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Cerimonie funebri e laudationes funebres a Roma
In un passo della Naturalis historia (XXXV, 2, 4 sgg.), Plinio ci ricorda come un tempo, negli atri delle
grandi famiglie romane, fossero esposte in ordine, entro delle nicchie, le imagines degli antenati, volti di
cera che venivano utilizzati durante le esequie di un familiare. Sulle modalità di queste cerimonie funebri
esiste una testimonianza preziosissima dello storico greco Polibio, che sottolinea anche l’aspetto parenetico
delle laudationes, intese a suscitare nei giovani il desiderio di gloria e la volontà di sacrificar si per il bene
comune della città.
Quando muore un qualche illustre cittadino, costui, durante i suoi funerali, viene portato con tutti gli onori
possibili nel Foro, presso i cosiddetti Rostri, e collocato, talora in posizione eretta, ben visibile, talaltra, ma
più raramente, supino. Qui, mentre tutto il popolo è in piedi attorno alla salma, un figlio maggiorenne del
defunto, se questi ne ha lasciato uno in tale età e il figlio si trova presente, altrimenti qualche altro suo
parente, dopo essere salito sulla tribuna rostrata, comincia ad esporre le virtù del morto e le imprese che
questi ha portato felicemente in porto durante la vita. Succede perciò che la gente, e non soltanto coloro che
hanno partecipato di persona a tali imprese, ma anche quelli che ne sono stati estranei, richiamandosi alla
mente o immaginandosi davanti agli occhi quei fatti, arriva a condividere il dolore a tal punto che la
disgrazia non sembra essere dei soli familiari, bensì comune a tutto il popolo. Dopo la laudatio funebris e
l’espletamento dei riti prescritti, collocano l’immagine del defunto nel luogo più in vista della casa, chiusa in
una edicola di legno. Questa immagine consiste in una maschera che riproduce con eccezionale fedeltà sia i
lineamenti sia il colorito del volto del defunto. In occasione di pubblici sacrifici, poi, essi espongono queste
immagini e le ornano con grande cura; quando poi muore un qualche altro illustre membro della famiglia, le
portano in corteo durante la celebrazione dei funerali, facendole indossare ad uomini che meglio sembrano
rassomigliare al defunto quanto a statura ed a presenza fisica. Costoro, inoltre, se il defunto è stato console o
pretore, indossano delle toghe orlate di porpora, se è stato censore, delle toghe tutte di porpora, se infine ha
celebrato il trionfo, oppure ha ottenuto qualche altra onorificenza del genere, delle toghe ricamate in oro.
Essi avanzano tutti su carri preceduti dai fasci, dalle scuri e dalle varie altre insegne che per uso
accompagnano i magistrati, a seconda della dignità delle cariche che nello Stato ciascuno ha di volta in volta
ricoperto durante la sua vita; poi, quando arrivano ai Rostri, si siedono tutti in fila sopra seggi d’avorio. E a
questo punto non è facile per un giovane che aspiri alla fama ed alla virtù, poter assistere ad uno spettacolo
più moralmente esaltante di questo. A chi, infatti, non metterebbe in cuore un nobile entusiasmo il fatto di
vedere le immagini di uomini stimati per la loro virtù riunite lì tutte insieme, quasi fossero vive e spiranti?
Quale spettacolo potrebbe riuscire più splendido di questo?
[Polibio, Storie VI, 53, trad. di A. Vimercati, cit.]
La laudatio funebris di Quinto Metello (Plinio il Vecchio, Naturalis historia VII, 139-140)
Plinio il Vecchio, nella sua monumentale Naturalis historia scritta poco dopo la metà del I secolo d.C., ci ha
conservato un esempio, rielaborato e condensato, di laudatio funebris latina, quella tenuta nel 221 a.C. da Quinto
Metello in memoria del padre Lucio.
Il carattere celebrativo del testo appare con evidenza nella parte conclusiva del discorso, quando, iperbolicamente,
Quinto Metello asserisce che il padre ha superato ogni altro romano vissuto prima di lui.
Ma la laudatio di Quinto Metello è per noi doppiamente interessante, perché ci consente di valutare concretamente
quali sono i più alti valori della romanità nel III secolo a.C., proprio quando sta per nascere una letteratura latina.
Sono tutti valori pubblici, connessi con l’esercizio della vita militare e delle magistrature: l’unico accenno a
un’attività culturale è all’oratoria, che era tuttavia, in Roma, una pratica di carattere essenzialmente politico,
necessaria per organizzare consenso intorno alla propria persona.
Q. Metellus in ea oratione, quam habuit supremis laudibus patris sui L. Metelli pontificis,
bis consulis, dictatoris, magistri equitum, xv viri agris dandis, qui primus elephantos
ex primo Punico bello duxit in triumpho, scriptum reliquit decem maximas res optimasque,
in quibus quaerendis sapientes aetatem exigerent, consummasse eum: voluisse enim
primarium bellatorem esse, optimum oratorem, fortissimum imperatorem, auspicio suo
maximas res geri, maximo honore uti, summa sapientia esse, summum senatorem haberi,
pecuniam magnam bono modo invenire, multos liberos relinquere et clarissimum in
civitate esse; haec contigisse ei nec ulli alii post Romam conditam.
Quinto Metello nel discorso che tenne durante le onoranze funebri di suo padre Lucio Metello
il pontefice – il quale fu due volte console, dittatore, comandante della cavalleria, quindecemviro
per l’assegnazione delle terre, e per primo, nella prima guerra punica, portò degli elefanti
in un trionfo – lasciò scritto che egli aveva riassunto in sé le dieci qualità più grandi e belle,
nella ricerca delle quali i sapienti trascorrono la vita: aveva voluto essere un combattente di
prim’ordine, un ottimo oratore, un comandante valorosissimo; sotto il suo comando si erano
compiute grandissime imprese; aveva ricoperto le cariche più alte; era stato sommamente saggio,
era stato considerato il senatore più prestigioso, aveva messo insieme con mezzi leciti un
grande patrimonio; lasciava molti figli, era il cittadino più illustre. Queste fortune erano toccate
a lui e a nessun altro dal tempo della fondazione di Roma.