l`altro - Cinema Teatro Astra
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Stagione presenta 2009 2010 l’altro inema C via Roma 3/B S. Giov. Lupatoto (VR) tel/fax 045 925 08 25 www.cinemateatroastra.it cineforum Anno XVIII I FILM VISTI: 1 Gran Torino • 2 Diverso da chi? • 3 State of play • 4 Questione di cuore • 5 Coco Avant Chanel Novembre 2009 lun 16 ore 20.45 mar 17 ore 21.00 merc 18 ore 21.15 Regia Richard Curtis ~ Interpreti Philip Seymour Hoffman, Bill Nighy, Rhys Ifans, Nick Frost, Kenneth Branagh, Tom Sturridge, Chris O’Dowd, Rhys Darby, Katherine Parkinson, Talulah Riley, Ralph Brown, Sinead Matthews, Tom Brooke, Emma Thompson, Gemma Arterton, January Jones, Tom Wisdom, Jack Davenport. ~ Anno Gran Bretagna 2009 ~ Genere Commedia ~ Durata 135’ I Love Radio Rock A metà anni ’60, nella rigida Inghilterra che si stava risvegliando grazie alla Swinging London, i neo denominati teenager trovavano una scappatoia dalla severa realtà ascoltando le radio pirata che, a differenza della BBC, trasmettevano canzoni rock e pop ventiquattro ore al giorno. Spaventato dall’influenza che quella musica ribelle e trasgressiva poteva avere sui giovani e giovanissimi, l’austero ministro Dormandy (Kenneth Branagh) decide di avviare una personalissima battaglia per farle chiudere e affida a Twatt (Jack Davenport) l’onere di trovare un cavillo legale che possa servire al suo scopo. Nel frattempo, al largo del Mare del Nord, gli otto dj “ricercati” capitanati da Quentin (Bill Nighy), accolgono il figlioccio del capo Carl (Tom Sturridge) che è appena stato espulso da scuola. A bordo della nave di Radio Rock Carl scoprirà i valori dell’amicizia e dell’amore e diventerà grande. La musica è il motore dell’azione di I Love Radio Rock, la brillante e ispirata commedia di Richard Curtis che ripercorre un’epoca di forte contrasto politico-sociale, esaminando da una parte il rigore dei colletti bianchi e dall’altra la voglia di libertà dei giovani. Negli anni in cui la radio rappresentava un momento di raccoglimento collettivo, l’americano Conte (Philip Seymour Hoffman) e il suo rivale inglese Gavin (Rhys Ifans) “pirati” che vivevano letteralmente per la musica - facevano sognare gli ascoltatori con le loro storie personali e tanto rock’n’roll. Giocando con l’iconografia rock - che tramuta la copertina originale di Electric Ladyland di Jimi Hendrix in una scena “orgiastica” Curtis manifesta tutto il suo amore per la musica e nella fattispecie per il periodo più straordinario per il pop britannico. La storia dei dj isolati su una nave in nome della libertà - il loro battersi per la causa, la sana follia, gli intrecci, l’amicizia e la rivalità - è commovente quanto esilarante nella messa in scena. Puntuale, come le battute più taglienti del Conte di Philip Seymour Hoffman (eccelso nella sua performance), è la colonna sonora che funge da duplice protagonista. Ora descrive alla perfezione il periodo in cui è ambientato il film, traducendo i sospiri delle giovanissime fan, ora muove i fili della trama sostituendo la narrazione con brani mirati cui testi colgono nel segno e sferrano un colpo dritto al cuore. Tirza Bonifazi Tognazzi - www.mymovies.it F antasia al potere in una storia tutta vera che racchiude in sé un’esperienza breve ma intensa che ha 6 fatto epoca, quella delle radio libere e clandestine che beffavano l’impero britannico e il suo megafono (la Bbc) trasmettendo in altomare e inondando, è il caso di dirlo, le case dei sudditi di Sua Maestà di rock e pop. Un bacino di 25 milioni di persone che si riunivano per ascoltarli, di nascosto, e di adolescenti che mettevano le loro radio sotto il cuscino per gustarsi, ad insaputa dei genitori, la trasgressione in modulazione di frequenza. I Una commedia brillante, esilarante e commovente. love Radio Rock è la summa di quest’epoca d’oro, ispirati soprattutto dal successo e dalle vicende della mitica Radio Caroline, oggetto di una sistematica repressione del governo, fino alle estreme conseguenze. La radio, si sa, è un mezzo potente e troppo sincero, ancora oggi, nonostante gli scarsissimi investimenti e lo snobismo nei suoi confronti, rimane un media centrale (...). Se e quando contrasta il pensiero unico dominante (...) diventa un nemico da abbattere, senza remore. E così lo splendido film I love Radio Rock diventa un inno di libertà. Musicale, culturale, sessuale. (...) Il governo e il ministro (in)competente - fantastico Kenneth Branagh nei panni del mastino civico e cinico - decidono di aprire una crociata che farà molte vittime, ma non l’arte e l’indipendenza. Da quel biennio d’oro (1966-1967), conclusosi con un’omissione di soccorso pubblica e un salvataggio privato, si aprirà una nuova epoca. (...) Woodstock, il maggio francese sono alle porte, solo questi simpatici anarchici intuiscono, anticipano e forse facilitano la rivoluzione. (...) Ma Cunis non ha solo il pregio di ricordare e far rivivere un’atmosfera speciale e un momento storico-artistico irripetibile, sa anche raccontare l’aspetto più umano, quel puerile cameratismo che coinvolge questi uomini soli contro tutti, che l’amore lo conoscono solo a pagamento e diventano amici solo sfidandosi in confronti tanto pericolosi quanto stupidi. (...) Bill Nighy è un padrone di casa-nostromo di gran classe, Rhys Ifans un antagonista perfetto, i caratteristi che siano teneri, antipatici, alienati, completamente folli - semplicemente irresistibili, da Ralph Brown a Rhys Darby. Storia e cinema si fondono con la musica, e ci ricordano che la libertà non è solo lotta e conquista, ma anche divertimento, sensualità, ossigeno per menti geniali. (...) Lo diceva anche Gaber, la libertà - come la vera radio - è partecipazione. Boris Sollazzo - Liberazione Novembre 2009 lun 23 ore 20.45 mar 24 ore 21.00 merc 25 ore 21.15 Regia Nick Cassavetes ~ Interpreti Con Cameron Diaz, Abigail Breslin, Alec Baldwin, Jason Patric, Sofia Vassilieva, Heather Wahlquist, Joan Cusack, Thomas Dekker, Evan Ellingson, David Thornton. ~ Anno USA 2009 ~ Genere Drammatico ~ Durata 109’ ~ Teen Choice Award Miglior Film 7 La custode di mia sorella C i sono film (che ti prendono alla gola e non ti mollano più, neanche quanto torni alla luce del sole. Film capaci di puntare dritto al cuore con temi che vanno al nocciolo delle grandi questioni umane: la vita e la morte. Uno di questi è La custode di mia sorella di Niclk Cassavetes, dramma morale tratto dal best seller di Jodi Picoult ispirato a ’una storia vera che molto ha fatto discutere. La vicenda è infatti quella della piccola Anna (Abigail Breslin, già candidata all’ Oscar per Little Miss Sunshine), undici anni, messa al mondo dai genitori con un dna opportunamente modificato perché possa fornire «pezzi di ricambio» alla sorella maggiore Kate (la brava e coraggiosa Sofia Wassilieva), malata di una rara forma di leucemia. Sin dalla nascita Anna dona sangue, cellule staminali, midollo osseo sottoponendo il proprio corpo martoriato da aghi e siringhe a dolorosi trattamenti ospedalieri. Quando le viene chiesto di donare un rene, operazione che cambierà per sempre la sua vita, nel tentativo estremo di regalare ancora un po’ di tempo a Kate, ormai condannata a morte, la sorellina si ribella e ricorre a un celebre avvocato per far causa ai genitori e riavere i diritti sul proprio corpo. Un gesto estremo dietro il quale si nasconde un segreto che non vi sveleremo, ma che dà il via a una profonda riflessione sulle contraddizioni dell’ingegneria genetica, sulla possibilità di guarire da una grave malattia, ma anche dalle profonde ferite di una morte, grande tabù della società di oggi e anche del grande schermo. Dispiace quindi che un film capace di raccontare come la morte non sia una vergogna da evitare a tutti i costi, ma parte della vita di ogni essere umano arrivi nelle sale il 4 settembre distribuito dalla Warner con un divieto ai minori di 14 anni, una sorte che risparmia invece decine di film violenti e volgari giudicati invece adatti anche al pubblico dei più piccoli. Affidando il racconto ai punti di vista dei diversi personaggi — la madre Cameron Diaz, finalmente in un ruolo maturo, il padre Jason Patrick e i tre figli della coppia — il film mette in scena con grande sensibilità i meccanismi di una famiglia minata da una sciagura ma decisa a combattere unita. Lacrime e risate si mescolano in scene di vita quotidiana dove si può sorridere e innamorarsi anche durante una chemioterapia. Cassavetes non disdegna qualche colpo. basso all’emotività dello spettatore e qualche cliché (come quello del malato terminale che vuole andare al mare), ma rimane abilmente in equilibrio tra le motivazioni e i sentimenti dei personaggi in gioco conducendo lo spettatore verso un finale doloroso e sereno al tempo stesso. La morte di una persona cara non regala a chi l’ha perduta le risposte ai grandi interrogativi della vita. Si muore e basta, dice la piccola Anna, ma, in attesa di ritrovarsi nell’aldilà, il rapporto con la persona scomparsa continua. Ciò che conta insomma non è che colui che amiamo ci abbia lasciato, ma che sia esistito lasciando un segno profondo nella nostra esistenza. Alessandra De Luca - Avvenire N ick Cassavetes propone, stavolta in veste sia di regista che di sceneggiatore, la trasposizione cinematografica dell’omonimo romanzo di Jodi Picoult, che ha riscosso un grande successo in America ed è appena stato editato in Italia. Kate Fitzgerald (Sofia Vassilieva) ha quindici anni e combatte da oltre dieci contro una rara forma di leucemia. I genitori (Cameron Diaz e Jason Patric), al manifestarsi della malattia, decidono di avere un altro bambino manipolando geneticamente il suo dna, affinché diventi un donatore compatibile per Kate. Arrivata agli undici anni, la piccola Anna non vuole più sottoporsi a operazioni e continui prelievi per aiutare la sorella, quindi decide di far causa ai genitori rivendicando i diritti sul proprio corpo. Il dibattito in aula ha inizio e il giudice ascolta tutte le parti cercando di andare a fondo nella questione. Il film sembra essere dapprima incentrato su una tematica prettamente etica: come possono dei genitori decidere di avere un figlio solo perché sia donatore di organi per un altro? Ma questa impostazione è abbandonata sin da subito: a Cassavetes non interessa riflettere sui risvolti etici dell’ingegneria genetica, sebbene semini qui e lì qualche spunto di riflessione, vuole soprattutto indagare le dinamiche che si innescano in una famiglia colpita dalla malattia. Presente e passato si mescolano: una serie di flashback racconta il decorso della malattia di Kate, le avversità affrontate dai Il dramma di una famiglia fra i dilemmi della bioetica. Fitzgerald, la determinazione di Sara (la mamma) nell’assistere la figlia. Il punto di vista non si focalizza su un solo personaggio, a turno le voci fuori campo dei protagonisti raccontano come hanno vissuto la vicenda e i sentimenti provati, che non sono solo di amore e totale abnegazione verso la ragazza. La regia asciutta di Cassavetes si sofferma per lo più sui personaggi e sul forte rapporto che li unisce, non indulge su artefatti sentimentalismi, riuscendo comunque a essere toccante. I componenti della famiglia Fitzgerald sono in bilico tra il dovere e i loro sogni, tra le necessità di Kate e il desiderio di ritagliarsi un proprio spazio nella tragica quotidianità che li circonda, loro come pure l’avvocato di Anna (Alec Baldwin) e il giudice Di Salvo (Joan Cusack) sono intensi, caratterizzati in maniera approfondita e forse più vicini alla realtà rispetto a tanti altri visti in film di questo tipo. Tutto il cast da una buona prova di sé, su tutti spiccano la piccola Abigail Breslin, che già si è distinta in diverse importanti produzioni e sfoggia una recitazione naturale e convincente e Sofia Vassilieva. Ilaria Ferri - FilmUp Novembre 2009 lun 30 ore 20.45 Dicembre 2009 mar 1 ore 21.00 merc 2 ore 21.15 Regia Woody Allen ~ Interpreti Ed Begley jr, Patricia Clarkson, Larry David, Conleth Hill, Michael McKean. Evan Rachel Wood, Henry Cavill, John Gallagher Jr, Jessica Hecht, Carolyn McCormick, Christopher Evan Welch, Lyle Kanouse, Olek Krupa, Chris Nuñez, Nicole Patrick, Yolonda Ross, Steve Antonucci, James Thomas Bligh, Willa Cuthrell-Tuttleman, Marcia DeBonis, Cassidy Gard ~ Anno USA, Francia 2009 ~ Genere Commedia ~ Durata 92’ Basta che funzioni Whatever Works È fin commovente il modo in cui Woody Allen gira intorno ai soliti temi e ripropone sempre lo stesso «stile», a cominciare da quei titoli di testa bianchi su fondo nero, con gli attori in rigoroso ordine alfabetico. È come se volesse subito mettere le mani avanti: lui sa fare «solo» quelle cose e lo spettatore che entra in sala per vedere un suo film sa benissimo che cosa può aspettarsi, soprattutto adesso che è tornato a girare a New York dopo le avventure in Europa. Che sia in scena oppure no, come appunto non c’ è in questo Basta che funzioni, che per esplicito desiderio del suo autore manterrà anche in italiano il titolo originale, Whatever works. Comunque, anche se non si vede sullo schermo l’ identificazione tra Allen e l’ attore scelto per interpretare il misantropo Boris Yellnikoff, cioè l’ attore e autore Larry David, è spontanea e immediata, tanto le devastanti battute e l’ acido pessimismo del protagonista rimandano al personalissimo universo di Allen. A farne le spese, all’ inizio del film, sono gli amici con cui si vede al bar e che subissa del suo apocalittico e cosmico pessimismo. Professore in pensione con un passato di brillante fisico alla Columbia University, sposato con una donna ricca e attraente che gli permette di vivere nei quartieri alti, Boris è divorato da un pessimismo e da un’ angoscia così devastanti da immaginare sempre il peggio. Anzi, da cercarlo, visto che nelle primissime scene scopriamo che proprio durante una crisi di panico notturno, forse per non fare i conti con la realtà, ha tentato il suicidio. Il tentativo è fallito ma in compenso ha perso la moglie, la casa e l’ agiatezza. È così che lo conosciamo: con una gamba che zoppica, con un pessimismo ancora più devastante e con un lavoro precario da insegnante di scacchi ai ragazzi del quartiere (che regolarmente maltratta e insulta per la loro poca intelligenza). Ed è così che lo incontra, una sera, la sperduta Melody St. Ann Celestine (Evan Rachel Wood), fuggita dal natio Mississippi e approdata senza soldi proprio davanti alla casa di Boris. Che nonostante le sue paure e le sue fobie, accetterà di sfamarla e di ospitarla. Temporaneamente, pensa lui, e invece la gentilezza della ragazza - e la sua sconfinata ingenuità - finiscono per conquistare l’iroso misantropo newyorkese che prima accetta di tenersela in casa e poi finisce anche per sposarsela. Pur non smettendo mai di insultarla, di sottolinearne la scarsa cultura e di disprezzarne la disponibilità alla vita. Anche se poi Woody Allen si incarica di smontare questa specie di amara «lezione di vita», dimostrando ad ogni colpo di scena che il caso si incaricano di cambiare le carte in tavola. E nei 92 minuti di film le carte che distribuisce Allen sono davvero tante, perché Melody sarà raggiunta a New York prima dalla madre Marietta (una esilarante Patricia Clarkson) e poi dal padre John (Ed Beagly jr.) e per tutti la vita, e il film, riserveranno inaspettate sorprese. Così, la «solita» commedia acida e divertente insieme (come ci si aspetta da Allen) diventa qualche cosa di diverso e di sorprendente, dove il pessimismo e la misantropia si colorano di una più saggia condiscendenza alle complessità della vita e le catastrofiche certezze sbandierate dal protagonista finiscono per scolo- 8 rare in un più accomodante buon senso, dove Dio continua a essere definito un «arredatore di interni» (lo ripete dai tempi di Prendi i soldi e scappa) ma l’ uomo trova, anche contro le sue più nere previsioni, la possibilità di godere di un po’ di felicità. Nonostante sia circondato da «vermetti» e da imberbi e irritanti aspiranti scacchisti. Paolo Mereghetti - Il Corriere della Sera Il misantropo scopre anche un po’ di felicità. S orpresa numero 1: dopo un lungo girovagare fra generi e città, Woody Allen torna nella “sua” Manhattan per ritrovare tutto ciò che credevamo di sapere del suo cinema di una volta, senza sbagliare un colpo. Sorpresa n. 2: dopo tanti film in cui non appariva o si confinava in ruoli di fianco (Anything Else, Melinda e Melinda, Scoop, Vicky Cristina Barcellona...), Woody trova finalmente un alter ego in grado di riprendere il suo personaggio di newyorkese nevrotico senza far rimpiangere l’originale. Il prescelto si chiama Larry David e come lui è un comico ebreo nato a Brooklyn, anche se ha faticato a lungo per arrivare alla fama. Fisicamente i due non si somigliano troppo. David è più alto di Allen, è pelato, ha dieci anni di meno. In Basta che funzioni trascina pure una gamba, ricordo di un tentato suicidio dall’esito ridicolo ma non fatale. Per il resto la parentela è evidente: egocentrico, brontolone, afflitto da pessimismo cosmico, con un che di vanaglorioso in più rispetto ai personaggi di Allen, il professor Boris Yellnikoff è un ex-docente di meccanica quantistica, ex-marito di una donna bella e ricca, insomma ex-tutto, che passa le giornate al bar a pontificare con gli amici o a insegnare scacchi ai bambini. Perché questo campione di misantropia, incapace di dare e provare piacere, debba imbattersi in una candida, ignorantissima, deliziosa ragazza in fuga da un paesino del profondo Sud (Evan Rachel Wood) è un mistero che solo il Caso più capriccioso potrebbe spiegare. Ma il Caso è da sempre il motore dei vorticosi capovolgimenti alleniani che mettono ogni personaggio di fronte al suo opposto e a una serie di prove che innescano cambiamenti imprevedibili. L’ingenua Melody St. Ann Celestine, a sua volta un “doppio” meno sessuato dei personaggi di Scarlett Johansson, fa infatti da apripista a una catena di mutamenti personali che dopo il burbero Boris e i suoi pazienti amici coinvolgono la famiglia della ragazza, giunta a New York sulle tracce della fuggiasca. In un susseguirsi di colpi di scena tanto annunciati, in fondo, quanto godibili, proprio per la finezza con cui Allen intesse le sue variazioni sul tema, facendo leva sulla complicità dello spettatore ma finendo per iniettare in questi “tipi” così idealizzati qualcosa di noi e dei nostri umori più segreti. Così si esce sollevati e sorridenti, pensando il solito Allen, e ci si ritrova a pensarci su, come se non avessimo mai visto niente di simile. Fabio Ferzetti - Il Messaggero Dicembre 2009 lun 7 ore 20.45 mar 8 ore 21.00 merc 9 ore 21.15 Regia Michele Placido ~ Interpreti Riccardo Scamarcio, Jasmine Trinca, Luca Argentero, Massimo Popolizio, Alessandra Acciai, Dajana Roncione, Federica Vincenti. ~ Anno Italia, Francia 2009 ~ Genere Drammatico ~ Durata 101’ ~ Mostra d’Arte Cinematografica Internazionale di Venezia 2009 Premio Marcello Mastroianni attrice emergente Jasmine Trinca Premio Francesco Pasinetti speciale Riccardo Scamarcio Il grande sogno I l film, girato a Roma, è prodotto dalla Taodue, distribuito dalla Medusa. Racconta la storia di tre personaggi, i cui destini si intrecciano, tra amicizia, amore e passione ideologica, sullo sfondo della rivoluzione sessantottina: Nicola è un giovane poliziotto, che rappresenta lo stesso Placido (interpretato da Riccardo Scamarcio): Anna, una ragazza della buona borghesia (Jasmine Trinca); e Libero, uno studente-operaio, leader del movimento studentesco. Spiega Placido: «Libero rappresenta quei leader dotati di fascino: un po’ intellettuali e politici, un po’ seduttori, di cui tutte le ragazze erano innamorate. Ma rappresenta anche coloro che, poi, sono diventati cattivi maestri: nel film non raccontiamo solo la parte buona, ma anche quella che ha gettato i primi semi del terrorismo, sfociato negli anni di piombo». Con Placido, firma la sceneggiatura Angelo Pasquini, ex leader di Potere operaio, che spiega: «Io c’ero, quel giorno a Valle Giulia: avevo 19 anni e mi beccai una manganellata in piena fronte. Fare ora questo film è forse un segno di pacificazione». Il punto di riferimento cinematografico è C’eravamo tanto amati di Ettore Scola. Ammette Placido: «Sì, ma anche Jules e Jim di Truffaut, per l’intrigo amoroso fra i tre personaggi». Nel ricco cast, tra gli altri, anche Massimo Popolizio e Margherita Buy. Le musiche sono del Premio Oscar Nicola Piovani. Per sé, Placido, ritaglia un cameo: «Farò la parte di un colonnello di polizia, realmente esistito: era il comandante della mia caserma e mi aiutò molto. A veva saputo che, tra i celerini, c’era un ragazzo che studiava all’Accademia: diceva che era onorato dei fatto che la polizia non producesse solo rozzi soldati, ma anche attori, così mi dette il permesso di accedere alla biblioteca della caserma, ben fornita di classici, anche fuori orario». È la prima volta che Placido realizza un film autobiografico: «Ricordo il ’68 come un periodo colorato, euforico, pieno di libertà anche sessuale: crollarono i tabù». Ma recentemente quegli anni sono stati messi da molti sotto processo. Qual è il bilancio personale di Placido? Riflette: «Non è stato un fallimento. Il movimento nacque in America, sull’onda emotiva della guerra in Vietnam e di altre tragedie: dagli omicidi di Martin Luther King e Bob Kennedy alla Primavera di Praga. Non si poteva non prendere coscienza, ma noi abbiamo fatto un ’68 all’italiana. È stato strumentalizzato dai partiti, quelli di destra e quelli di sinistra. È giusto meditare su questo fenomeno a quarant’anni di distanza. Emilia Costantini Il Corriere della Sera I mbarcarsi sul ’68 è sempre tanto affascinante quanto rischioso. Affascinante perché si parla di «formidabili anni» nei quali noi giovani di allora (ci si permetta la citazione) volevamo cambiare il mondo. Rischioso perché bisognerebbe capire se cambiammo il mondo o il mondo ha cambiato noi. Insomma tema più politico 9 che sentimentale. E sul quale, ci mancherebbe in Italia, si continua a buttarsi i pesci in faccia, come avvenuto al festival di Venezia. Del resto in Italia si litiga ancora non solo su fascismo-antifascismo, ma sull’Unità di 150 anni fa, e sul 1799 di 208 anni fa. Siamo un Paese che soprattutto litiga. Ma Michele Placido è uno che ci va dentro. Anche perché nel ’68 che ci racconta lui c’era addirittura da poliziotto (celerino) venuto dal Sud (la Torremaggiore dei braccianti, Puglia), cioè col destino di tanti meridionali che volevano lavorare. E il compito di andare a menare i ragazzi che all’università contestavano e «okkupavano», lui che invece voleva fare l’attore. Anzi siccome sapeva recitare, lo mandano a fare l’infiltrato tra i ragazzi, compito pericoloso e, se scoperto, infamante, perché ti trattano da «pezzo di merda». Infatti così fa, specie perché il Riccardo Scamarcio che lo impersona alla grande anche nei tic e nel linguaggio, si innamora della cattolico-borghese convertita alla rivoluzione dei «compagni» (la deliziosa Jasmine Trinca), insomma ci entra anima e corpo anche in concorrenza col capo della rivolta, quel Libero (il sempre appropriato Luca Argentero) che finirà nel terrorismo. Alla fine però ce la fa ad entrare nell’Accademia d’arte drammatica, complice una docente un po’ mignotta (Laura Morante) che non stravede solo per il suo talento. Lui (Placido) diventa il grande che conosciamo, fuori il ’68 fa il suo bene e il suo male finché non arrivano gli (anni di piombo) della lotta armata. Il film procede dunque su due piani paralleli, il personale e il sociale, si diceva, e il problema era farli andare d’accordo. Placido è tanto convincente nel raccontare se stesso quanto didascalico nel raccontare lo scenario, appunto il ’68: quasi un documentario, con ampi spezzoni di documentari del resto, dal Vietnam, a Martin Luther King, a Che Guevara, a Nixon, e la bellissima colonna sonora di allora. Un difetto di emotività, una staticità senza prospettiva, sia pure con ammirevole tecnica alta, un grande sogno più di parole d’ordine che di immaginazione al potere, quasi già prefigurasse il grande freddo di dopo. Ma c’era, vivaddio, un’ansia di futuro, si abbatterono tanti tabù, si tolse tanta muffa, si misero in discussione tante autorità, anche se si fece un danno irreparabile ai principi di valore e di responsabilità. I giovani di oggi dovrebbero vedere questo film per ca- Il ’68 di Placido, dal Sud verso il Grande Sogno. pire. Soprattutto i giovani del Sud, molti dei quali erano allora poliziotti come Placido. Cioè proletari che, come disse Pasolini che prese le loro parti, erano picchiati da borghesi che volevano atteggiarsi a proletari. I borghesi ex sessantottini, poi, si sono piazzati, magari passando a destra come dice velenosamente Placido. I poliziotti proletari sono rimasti proletari. E terroni. Lino Patruno - La Gazzetta del Mezzogiorno Dicembre 2009 lun 14 ore 20.45 mar 15 ore 21.00 merc 16 ore 21.15 Regia Giuseppe Tornatore ~ Interpreti Francesco Scianna, Margareth Madè, Nicole Grimaudo, Angela Molina, Lina Sastri. Salvatore Ficarra, Valentino Picone, Gaetano Aronica, Alfio Sorbello, Luigi Lo Cascio, Enrico Lo Verso, Nino Frassica, Laura Chiatti, Michele Placido, Vincenzo Salemme, Giorgio Faletti, Corrado Fortuna. ~ Anno Italia, Francia 2009 ~ Genere Drammatico ~ Durata 150’ ~ Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia 2009 Premio “Pasinetti” Migliore Regia Giuseppe Tornatore Academy Awards 2010 (Oscar) Nomination per Miglior Film Straniero Baarìa L a storia di una famiglia siciliana che prende le mosse dal ventennio fascista in cui Cicco, sin da bambino apertamente contestatore, è un pastore che ha la passione per la letteratura epica. Suo figlio Peppino, cresciuto durante la guerra, entrerà nelle file del Partito Comunista divenendone un esponente di spicco sul piano locale e riuscendo a sposare, nonostante la più assoluta opposizione della famiglia di lei, Mannina che diventerà madre dei loro numerosi figli che saranno comunque considerati da alcuni sempre e comunque ’figli del comunista’. Tornatore riprende a narrare della terra che ama, la Sicilia, e lo fa con un affresco collettivo che abbraccia numerosi decenni della storia del secolo scorso. Lo fa con quel piglio che a tratti travalica nell’enfasi che ormai gli è proprio quando torna cinematograficamente a varcare lo Stretto di Messina ma anche con la sincera voglia di fare cinema a tutto campo. Fare cinema si traduce per lui in un omaggio consapevole e dichiarato a quanti lo hanno preceduto senza però rinunciare a un proprio stile narrativo che procede per accumulo di immagini e di situazioni. È una corsa contro il tempo quella che ci viene proposta sin dall’inizio con la figura del bambino che apre il film. Corsa contro il tempo che cancella una memoria collettiva che sembra progressivamente non esistere più e che Tornatore vuole restituirci scegliendo la via della spettacolarità rivolta al pubblico più vasto possibile. (...) Oggi ben pochi sembrano accorgersi della perdita della conoscenza di un passato recente in cui umiliazioni, lotte e parziali vittorie lasciavano segni profondi nella collettività. Segni che, come l’affresco sulla volta della chiesa, ’dovevano’ essere cancellati. Ma ciò che al regista sembra premere ancor di più è il mostrare come il retaggio di un passato di tradizioni ormai incancrenite nella società non sia stato ancora superato nella realtà sociale siciliana e non solo. La sequenza dell’assessore all’urbanistica non vedente che si fa portare i piani regolatori in plastico e li apprezza solo dopo aver intascato l’ineludibile mazzetta è di quelle che si ricordano. Così come resta presente, nello scorrere degli anni e delle vicende, la pessimistica sensazione di una sorta di atavica maledizione a causa della quale le uova rotte e i serpenti neri finiscono col far parte del passato, del presente e del futuro di una terra che ha bisogno di una frattura traumatica per poter liberare una volta per tutte una vitalità creativa che certo non le manca. Giancarlo Zappoli - My Movies V orremmo rivolgere un appello a Giuseppe Tornatore: Baarìa è troppo corto, allungalo! È un paradosso: il cinema è pieno di film estenuanti ai quali farebbero assai bene robuste sforbiciate, ma il kolossal sulla memoria collettiva di Bagheria (in dialetto, appunto, «Baarìa») è esattamente l’opposto. Nella prima mezz’ora, il film va troppo di corsa è troppo pieno di roba, di personaggi, di situazioni, di musica. Vedendolo, siamo stati sommersi: e mentre sudavamo le proverbiali sette camicie per orientarci fra le mille figurine che Tornatore espone nel suo album, ci auguravamo che il ritmo si allentasse, che il film prendesse ogni tanto fiato, che ci fosse il tempo per affezionarsi a un personaggio. Dal trentesimo 10 minuto in poi, succede. Di gran lunga il più bello di Tornatore dai tempi del Camorrista e di Nuovo cinema Paradiso. Soprattutto perché diventa la storia di una famiglia, i Torrenuova, attraverso tre generazioni che partono dai tempi duri del fascismo, attraversano il dopoguerra e arriva al ’68, lasciando idealmente il testimone al Grande sogno di Placido, e addirittura all’oggi, a Le ombre rosse di Maselli. Sì, è una Mostra in cui la sinistra si troverà di fronte a diversi ritratti, o autoritratti. Baarìa è, appunto, un autoritratto. In gioventù Tornatore è sta- Un affresco corale sulla memoria collettiva. to un militante del Pci e la storia dei comunisti italiani incrocia continuamente la storia dei Torrenuova. Peppino, il protagonista, è un ragazzino figlio di pastori, che regala una piccola (e transitoria) fortuna alla famiglia rubando un po’ di soldi dalla casa del fascio mentre gli americani sbarcano in Sicilia e tutta l’isola impazzisce. Ma il denaro non sudato dura poco, e crescendo Peppino diventa un militante del Pci, che lo manda a scuola (alle mitiche Frattocchie), lo alleva per un futuro da dirigente, lo spedisce addirittura nell’Urss di Stalin dalla quale torna con l’orrore negli occhi e il destino segnato; sarà, per sempre, un riformista, a costo di vedersi contestare dai figli negli anni ’60 e di dover spiegare a uno di loro che riforrnista «è chi sa che, dando la testa contro il muro, si rompe solo il muro». Non ci sembra di cogliere revisionismi alla moda, nella lettura di Tornatore del passato d’Italia; la militanza è raccontata in modo problematico e orgoglioso, la mafia è sullo sfondo ma incombe su tutto, i democristiani corrotti vedono benissimo le mazzette anche quando sono ciechi. Non crediate, però, ad un film di stampo neorealista. Baarìa è visionario, sfarzoso, esagerato, pomposo. Ti travolge con un’inventiva che qua e là sfocia nel bozzetto, e regala nel finale una dimensione onirica. (...) Il gioco sulla memoria, la rievocazione del passato spingono Tornatore sul terreno del mito. Non si spiegano altrimenti le forti componenti magiche, il passaggio di generazione per cui i personaggi invecchiano all’interno di una singola inquadratura, il sogno dì un leggendario tesoro nascosto sui monti. Ci sono tutte le componenti politiche e spettacolari perché Baarìa sia un successo di pubblico, confermando in Tornatore uno dei pochi narratori popolari del cinema italiano. (...) I protagonisti sono due giovani sconosciuti ma lungo il film non si contano i cammei, a volte brevissimi, di volti famosi: Monica Bellucci, Donatella Finocchiaro, Angela Molina, Nino Frassica, Michele Placido, Vincenzo Salemme, Giorgio Faletti, Leo Gullotta, Aldo Baglio, Raoul Bova, Enrico Lo Verso, Luigi Lo Cascio, Laura Chiatti... ma due parole vanno spese per Ficarra & Picone, che come sempre capita ai guitti di talento rivelano doti drammatiche da attori veri. Se Tornatore avesse girato il film 20-30 anni fa, ci avrebbe messo Franco e Ciccio, con lo stesso risultato: vittoria piena. Alberto Crespi - L’Unità Cucine, soggiorni, camerette, salotti, armadi, arredobagno, complementi. Via Palazzina, 135 tel. 045 8266122 - fax 045 8265922 Palazzina - Verona Produzione propria, Specialità dolci e salate, Torte nuziali e rinfreschi Viale Olimpia, 6 - tel. 045 545771 San Giovanni Lupatoto (VR) Presentando la tessera del Cineforum sconto del 10% Via F. 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