PLACIDO RIZZOTTO - IISS Pietro Sette

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PLACIDO RIZZOTTO - IISS Pietro Sette
La scheda filmica e didattica è a cura di Giancarlo Visitilli. Ogni diritto è riservato.
PLACIDO RIZZOTTO (Italia, 2000)
Regia: Pasquale Scimeca
Cast: Marcello Mazzarella, Vincenzo Albanese, Carmelo Di Mazzarelli, Gioia Spaziani.
Genere: Drammatico
Durata: 110’
Trama
Come e perché Placido Rizzotto, segretario socialista della Camera del Lavoro di Corleone (PA),
scomparve la sera del 10 marzo 1948, ultima tappa di una lunga serie di omicidi politici commessi
in Sicilia dal 1944 in poi.
DENTRO IL FILM
Il racconto come testimonianza
Placido Rizzotto è il primo film sulla mafia, ideato e diretto da un siciliano, il regista Pasquale
Scimeca, che ha come punti di riferimento Ciccio Busacca e Danilo Dolci, un cantastorie impegnato
e un educatore, poeta e utopista. Ma il film ha riferimenti anche a Salvatore Giuliano di Francesco
Rosi, specie come esempio della necessità di raccontare il Sud. Si tratta di un film che ha diviso
molto la critica e il pubblico: c’è chi l’ha considerato retorico, in realtà, si tratta di “un film di morti
che parlano di morti e che a loro volta verranno rimpiazzati da ulteriori morituri”. Perché, è vero
che il nostro Paese, in tutto il mondo, è ricordato per la pasta, l’arte, la storia, ahinoi per qualche
cattivo politico, ma inevitabilmente, anche per la mafia. Infatti, fra tanti primati, l’Italia gode anche
per aver portato nel nuovo mondo la corruzione e la criminalità organizzata, che si sono espanse a
macchia d'olio in tutto il globo. Tuttavia, gli stranieri, ma anche gli italiani, si dimenticano del
coraggio e della determinazione di persone che hanno sacrificato tutto per cancellare quest'onta di
disonore che ci portiamo dietro. Sono centinaia di uomini e donne, giovani e meno giovani che
hanno lottato nella lotta all’antimafia. Fra questi Placido Rizzotto da Corleone, vissuto negli anni
delle lotte contadine siciliane, quelli dell’occupazione delle terre incolte, per cui la mafia corleonese
si distinse per la ferocia della repressione, perpetrata nei confronti del movimento sindacale
bracciantile.
Placido Rizzotto era uno dei più coraggiosi dirigenti sindacali della zona. Partigiano, segretario
della locale Camera del Lavoro, ma soprattutto è il cittadino-contadino che non vuole sottostare
all’egemonia mafiosa. Rizzotto, viene ucciso il 10 Marzo del 1948, i suoi resti vengono ritrovati
soltanto un anno dopo in fondo ad una “ciacca”. La sua morte è crocevia di storie di altri uomini che
hanno avuto un ruolo importante nella storia della mafia. L’allora capitano dei carabinieri, che
arrestò gli assassini di Rizzotto era il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, l’uomo che ha dato
un’identità reale e forte alla lotta antimafia. Anche Pio la Torre, all’epoca studente universitario, fu
colui che sostituì Placido alla guida dei contadini. Ed infine, Luciano Liggio l'assassino, che diverrà
uno degli uomini più potenti di Cosa Nostra. Si tratta di storie, tutte finite in tragedia.
Il film di Pasquale Scimeca racconta, appunto, della dignità umana e il coraggio di un uomo
comune, di uno dei tanti “militi ignoti”, che ha segnato un passo importante nella Storia di questo
Paese. L’ultima didascalia, ormai ha il sapore di un film prodotto nel 2000, recita: “Di Placido
Rizzotto oggi non esiste neanche una tomba sulla quale si possa versare una lacrima, e i suoi
miseri resti giacciono dentro un sacco, nei sotterranei della corte d’appello del tribunale di
Palermo”. In realtà, solo il 24 maggio del 2012, e cioè 64 anni dopo la sua morte, si sono svolti i
suoi funerali. Nonostante si trattasse di funerali di Stato, Placido Rizzotto rimane ancora l’ennesimo
‘martire’, ‘eroe’ dimenticato dal suo popolo.
A differenza di tanto cinema dedicato al tema della mafia, il film di Scimeca non può essere
catalogato semplicemente appartenente a tale genere, perché possiede un più ampio respiro. Sin
dalle prime inquadrature* la macchina da presa in continuo movimento, passa tra i corpi dei
personaggi, restituendo una Sicilia arcaica. Da un arresto, si passa alla corsa libera di una bestia,
insieme a quell’altra corsa, di un Placido bambino, che corre verso un destino già precocemente
segnato.
Si provi a pensare alle inquadrature d’inizio film: c’è un lavoro eccezionale del direttore della
fotografia, per offrire di quel territorio una visione, quanto più densa, ma nello stesso tempo aspra
possibile. E’ terra brulla, ma poco più in là densamente verde e abitata da bestiame e uomini che si
spaccano la schiena sotto il sole rovente di una terra a Sud del sud. Che conserva la dignità di molti
personaggi descritti in tanta letteratura, da Verga a Vittorini, passando per Pirandello.
Il film è suddiviso nettamente in due parti: la prima vive di frammenti, spaccati istantanei, come
fossero quadretti di vita, che scavano nel passato del protagonista, nella sua esperienza di partigiano
a diretto contatto con un senso di morte, sempre prossima a venire. La seconda, invece, è tutta
incentrata sul mistero della scomparsa del sindacalista, per mezzo, dapprima di un flashback
ipotetico, evocato da una sequela di testimonianze parziali, racconto che, poi, nel corso della storia,
si snoderà attraverso un veloce cambio di prospettive. Quindi, non solo un film di denuncia, ma di
grande documentazione storica. Di memoria.
Quando il male è più forte del bene
Una delle scene di grande suggestione, presenti nel film, è senz’altro quella in cui Placido, durante
l'assemblea del sindacato, invoca la responsabilità di ciascuno, chiamando in causa la possibilità che
la mentalità ed il comportamento mafiosi possano insinuarsi in ogni individuo. Di fatto, poi, tale
insegnamento lo vediamo esplicitamente realizzato nella lotta dei contadini, nella forza collettiva,
attraverso l’occupazione, ch’è basata su una forte scelta individuale, ma per il bene proprio e di tutti.
A questa forza civile, di organizzazione della lotta alla mafia, si contrappone quella selvaggia della
mafia che, infatti, proprio dal novembre 1946 ad aprile 1948, come citano i documenti storici,
compie ventisei omicidi. L’obiettivo della mafia era quello di bloccare il processo di liberazione
civile che stava mettendo a repentaglio il suo potere su tutto e su tutti. A tal proposito, è illuminante
la frase di Elio Vittorini, che si legge all’inizio del film, nella quale si afferma che la storia narrata
si sarebbe potuta raccontare anche in qualsiasi altra parte del mondo: Si tratta della scelta della
decontestualizzazione: il film è ambientato in una Sicilia ventosa e piena di nuvole, ma nessuna
didascalia smentisce che possa trattarsi, per esempio, di un paese andino, il tutto reso tale anche per
mezzo delle musiche degli Agricantus, piene di contaminazioni, che contribuiscono ad
universalizzare la storia ed i personaggi. Sebbene, l’altra memorabile sequenza* con la ripresa di
Corleone in panoramica e quel gesto liberatorio di Placido Rizzotto, con i pugni levati al cielo, ci
fanno addentrare ben presto in un vissuto ben riconoscibile.
Al contrario del contesto sociale, però, Scimeca, identifica molto attentamente il protagonista, come
fosse un martire proto-cristiano (“E’ morto a 33 anni – si dice durante il dibattito, dopo il film –
proprio come Gesù Cristo). Ma non solo lui: tutti quegli uomini e quelle donne diventano le stesse
che sono sotto la croce del Cristo (per mezzo della rappresentazione teatrale). Tutti sono poveri
cristi. Infatti, è caratteristica peculiare del film quella dettata dai visi degli attori e delle comparse.
Facce che rivelano una storia antica, fatta di fatica e vessazioni. Facce che anche grazie alla
gestualità, tipica degli uomini del Sud, integrano ed esplicano un linguaggio siciliano a volte di non
immediata comprensione. Tutti accomunati dall’aver visto la morte negli occhi (si provi a ricordare
le intensissime immagini, nella prima parte del film, con primissimi piani* di uomini che stanno per
uccidere o per essere uccisi). Anche la presentazione dei volti dei mafiosi, avviene per mezzo di
carrellate* e pianisequenza* che hanno la caratteristica di lasciare lo spettatore senza fiato. Il film è
ricchissimo di inquadrature, che sembrano non contenere la forza, anche numerica, dei protagonisti
che le abitano.
Il finale del film, con l’ultima scena e i carabinieri che aprono, davanti ai familiari, la sacca con i
pochi resti di Placido, diventa una sorta di monito/interrogativo da parte del regista, che sembra
chiedere allo spettatore: “E' dunque solo questo ciò che rimane di Placido o c'è qualcos'altro?”.
Interrogativo che contiene un chiaro lascito morale, che non fa dimenticare le provocanti parole,
pronunciate, poco tempo prima da Placido: “Tutto dipende da noi. Dobbiamo lottare contro le
nostre paure, egoismi. Non si nasce schiavi o padroni. Questa terra può essere la nostra libertà. Le
cose non si cambiano da soli”. A dare ragione a tanta verità è il tempo, quello con cui,
continuamente, durante il film, fanno i conti soprattutto le protagoniste: quello combattuto, ansioso
e di spietata attesa della madre di Placido, che lo aspetta, scandendolo per mezzo di una sedia mossa
nervosamente, ma anche lo stesso che poco dopo si batterà sulla sua stessa persona, la fidanzata di
Placido, percuotendosi il grembo violentato, quasi a dimostrare l’attesa non voluta, al contrario di
quella poco prima mostrata. Il tempo, è l’unico con cui ognuno fa i propri conti, anche per cambiare
il mondo. Si tratta, quindi, di quel tempo per cui lo sforzo per la costruzione di un mondo diverso,
ridesta in tutti il sentimento della solidarietà nella lotta pacifica.
Curiosità
 Placido Rizzotto è stato presentato, in anteprima mondiale, al Festival del Cinema di
Venezia del 2000 (stesso anno in cui erano presentati I cento passi e Il partigiano Johnny);
 Ha vinto la Grolla d’Oro a Saint Vincent e il Gran Prix del Festival di Annecy;
 Il film è stato girato a Isnello, in provincia di Palermo;
 Tranne gli attori, tra i quali solo Marcello Mazzarella (Placido Rizzotto) e Gioia Spaziani
(Lia, la fidanzata di Placido), tutti gli altri interpreti sono attori non professionisti.
Il regista
Pasquale Scimeca nasce il 1 febbraio 1956 ad Aliminusa, in provincia di Palermo. Dopo aver
frequentato il liceo, si trasferisce a Firenze, dove si laurea in Lettere, con una specializzazione in
Storia contemporanea. Nel 1989, dopo aver lavorato per alcuni anni come insegnante di Letteratura
e Storia, fonda la cooperativa di produzione indipendente “Arbash film” e realizza il suo primo
lungometraggio, La donzelletta. Il secondo lavoro, sempre un lungometraggio è Un sogno perso,
con il quale partecipa al Festival del cinema di Taormina. Nel 1993 dirige il suo primo film Il
giorno di San Sebastiano, che vince un Globo d'oro e viene presentato alla Mostra del cinema di
Venezia. Negli anni successivi realizza una serie di documentari tra i quali La tana del lupo
prodotto dalla Rai per il quale riceve una menzione speciale al Festival del cinema documentario di
San Benedetto del Tronto. Del 1996 è invece il suo secondo lungometraggio intitolato Briganti di
Zabut, con il quale ottiene una menzione speciale al Festival del cinema di Taormina e vince il
premio della giuria al Grosseto Film Festival. Nel 2000 dirige Placido Rizzotto, partecipando alla
Mostra del cinema di Venezia. In occasione del viaggio del regista a Porto Alegre in compagnia di
altri cineasti, spinti dall'intenzione di filmare i Secondo Forum Mondiale contro la globalizzazione,
Scimeca comincia a girare alcune immagini lungo le strade della città brasiliana per documentare i
resti di un modno contadino ormai destinato a sparire. Da questo reportage Scimeca realizza il film
Sem Terra (2002). Nel 2003 esce Gli indisiderabili, tratto dall'omonimo romanzo di Giancarlo
Fusco. Successivamente si dedica a La passione di Giosuè l’ebreo (2005), film che suscita la
polemica verso l’intolleranza e la chiusura della società, oltre che la pietà per i vinti dalla storia. Nel
2007 Scimeca decide di affrontare la riduzione di Rosso Malpelo, una novella di Giovanni Verga, al
quale lo accomunano diversi tratti poetici. Il confronto con il grande autore siciliano si fa ancora più
serrato nel suo ultimo impegno, I Malavoglia (2010), sceneggiato da Tonino Guerra e girato tra
Pachino e Porto Palo.
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