, Il giovane muratore Metello dopo essere stato arrestato per aver

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, Il giovane muratore Metello dopo essere stato arrestato per aver
Regia: Mauro Bolognini; sogg.: dal romanzo omonimo di Vasco Pratolini; sceneg.: Suso Cecchi
D'Amico, Luigi Bazzoni, Ugo Pirro, M. Bolognini; f.: Ennio Guarnieri; scenog: Guido Josia; mont.:
Nino Baragli; cost.: Pier Luigi Samaritani; mus.: Ennio Morricone; inter.: Massimo Ranieri,
Ottavia Piccolo, Frank Wolff, Renzo Montagnani, Tina Aumont, Lucia Bosé; prod.: Gianni Hecht
Lucari per Documento Film.
Il giovane muratore Metello, dopo essere stato arrestato per aver partecipato al funerale di un
collega, proibito per la presenza di bandiere rosse, ed essere finito in carcere, sposa la figlia
del defunto. In seguito partecipa ad uno snervante sciopero di quaranta giorni per ottenere
migliori condizioni economiche alla sua categoria, ma rimane ancora coinvolto in disordini e
nuovamente arrestato. Intanto, mentre è di nuovo in carcere, a Metello giunge la notizia che i
padroni hanno concesso l'agognato aumento salariale.
Metello, dal romanzo di Vasco Pratolini, prospetta sugli albori della lotta di classe nella
Firenze della fine del secolo scorso e del principio di questo, e tratta insieme, senza che vi sia
relazione, di un'educazione politica e di un'educazione sentimentale.
La prima ha un corso fatale. Negli anni verdi Metello, già orfano di mamma, perde
successivamente il babbo e una specie di tutore: due anarchici di gran cuore, morti di
disgrazia sul lavoro. Per tempo conosce miseria, disoccupazione, carcere preventivo,
prepotenze padronali e altri argomenti per una giusta collera che in lui divamperà, non più
romanticamente libertaria, ma già tecnicamente socialistica. E a venticinque anni, sposata una
ragazza del suo milieu e fattosi strada come eccellente muratore, «s'impegna» in tutte le
occasioni di lotta contro il padronato (simboleggiato da un omaccio costretto a reggersi su
due bastoni: cave a signatis!), e principalmente nel famoso sciopero del 1902 che vide
premiata, non senza sacrificio di sangue, la costanza del proletariato fiorentino nel tener
duro, contro avversari di fuori e pavidi di dentro, sulle proprie rivendicazioni.
In tanto battagliare non perde però la sua gaiezza di giovane, e trovandosi fra quelli che
devon pagare di persona il successo ottenuto dalla classe operaia (uno dei piccoli successi di
allora), eccolo imboccare per la seconda volta, e allegramente, la strada del carcere che il
padre ai suoi giorni aveva pressoché consumato: per uscirne poi, a tempo debito, più vispo,
più elastico, più pronto di prima.
E in quanto all'educazione sentimentale, che nel libro compendia l'intimismo di Pratolini ma
che nel film è un semplice ornato fra i molti di quest'Arcadia populistica: il bel ragazzo è
iniziato dalla Viola, una louve nascosta sotto il decoro di una ricca possidente e però
sagacemente resa dal regista Bolognini come una pignatta a due anse coperchiata dalla testa
in fiamme di Lucia Bosè. Vien poi l'Ersilia (Ottavia Piccolo), la moglie, che pare uscita da una
paginetta di Pietro Thouar tant'è fiorentinescamente savia nel tessere e difendere la
tranquillità domestica, e infine l'amante Ilina (la grandocchia Tina Aumont), esosissima
lusingatrice dell'alloggio accanto, con cui lo scioperante cade in tentazione. Tre donne, tre
attrici, che Bolognini, nell'atto che sembra accarezzarle, riga con l'unghia.
Metello è stato scelto a rappresentare l'Italia alla rassegna di Cannes, e lo merita per la
finezza del tratto registico e la ben calettata sceneggiatura di Suso Cecchi D'Amico, Bazzoni e
Pirro. Ma finezza, misura, buon gusto, non fanno ancora la vita d'un film, molto più di un film
come questo, che si regge (non dispiaccia a Pratolini) su impellenti umori deamicisiani.
Monicelli che nel soggetto analogo dei Compagni ebbe la buona idea di non infrenarli,
dedusse sul suo film un sentimentalismo robusto e rotatorio che infuse vita, calore e
credibilità storica a quel quadro subalpino di socialismo nascente.
Ma Metello, come altri di Bolognini (specie La viaccia) è un film di cavalletto, lucidato e
adorno, in cui si sente la freddezza propria di questo regista, che non è la freddezza d'un
dominio intellettuale che ha in vista qualcosa di più alto (Resnais, Bresson), ma quella di un
artista poco applicato sul motivo fondamentale, e nella fattispecie altrettanto disposto a
seguire i casi di Metello, quanto, e forse più, a sviarsi dietro a Lega, Signorini e Rosai, o ad
etimologizzare visualmente il carcere fiorentino delle Murate in vaghissimi effetti di liscio
murale, battuto dal lume di Luna.
Ne esce una Firenze propriamente confettata: soggetta a trattamenti ora di dagherrotipo
ora di pastello, apprestata come un atelier per studi di strade e figure, e sempre con poca
gente per le vie, e quella poca flessa in pose estetiche, come investita da un vento di pittura;
una Firenze di riporto anche nella parlata correttamente scialba (e più scialba nel
protagonista, che ha da essere esemplare); una Firenze prudente, scarsa e poco meno che
esangue in tutto: quando si sa ch'ebbe sempre succhi vitali gagliardissimi, anzi tanto più
gagliardi quanto più la vita sociale vi corse mortificata.
Ci pare che il Bolognini di Metello, oltre ad aver ubbidito al suo genio per l'azzimato, abbia
voluto bruciare incenso a quella nuova rettorica del fiorentinismo ombroso, pudico, laconico,
che fu già sviluppata a piena orchestra nei giornali in occasione dell'Alluvione, e in forza della
quale, come i Fiorentini sanno, essi furono tranquillamente lasciati a rasciugarsi da sé sotto
gli occhi della Nazione ammirata e orgogliosa di loro.
Massimo Ranieri (la trovata del film), da principio incanta per freschezza, spontaneità e giri
di bazza; poi risente anche lui della pressione calligrafica e si perde nel fondo. In conclusione,
pur riconoscendo i notevoli meriti formali della presente pellicola, passando dai più feroci
prodotti erotico-contestativi a questo Metello, l'impressione non è punto di sollievo. Meglio, in
fondo, farsi scorticare e invelenire dall'irto presente, che lasciarsi sedurre dalle dilettazioni
figurative di una falsa memoria poetica.
(Leo Pestelli, «La Stampa», 17 aprile 1970)
Mauro Bolognini, Pistoia 1922 - Roma 2001. Dopo aver studiato architettura a Firenze, si
trasferisce a Roma dove frequenta il Centro sperimentale di cinematografia. Assistente di
Luigi Zampa e Marc Allegret e Jean Delannoy in Francia per alcuni anni, dirige nel 1953 il suo
primo film Ci troviamo in galleria. Seguono altre opere modeste e di commissione fino al
1959, quando l'incontro con Pier Paolo Pasolini da' origine a un'opera di rilievo, La notte brava,
cui fa seguito l'anno successivo, La giornata balorda. Bolognini raggiunge la sua maturità
espressiva con i film Il bell'Antonio (1960), La viaccia (1961), Senilità (1962), Agostino (1962).
Negli anni '70, oltre a dedicarsi alla realizzazione di vari film, tra cui Metello (1970), Libera,
amore mio! (1973), Fatti di gente per bene (1974), si dedica alla regia di opere liriche.