso fisso.
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Viene, per contro, considerato venditore colui che beneficia di un flusso netto positivo se i
tassi diminuiscono, mentre subisce una perdita se i tassi crescono.
Chi vende lo SWAP è un soggetto che spera nel ribasso dei tassi, se è uno speculatore puro,
ovvero lo teme se è debitore a tasso fisso o creditore a tasso variabile.
Caratteristica principale del contratto di SWAP è la determinazione del flusso di pagamento
che è ottenuto moltiplicando il tasso di interesse (fisso o variabile) per il capitale nozionale e per il
numero di giorni effettivamente intercorsi tra ogni periodo di tempo considerato e dividendo il tutto
per 360.
Un ulteriore aspetto interessante da affrontare brevemente è la possibilità di estinzione
anticipata del rapporto in essere con la sottoscrizione del contratto di SWAP.
La parte che non ha più convenienza a mantenere lo SWAP può rivolgersi alla controparte con
la quale il contratto è stato stipulato.
L’estinzione volontaria, poiché avviene su iniziativa del contraente che sta subendo una
perdita, richiede il versamento, a favore del contraente che sta maturando guadagni, di una somma
(up-front sum) a titolo di compenso per la mancata prosecuzione dell’operazione.
Alternativa all’estinzione volontaria di cui sopra è la chiusura del rapporto mediante la
negoziazione tra le parti di uno swap speculare, ovvero alle stesse condizioni di quello originario
ma a posizioni invertite. Anche la scadenza dovrà essere la stessa, con la conseguenza che il nuovo
SWAP negoziato dovrà avere durata uguale alla vita residua del primo.
Se i tassi nel frattempo sono cambiati il rispetto del vincolo della scadenza rende necessaria
l’applicazione di un diverso swap rate e quindi il versamento dell’up-front sum.
Il versamento può essere evitato negoziando uno swap inverso alle condizioni attuali di
mercato (nuovo tasso fisso), così facendo l’up-front sum è di fatto rateizzato durante la vita residua
dei due SWAP.
I Contratti di Opzione
Il contratto d’opzione è un contratto asimmetrico: agli obblighi della parte che concede la
facoltà, si contrappongono diritti della parte che acquista la facoltà.
È il contratto mediante il quale una parte concede all’altra la facoltà di acquistare o vendere,
alla scadenza o entro la scadenza di un determinato termine un determinato bene.
Una opzione di acquisto viene chiamata CALL.
Una opzione di vendita viene chiamata PUT.
Se le opzioni si possono esercitare alla scadenza si è in presenza di opzioni dette “europee”,
mentre nel caso in cui le stesse si possono esercitare entro la scadenza si è in presenza di opzioni
cosiddette “americane”.
Le attività sottostanti ai contratti di opzione può essere molteplici e rappresentate da:
• Beni reali (commodity option)
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•
•
•
•
•
Titoli azionari (equity option)
Titoli obbligazionari (bond option)
Tassi di interesse (cap, floor, collar)
Divise (currency option)
Indici azionari (stock index option)
su tassi di interesse (cap, floor, collar)
In conclusione, è il caso di evidenziare che le Opzioni a differenza di altri prodotti derivati
possono essere scambiate sia sui Mercati regolamentati che nei Mercati OTC (non regolamentati).
Un tipologia di questi tipi di derivati che sta avendo un ampio utilizzo in questi ultimi tempi è
l’Interest Rate Cap (IRC).
È un contratto con il quale l’acquirente assume il diritto di fissare un limite massimo al tasso
di interesse (cap o tasso strike) e di ricevere dal venditore (generalmente una banca), alle date
prestabilite, la differenza (positiva) tra il tasso variabile di riferimento misurato a quelle stesse date
e il tasso cap prefissato per la durata del contratto.
Se il differenziale è negativo o nullo l’opzione non viene esercitata e di conseguenza non
avviene nessuno scambio di flussi di cassa tra le parti.
In buona sostanza IRC fissa un tetto massimo oltre al quale non andare.
Della stessa tipologia con finalità opposte è l’Interest Rate Floor (IRF) che fissa un tetto
minimo alla variazione dei tassi di interesse. Inoltre, l’utilizzo congiunto del limite massimo e di
quello minimo da origine ad un altro strumento derivato chiamato COLLAR.
Vediamo ora di presentare un esempio al fine di chiarire quanto sopra esposto.
L’Azienda ALFA ottiene un finanziamento da una BANCA per un importo pari ad Euro
5.000.000,00 a tasso variabile semestrale sull’Euribor (tasso interbancario) della durata di 5 anni.
L’amministrazione della Società vuole evitare che il costo dell’indebitamento ecceda il 6%.
Per fare ciò si rende opportuna la stipula di un contratto IRC (interest rate cap) che prevede
l’acquisto di opzione cap al 6% contro Euribor semestrale su 5.000.000,00 di euro per la durata di
cinque anni.
Se alle date prestabilite ogni sei mesi il tasso variabile non è superiore al 6% non vi sarà alcun
flusso finanziario a favore dell’azienda; se il tasso variabile supera il 6% grazie ai flussi di cassa che
provengono dal venditore il costo “netto” sarà comunque pari al massimo prefissato (senza
considerare l’incidenza del premio).
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2. I rapporti e le responsabilità degli investitori (cenni)
Le norme a fondamento del settore dell’intermediazione finanziaria sono la legge n. 216/74,
(che istituì la CONSOB e la regolamentazione dell’ingresso sul mercato della raccolta del pubblico
risparmio), nonché il D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, conosciuto come Testo Unico della Finanza,
che disciplina la materia dell’intermediazione finanziaria in modo rigoroso.
L’intero impianto normativo è rivolto alla tutela degli interessi pubblici e i soggetti che
operano come investitori sono considerati solo di riflesso, in maniera diretta.
Per questo motivo nel T.U.F. è stata prevista l’emanazione da parte della Consob di un
regolamento che, nel dare attuazione alle norme del Testo Unico, tenga conto anche delle esigenze
di tutela degli investitori in relazione alla loro esperienza.
In forza di tale delega la Consob, nel 1998, ha adottato il regolamento n. 11522.
Si è delineata così nel settore una disciplina “primaria”, rappresentata dal T.U.F., ed una
disciplina “secondaria” rappresentata dai regolamenti e dalle comunicazioni emanate dalla Consob.
L’articolazione della disciplina è stata scelta in questa duplice direzione al fine, da un lato, di
garantire l’integrità dei mercati, e dall’altro di garantire la tutela dell’investitore-cliente.
Una nuova ed importante revisione della materia è stata poi apportata dal recepimento nel
nostro ordinamento della disciplina di derivazione comunitaria (c.d. MIFID) in materia di mercati
ed intermediari, che ha comportato la modifica del T.U.F., con il D.Lgs. 164/2007, e l’emanazione
da parte della Consob del regolamento n. 16190 del 29 ottobre 2007, che ha abrogato e sostituito in
toto il regolamento 11522/1998.
L’obiettivo a fondamento di tali modifiche è stato mosso dalla ricerca di misure di protezione
degli investitori adeguate alla specificità delle loro competenze, in ragione della fisiologica
asimmetria informativa che caratterizza le parti nel rapporto di intermediazione finanziaria.
L’obiettivo perseguito pertanto è stato quello di innalzare i livelli di protezione, imponendo
agli intermediari procedure più articolate e rigorose per la classificazione della clientela,
prevedendo una graduazione di intensità degli obblighi informativi.
La classificazione della clientela
Tra le novità principali introdotte con il regolamento Consob n. 16190 vi è certamente la
suddivisione della tipologia della clientela in tre categorie: cliente al dettaglio, cliente professionale
e controparte qualificata.
Vediamo nel dettaglio le caratteristiche di questa suddivisione.
1.a. Le controparti qualificate
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Le controparti qualificate sono individuate nel nuovo art. 6, 2 comma, del T.U.F. ed in parte
dall’art. 58, comma 2, del Regolamento Consob2.
Rientrano in questa categoria i soggetti idonei a negoziare per conto proprio, a condizioni di
parità con gli intermediari: le banche, le imprese di assicurazione, le SGR, i fondi pensione, gli
intermediari finanziari, le fondazioni bancarie, i Governi nazionali, le imprese la cui attività
principale consista nel negoziare per conto proprio merci e strumenti finanziari derivati su merci, le
imprese la cui attività esclusiva consista nel negoziare per conto proprio nei mercati di strumenti
finanziari derivati e, per meri fini di copertura, nei mercati a pronti, purché esse siano garantite da
membri che aderiscono all’organismo di compensazione di tali mercati, ed infine le imprese di
grandi dimensioni3 che confermano esplicitamente di accettare di essere trattate come tali (art.58, 2
comma del Regolamento).
Si tratta della tipologia di clienti per i quali gli intermediari sono esonerati dall’osservazione
delle ordinarie norma di condotta (fra cui quelle sull’adeguatezza e sull’informazione).
1.b. I clienti al dettaglio
Antitetici ai clienti qualificati sono i clienti al dettaglio, individuati in negativo rispetto alle
definizione delle altre due categorie di clientela. Sono pertanto quei soggetti per i quali non
sussistono i requisiti né delle controparti qualificate né dei clienti professionali.
Per essi è prevista l’applicazione integrale degli obblighi informativi e delle regole di condotta
in capo all’intermediario predisposti a livello di normativa primaria e secondaria.
1.c. I clienti professionali
I clienti professionali sono definiti dal Regolamento come coloro i quali “possiedono
l’esperienza, le conoscenze e la competenza necessarie per prendere consapevolmente le proprie
decisioni in materia di investimenti e per valutare correttamente i rischi che assumono”.
In forza della competenza ad essi attribuita la Consob ha articolato tale tipologia di clientela in
due tipi: clienti professionali “di diritto” e clienti professionali “su richiesta”.
Sono clienti professionali di diritto, per tutti i servizi e gli strumenti di investimento:
a. i soggetti che sono tenuti ad essere autorizzati o regolamentati per operare nei mercati
finanziari, siano essi italiano o esteri, quali:
- banche;
- imprese di investimento;
- altri istituti finanziari autorizzati o regolamentati;
2
A norma dell’at. 58, comma 1, del regolamento n. 16190 “Rapporti con controparti qualificate”, “Sono controparti
qualificate i clienti a cui sono prestati servizi di esecuzione di ordini e/o di negoziazione per conto proprio e/o di
ricezione e trasmissione ordini, definiti come tali dall’articolo 6, comma 2-quater, lettera d), numeri 1), 2), 3) e 5) del
testo Unico.
3
In base all’allegato 3, parte I, punto 2 del regolamento sono imprese di grandi dimensioni quelle che presentano, a
livello di singola società, almeno due dei seguenti requisiti dimensionali: totale di bilancio Euro 20.000.000, fatturato
netto Euro 40.000.000, fondi propri Euro 2.000.000.
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-
imprese di assicurazione;
organismi di investimento collettivo e società di gestione di tali organismi;
fondi pensione e società di gestione di tali fondi;
i negoziatori per conto proprio di merci e strumenti derivati su merci;
i soggetti che svolgono esclusivamente la negoziazione per conto proprio su
mercati di strumenti finanziari e che aderiscono indirettamente al servizio di
liquidazione, nonché al sistema di compensazione e garanzia;
genti di cambio;
b. le imprese di grandi dimensioni che superano certi valori di fatturato, di bilancio o di
fondi propri, valutati in base ad un’indagine riferita alla singola società investitrice e non
alla struttura di gruppo della quale faccia eventualmente parte l’impresa.
In particolare i requisiti dimensionali devono essere almeno due dei seguenti:
-
totale di bilancio: Euro 20.000.000;
-
fatturato netto: Euro 40.000.000;
-
fondi propri: Euro 2.000.000.
La ratio di tale previsione è chiara: la “grande dimensione” dell’impresa fa presumere
che la stessa sia dotata di una organizzazione interna tale da garantire un’adeguata
competenza ed esperienza nei mercati finanziari.
c. gli investitori istituzionali la cui attività principale è investire in strumenti finanziari,
compresi gli enti dediti alla cartolarizzazione di attivi o altre operazioni finanziarie.
I clienti professionali di diritto tuttavia possono richiedere al prestatore del servizio un
trattamento quale cliente al dettaglio e gli intermediari possono convenire di fornire loro un livello
più elevato di protezione. A tal fine i clienti concludono un accordo scritto con il prestatore del
servizio che stabilisce i servizi, le operazioni e i prodotti ai quali si applica il trattamento quale
cliente al dettaglio.
Quando il cliente è un’impresa di grandi dimensioni, come precedentemente definita,
l’intermediario deve informare la controparte che essa viene considerata un cliente professionale di
diritto e verrà trattata come tale a meno che le parti non convengano diversamente.
Soffermiamoci ora nell’analisi della figura dei clienti professionali “su richiesta”.
L’allegato 3 al regolamento n. 16190 della Consob stabilisce che gli investitori (siano essi
persone fisiche o giuridiche) non rientranti nella categoria di clienti professionali di diritto possono
essere “trattati” come tali su espressa richiesta.
Dunque possono essere legittimamente disapplicate certe regole di condotta previste per la
prestazione dei servizi nei confronti dei clienti non professionali, a condizione che siano rispettati
due marco requisiti: uno di natura sostanziale ed uno di natura procedurale.
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Finanza Ordinaria e Straordinaria
Quanto al primo la normativa regolamentare detta un criterio distintivo di ordine generale: la
disapplicazione delle regole di condotta “è consentita quando, dopo aver effettuato una valutazione
adeguata della competenza, dell’esperienza e delle conoscenze del cliente, l’intermediario possa
ragionevolmente ritenere, tenuto conto della natura delle operazioni o dei servizi previsti, che il
cliente sia in grado di adottare consapevolmente le proprie decisioni in materia di investimenti e di
comprendere i rischi che assume.”
E’ dunque testualmente sancito l’onere in testa all’intermediario di procedere ad indagini e
valutazioni adeguate sul singolo investitore.
In particolare la normativa individua tre criteri obiettivi, due dei quali devono essere
soddisfatti, ai fini della qualifica di clienti professionali su “richiesta”: criteri incentrati sulla
frequenza delle operazioni, sul mercato finanziario, sul valore del portafoglio degli strumenti
finanziari e sull’esperienza che deriva dall’aver lavorato nel settore in oggetto.
Nel corso delle procedura di valutazione devono essere infatti soddisfatti almeno due dei
seguenti requisiti:
-
il cliente ha effettuato operazioni di dimensioni significative sul mercato in questione con
una frequenza media di n. 10 operazioni al trimestre nei quattro trimestri precedenti;
-
il valore del portafoglio di strumenti finanziari del cliente, inclusi i depositi in contante, deve
superare Euro 500.000;
-
il cliente lavora o ha lavorato nel settore finanziario per almeno un anno in una posizione
professionale che presupponga la conoscenza delle operazioni o dei servizi previsti.
Il secondo ordine di requisiti richiesti per la disapplicazione di certe regole di condotta
previste per la prestazione dei servizi nei confronti dei clienti non professionali ha carattere
procedurale.
Affinché il cliente sia trattato effettivamente come professionale è sancita una procedura
rafforzata il cui obiettivo è quello di stimolare l’attenzione dell’investitore sulle dichiarazioni rese e
sulla loro incidenza sui meccanismi di tutela.
Occorre uno scambio di più comunicazioni:
a. i clienti devono comunicare per iscritto all’intermediario il loro desiderio di essere
trattati come clienti professionali a titolo generale o rispetto ad un particolare servizio od
operazione di investimento;
b. l’intermediario deve avvertire per iscritto i clienti di quali sono le protezioni e i diritti di
indennizzo che potrebbero prevedere;
c. i clienti devono dichiarare per iscritto, in un documento separato dal contratto, di essere
a conoscenza delle conseguenze derivanti dalla perdita di tali protezioni.
Le dichiarazioni dei legali rappresentanti per la classificazione della clientela
Un aspetto fondamentale che è stato preso in esame dalla recente giurisprudenza riguarda la
presenza o meno dell’onere in capo all’intermediario di verificare la dichiarazione resa dal legale
rappresentante di una società, con la quale si autocertifica la posizione di operatore qualificato.
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Finanza Ordinaria e Straordinaria
Al riguardo nel gennaio 2007 vi è stata una prima pronuncia del Tribunale di Novara con la
quale si è sentenziato che la dichiarazione resa dal legale rappresentante in merito alla qualifica di
cliente operatore qualificato non assume alcun significato giuridicamente apprezzabile, lasciando
pertanto l’onere all’intermediario di verificare l’effettivo possesso delle competenze auto attestate.
A parere del Tribunale una dichiarazione che auto attesta il possesso da parte della società di
tale esperienza e competenza, senza che vi sia positivo riscontro fattuale, esprime una sola mera
opinione personale.
E’ opportuno sottolineare peraltro che in tale circostanza, se la semplice dichiarazione del
legale rappresentante di una società fosse idonea a determinare la qualifica in capo a quest’ultima di
operatore qualificato, si giungerebbe al risultato paradossale per cui la categoria degli operatori
qualificati sarebbe composta da soggetti che sono banche, intermediari finanziari autorizzati,
compagnie di assicurazione, promotori finanziari, ed altri che semplicemente si reputano profondi
conoscitori della materia finanziaria.
Sul tema è poi intervenuta recentemente una sentenza della Corte di Cassazione, la n.
12138/2009, stabilendo che la dichiarazione da parte del legale rappresentante che la società è un
operatore qualificato non rappresenta una dichiarazione di scienza, ma la mera formulazione di un
giudizio.
Ne deriva che la dichiarazione in oggetto non può avere valore confessorio, infatti ai sensi
dell’art. 2730, 1 comma, del c.c. la confessione può vertere solo su fatti e non su giudizi.
Essa però può costituire argomento di prova che il giudice può porre a base della propria
decisione, ammettendosi sempre prova contraria dalla parte interessata. Infatti in mancanza di
elementi contrari emergenti dalla documentazione già in possesso dell’intermediario, la semplice
dichiarazione sottoscritta dal legale rappresentante che la società sia in possesso di una specifica
competenza ed esperienza in materia di operazioni di strumenti finanziari, esonera l’intermediario
stesso dall’obbligo di ulteriori verifiche sul punto.
Tale disposizione va tuttavia letta di concerto con gli obblighi a cui l’intermediario è
comunque assoggettato ex lege e che deve rispettare noi confronti degli investitori.
Infatti, a livello di normativa specialistica, l’art. 21 1 comma del T.U.F. stabilisce che nella
prestazione dei servizi e delle attività di investimento accessorie, i soggetti abilitati devono:
“acquisire le informazioni necessarie dei clienti ed operare in modo che essi siano sempre
adeguatamente informati”.
La legge dunque esige che l’intermediario finanziario acquisisca le informazioni necessarie
dei clienti e poi fornisca a essi dati e notizie.
A ciò si aggiunga che lo stesso articolo alla lettera d) prescrive che al fine di assicurare
l’efficiente svolgimento dei servizi l’intermediario deve dotarsi di procedure idonee a verificare la
sussistenza di competenza ed esperienza in capo all’investitore.
Gli obblighi nel rapporto contrattuale tra intermediario ed investitore trovano disciplina anche
a livello normativo più generale, all’interno del codice civile.
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L’art. 1175 del c.c. stabilisce infatti che debitore e creditore devono comportarsi secondo le
regole di correttezza. E’ pertanto difficile ritenere corretta l’omissione da parte dell’intermediario di
segnalare al cliente che la sottoscrizione di un’autocertificazione esenta lo stesso da una serie di
doveri informativi.
Tale impostazione si scontra peraltro con l’art. 1176 del c.c. che prevede l’obbligo di diligenza
nell’esecuzione di attività professionali e l’art. 1337 c.c. che prevede che nello svolgimento delle
trattative e la formazione del contratto, le parti debbano comportarsi secondo buona fede.
In sostanza l’insieme di norme citate impone all’intermediario finanziario quantomeno di
accertare, in via preliminare, se il cliente sia in possesso o meno di competenza ed esperienza in
materia di operazioni in strumenti finanziari, così come dichiarato.
Ma la questione va affrontata anche dalla parte delle responsabilità imputabili al legale
rappresentante per una dichiarazione non veritiera, resa in modo superficiale.
In tal senso il regime della responsabilità degli amministratori, sia a livello di s.p.a. che di s.r.l.,
prevede che gli amministratori devono adempiere ai doveri imposti dalla legge o dallo statuto con la
diligenza richiesta dalla natura dell’incarico e sono solidalmente responsabili verso la società per i
danni derivanti dall’inosservanza di tali doveri.
E’ difficile tuttavia che lo statuto societario indichi in dettaglio tutti i doveri degli
amministratori. A tal fine viene incontro il dettato dell’art. 2486 del c.c. che impone agli
amministratori la conservazione dell’integrità e del valore del patrimonio sociale. Da questa norma
quindi è possibile affermare che qualsiasi comportamento colpevole degli amministratori, idoneo a
ridurre il patrimonio, può determinare la loro responsabilità civile.
L’operato degli amministratori va letto però congiuntamente agli obblighi informativi degli
intermediari di cui sopra.
Ne consegue che:
-
se l’intermediario non ha spiegato al legale rappresentante il significato e gli effetti della
dichiarazione di essere operatore qualificato, non scatta alcuna responsabilità in capo
all’amministratore;
-
se l’intermediario ha spiegato al legale rappresentante il significato e gli effetti della
dichiarazione di essere operatore qualificato, e l’amministratore dichiara qualcosa di
diverso dalla realtà, quest’ultimo subirà azione di responsabilità civile.
Si deve poi operare un’ulteriore distinzione a seconda che gli amministratori siano solo gestori
oppure siano anche soci della società che amministrano:
a. nel caso vi sia coincidenza fra le persone dei soci e gli amministratori, un’azione di
responsabilità nei confronti degli amministratori tende ad essere improbabile, in quanto
il danno per la società configura un danno in capo agli stessi soci.
b. nel caso l’amministratore non sia anche socio, il danno potrebbe essere ristorato
dall’amministratore non socio con un’azione in giudizio.
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3. I prodotti derivati come strumenti di controllo dei rischi finanziari d’impresa (cenni)
Il fattore rischio è un elemento strutturale della gestione aziendale e rappresenta un aspetto
distintivo dell’attività imprenditoriale. Diventa quindi una competenza critica per il raggiungimento
degli obiettivi aziendali da parte del management, la capacità di identificare, valutare e gestire i
rischi.
Con l’aumentare della dimensione e della complessità aziendale aumentano anche la
complessità dei rischi da governare. È quindi necessario che il manager articoli adeguatamente
l’assetto organizzativo per misurare e gestire i rischi con efficacia ed efficienza. La gestione dei
rischi diventa uno strumento non solo per prevenire e gestire eventi dannosi, ma un driver della
crescita e della creazione di valore.
Il concetto di rischio esprime sia l’incertezza nella variabilità dei risultati attesi, sia la
probabilità che un evento dannoso possa verificarsi. È compito del management aziendale
procedere a stime che tengano conto di tutti gli scenari possibili che si potrebbero manifestare.
I rischi aziendali tipici delle aziende non finanziarie sono:
• rischi strategici;
• rischi operativi;
• rischi potenziali;
• rischi finanziari;.
Le decisioni strategiche non hanno un grado di successo garantito a priori, ma sono soggette a
condizionamenti esterni che ne possono invalidare l’efficacia. I principali sono: l’andamento
economico del paese, l’andamento della domanda nel settore dell’impresa, le reazioni della
concorrenza, i rischi di modifiche del quadro regolamentare. È necessario quindi identificare i rischi
che possono influenzare il buon esito di una strategia e individuare i possibili scenari e i relativi
piani di azione atti a minimizzare i danni del rischio o comunque gli effetti.
I rischi operativi derivano dalle diverse procedure operative messe in atto dal management
dell’impresa. Tali rischi possono comportare perdite a causa di errori o inadeguatezza di procedure
interne e sono dovuti principalmente al comportamento, spesso fraudolento, delle risorse umane e
dei sistemi informativi aziendali.
I rischi potenziali sono caratterizzati da forti perdite economiche in caso di accadimento.
Rientrano in questa categoria le catastrofi naturali, incendi, furti, infortuni o morte del personale.
I rischi finanziari che sono oggetto di approfondimento del presente lavoro sono quei rischi
che derivano dalla struttura finanziaria dell’impresa, dall’andamento dei mercati finanziari e dalle
transazioni commerciali con soggetti terzi.
Essi si dividono in.
•
Rischi di tasso;
•
Rischio di cambio;
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Finanza Ordinaria e Straordinaria
•
Rischi di credito;
•
Rischi di liquidità;
I rischi di tasso sono quei rischi derivanti dalla variazione dei tassi di interesse. Tali variazioni
possono incidere sia sull’attivo che sul passivo delle imprese. Dal lato dell’attivo la variazione può
determinare una variazione dell’entità della remunerazione degli investimenti dell’impresa. Dal lato
del passivo la variazione può determinare un diverso impatto a conto economico dovuto agli oneri
finanziari. Un elemento importante per il controllo degli oneri finanziari non è solo l’andamento del
mercato del denaro all’ingrosso (es. EURIBOR), ma anche il merito creditizio dell’impresa che
obbliga la banche a prezzare il denaro in modo diverso a seconda del rating assegnato ad ogni
azienda (Basile II).
I rischi di cambio sono legati a transazioni commerciali in valute estere che determinano delle
posizioni creditorie e debitorie in valuta per l’impresa a seconda dei mercati esteri di
approvvigionamento e di sbocco commerciale.
I rischi di credito son quei rischi che la controparte commerciale si rilevi insolvente e che
quindi non sia in grado di onorare i propri impegni.
Il rischio di liquidità rappresenta la possibilità che l’azienda si trovi in una situazione di
insufficienza di risorse monetarie necessarie per far fronte alle proprie obbligazioni.
Tutte queste diverse tipologie di rischio possono manifestarsi anche contemporaneamente. E’
quindi necessario che le imprese implementino dei sistemi di gestione dei rischi e in particolare di
quelli finanziari.
I Rischi Finanziari e gli Strumenti derivati
I fattori di rischio finanziario sono in buona parte eliminabili mediante l’utilizzo di strumenti
derivati. L’utilizzo di tali strumenti consente di governare le oscillazioni del valore dell’attivo e del
passivo. E’ infatti importante introdurre il concetto di governo dei rischi finanziari in quanto è
necessario definire il livello di rischio che si è disposti a sopportare. E’ utile ricordare che il
concetto di rischio è parte integrante del ritorno aziendale e di conseguenza solo in alcuni particolari
e non ripetibili situazioni è possibile produrre un profitto senza assumere rischi.
I rischi finanziari dell’impresa producono i loro effetti sia sul conto economico dell’azienda
(costi superiori di quelli a budget e/o ricavi inferiori al previsto come effetto dei rischi di cambio e
di tasso) sia sulla liquidità aziendale (come effetto del rischio di credito e di liquidità).
Il rischio sul conto economico comporta la necessità da parte del management aziendale di
sterilizzare le oscillazioni derivanti dall’esposizione a questa categoria di rischi per scongiurare
conseguenze che potrebbero avere un ulteriore effetto negativo a conto economico e per l’azienda in
generale. Ad esempio, nel caso di risultati inferiori ad una certo livello, l’azienda potrebbe vedersi
aumentare il costo del debito sia per un peggioramento del suo rating aziendale che per il
superamento di determinate “covenants” contenute nei contratti di finanziamento. È’ compito
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Finanza Ordinaria e Straordinaria
quindi del management aziendale porsi l’obiettivo di ridurre la volatilità dei conti economici a causa
dell’esposizione a rischi di tipo finanziario.
Il rischio di carenza di cash-flow può ricorre nei casi in cui l’azienda è fortemente indebitata o
deve ricorrere al debito per finanziare piani di sviluppo. Anche in casi come questo, può convenire
stabilizzare il flussi di cassa. Occorre in ogni caso non confondere questa politica di gestione del
rischio con la stabilizzazione dei profitti dell’impresa, essa è tesa infatti esclusivamente a
massimizzare la probabilità di disporre di un determinato ammontare di liquidità all’approssimarsi
di determinate scadenze critiche.
Dopo aver identificato i rischi da cui ci si vuol proteggere è necessario determinare il livello di
protezione che si vuole raggiungere e di conseguenza il livello di rischio che si è disposti a
sopportare.
Le metodologie per definire la tolleranza al rischio di un’impresa sono di due tipi:
•
tolleranza in valore assoluto; definendo quindi una perdita massima sostenibile (es.
100.000 euro);
•
tolleranza in termini relativi; definendo una perdita massima sostenibile derivante dalla
percentuale della posizione non coperta (es. rimanere esposti al rischio di cambio
solamente sul 30% dell’esposizione totale).
La metodologia della tolleranza assoluta è più indicata per orizzonti temporali di breve
periodo dove è possibile determinare delle cifre di perdita massima che abbiano un senso. Mentre la
metodologia della tolleranza relativa viene utilizzata per politiche di gestione del rischio di medio
lungo periodo per le quali definire un importo assoluto di perdita massima è scarsamente
significativo.
Da segnalare inoltre la possibilità di utilizzare congiuntamente le due metodologie.
Non tutti i rischi finanziari sono da eliminare o minimizzare. Infatti alcuni di essi sono
connaturati all’attività principale e devono essere gestiti congiuntamente. La strategia di tolleranza
deve anche definire quali rischi coprire privilegiando quelli su cui si ha scarso controllo o scarsa
competenza delle risorse umane che dovrebbero governarli.
Il processo di gestione del rischio finanziario in azienda si articola attraverso le seguenti
attività:
•
l’identificazione degli elementi di rischio finanziario mediante l’analisi del numero e la
tipologia di posizioni esposte;
•
la misurazione dell’esposizione aziendale ai rischi identificati mediante l’utilizzo di
metodologie quantitative. Questo, consente di calcolare la possibile evoluzione dei fattori di
rischio, fornendo anche una stima delle perdite potenziali che l’azienda potrebbe subire nel
caso di andamento sfavorevole dei mercati;
•
l’elaborazione e la condivisione delle linee guida di gestione dei rischi con particolare
riguardo alla:
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o definizione degli obiettivi di medio – lungo termine perseguiti nella copertura dei
rischi di mercato;
o definizione del livello di tolleranza al rischio accettato;
o definizione dei sistemi di monitoraggio, reporting e controllo dei rischi. È infatti
necessario che il management effettui un monitoraggio sulle posizioni in essere con
particolar riferimento alla loro evoluzione nel tempo;
o valutazione dell’effettivo impatto dell’adozione di un modello di gestione del
rischio finanziario in termini di riduzione dei rischi e di tutela degli obiettivi
dell’impresa.
Le imprese negli ultimi anni hanno implementato dei sistemi di gestione del rischio
finanziario come risposta a diverse esigenze quali:
•
La necessità di governare un’attività molto critica in termini di equilibrio economico
aziendale;
•
La necessità di adeguarsi al nuovo contesto normativo (recepimento dei principi contabili
internazionali IAS 39 e IFRS7; nuovo art. 2427 C.C. che obbliga l’indicazione del fairvalue dei prodotti derivati e nuovo art. 2428 C.C. in cui è necessario spiegare le modalità di
gestione dei rischi finanziari);
•
La necessità di realizzare strategie di copertura coerenti con la volontà del top management
e dei margini del budget;
•
La necessità di dare risposte a revisori ed analisti relative alle metodologie di gestione delle
informazioni che vengono date nei bilanci.
Tali implementazioni hanno determinato dei vantaggi per l’impresa in termini di
immunizzazione al rischio, ma anche nuovi vincoli e oneri. Tra i vantaggi occorre senza dubbio
segnalare: la minor volatilità dei risultati aziendali come conseguenza della mitigazione dei rischi.
Tra i vincoli e gli oneri sono certamente da segnalare: la maggiore trasparenza e il maggior
impegno di comunicazione verso il mercato.
È quindi necessario sviluppare un maggiore know how parallelamente all’implementazione di
adeguati sistemi di controllo che devono essere supportati dal sistema informativo aziendale. I
sistemi informativi infatti hanno un ruolo cruciale nel supportare la direzione finanza nel processo
di gestione dei rischi finanziari e nella gestione del flusso informativo che coinvolge diverse
strutture interne. Il sistema informativo deve essere in grado di misurare l’esposizione ai diversi
rischi finanziari quali rischio di cambio e rischio di tasso. L’esposizione al rischio di cambio è
monitorata attraverso l’analisi degli ordini, delle fatture e dei pagamenti, mentre l’esposizione al
rischio di tasso è monitorata mediante l’analisi di tutti gli strumenti di debito presenti nel passivo
aziendale.
Una volta misurata l’esposizione è necessario procedere con le operazioni di copertura.
Le operazioni di copertura consistono nel’assunzione di una posizione rischiosa, mediante la
stipula di uno o più contratti finanziari, che compensa, parzialmente o totalmente la posizione
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originaria. Queste operazioni possono essere realizzate mediante la negoziazione di strumenti
derivati, di strumenti assicurativi o di strumenti di copertura “c.d. Alternative Risk Transfer” che
sono una combinazione dei due e che collocano lo strumento a metà strada tra i prodotti meramente
assicurativi e i prodotti meramente finanziari.
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4. Principi di contabilizzazione e trattamento fiscale degli strumenti derivati
Partendo da dove si è arrivati al paragrafo precedente e riassumendone il concetto, un prodotto
derivato al fine di essere definito di copertura deve permettere di ridurre o eliminare un rischio
finanziario.
Nel presente paragrafo si procederà a introdurre i principi di contabilizzazione dei contratti di
copertura su cambi e tassi di interesse, in particolare si affronteranno le problematiche di
contabilizzazione dei contratti forward e IRS.
Si evidenzia fin da subito che per quel che concerne i derivati di copertura l’effetto economico
degli stessi (utili o perdite) al termine di ogni esercizio non avrà effetti sul Conto Economico. La
norma in tale contesto prevede che l’impresa che ha sottoscritto il prodotto derivato lo deve
evidenziare in Nota Integrativa.
I prodotti derivati sono classificati tra le operazioni “fuori bilancio”.
Non ci sono esplicite disposizioni del codice civile che forniscano indicazioni precise in
merito alla contabilizzazione dei contratti derivati. Pertanto il punto di partenza è costituito
dall’articolo 2423-bis che statuisce i principi di redazione del bilancio, secondo cui la valutazione
delle voci deve essere fatta secondo prudenza e in base alla competenza.
I principi contabili italiani (OIC) di riferimento sono il Principio OIC n. 19 (I fondi rischi ed
oneri, il TFR e i debiti), nonché il Principio OIC n. 26 (Operazioni e partite in moneta estera).
Si sottolinea da ultimo, che nelle more di una completa disciplina civilistica gli stessi principi
contabili rinviano per l’individuazione delle operazioni di copertura alla normativa speciale degli
enti creditizi e finanziari, in particolare agli articoli 18, comma 3, e 20, comma3, del D.Lgs.
87/1992, che si ritiene applicabile anche alle imprese mercantili, industriali e di servizi.
Qui di seguito di fornisce uno schema sintetico dei principi di contabilizzazione di alcuni degli
strumenti derivati più comuni in base alla prassi nazionale:
Tipo di derivato
Forward su valute
I.R.S.
I.R.C.
Di copertura
Costo, con rateizzazione del premio/sconto
Valutazione coerente con attività/passività coperta.
Quindi:
• costo: se l’attività/passività coperta è valutata a
costo;
• minore tra costo e mercato negli altri casi
(tenendo conto anche della valutazione dello
strumento coperto)
Valutazione coerente con attività/passività coperta.
Quindi:
• costo: se l’attività/passività coperta è valutata a
costo;
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Fonte di riferimento
OIC 26
OIC 19 e Circolare
Banca d’Italia 166
OIC 19 e Circolare
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•
minore tra costo e mercato negli altri casi
(tenendo conto anche della valutazione dello
strumento coperto).
Banca d’Italia 166
Il premio pagato deve essere rateizzato lungo la durata
del contratto.
Dal punto di vista tributario i criteri per la valutazione dei componenti positivi e negativi delle
operazioni fuori bilancio e, quindi, anche dei derivati, sono indicati dall’articolo 112 del T.U.I.R.
rubricato “operazioni fuori bilancio”4.
Tale normativa nel corso degli anni ha subito diverse modifiche dovute all’evolversi della
normativa nazionale e internazionale.
Secondo quanto disposto dall’articolo 112 concorrono alla formazione del reddito i
componenti positivi e negativi che risultano dalla valutazione delle operazioni "fuori bilancio" in
corso alla data di chiusura dell'esercizio.
Inoltre, l’imponibilità e la deducibilità dei componenti di reddito risulta essere differente in
base alle finalità del derivato e soprattutto dal fatto che le stesse traggano origine:
• da scambio fra l’impresa e la controparte (o, se diversa, la banca intermediaria);
si tratta, in sostanza, delle operazioni di regolamento originate dai derivati
(l’incasso o il pagamento, ad esempio, dei differenziali di tasso o di cambio);
ovvero
4
Si riporta per comodità di consultazione l’art. 112 , “Operazioni fuori bilancio”
1. Si considerano operazioni "fuori bilancio":
a) i contratti di compravendita non ancora regolati, a pronti o a termine, di titoli e valute;
b) i contratti derivati con titolo sottostante;
c) i contratti derivati su valute;
d) i contratti derivati senza titolo sottostante collegati a tassi di interesse, a indici o ad altre attività.
2. Alla formazione del reddito concorrono i componenti positivi e negativi che risultano dalla valutazione delle operazioni "fuori bilancio" in corso
alla data di chiusura dell'esercizio.
3. I componenti negativi di cui al comma 2 non possono essere superiori alla differenza tra il valore del contratto o della prestazione alla data della
stipula o a quella di chiusura dell'esercizio precedente e il corrispondente valore alla data di chiusura dell'esercizio. Per la determinazione di
quest'ultimo valore, si assume:
a) per i contratti uniformi a termine negoziati in mercati regolamentari italiani o esteri, l'ultima quotazione rilevata entro la chiusura dell'esercizio;
b) per i contratti di compravendita di titoli il valore determinato ai sensi delle lettere a) e b) del comma 4 dell'articolo 94;
c) per i contratti di compravendita di valute, il tasso di cambio a pronti, corrente alla data di chiusura dell'esercizio, se si tratta di operazioni a pronti
non ancora regolate, il tasso di cambio a termine corrente alla suddetta data per scadenze corrispondenti a quelle delle operazioni oggetto di
valutazione, se si tratta di operazioni a termine;
d) in tutti gli altri casi, il valore determinato secondo i criteri di cui alla lettera c) del comma 4 dell'articolo 9.
4. Se le operazioni di cui al comma 1 sono poste in essere con finalità di copertura di attività o passività, ovvero sono coperte da attività o passività, i
relativi componenti positivi e negativi derivanti da valutazione o da realizzo concorrono a formare il reddito secondo le medesime disposizioni che
disciplinano i componenti positivi e negativi, derivanti da valutazione o da realizzo, delle attività o passività rispettivamente coperte o di copertura.
5. Se le operazioni di cui al comma 2 sono poste in essere con finalità di copertura dei rischi relativi ad attività e passività produttive di interessi, i
relativi componenti positivi e negativi concorrono a formare il reddito, secondo lo stesso criterio di imputazione degli interessi, se le operazioni hanno
finalità di copertura di rischi connessi a specifiche attività e passività, ovvero secondo la durata del contratto, se le operazioni hanno finalità di
copertura di rischi connessi ad insiemi di attività e passività.
6. Salvo quanto previsto dai principi contabili internazionali, ai fini del presente articolo l'operazione si considera con finalità di copertura quando ha
lo scopo di proteggere dal rischio di avverse variazioni dei tassi di interesse, dei tassi di cambio o dei prezzi di mercato il valore di singole attività o
passività in bilancio o "fuori bilancio" o di insiemi di attività o passività in bilancio o "fuori bilancio".
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• da valutazione del derivato.
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5. I contratti derivati negli Enti Locali (cenni)
Il sorgere dell’esigenza, da parte degli enti di governo locale, di ricorrere alla stipulazione di
derivati con funzione di copertura risale al 1994.
La L. 23 dicembre 1994, n. 724, infatti, eliminando, in tema di accesso al credito da parte di
Regioni, Province e Comuni, il monopolio della Cassa Depositi e Prestiti e riattivando la loro
facoltà di accedere al mercato dei capitali emettendo prestiti obbligazionari, ne ha inevitabilmente
aumentato l’esposizione al rischio di oscillazioni dei cambi e dei tassi.
E’ però l’art. 2 del decreto del Ministro del tesoro 5 luglio 1996, n. 420 che espressamente
disciplinava l’utilizzo di tali strumenti da parte di enti locali.
Si trattava di una norma regolamentare, emanata in attuazione dell’art. 35 della L. 23
dicembre 1994, n. 274, come novellato dal Dl 27 ottobre 1995, n. 444 (convertito, con
modificazioni, dalla L. 20 dicembre 1995, n. 539).
Il citato art. 35, al comma 10, nel consentire l’emissione di titoli obbligazionari da parte di enti
territoriali, disponeva che con apposito regolamento il Ministro del tesoro determinasse le
caratteristiche dei titoli obbligazionari nonché i criteri e le procedure che gli enti emittenti erano
tenuti ad osservare per la raccolta del risparmio.
Con il Dl 25 maggio 1996, n. 287 all’art. 5 (non convertito), si è giunti ad una interpretazione
del suddetto art. 35 nel senso di consentire l’emissione di prestiti obbligazionari anche in valuta e
sui mercati esteri (a tal fine la delibera di approvazione del prestito doveva prevedere l’obbligo
della copertura del rischio di cambio).
In attuazione delle richiamate disposizioni, l’ art. 2 del Dm 430/1996 stabiliva che “per la
copertura del rischio di cambio tutti i prestiti in valuta estera devono essere accompagnati, al
momento dell’emissione, da una corrispondente operazione di swap” e ciò proprio per obbligare gli
enti a stipulare uno swap a copertura del rischio di cambio derivante da una sottostante operazione
di indebitamento in valuta.
Tuttavia, il vero strumento di accesso dei derivati negli enti locali è stata la Finanziaria 2002
(art. 41 della L. 28 dicembre 2001, n. 448), la quale ha affidato al Ministero dell’Economia e delle
Finanze il compito di predisporre l’ingresso nel mercato dei capitali da parte di regioni ed enti locali,
nonchè di fissare i criteri per l’ammortamento del debito e per l’utilizzo di strumenti derivati
(comma 1). La stessa norma ha, inoltre, consentito l’emissione di titoli obbligazionari con rimborso
del capitale in unica soluzione alla scadenza (c.d. bullet), previa costituzione, al momento
dell’emissione, di un fondo di ammortamento del debito o previa conclusione di swap per
l’ammortamento del debito stesso (comma 2).
Per quanto concerne, invece, la gestione del debito, il citato art. 41, da una parte impone,
dall’altra pare, implicitamente, ammettere il ricorso, da parte degli enti periferici, a derivati diversi
da quelli già loro consentiti (anzi imposti e) finalizzati alla copertura del rischi di cambio.
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La predetta disposizione è stata per lo più interpretata come se comportasse, anche per gli Enti
locali, la definitiva “ammissione” al mercato dei derivati, malgrado che l’approvazione delle norme
relative all’utilizzo di tali strumenti fosse rinviata al successivo regolamento di attuazione.
La difficoltosa nascita di quest’ultimo provvedimento - la cui approvazione è stata ostacolata
soprattutto dall’impugnazione, da parte di alcune Regioni, della norma primaria, con la conseguente
instaurazione di un contenzioso risolto dalla Corte Costituzionale solo nel dicembre 2003, con la
sentenza n. 376 – ha generato un “vuoto normativo” che si è rivelato pericoloso e potenzialmente
esplosivo.
Infatti, la sostanziale mancanza di regole ha consentito lo sviluppo di discutibili strategie di
sopravvivenza da parte degli amministratori di alcuni enti (spesso di piccole dimensioni), i quali,
schiacciati da una crescita (del costo) del debito tradizionale ed a fronte degli ingenti tagli ai
trasferimenti erariali, del blocco della fiscalità locale, della continua dilatazione delle spese
incomprimibili e della rigidità dei vincoli posti dal Patto di stabilità interno, hanno spesso utilizzato
gli strumenti derivati non per coprire rischi di tasso o di cambio, bensì per perseguire obiettivi di
tipo speculativo, ovvero, per “fare cassa” (come si vedrà meglio di seguito).
Il regolamento attuativo del citato articolo 41 arriva, seppur in ritardo, nel 2003, quando viene
emanato il Decreto del Ministero dell’Economia e delle Finanze n. 389 del 1 dicembre 2003.
A seguire lo stesso, l’emanazione della circolare esplicativa dello stesso Ministero del 27
maggio 2004. Tali fondamentali documenti fissano i limiti di tipo qualitativo e quantitativo alla
strutturazione dei contratti derivati.
I primi vincoli alla sottoscrizione di derivati per gli enti locali, dopo il 2002, vengono, però,
dalla Finanziaria del 2007, per poi proseguire con la Finanziarie 2008, con l’art. 62 del D.L.
112/2008 (convertito nella L.133/2008) e con la Finanziaria 2009, ma è proprio dal 2002 al 2006
che viene conclusa la maggioranza di contratti derivati da parte degli enti locali italiani.
Il comma 737, dell’art. 1 della finanziaria 2007 ha stabilito che i contratti con cui gli enti
locali “pongono in essere le operazioni di ammortamento del debito con rimborso unico a scadenza
e le operazioni in strumenti derivati devono essere trasmessi, a cura dei contraenti, al Ministero
dell’economia e delle finanze – Dipartimento del tesoro. Tale trasmissione, che deve avvenire prima
della sottoscrizione dei contratti medesimi, è elemento costitutivo dell’efficacia degli stessi”. Delle
operazioni poste in essere in violazione della normativa vigente il Ministero deve dare
“comunicazione alla Corte dei conti per l’adozione dei provvedimenti di sua competenza”.
L’art. 62 del del D.L. 112/2008 introduce, invece, un elemento di importanza cruciale: il
blocco transitorio al ricorso ai derivati da parte degli enti locali.
Con la Finanziaria 2009 (legge 22/12/2008 n. 203 art. 2-bis) viene previsto il divieto per
regioni, province autonome ed enti locali di emettere titoli obbligazionari o altre passività che
prevedono il rimborso del capitale in un'unica soluzione alla scadenza.
Nella Legge viene stabilito che uno o più regolamenti del ministro dell'Economia
individueranno la tipologia dei contratti relativi agli strumenti finanziari derivati, che gli enti
possono concludere, e nonché le componenti derivate, implicite o esplicite, che gli enti hanno
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Finanza Ordinaria e Straordinaria
facoltà di prevedere nei contratti di finanziamento. Vengono, inoltre, accentuate le norme in materia
di trasparenza e viene riconosciuta maggiore tutela agli enti locali. Ribadendo quanto già stabilito
con il D.L. 112/2008, agli stessi è vietato stipulare, fino alla data di entrata in vigore del
regolamento, contratti relativi agli strumenti finanziari derivati. Resta ferma la possibilità di
ristrutturare il contratto derivato a seguito di modifica della passività alla quale il contratto derivato
è riferito, con la finalità di mantenere la corrispondenza tra la passività rinegoziata e la collegata
operazione di copertura.
Così facendo, la Finanziaria 2009 ha posto momentaneamente fine alla vicenda derivati per gli
enti locali.
Il caos normativo che ha segnato la storia dei derivati ha dato luogo ad una notevole
diffusione degli stessi, ingenerando, spesso, prassi di utilizzo alquanto dubbie e contestate.
Gli enti locali hanno, infatti, in molte circostanze, lucrato sui derivati, hanno cioè goduto di un
rendimento positivo da tali contratti, ma la Corte dei Conti oggi ammonisce: «Il loro utilizzo non è
stato conforme ai principi della legge».
Si ha paura degli enormi rischi di perdite assunti da imprese ed Amministrazioni locali, sullo
sfondo, talvolta, di non pochi abusi celati dietro questi complessi strumenti finanziari. Tali
preoccupazioni hanno trovato conferma nelle relazioni, nel primo trimestre 2009, della Consob e
della Corte dei Conti presso la VI Commissione Finanze del Senato, nell’ambito di una indagine
conoscitiva sull’uso e la diffusione degli strumenti di finanza derivata nelle pubbliche
Amministrazioni. Il Servizio Studi economici della Banca d’Italia ha precisato che, alla fine di
marzo 2009, le Amministrazioni territoriali che utilizzavano strumenti derivati, con controparti le
banche italiane, erano 496 e, tra esse, comparivano 13 Regioni, 28 Province e 440 Comuni. Sul
fronte, invece, delle indagini penali, a seguito dell’audizione del Generale della Guardia di Finanza,
si è appreso che, dal gennaio 2008 al maggio 2009, sono stati aperti 24 filoni di indagine in tema di
swap.
Le ipotesi investigative, concernenti i reati di truffa, appropriazione indebita e falso, vedono
interessate le Procure di mezza Italia. La vicenda dei derivati investe anche il Comune di Milano.
La Corte dei Conti, a seguito della denuncia fatta dal centro-sinistra milanese, che paventava
l’ipotesi di perdite dovute ad operazioni finanziarie effettuate dalla precedente giunta, è arrivata a
conclusione dell’indagine con una sentenza che evidenzia la cifra di massima esposizione al
prodotto derivato, oltre alle implicazioni finanziarie che tale operazione comporta.
Spesso questi contratti, per la loro struttura, consentono al sottoscrittore di ottenere un
ammontare di denaro liquido immediato (up-front).
Ciò permette all’ente di fare cassa, scaricando su altri l’onere del rispetto del contratto (che
come noto sottopone le parti al pagamento periodico di flussi di denaro, i quali, in base alle
condizioni di mercato, possono trasformarsi sia in guadagni che in perdite).
La conclusione a cui arriva la Corte dei Conti sulla scorta di quanto detto è sbalorditiva: “si
vincolano risorse di generazioni future”.
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Uno dei più diffusi contratti derivati sottoscritti dagli enti locali è sicuramente l’Interest Rate
Swap (IRS).
Il contratto di IRS nasce come strumento di gestione del rischio di tasso sul debito contratto.
Nello Swap le parti concordano di scambiarsi flussi di interessi di differente natura. In forza di tale
contratto il debitore di un prestito a tasso fisso si impegna a pagare gli interessi di un prestito a tasso
variabile che gravano sull’altro debitore e viceversa. In tal modo si consente ad un soggetto gravato
da un debito a tasso fisso di trasformarlo in debito a tasso variabile e viceversa. Ciò significa che
ciascuna parte contrattuale continua a versare gli interessi al proprio creditore e regola le proprie
posizioni mediante il pagamento del differenziale tra i due flussi di interessi (netting).
Fino a pochi anni fa era diventata molto diffusa la prassi, per tantissimi enti locali italiani, di
intervenire con operazioni di IRS sul debito contratto con la Cassa depositi e prestiti, quasi sempre a
tasso fisso, spostando, così, l’indebitamento su tassi variabili.
Nei primi anni 2000, visto l’allora andamento dei tassi, il passaggio da indebitamento fisso a
indebitamento variabile era effettivamente conveniente e la stipulazione di contratti di Swap era
effettivamente finalizzata alla protezione contro i rischi di tasso. Infatti, rispetto ai tassi in quel
momento presenti sul mercato, il loro indebitamento era gravato da tassi fissi (medi) superiori di 1 o
2 punti percentuali a quelli effettivamente ottenibili.
Inoltre, la stipula dei contratti IRS consentiva di avere delle cospicue liquidità immediate
dovute ai risparmi sulle quote interessi nel breve periodo e all’utilizzo di altri meccanismi che si
analizzeranno più avanti.
Modificatosi lo scenario a partire dall’inizio del 2006, con il tendenziale rialzo dei tassi,
bisognava fronteggiare il rischio di pagare elevati interessi sui prestiti contratti (o trasformati) a
tasso variabile.
In entrambi i casi, le proposte fatte dagli istituti bancari erano per gli enti locali quasi sempre
allettanti e foriere di guadagni immediati.
Ma la convenienza reale alla stipula di uno di questi contratti non va valutata solamente in
funzione della possibilità di ottenere immediati flussi di cassa (di cui peraltro l’ente locale è sempre
ghiotto). Va fatta, invece, una valutazione di lungo termine, così come lunga è la durata dei contratti
derivati. L’esatto costo deve essere percepito e quantificato con precisione sin dal principio e,
soprattutto, valutato in prospettiva futura in relazione al risultato finale che si intende raggiungere.
Questa situazione, di per sé allettante, è stata favorita anche dalle normativa vigente in materia.
In particolare, l’art. 5 del d.lgs. 157 del 1995 (oggi trasfuso nel codice dei contratti), esclude
espressamente i contratti per servizi finanziari relativi all’acquisto e alla vendita di strumenti
finanziari dalle procedure sugli appalti di pubblici servizi, garantendo perciò maggiore certa
snellezza e celerità nella procedura di acquisto di siffatta tipologia di strumenti. Ciò a scapito di
un’attenta valutazione degli stessi.
Per capire l’impatto che i derivati hanno avuto sulle Amministrazioni territoriali, bisogna
chiarirne il funzionamento.
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La parte contrattuale che nell’IRS acquista il tasso variabile dalla controparte cedendo il
proprio tasso fisso, si trova evidentemente in una situazione poco felice nel momento in cui i tassi di
interesse hanno una tendenza al rialzo. Il tasso di interesse variabile acquistato da una parte
contrattuale nelle operazioni di Swap è, infatti, normalmente composta da due parti:
• una parte variabile rappresentata da un tasso quotato sui mercati finanziari (ad esempio il
Tasso Euribor), che oscillando determina l’utile o la perdita nelle operazioni;
• una parte fissa (spread) che rappresenta la parte aggiuntiva sulla quale avviene in realtà la
negoziazione tra le due parti del contratto.
Ad ogni scadenza contrattuale si procederà a rilevare l’Euribor, che si sommerà allo spread.
Per capire bene la convenienza alla stipula di una swap per un ente, bisogna analizzare, non
solo la struttura dello stesso, ma anche le varie opzioni ad esso abbinate.
Infatti, nel caso in cui la struttura dell’IRS sia semplice ( plain vacilla), il rischio di pagare
interessi passivi crescenti è in teoria illimitato.
Esiste, tuttavia, la possibilità di inserire un limite (CAP), ma questo limite ha un costo,
esplicitato in un aumento dello spread, e quindi in un rialzo del tasso variabile complessivo.
Nei contratti in cui sono parte gli enti locali, in abbinamento all’opzione CAP, viene
normalmente inserita un’altra opzione (FLOOR), che ha la funzione di porre un limite al ribasso dei
tassi. Così facendo, l’acquirente del tasso variabile pone un limite ai propri ipotetici guadagni futuri,
ma facendo ridurre il rischio della controparte può ottenere una riduzione dello spread.
Combinando in maniera attenta, nella stessa operazione, un’opzione CAP e un’opzione
FLOOR (operazione che viene chiamata COLLAR), gli enti locali hanno, da un lato, la sicurezza
che il tasso d’interesse pagato non vada oltre il limite, e, dall’altro, evitano che il prezzo di tale
sicurezza sia eccessivo e abbatta i vantaggi economici che derivano dal contratto IRS.
Un’altra opzione tipica dei contratti proposti agli enti è il c.d. up-front. Veniva, infatti, spesso
offerta all’ente la possibilità di acquisire un tasso variabile sensibilmente più basso di quello fisso
applicato sui mutui contratti con la Cassa DD. e PP. e, inoltre, di ottenere immediatamente una
somma liquida (up-front appunto).
Ma come viene determinata questa somma?
Si calcolano tutti i netting sulla base della curva dei tassi variabili ipotetica (curva forward).
L’elenco di tutte le scadenze dove è effettivamente evidenziato un netting a favore dell’ente
locale rappresenta una sorta di rendita ipotetica che come tale può essere soggetta ad un
procedimento di attualizzazione alla data di stipula del contratto. E’ come se una parte di ciascuno
degli ipotetici netting a favore dell’ente locale venissero attualizzati per formare una somma che
viene liquidata immediatamente e in contanti all’ente stesso, in cambio di un proporzionale aumento
dello spread da applicare al tasso variabile. Può accadere che lo spostamento del CAP verso livelli
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più alti (e più rischiosi per l’ente) possa essere controbilanciato in termini di un maggior up-front
(Dal 1° dicembre 2003 il decreto n. 389 del Ministero dell’economia e delle finanze ha stabilito che
l’importo massimo dell’up-front non potrà essere mai superiore all’1% del capitale nozionale della
sottostante passività).
Soprattutto fino alla fine del 2005, troppi sono stati i casi in cui le amministrazioni locali,
attratte da proposte di liquidità immediata, hanno accettato contratti che tendevano a gonfiare gli
up-front a svantaggio di livelli accettabili di tasso variabile. Ciò ha scaricato sulle future
amministrazioni le parti negative di contratti che normalmente hanno durate di 15/20 anni.
Dal 2006 in poi la tendenza si è invece invertita. La tendenza al rialzo dei tassi ha imposto una
protezione dal rischio di tasso per gli enti indebitati a tasso variabile. Le banche acquisivano il tassi
variabili in cambio di tassi fissi. Le stesse hanno però imposto l’apposizione sia di un CAP che di
un FLOOR. Ne è conseguito che:
− l’apposizione del CAP e del FLOOR, ha spesso creato dei corridoi di fluttuazione
strettissimi;
− i contratti sono stati accompagnati da ulteriori opzioni secondo cui, qualora il tasso variabile
fosse uscito da tale ristretta banda di oscillazione, il calcolo degli interessi a carico dell’ente
locale sarebbe tornato a tasso variabile (agganciato all’Euribor e maggiorato di considerevoli
spread);
− pur trattandosi di contratti che, date le prospettive dei mercati, con poca probabilità
avrebbero potuto produrre vantaggi per gli enti in termini di nettino positivi, negli stessi si è
continuato a ricavare spazi per la liquidazione di up-front.
Da quanto detto, è facile intuire come molti dei contratti IRS conclusi sono oggi divenuti fonte
di notevoli perdite per i bilanci degli enti, perdite che sono destinate anche a ripetersi per lunghi
periodi, vista la durata dei contratti stessi.
Una soluzione per arginare queste perdite potrebbe essere quella di far venir meno il vincolo
contrattuale. Ma prima di considerare questa ipotesi bisogna valutare diversi fattori:
- situazione dei mercati finanziari nel momento in cui si valuta l’ipotesi di uscita;
- il numero di anni decorsi dall’inizio del contratto;
- la struttura del contratto;
- situazione dell’ente al momento della chiusura del contratto.
Bisogna considerare che le strutture contrattuali, vengono normalmente costruite cercando di
dare all’ente, almeno per i primi anni, netting positivi e spostando il più possibile la presenza di
netting negativi in là nel tempo. A ciò si deve aggiungere che parte di tutti i flussi positivi è stata,
come visto in precedenza, già incassata anticipatamente dall’ente locale, con l’introito dell’up-front.
L’operazione di chiusura consiste nell’attualizzare tutti i nettino (sia positivi, che negativi per
l’ente) residui previsti, basando i calcoli sulla curva dei tassi forward di quel momento.
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Il valore di chiusura non è altro che quello (che tecnicamente si definisce il mark to market)
sarà evidentemente positivo o negativo a seconda del prevalere dei flussi positivi oppure del
prevalere dei flussi negativi. Se però si tiene conto che i flussi positivi per l’ente (netting favorevoli
e up-front) si concentrano nella parte iniziale del contratto, è evidente che chiedere di uscire in un
momento avanzato dello stesso, quando gran parte dei flussi positivi sono stati già percepiti. Questo
potrebbe implicare un notevole esborso per l’ente. Se a tale meccanismo si sommasse una crescita
esponenziale dei tassi di interesse, si evidenzierebbe una situazione disastrosa degli enti locali per
gli anni a venire.
La soluzione alternativa potrebbe essere quella di attendere tempi migliori nella speranza che
una futura riduzione dei tassi agevoli il migliorare le posizioni di netting alle singole scadenze.
Lasciare il derivato in vita però, nel caso di mark to market con segno negativo, ha delle
conseguenze. Infatti, visto che oggi nessuna norma impone di esporre il valore dell’operazione in
bilancio, quello che ne discende è una riduzione della trasparenza dei bilanci degli enti locali.
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