Un Beckett politico?

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Un Beckett politico?
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TERRY EAGLETON*
Un Beckett politico?
(luglio-agosto 2006)
Nel settembre del 1941 uno degli artisti del XX secolo, in apparenza meno politicamente impegnato, decise di combattere in segreto il fascismo. Samuel Beckett che, per una coincidenza rivelatrice, considerato il suo celebre pessimismo, era
nato un Venerdì Santo (per di più un venerdì 13), viveva dal
1937 a Parigi in volontario esilio, come molti altri importanti scrittori irlandesi. Gli irlandesi, al contrario dei loro colonizzatori di un tempo, sono sempre stati un popolo cosmopolita, di cui i monaci erranti del Medioevo e i dirigenti del
Celtic Tiger sono esempio. Oppressi dal dominio coloniale,
alcuni diventarono nazionalisti, altri cittadini del mondo.
Joyce, Synge, Beckett e Thomas MacGreevy, che conoscevano già due o tre culture e lingue diverse, avrebbero dato il
meglio di sé nell’ambiente poliglotta e privo di radici del-
* Professore di Cultural theory all’Università di Manchester. In passato
si è dedicato allo studio dell’epoca vittoriana, attualmente si occupa di
letteratura del XIX e del XX secolo e di letteratura comparata. Tra i
suoi saggi più significativi si possono annoverare: Introduzione alla teoria letteraria (1983), Le illusioni del postmodernismo (1996), L’idea di
cultura (2000) e Figure del dissenso. Saggi su Fish, Spivak, Zizek e altri
(2003). I suoi ultimi libri sono: How To Read A Poem (2006) e The
Meaning of Life (2007).
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l’Europa modernista, anticipando di mezzo secolo i loro
compatrioti che si sarebbero integrati nell’Unione Europea.
Provenire da una Paese la cui lingua era un campo politico
minato, mai pienamente sicuro, rendeva più facile aderire a
un modernismo linguisticamente consapevole.
Nel 1940 Beckett si offrì volontario per guidare un’ambulanza dell’esercito francese, ma quando i nazisti invasero il
Paese fuggì verso sud, insieme alla moglie Suzanne, appena
quarantotto ore prima che le truppe tedesche entrassero a Parigi. Dopo una breve sosta nel campo profughi di Tolosa, i coniugi Beckett arrivarono sfiniti e quasi senza soldi a casa di un
amico ad Arcachon, sulla costa atlantica. Ma, qualche mese
dopo, attirati in parte dai racconti tranquillizzanti sul comportamento dei tedeschi nella capitale, fecero ritorno all’appartamento parigino, dove sopravvissero al rigido inverno
1940-41 mangiando quasi esclusivamente verdure. Secondo
James Knowlson, biografo ufficiale di Beckett, le animate discussioni che si svolgono fra Vladimiro ed Estragone in Aspettando Godot 1 su carote, ravanelli e rape si ispirano all’esperienza che Samuel visse durante la guerra. Dal ricordo di quel
periodo nascono anche i suoi personaggi: materialisti, volgari, troppo occupati a tenersi biologicamente a galla per abbandonarsi a qualcosa di grandioso come la soggettività. Sono più corpo che anima – assemblaggi meccanici di parti corporee, come accade nelle opere di Swift e Sterne o in Il terzo
poliziotto di Flann O’Brien, dove si racconta di scambi molecolari tra le biciclette e il corpo di chi le monta. Per Laurence Sterne, nato a Tipperary, il mistero del corpo umano, come
il mistero dei segni neri sulla pagina, risiede nel fatto che questo pezzo di materia inerte può oltrepassare la propria natura
– continuando a strisciare o piagnucolare, quando dovrebbe
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a rigor di logica essere muto e immobile come un sasso. Se
Beckett ha scelto come tema centrale del suo lavoro teatrale
Non io la bocca umana, lo ha fatto perché in essa significato
e materialità confluiscono misteriosamente.
Di ritorno a Parigi, Beckett si unì alla Resistenza. Il suo
crescente disgusto per il regime nazista aveva raggiunto infatti il culmine dopo che un suo amico ebreo era stato deportato in un campo di concentramento. E, con la generosità
che lo caratterizzava, donò le magre razioni alimentari di cui
disponeva alla moglie della vittima. Fra i fondatori delle cellula della Resistenza, forte di ottanta membri, cui Beckett apparteneva, c’era anche la figlia del celebre pittore dadaista
Francis Picabia, la temibile Jeannine che faceva parte del
SOE (British Special Operation Executive). Secondo i repubblicani che nell’Irlanda ufficialmente neutrale erano favorevoli ai nazisti, l’esule di Dublino era ormai in combutta
con il nemico. All’interno del gruppo gli fu affidato un ruolo consono alle sue capacità letterarie: oltre a tradurre e raccogliere testi, rivedeva e batteva a macchina le informazioni
trasmesse dagli agenti sui movimenti delle truppe tedesche,
che venivano poi messe su microfilm e fatte uscire clandestinamente dalla Francia. Talvolta le informazioni degli agenti
erano poco attendibili, come quelle del ragazzo di Aspettando Godot. Per il lavoro svolto in quegli anni pericoloso anche
se sedentario, Beckett fu insignito dopo la guerra della Croix
de Guerre e della Médaille de la Reconnaissance. La propensione al silenzio e alla segretezza, tratti evidenti della sua arte, si era rivelata una qualità estremamente utile per un partigiano.
Nonostante la prudenza, la copertura della cellula ben
presto saltò. Un compagno cedette sotto tortura, e più di cin369
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quanta membri del gruppo furono arrestati mentre molti venero deportati nei campi di concentramento. Benché fosse
stato loro consigliato di lasciare in fretta la capitale, i Beckett
decisero di rinviare la partenza per avvisare gli altri componenti. Suzanne fu arrestata dalla Gestapo, ma riuscì a cavarsela con un bluff. In seguito, i Beckett evitarono per un pelo
la cattura, scappando dall’appartamento solo pochi minuti
prima dell’arrivo della polizia segreta. Dopo aver vagato da
un alberghetto all’altro con nomi falsi, trovarono rifugio prima in casa dalla scrittrice Nathalie Sarraute e dopo, con documenti contraffatti, nel villaggio di Roussillon in Provenza,
dove furono scambiati per profughi ebrei.
Là nel 1944 Beckett si unì di nuovo alla Resistenza, nascondendo in casa esplosivi, imparando a usare un fucile, e
partecipando talvolta a imboscate notturne contro i tedeschi.
Il ricordo della vita errante di quel periodo affiora in Aspettando Godot, dove Vladimiro ed Estragone, come il loro creatore, sono costretti a dormire nei fossati pur non essendo due
barboni. Al ritorno a Parigi dopo la guerra, i Beckett si ritrovano al punto di partenza: deperiti e affamati come il resto
della popolazione. Talvolta Samuel ha difficoltà a tenere la
penna in mano perché le sue dita sono irrigidite dal freddo.
Sembra inoltre che in quel periodo abbia sofferto di un grave
esaurimento nervoso. Dieci anni prima aveva partecipato alle
sedute di psicoterapia di gruppo tenute da Wilfred Bion.
L’angoscia e l’esilio
Beckett è stato uno dei rari artisti modernisti a militare nella
sinistra anziché nella destra. E James Knowlon ha senza dub370
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bio ragione quando afferma che «molti tratti delle opere successive nascono direttamente dalla sua esperienza di profonda insicurezza, disorientamento, esilio, fame e povertà».2
Quella che emerge dai suoi lavori non è una «condizione
umana» fuori del tempo, ma la condizione dell’Europa del
XX secolo devastata dalla guerra. Come ha dichiarato Adorno, la sua è un’arte che viene dopo Auschwitz, che resta fedele al suo austero minimalismo e all’incessante desolazione
con il silenzio, il terrore e il non-essere. La prosa di Beckett
è così scarna da risultare a malapena comprensibile e ciò che
esprime non consente nemmeno di dare un nome a quello
che c’è di sbagliato in noi. Una storia assurda si mette faticosamente in moto solo perché sia interrotta da un’altra storia
altrettanto futile. La scrittura spoglia e desolata, che sembra
quasi scusarsi per gli importuni che arreca al lettore, rivela
uno spirito protestante contrario all’ostentazione e agli eccessi. Non a caso le parole guizzano per un breve momento
dal vuoto per ripiombarci subito dopo. Scarsità e precisione
sono i modi per accostarsi di più alla verità. Contrapponendosi all’amico James Joyce, che tende ad arricchire il proprio
materiale narrativo, Beckett dichiarò una volta di essersi reso conto che il proprio modo di scrivere consiste «nell’impoverire, nel non fornire conoscenza, nel sottrarre anziché
aggiungere».3 Come il suo compatriota Swift, Beckett sembra provare un selvaggio piacere nel ridurre il più possibile.
L’arte di Beckett resta fedele alla sconfitta e si contrappone al trionfalismo nazista, distruggendone l’assolutismo letale con le armi dell’ambiguità e dell’indeterminatezza.
Beckett, la cui parola preferita a suo dire era «forse», oppone la frammentarietà e l’incompletezza al totalitarismo megalomane del fascismo. Come Socrate, preferisce l’ignoranza
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alla conoscenza, probabilmente perché fa meno vittime. Nelle sue opere si avverte la triste e ironica consapevolezza che
esse avrebbero potuto non nascere – che la loro esistenza è
gratuita come il cosmo stesso – ed è proprio questo tragicomico senso di contingenza che può essere contrapposto alla
nefasta mitologia della necessità.
Al pari di molti scrittori irlandesi, dal grande filosofo e
teologo medievale Scoto Eriugena a Edmund Burke con la
sua estetica del sublime, da Flann O’Brien al filosofo irlandese contemporaneo Conor Cunningham,4 Beckett, accanito lettore di Eraclito, nutriva un profondo interesse per il
concetto di nulla – un fenomeno alquanto innocuo «considerando», come osservava Sterne, «quante cose peggiori ci
sono al mondo». «Noi irlandesi», scriveva il vescovo Berkeley,
«siamo inclini a ritenere che qualcosa e niente siano concetti simili.»
Il mondo rarefatto di Beckett, popolato da personaggi di
un’allarmante magrezza lacaniana, esiste in qualche luogo di
quella regione crepuscolare, come forma di anti-letteratura
allergica a ogni vanità retorica o sovrabbondanza ideologica.
Quando Godot andò in scena a Londra per la prima volta nel
1955, il pubblico gridò scandalizzato: «Ecco come abbiamo
perso le colonie!»
Delusioni irlandesi
Eppure lo stile scabro e impalpabile di Beckett, più vicino alla lingua di Cartesio e Racine che a quella di Shakespeare, è
anche una reazione alla fiorita retorica di un nazionalismo
molto meno intransigente di quello hitleriano: il repubblica372
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nesimo irlandese. Come in Joyce, a dispetto dei lunghi anni
di lontananza dalla patria, l’identità irlandese si era mantenuta viva anche in Beckett che aveva un debole per quello
che, a suo avviso, era un genere particolarmente irlandese di
disperazione e vulnerabilità. Samuel era sempre felice di bere in compagnia di un compatriota di passaggio a Parigi. Il
suo cupo umorismo e il suo spirito satirico (un’opera giovanile era intitolata Dream of Fair to Middling Women, «Sogno
di donne belle e meno belle») sono tratti culturali e al contempo personali. I paesaggi brulli e immobili delle sue opere
fanno pensare ad Auschwitz, ma sono anche un ricordo subliminale dell’Irlanda colpita dalla carestia, con la sua logora
e monotona cultura coloniale e le masse ostili in apatica attesa di una liberazione messianica che non arriva mai. A questo proposito, nel nome «Vladimir» è forse presente una particolare ironia.
In quanto protestante dell’Irlanda del Sud, discendente
da profughi ugonotti del XVIII secolo, Beckett apparteneva
a una minoranza straniera oppressa anche dal punto di vista
culturale. Le grandi case di queste minoranze furono spesso
bruciate durante la guerra d’indipendenza e molti dopo il
1922 si dovettero rifugiare nelle Home Counties. Circondati
da quella che l’ascetico studente del Trinity College, appartenente al ceto medio di Foxrock, definiva con disprezzo boriosa intolleranza gaelica, i protestanti del Sud si trovarono in
seguito intrappolati nel provincialismo cattolico dello Stato
libero d’Irlanda. Le ultime parole che il padre gli aveva detto prima di morire furono: «Lottare, lottare, lottare!» Si riferiva forse alla lotta politica, ma aveva poi smorzato il suo fervido appello aggiungendo, con notevole understatement:
«Che splendida mattinata!» Questa discesa dal sublime al ri373
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dicolo è degna di suo figlio. Nel 1933, un anno dopo che era
asceso al potere il teocratico e autoritario De Valera, Beckett,
ormai isolato e profugo in patria, partì per Londra, lasciando l’Irlanda dove avrebbe trascorso solo altri due anni della
sua vita. Come tanti emigranti interni, si sentiva senza radici
all’estero così come in patria. La tradizionale alienazione dell’artista irlandese avrebbe potuto trasformarsi nella seducente «angoscia» dell’avanguardia europea. L’arte o il linguaggio
avrebbero potuto sostituire l’identità nazionale, un fenomeno probabilmente deriso nei cosmopoliti caffè bohémien
perché ritenuto obsoleto nonostante all’orizzonte si andasse
profilando il nazionalismo più nefasto dell’epoca moderna.
Tuttavia nella delusione di Beckett per quella che oggi definiremmo irlandesità c’è un aspetto tipicamente irlandese. In
primo luogo, niente è più irlandese della demistificazione. In
secondo luogo, il rifiuto di Beckett nei confronti della sua nazione, come quello di Joyce, era di natura intima e familiare.
Insultarsi è un’antica usanza del popolo irlandese, e può praticarla solo chi ne fa parte (e non certo gli inglesi). L’insulto in
Irlanda è un fenomeno innato come l’espatrio. Molti dissidenti irlandesi sono stati nazionalisti alla rovescia, proprio come la Chiesa cattolica irlandese fa prosperare l’ateismo. Anticonformista, emarginato e assediato da un nuovo dogmatismo culturale, Beckett, al pari di Wilde, trovò il modo di trasformare la propria esclusione dovuta all’origine protestante
in una profonda fedeltà alla privazione. Da Wolfe Tone e
Thomas Davis a Parnell e Yeats, gli esempi di irlandesi protestanti «convertitisi» a cause radicali sono numerosi.
Ciò che in Beckett contribuisce a ridimensionare la gonfia retorica è anche ciò che demistifica il rassicurante sentimento umanistico. È l’espediente disumano della combina374
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zione, nella quale pochi e scialbi elementi vengono rigorosamente permutati in una impersonalità asettica che in seguito
sarebbe stata riassorbita sotto le insegne dello strutturalismo.
Nell’arte di Beckett c’è uno scrupolo monacale, una meticolosità ossessiva che ricorda, fra le altre cose, il caparbio razionalismo protestante. Un tratto simile lo ritroviamo in
Yeats, come lui appartenente alla borghesia protestante di
Dublino, le cui sognanti fantasie celtiche sono molto vicine
al mondo nevroticamente sistematizzato della magia. Il Molloy di Beckett mette le pietre da succhiare in una serie di tasche appositamente cucite nei vestiti e sposta ogni pietra che
succhia in una tasca diversa, rispettando una rigida sequenza. Molloy ricorda Walter Shandy, il filosofo pazzo di Sterne,
o gli inventori folli di Jonathan Swift. Il razionalismo, portato all’estremo, si trasforma nel suo opposto. Questo genere
di satira risale all’antica tradizione irlandese, dominata culturalmente da un idealismo filosofico che ha ostacolato lo
sviluppo del razionalismo o di un vero empirismo.
Nelle sue opere, Beckett rimescola ingegnosamente sempre i medesimi brandelli e avanzi con una parsimonia di gesti che, dal punto di vista teatrale, è al contempo profondamente coinvolgente e rivoluzionaria. Chi legge un suo romanzo o assiste alla rappresentazione dei suoi drammi si ritrova più povero e insieme più onesto. Quello che colpisce
maggiormente è la straordinaria precisione con cui questo
presunto oscurantista descrive il vento e la forza con cui scolpisce il vuoto e cerca, come dice egli stesso, di «fottere l’ineffabile». La sua ossessiva scrupolosità elimina anche le più
sottili sfumature da quella che sembra pura mancanza di forma. Il materiale di Beckett può essere grezzo e casuale, ma il
modo in cui è trattato è altamente stilizzato, almeno quanto
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molta produzione artistica anglo-irlandese, e ricorda l’eleganza e l’economia di un balletto. Sembra quasi che l’intera
impalcatura formale della verità, della ragione e della logica
sia rimasta intatta, nonostante i contenuti siano scomparsi da
tempo. Senza dubbio si tratta di un antidoto alla bizzarria
gaelica, ma anche di un’eredità della tradizione scolastica
della Chiesa cattolica irlandese.
Nel mondo dopo Auschwitz tutto è ambiguo e vago, e ciò
rende difficile capire perché il dolore fisico debba essere così brutalmente persistente. Il mondo è vago non solo perché
non vi accade quasi nulla, ma anche perché non si può mai
essere sicuri che qualcosa stia accadendo e del resto nemmeno si ha la certezza di cosa sia un evento. Aspettare significa
agire oppure sospendere l’azione? Certo, l’attesa è una sorta
di rinvio; ma, secondo Beckett, questo è vero anche per l’esistenza umana, che al pari della «differenza» di Derrida va
avanti soltanto grazie al perpetuo rinvio di un significato definitivo. In Finale di partita, Clov dice che possiamo solo sapere che «qualcosa sta facendo il suo corso», con la forza irresistibile di una teologia che non ha più un fine cui tendere.
Il rifiuto della finalità
Forse il significato ultimo è la morte; un evento da desiderare ardentemente in un mondo in cui il solo antidoto alla sofferenza è l’abitudine, oggi declassata da venerabile costume
burkiano a riflesso condizionato. Eppure nell’opera di
Beckett la morte è assente, piuttosto c’è un costante disfacimento del corpo che progressivamente si sfalda e si irrigidisce. Per i suoi personaggi svuotati di tutto, la morte sarebbe
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un evento troppo grandioso e definitivo da affrontare. Persino il suicidio richiede un senso di identità a loro superiore. I
personaggi di Beckett sono impossibilitati a morire, esattamente come i protagonisti delle commedie, di cui però non
possiedono né l’intraprendenza né la costitutiva giovialità.
Ma non possono nemmeno innalzarsi alla condizione del
personaggio tragico, che pure offrirebbe una forma di ricompensa. Sono bravi solo a inanellare una papera dietro
l’altra, sciupando il loro grande momento e lasciandosi distrarre da una forcina o da una bombetta. L’aulico discorso
metafisico di Lucky va in pezzi non appena esce dalla sua
bocca. Siamo in presenza non tanto di uno spettacolo drammatico quanto di una farsa o di una cupa carnevalata.
Senza dubbio l’arrivo finale di Godot rappresenterebbe
un evento importante. Ma in questo mondo di estrema povertà concettuale in cui c’è poco da capire, anche qualora arrivasse, chi potrebbe riconoscerlo con sicurezza? Forse Godot è in realtà Pozzo. Vladimiro ed Estragone potrebbero
aver capito male il suo nome. O forse questo angoscioso arresto del tempo, in cui il passato è cancellato e noi dobbiamo
reinventarci partendo ogni volta da zero, è l’arrivo di Godot,
allo stesso modo in cui per Walter Benjamin è il catastrofismo della storia ad annunciare con la sua negatività l’imminente arrivo del Messia. Forse nessun altro evento importante ha mai richiesto a gran voce la redenzione. Secondo una
tradizione del pensiero messianico, il Messia cambierà il
mondo apportando solo piccole modifiche.
Ma il problema è che l’universo di Beckett, che pure sembra un luogo dove l’idea di redenzione ha veramente un significato, ne è al tempo stesso dolorosamente privo. Al centro di questa deplorevole condizione c’è un buco che assume
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la forma di significato, perché il modernismo, a differenza
dell’imberbe postmodernismo suo erede, è abbastanza vecchio da ricordare un’epoca colma di verità e realtà, ed è ancora tormentato dalla loro scomparsa. Il pericolo di un eccesso di nostalgia è scongiurato dal fatto che la memoria e
quindi l’identità, sono crollate con tutto il resto. Possiamo
consolarci solo pensando che, se la realtà è davvero indeterminata, allora la disperazione è impossibile. In base alla logica, un universo indeterminabile non può non lasciare spazio
alla speranza. Se non esistono valori assoluti, non si ha né la
certezza che Godot non verrà né che i nazisti trionferanno.
Se il mondo è provvisorio, lo è anche la nostra conoscenza –
pertanto nessuno può dire se questa massa di personaggi
stravaganti, di storpi e di teste pelate, vista da una diversa
prospettiva, non sia in realtà in bilico sull’orlo della trasfigurazione.
Aggrapparsi alla possibile redenzione ha almeno un vantaggio: permette di capire quanto ne siamo lontani. A volte
Beckett è stato accusato di nichilismo, ma se nel suo universo non ci fosse il senso del valore non ci sarebbe ragione di
strillare e lamentarsene tanto. Senza il senso del valore, non
potremmo neppure mettere in discussione la nostra sofferenza e riterremmo normale la nostra triste condizione. Ma
questo valore non può essere espresso apertamente perché
c’è sempre il rischio che sia ideologizzato o gonfiato fino a
conferirgli l’aspetto di un umanesimo sentimentale, che sarebbe parte del problema anziché la sua soluzione. Il valore
deve invece manifestarsi in modo negativo, nell’incrollabile
lucidità con cui lo scrittore affronta ciò che non può essere
espresso. Il distacco necessario per una simile trattazione è lo
stesso della commedia e della farsa. Come spesso accade nei
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testi irlandesi, il valore si trova anche in quella trascendenza
momentanea e inspiegabile di un mondo cupamente oppressivo, che chiamiamo intelligenza. La follia, la pedanteria, il
corpo, l’autoironia, l’arbitrarietà, la ripetizione infinita, la riduzione meccanicistica: sono tutti riflessi di una tetra visione
dell’esistenza, che può essere anche molto divertente, e perciò perfettamente congeniali a questo maestro comico del
postumano. Uno dei motivi per cui Beckett finisce per essere un commediante è il suo rifiuto della tragedia come forma
ideologica. Al pari di Freud e Adorno, anch’egli sapeva che i
realisti austeri dallo sguardo triste servono la causa dell’emancipazione umana più fedelmente degli utopisti dallo
sguardo radioso.
1. Knowlson, Damned to Fame: The Life of Samuel Beckett, Londra
1996, p. 361.
2. Ivi, p. 416.
3. Ivi, p. 417.
4. Vedi Conor Cunningham, Genealogy of Nihilism, Londra 2002.
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