La Mafia al nord divenne affare nostro,Bravi figli e bravi gentori
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La Mafia al nord divenne affare nostro,Bravi figli e bravi gentori
La Mafia al affare nostro nord divenne LA RIFLESSIONE - Le mafie investono enormi proventi di attività illecita e influenzano lo sviluppo minando i diritti civili e mettendo in pericolo la democrazia ad ogni latitudine. Per comprendere gli affari di una delle più potenti “multinazionali” al mondo, in grado di condizionare non più solo i territori tradizionali che ne sono la culla, ma l’economia a livello europeo, nasce Est, un progetto europeo firmato dall’Associazione Ilaria Alpi, da FLARE Network (braccio europeo di Libera, l’associazione contro le mafie di Don Luigi Ciotti) e da Crji (Romanian Centre for investigative Journalism). Grazie allo strumento dell’inchiesta televisiva e alle denunce dei cittadini europei, Est propone un itinerario informativo tra l’Italia e la Romania, portando poi i quesiti a Bruxelles per far crescere la consapevolezza dei rischi a livello europeo. Il progetto Est segue tre filoni principali: il riciclaggio nel settore chiave dell’edilizia, il rischio di infiltrazioni nel fiorente mercato dell’eolico oltre ad una riflessione allargata sugli strumenti giuridici di contrasto specifici della realtà italiana ed estendibili a livello europeo. Nove video inchieste dunque tra Italia Romania e Bruxelles che saranno visibili su internet (www.estprocjet.eu), in tv su RaiNews. Inchieste giornalistiche che saranno il punto di partenza della due giorni di workshop che si terrà a Riccione durante le giornate del Premio Ilaria Alpi il 16 e il 17 giugno 2011. Ad aprire la serie di documentari è “Anticorpi”, un inchiesta a tutto campo sulle infiltrazioni mafiose al nord. “Non ci sono luoghi al riparo dalle infiltrazioni mafiose. Pensare il contrario induce inevitabilmente a “tragici risvegli”. Come avvenuto in Emilia Romagna, la ricca regione del nord Italia convinta per la sua storia di avere gli anticorpi per opporsi al radicamento delle mafie. La culla della Resistenza italiana è costretta ora a fare i conti con gli effetti della presenza criminale, come avvenuto nella provincia di Reggio Emilia. Secondo un imprenditore edile il boom dell’edilizia che ha interessato negli anni duemila il territorio è stato alimentato per il 50% da denaro illecito. Una denuncia clamorosa smentita in modo netto e sdegnato dalle autorità. Eppure gli elementi per non considerarla sono troppi ed emergono sempre più ora che la crisi sta colpendo duramente il settore. Ma sul riciclaggio non ci sono dati, le banche non hanno lanciato allarmi, le forze dell’ordine nemmeno. Nel silenzio generale sulle illegalità commesse dai palazzinari, diecimila metri cubi di cemento hanno eroso a tempo di record la campagna e spopolato i centri storici”. Bravi figli e bravi gentori LA TEOLOGIA DEL RAGIONIERE di Gianfranco Vanzini Come sempre accade, lo abbiamo già constatato e continueremo a constatarlo, seguire i suoi Comandamenti e le sue indicazioni è il modo più sicuro per vivere bene… qui… oggi. Entriamo allora nel vivo del tema. Le due affermazioni appena citate rappresentano la nascita della famiglia. Creando l’uomo e la donna, Dio ha istituito la famiglia umana e l’ha dotata della sua costituzione originaria e fondamentale: un uomo e una donna. A mio avviso, dopo la libertà, di cui abbiamo parlato la volta scorsa, la seconda cosa bella che Dio ci ha donato è senz’altro la famiglia… Nasciamo infatti piccoli e indifesi, incapaci di provvedere al nostro sostentamento, ma nasciamo in una famiglia, nasciamo cioè da due genitori: un padre e una madre. Due genitori che per il fatto di averci fatto nascere attraverso un atto d’amore sono pronti ad accogliere e custodire il frutto del loro amore: i figli. Padre, madre e figlio/i sono pertanto: la famiglia. Quella famiglia nella quale i genitori hanno il dovere di allevare i propri figli, provvedendo alle loro esigenze materiali e spirituali ed educandoli ad un corretto uso della ragione e della libertà uniti ad un profondo rispetto per tutte le persone… “ I genitori sono i primi responsabili dell’educazione dei loro figli” (Catechismo della Chiesa Cattolica – par. 2223 – ). Hanno pertanto la responsabilità di creare una famiglia in cui la tenerezza, il rispetto, la fedeltà, il servizio disinteressato siano la norma. Il focolare domestico, infatti, costituisce l’ambito naturale più idoneo per una iniziazione al senso di responsabilità e alla solidarietà, sotto la guida attenta dei due genitori che avranno cura di insegnare ai figli di guardarsi dai compromessi pericolosi, dalle infedeltà e dalle ipocrisie, dai cattivi maestri e dagli sbandamenti umani, particolarmente presenti in questi tempi. Quando questi insegnamenti passano attraverso l’esempio e la testimonianza vissuta da parte dei genitori hanno sicuramente un valore ed una efficacia molto alti. Se i genitori hanno doveri e responsabilità, altrettanti doveri e responsabilità sono anche in capo ai figli. Il quarto comandamento, infatti, si rivolge espressamente ai figli dicendo “Onora il padre e la madre”. Ho pensato diverse volte al perché Dio si rivolge ai figli anziché ai genitori. La risposta che mi sono data è la seguente: perché tutti nasciamo figli, poi cresciamo. E allora dobbiamo, da subito, imparare ad essere figli onorando e rispettando i genitori.. Il rispetto per i genitori è, prima di tutto, un atto di riconoscenza verso coloro che, con il dono della vita, il loro amore e il loro lavoro, hanno messo al mondo i loro figli e hanno loro permesso di crescere in età, in sapienza e in grazia. E si manifesta attraverso la docilità e l’obbedienza ai loro insegnamenti e l’aiuto in caso di necessità. “ Il figlio saggio ama la disciplina, lo spavaldo non ascolta il rimprovero” (Prv.13,1) Imparando ad essere bravi figli, automaticamente, impareremo ad essere, a nostra volta, bravi genitori. E così la storia dell’umanità va avanti. In questo quadro di diritti e di doveri, di servizi ricevuti e resi, di valori appresi e trasmessi di responsabilità verso Dio e verso il prossimo, ogni cosa è al suo posto e tutto acquista un significato armonico e soddisfacente. Cioè si vive bene …qui….oggi. Perché tutto questo oggi avviene così raramente? Perché si sono perse le coordinate di fondo, si è smarrito il fondamento di tutto: Dio. Oggi, troppo spesso, non si parla di atto d’amore, ma solo di atto sessuale, oggi si dice: – Faccio sesso -, come si direbbe: – Vado al cinema -, ma non sono la stessa cosa. La preoccupazione di molti genitori non è quella di insegnare il giusto uso, nei modi e nei tempi, della sessualità; ma è unicamente quella di raccomandare l’uso del preservativo. Come se ad un figlio che chiede di mangiare una mela acerba anziché dire: – Aspetta che maturi – gli dicessimo: – Mangiala pure, ma avvolgila in un sacchetto di plastica -. Vi sembra una cosa intelligente? A me poco! E ancora, a 20 anni, più o meno, si dice che i giovani devono essere fuori di casa. E perché? Chi lo ha detto? E con quale criterio? Se un ragazzo o una ragazza, che ancora non hanno finito gli studi, vanno a vivere da soli, chi li mantiene? Come fanno a pagarsi l’affitto, il vitto, il vestire ecc.? I loro genitori? E allora dove sono il senso di responsabilità, la maturità e l’indipendenza dei giovani? Non sarebbe meglio stare in casa con i propri genitori, volendosi bene, collaborando ed evitando spese (o sprechi) inutili? Staremmo tutti meglio, per dirla in latino: hic et nunc, cioè qui …adesso. (Continua) Segio e la sua colpa LA RIFLESSIONE di Astorre (Pepe) Mancini - L’ultimo numero della rivista di sociologia Communitas – ormai una delle più prestigiose in Italia – ospita uno studio scientifico veramente pregevole di Sergio Segio, sugli effetti sociali della crisi economica. Offre spunti interessanti anche per un amministratore locale, evidenziando che la crisi ha consolidato come prassi due principi fino ad oggi sviluppati solo dalla teoria economica : il principio del “troppo grandi per essere lasciati fallire” (con riferimento alle banche ed alle multinazionali) ed il principio del “troppo piccoli per essere aiutati” (con riferimento alla piccola impresa). Se pensiamo alle macro e micro politiche economiche della nostra Italia tutto ciò è vero, considerato che dal 2008 non ci sono stati provvedimenti significativi per la salvaguardia della piccola impresa, esclusa anche dagli ammortizzatori sociali; nel frattempo grandi imprese come Alitalia (e prima Parmalat, ecc…) sono state salvate grazie a leggi e provvedimenti eccezionali. L’analisi offre lo spunto per ribadire che gli amministratori locali, Comuni, Province, Regioni, hanno una responsabilità enorme nel mettere in campo iniziative per sostenere la piccola impresa, in mancanza di politiche governative che non possiamo attendere per l’impossibilità di incidere in modo significativo in questo segmento di imprese, che rappresentano il 98 % delle imprese italiane. Altrimenti, ci si deve arrendere all’eterno gioco della privatizzazione dei profitti e della socializzazione delle perdite. Il contributo analizza poi gli effetti sociali di queste politiche sulla capacità di impresa dei piccoli e medi imprenditori, soprattutto giovani. Conclude con una interessante analisi sulla “bulimia delle merci e l’anoressia dei diritti”, osservando come in tempo di crisi vengono incentivati i consumi nello stesso momento in cui si comprimono, per mantenere i livelli di competitività (Marchionne docet), i diritti. Mi ha fatto un certo effetto la profondità dell’analisi di Segio, per certi versi non nuova ed originale, ma certamente meritevole di riflessione. E’ il Sergio Segio ex terrorista di Prima Linea che ha ucciso più volte, sparando anche in testa a quel grande servitore dello Stato che è stato il Giudice Emilio Alessandrini, il cui figlio, oggi avvocato, gira le scuole per ricordarne la grande testimonianza. Segio ha scontato 23 anni di carcere, è uscito nel 2004, e in questi vent’anni si è distinto per innumerevoli iniziative sociali (ricordo che fondò il Gruppo Abele assieme a don Ciotti). Oggi indubbiamente è un’altra persona. Bcc Gradara, centenario nel sostegno della comunità BCCG – CULTURA “Quando fai progetti per un anno, semina grano; se fai progetti per un decennio, pianta alberi; se fai progetti per la vita, educa i giovani”. E’ lo spirito con cui opera e agisce la banca. Nel 2010 restituiti al territorio 781mila euro - “Quando fai progetti per un anno, semina grano; se fai progetti per un decennio, pianta alberi; se fai progetti per la vita, educa i giovani”. E’ lo spirito con cui opera e agisce la banca di Credito Cooperativo di Gradara che quest’anno affronta il centeraio della fondazione con una serie di eventi nel segno della sobrietà. Tre le grandi direttive: il sociale, la cultura, il sostegno alle famiglie e alle imprese. “Il Consiglio di Amministrazione della Bcc di Gradara – rimarca il presidente Fausto Caldari – ha deciso di ricordare i cento anni con una serie di iniziative sociali e culturali differenziate, ma particolarmente significative. Ha rinunciato a grandi manifestazioni, a mega concerti, a costosissime rappresentazioni di piazza. Ha scelto di festeggiare in modo sobrio, discreto, come la situazione economica e le tensioni sociali richiedono. Ha deciso di intensificare l’abituale attività extrabancaria, focalizzando la sua attenzione su alcuni eventi che tendono alla identità dei luoghi, alla loro valorizzazione, alla crescita culturale del territorio”. “Ha scelto – continua il presidente – di ricordare il Centenario con una importantissimo investimento in campo sanitario per la prevenzione e cura della salute. Dopo la Tac, il mammografo, l’ecocardiografo, l’ecotomografo; la Bcc di Gradara sta lavorando per l’acquisto di una ‘Risonanza Magnetica’ del valore di circa 700 mila Euro, da donare all’Ospedale di Cattolica. E’ senza dubbio un grosso investimento per una banca come la nostra, ma siamo più che mai consapevoli che la nostra salute, non ha prezzo”. “Stiamo vivendo una situazione di precarietà – riflette il presidente – il cui superamento, richiederà impegno, rispetto delle regole, capacità di sacrificio, ma anche collaborazione, equilibrio, senso civico, volontà di riscoprire i valori della mutualità, della solidarietà, della cooperazione. La Bcc di Gradara vuole dimostrare ancora una volta, il suo interesse per il territorio. Vuole sostenere in concreto la propria comunità. Vuole dimostrare che essere banca locale, significa lavorare per la propria gente, investire per la sua crescita e per il suo benessere. Rappresentano ancor oggi, una delle migliori soluzioni per una società basata sulla giustizia, sull’equità, e sulla solidarietà”. Per le attività sociali, culturali, tempo libero, prevenzione e cura della salute, ed opere benefiche, nel 2010 sono stati restituiti al territorio 781.544 euro. “Il Centenario – chiude il presidente Fasuto Caldari – non deve essere quindi, solo un’occasione di festa; ma deve rappresentare un’opportunità per consolidare il nostro rapporto con i soci, i clienti, l’intera collettività, proiettando la banca nel futuro, senza mai dimenticare la centralità della persona, i suoi valori, i suoi ideali”. La messa del centenario: 27 marzo 2011 a Gradara - L’arcivescovo di Pesaro monsignor Piero Coccia celebra la messa del centenario della nascita della Banca di Credito Cooperativo di Gradara. La celebrazione si tiene nella chiesa di San Giuseppe domenica 27 marzo alle 10 a Gradara. La cerimonia naturalmente è aperta a tutti. L’istituto di credito fu fondata il 25 marzo del 1911. Ad avere l’idea della banca fu l’allora parroco di Gradara, don Raffaele Ceccarelli. Un illuminato, che nel solco del cattolicesimo sociale intendeva combattere l’usura e aiutare i più deboli. Nel bel libro sui 70 anni della banca, il compianto autore Delio Bischi intitolò quel capitolo “Congiurati in canonica”. Ecco quell’inizio: “Cerca di non dare nell’occhio… avvicina Bagaren, el Ross, Mingaron e Badil e dì loro di passare parola agli altri… di venire… ma alla spicciolata… questa sera alla Benedizione, nel Coro, dietro l’altare. Terminata la Funzione attardatevi, e quando la gente si è alzata e vi ha voltato le spalle per uscire, voi tutti, sempre con calma e indifferenza, attraverso la porticina del Coro, salite in cucina dove non tarderò a raggiungervi per mettervi al corrente delle ultime decisive novità; quello che mi raccomando è di non dare nell’occhio: una indiscrezione, un passo falso, potrebbero mandare all’aria i nostri piani…”. Nacque la Cassa Rurale di Gradara.. BCCG – SALUTE E TERRITORIO Bcc di Gradara, ecotomografo per il Ceccarini di Riccione - “Ancora un gesto di grande generosità da parte della Banca di Credito Cooperativo di Gradara nei confronti della nostra sanità”, ha affermato Romeo Giannei, direttore del presidio medico dell’ospedale Ceccarini di Rimini. La Banca di credito Cooperativo di Gradara ha donato un ecotomografo digitale all’Unità Operativa di Pronto Soccorso – Medicina d’Urgenza, guidata dalla dottoressa Marina Gambetti. Consente di effettuare diagnosi più precise e tempestive, in particolare per quanto riguarda le lesioni interne (versamenti di liquidi soprattutto dell’addome, litiasi colecistica e renale, patologia dell’apparato genitale femminile e maschile, e in generale ogni forma di patologia dolorosa dell’addome) “Stiamo lavorando – ha detto nell’occasione Fausto Caldari, il presidente della Bcc – alla donazione di un altro importante apparecchio diagnostico. Noi siamo una banca piccola ma siamo la banca della gente. E, specie in momenti come questi in cui ‘la coperta è corta’, siamo felici di aiutare la comunità”. BCCG – SOCIALE Bcc sociale, un pulmino per Gradara - Nel solco della mutualità. La Banca di Credito Cooperativo di Gradara ha donato al Comune di Gradara un pulmino attrezzato per il trasporto di anziani e disabili, del valore di 30.000 euro. La cerimonia della consegna si è tenuta lo scorso 26 febbraio alle 10,30 a Gradara. “Aiutare i meno fortunati – ha detto Fausto Caldari, il presidente della Bcc di Gradara – è un dovere. Significa fare semplicemente la cosa giusta, seguendo le ragioni della solidarietà. E senza troppi fronzoli nel ragionamento. Mi piacerebbe parafrasare un valore universale: fare agli altri, ciò che vuoi che gli altri facciano a te. Inoltre, il dono va riscoperto come senso della comunità e coesione sociale, come avveniva in passato. Siamo orgogliosi di aiutare chi ha bisogno, specialmente nell’anno del centenario e specialmente qui a Gradara”. Amarcord Gabicce di Dorigo Vanzolini Porto Vallugola, sala gremita “zittisce” il sindaco Curti - Zittito in malo modo il sindaco Corrado Curti nella serata pubblica che si è tenuta lo scorso 14 febbraio al cinema teatro Astra che aveva al centro della discussione l’ampliamento del porto di Vallugola. Da una parte il Comitato “Vallugola terra nostra” che si batte contro il no; dall’altra la proprietà che ha chiesto il poderoso intervento. In mezzo il sindaco che ancora sta in mezzo al guado. Sta aspettando, insomma. Sono giunti anche da Riccione a sostegno delle tesi del Comitato. Scrive il Comitato “Vallugola terra nostra”: Il Piano Regionale dei Porti, approvato dal Consiglio Regionale nel mese di febbraio 2010 dopo lunghe e faticose mediazioni, consente solo interventi finalizzati alla messa in sicurezza degli attuali bacini portuali ed al miglioramento della imboccatura esistente. Secondo il piano, la messa in sicurezza dei bacini portuali esistenti consentirà nel contempo una miglior utilizzazione degli specchi acquei con la possibilità di aumento dei posti barca. E’ ovvio pertanto che l’aumento dei posti barca possa avvenire solo nell’ambito di una migliore utilizzazione degli attuali bacini, senza ampliamenti dell’attuale area portuale, se non quelli strettamente necessari per la messa in sicurezza e la modifica dell’imboccatura o per un più razionale utilizzo dell’area esistente. Confutando i dati contenuti nella relazione di progetto, pare ovvio pertanto che il raffronto dimensionale del bacino progettato vada fatto con le strutture esistenti e non con quelle del progetto precedente esaminato dalla Conferenza dei Servizi. Il raffronto evidenzia la non conformità del progetto con la normativa sopra citata, in quanto la superficie degli specchi acquei esistenti risulta di circa mq. 16.500, mentre quelli progettati ammontano a mq. 32.150 circa per i bacini di stazionamento, oltre a mq. 14.220 per il bacino di calma, per un totale di circa mq. 46.370. Come si vede una superficie complessiva che è quasi il triplo di quella esistente. Anche le misure lineari del complesso portuale sforano abbondantemente le attuali dimensioni in quanto la lunghezza complessiva passa dagli attuali circa 325 m. a circa 530 m., mentre la larghezza, computata dal confine demaniale, passa dagli attuali m. 96 riferiti alla banchina verso mare del porto (con un’apertura massima verso mare di m. 135 del faro), ai 150 m. circa, misurati al limite interno dello specchio acqueo, oppure ai 195 m. circa, misurati sulla linea esterna della mantellata di protezione. E’ evidente che il parametro utile per determinate l’ampliamento dei bacini è rappresentato dalle dimensioni e dalle superfici; i posti barca in più sono solo 29 per effetto della loro maggiore superficie unitaria”. Beghelli e lo sbancamento del monte Dallo scorso novembre quello che fu il Marechiaro, dall’altra parte dell’Eden Rock, a picco sul mare, è un grande cantiere sul quale tireranno su circa 800 metri quadrati di manufatti per un fronte parallelo al mare di oltre 50 metri. Di proprietà dell’industriale bolognese Giampietro Beghelli, ha ereditato una capacità edificatoria che risale ad un una ventina di anni fa; nella cornice di espansione urbanistica del borgo di Gabicce Monte. Il monte “scappucciato” è una ferita aperta che ti coinvolge emotivamente e ti fa porre una serie di domande sul fragile rapporto tra l’uomo e l’ambiente. Possibile che nel 2011, non riusciamo ancora ad astenerci da simili invadenze? Nonostante la tecnologia, i materiali, le conoscenze scientifiche, è difficile pensare quali possano essere le conseguenze di interventi tanto invasivi: sono stati asportati circa 2.500 metri cubi di materiali. Dall’altra parte, per contrapporsi alla forza/debolezza del monte pali giganteschi e contrafforti in cemento armato non meno possenti. Altra domanda: l’acqua penetrata nel monte “causa la ferita” che cosa starà mai compiendo nel suo naturale corso? E’ vero come dice qualcuno che su tali ragionamenti i paesini della Costiera Amalfitana, o Casteldimezzo, o Fiorenzuola di Focara, non sarebbero mai sorti, ma deve essere questo il tipo di espansione urbanistica che dobbiamo portare avanti? Oppure bisognerà optare per un pensiero più armonico? Madonna del Monte, che cosa fare con la chiesa abbandonata? Secoli di devozione popolare andati in rovina per l’incuria dell’uomo. L’uomo moderno, disincantato, che non crede pìù ai miracoli, “roba da Medio Evo”. Mano sacrilega colpì l’immagine sacra, ma ancor più sacrilega è l’indifferenza e l’incuria nostra. Come intervenire? Ci vogliono soldi. Questo è un periodo di magra e chiedere soldi alla gente è come chiedere sangue ad un anemico. Si incominci a raccogliere fondi e a fare i primi lavori. Una volta riaperta la chiesetta alle preghiere e devozioni si aggiungeranno offerte che permetteranno di finanziare ulteriori opere a completamento della stessa. Le chiese sono nate così, con la carità dei fedeli. Alla stessa maniera ora si possono riparare. Allora la chiesetta rifiorirà ed il profumo delle grazie tornerà a spandersi da quel dolce colle. Roberto Ghigi, Rimini Addio a Vincenzo Verni, un grande marignanese IN RICORDO di Matteo Marini “Ricordatevi sempre che io non sono ‘il padrone’, ma uno che, come voi, vuole che questa azienda vada bene”. Poi alle parole faceva seguire i fatti. Vincenzo Verni era davvero un imprenditore illuminato e chi lo ricorda non manca di citare il suo carattere razionale e pragmatico, alla continua ricerca della verità e delle fonti. Uno dei pochi ‘padroni’ che, cosa non facile negli anni ’70, era rispettato e benvoluto dai suoi stessi operai. Raccontare “l’Ingegnere” non è facile. In realtà non lo è di nessuno ma se chi, come lui, ha lasciato intendere che non avrebbe mai voluto essere ricordato con “un santino”, allora lo sforzo deve essere necessariamente maggiore. Classe 1923, Vincenzo Verni ci ha lasciati il 14 febbraio. Si era laureato al Politecnico di Milano e, dopo alcuni anni di libera professione, aveva finalmente realizzato quello che era il suo pallino: la riapertura della fornace di San Giovanni in Marignano. La fornace Verni è tuttora l’azienda più vecchia del paese. È un pezzo importante della nostra storia. I primi mattoni dalla fossa del Ventena videro la luce nel 1860. Negli anni ’50 il padre fu costretto a chiudere ma il futuro della lunghissima ciminiera era già limpido nella testa del figlio: “Alóra..?” Domandava Vincenzo fissandolo negli occhi. E alla fine la ebbe vinta. Il fuoco della nuova fornace Verni prese vigore nel 1968. Dava lavoro a 40 operai e ora, più di 40 anni dopo, la Ve.Va. (nel frattempo era nata la collaborazione con l’ingegner Vannoni a S. Ermete) esporta la maggior parte della sua produzione all’estero, soprattutto in Medio oriente. Vincenzo ci aveva visto giusto e la sua testardaggine è stata premiata. Seduti al tavolo con le due figlie, Donata ed Elena, i ricordi fluiscono sinceri, tutti ricamati da un sorriso. “Era un padre. Un padre che sapeva essera autorevole ma anche un consigliere, aveva una mentalità molto aperta”. In questo senso era stretta per lui anche la casacca della Democrazia cristiana, con la quale era stato eletto consigliere comunale nel 1975. “Era la fine degli anni ’70 – ricorda Elena – manifestavamo per chiedere un corso di educazione sessuale. Sai com’erano quegli anni. Lui venne di persona al liceo in appoggio degli studenti”. Una reazione alla disciplina rigida con la quale era stato cresciuto e soprattutto una sana curiosità per il nuovo, l’entusiasmo quasi adolescenziale per le idee rivoluzionarie. Era un appassionato del web: “Da quando è arrivato internet passava ore al pc – racconta Donata – si documentava sulla politica e sui fatti dell’Italia, interpretava i segni dei tempi, ma con amarezza constatava sempre che la giustizia non trionfava mai. Pensava sin dall’inizio che la rete fosse l’invenzione del secolo. Dopo essere andato in pensione le sue giornate erano divise tra la famiglia e le letture: libri, giornali e siti internet. A volte lo trovavamo addormentato la mattina davanti al computer con le cuffie alle orecchie. Ordinava tutto via internet, anche i libri, nonostante la sua casa fosse già piena. E poi certe cianfrusaglie. Una volta arrivò a casa un apparecchio: la lavatrice per le verdure. La mamma ne fu inorridita”. Le sue figlie da piccole per prenderlo in giro lo chiamavano “profeta”, perché amava riflettere sulla realtà presente e fare previsioni. Quasi mai campate in aria. Negli ultimi anni intrattenne corrispondenze importanti, in particolare una lunga con Eugenio Scalfari, il fondatore di Repubblica, del quale amava commentare (e spesso criticare) i lunghi corsivi domenicali. La ricerca della verità e della fonte fu anche il suo paradigma politico. I suoi interventi in Consiglio comuale erano seguiti in un rispettoso e religioso silenzio, sia dai democristiani dell’opposizione che dalla maggioranza del Pci. Una parentesi nella quale la politica calava il cappello di fronte alla competenza e all’onestà del tecnico e dell’uomo. Salvo poi tornare alle proprie logiche con l’alzata di mano del voto. Questa fu per lui una delusione. E suo malgrado l’impegno politico per la comunità che amava tantissimo fu breve. Forse proprio a causa della camicia stretta delle logiche di partito. Ma il l976 arrivò l’alluvione che inondò di fango una vallata intera e l’emergenza prese tutto il suo tempo. La Ve.Va. stava sotto un metro e 80 di acqua e sembrava che fosse davvero tutto finito. Invece le famiglie Verni e Vannoni, assieme ai dipendenti, si rimboccarono le maniche e ripulirono tutto. Fecero debiti. Con diverse centinaia di milioni delle lire di allora, ammortizzate in bilancio per decine di anni, rimisero in moto l’attività. Il fango, divenuto poco più che polvere, ancora macchia le pagine dei libri contabili che riposano nell’archivio dell’azienda. Nel 1971 il capitolo più buio di una bella storia. Pietro, il più grande dei suoi cinque figli, morì a Bologna assieme al cugino per le esalazioni di una stufa difettosa. La tragedia è ancora viva nella memoria di chiunque, a San Giovanni. Pietro studiava ingegneria e seguiva volentieri il padre alla fabbrica, nel laboratorio di chimica per testare i colori sui laterizi. Un giorno avrebbe forse preso lui le redini della storica azienda. Era questo un sogno che andava realizzandosi. Di quella vicenda il rammarico più vivido è espresso nelle semplici parole di Vincenzo: “Eravamo felici e non lo sapevamo”. Il lavoro nella fornace era per tutti l’estensione della sua visione del mondo: “Ricordo il primo contratto integrativo dell’azienda – racconta Giacomo Bedetti – disse che il premio di produzione doveva essere uguale per operai e dirigenti. Perché se la fabbrica andava bene era merito di tutti. E quando andavo a fare i versamenti Inps, le segretarie dei notai strabuzzavano gli occhi nel vedere quanto versavo. Prendevo 100.000 lire di stipendio e versavo per 100.000 lire, com’era giusto. Non la vedevano mica tutti così”. E se gli episodi sono la punta di un bellissimo iceberg, vale la pena raccontare di quando impose a Giacomo di portare con sé la piccola Claudia al lavoro, quando non aveva nessun altro che se ne potesse occupare: “Il giorno dopo arrivò in ufficio con una scatola di colori per mia figlia. Era capace di finezze inimmaginabili. Allo stesso tempo stargli a fianco al lavoro non era facile, perché era preciso ed esigente. Cercava la perfezione e pretendeva che anche gli altri dessero il massimo”. Con il puntiglio e la precisione tipiche sue, forse, Vincenzo avrebbe da ridire anche su queste poche righe, certo incomplete. Magari dopo averle lette e averci riflettuto un po’ su, come faceva lui, direbbe che sono quel panegirico che tanto temeva. A te ora vanno le nostre scuse sincere, caro Vincenzo, non volevamo scrivere un “santino”, solo il ricordo, quello bello, di un giusto che ci ha lasciato. Che la terra ti sia lieve. Don Piero, nel cielo dell'Africa nera IL REPORTAGE buio - Ho avuto sempre un certo “pudore” al pensiero di andare in Africa, in America Latina, in India; come si ha pudore ad accostarsi al letto di un ammalato grave; scacciavo il pensiero dicendo: hanno già tanti problemi, non è il caso di aggiungere anche il tuo. Il mio amico Stoppiglia mi rinfaccia ancora, dopo anni, il rifiuto di andare in Brasile con lui, perché gli dissi di non avere le motivazioni. Eppure sono stato in India (Panjab), in America Latina (Colombia ed Ecuador) e ultimamente in Africa (Nigeria); ho superato le perplessità iniziali e, ultimamente il peso degli anni e il limite della salute, perché nel frattempo sono cresciute in me “le motivazioni”. Oggi le motivazioni sono volti, storie, paure, sorrisi e, non di rado, lacrime. Paramjit e la sua famiglia mi hanno chiamato in India, ai confini del Pakistan, a sedere in confidenziale conversazione con il padre Momi, la madre e i figli e gustare un buon the, mentre la piccola Emi mi faceva le fusa attorno alle ginocchia, dimostrandomi gratitudine. Martha Isabel e i suoi nove figli hanno acceso in me il desiderio di attraversare l’Atlantico per incontrarli e riannodare una storia che aveva avuto inizio ventisei anni fa, a Santa Maria, quando don Oreste Benzi me li presentò: allora David, il marito, era ancora vivo e i figli erano solo due, Radha e Govinda. Qualche giorno fa sono stato in Africa, per rispondere a una domanda semplice, detta con il cuore, dai miei amici e ormai famigliari Emeka, Vittoria, Chiariti, Ladi e Ada: “Perché non vieni a visitare la nostra terra? E così sono stato in Nigeria. Quest’ultimo viaggio forse l’ho preso un po’ alla leggera, nel senso che ho un po’ sottovalutato che stavo andando in un paese dove la vita è lotta nella sua normalità. Quello che per noi è questione di voglia e di tempo, lì diviene difficile e complicato. I tempi vanno a rilento come il traffico, se nella giornata ti riesce di ultimare quello che hai programmato torni a casa e ti senti miracolato; normalmente non riesci ad arrivare in tempo all’appuntamento e se ci riesci, la persona che doveva arrivare è rimasta imbottigliata nel traffico caotico. La viabilità oggi è un problema insormontabile per questo paese e costringe le moltitudini a passare gran parte della giornata nel tentativo di arrivare alla meta prefissata; le strade sono un vero attentato alla vita delle persone e ai mezzi di trasporto; questi sono un po’ tutti rifiuti che il nostro mondo dismette. Per cui si vedono vere carcasse di bus e auto, che, miracolo vivente, riescono ancora a muoversi e a portare il povero carico di cose e di persone alla meta. Lasciando dietro a sé nuvole di polvere e caligine. Si ha l’impressione che l’Africa diventi a breve una bomba ecologica; già da ora non si vede mai l’azzurro del cielo e una cappa grigia che ti sovrasta per tutta la giornata. Ma l’aspetto che più colpisce sono le moltitudini di persone che dalla mattina alla sera si mettono in movimento per procurare quanto serve alla persona e alla famiglia. È la lotta alla sopravvivenza. E allora tutto diventa mercato dove si vende e si compra tutto, si apre al mattino ancora buio e si chiude alla sera, quando è già notte: la strada che stai percorrendo, in tutta la sua lunghezza, si fa bazar, dove trovi le povere cose che servono per tirare avanti: benzina, frutta, farine, acqua, pezzi di ricambio. Eppure vedi il sorriso sul volto dei bimbi e se entri nelle povere abitazioni ti accolgono con gioia. È una popolazione molto giovane e si ha l’impressione che se troveranno una guida politica all’altezza della situazione possa avere un futuro di speranza. Ora le cose non vanno bene. Sto parlando di un paese dove l’1% della popolazione ha il controllo quasi assoluto della ricchezza nazionale e in cui i fondi destinati alla spesa pubblica sono una misera manciata di spiccioli rispetto al volume complessivo del denaro generato dal business petrolifero. Un paese corrotto nel quale il diritto alla cittadinanza sembra ancora una nozione astratta per la grande maggioranza della popolazione. In questo contesto “caratterizzato da forti disparità sociali”, è facile manipolare l’insoddisfazione dei ceti meno abbienti in nome dell’appartenenza a questa o quella etnia, o anche in nome della fede. Eppure, tutti sanno che dietro le quinte si celano interessi politici di parte, giochi di potere e antiche rivalità, sia a livello regionale che nazionale. I politici, anche i nostri, fanno delle letture di comodo per nascondere i veri problemi. I missionari che vivono la situazione sanno bene come stanno le cose: “Quando hai a disposizione masse di gente non povere, ma misere, fai presto a sfruttarle e a lanciarle l’una contro l’altra, facendo accadere anche dei massacri”. È la questione sociale, economica e politica che, a volte, fa scattare queste follie che poi alcuni giornali amano presentare come dovute alla religione. La causa prima dell’instabilità di quella terra, “metafora delle ingiustizie di oligarchie che godono della connivenza di potentati stranieri” è che letteralmente “galleggia sugli idrocarburi”. (padre Franco Moretti, comboniano). Monsignor John Olorunfemi Onaijkan, arcivescovo di Abujia, ha dichiarato l’8 marzo scorso a radio Vaticana: “Facilmente la stampa internazionale è portata a dire che sono i cristiani e i musulmani a uccidersi. Ma non è questo il caso. Perché non si uccide a causa della religione”. Le vittime infatti “sono povera gente che non sa, che non ha niente a che fare con tutto questo e che non ha alcuna colpa”. Le missioni cattoliche stanno facendo un prezioso lavoro a riguardo della scolarizzazione e della formazione delle giovani generazioni: la cultura dovrebbe essere l’arma vincente! Per concludere questa breve riflessione, posso dire che è stato un viaggio duro e amaro, ma che ha lasciato in me tanta dolcezza.