In difesa di Ottone Rosai

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In difesa di Ottone Rosai
ARMANDO PUGLISI
IN DIFESA
DI
OTTONE ROSAI
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marzo 1981
Un giorno di settembre del 1980 andai ad Acqui Terme per visitare la mostra antologica di
Ottone Rosai.
Appena entrato nell'edificio che l'ospitava, il primo quadro che mi colpì, anche per le sue grandi
dimensioni, fu “Il gobbo alla finestra”, del 1937.
Non sapevo che "Crepitus" (il gobbo), descritto da Rosai nel suo libro -"Via Toscanella"- del
1930, avesse una versione pittorica, posteriore di circa 10 anni.
Cercai di stabilire quali fossero i punti di contatto e diversità tra le due figure: il gobbo
letterario ha una “faccia da ippopotamo” (dalla cui "bocca escono le più nere sentenze"), il tronco
supe-riore di lunghezza normale e quello inferiore accorciato dall'attacco anticipato delle gambe,
mentre in quello pittorico la faccia è una specie di triangolo isoscele dal cui lato minore si staccano
un naso a forma di cuneo e una bocca violacea, quasi una cicatrice cucita, mentre identica è la
rappresentazione del corpo sia nella parte superiore che inferiore.
Mi posi la domanda: quale il significato del gobbo pittorico?
Mi si affacciò alla memoria che il mito della razza, coltivato durante tutti gli anni trenta da
correnti minoritarie del partito fascista, diventò negli anni '37-38 precisa azione di governo con
l'approvazione, da parte del “Consiglio dei Ministri”, di atti legislativi a tutela della purezza del
sangue.
Sorretto da questo ricordo, riguardai e rilessi con più attenzione il dipinto.
L'ampia stanza rappresentava il luogo di detenzione nel quale il regime racchiudeva e isolava i
perseguitati della sua politica razziale e il gobbo, ritratto con la gamba e il braccio appoggiati,
rispettivamente, sopra il giacilio di pietra e il davanzale della finestra, per dilatarne l'immagine e
colmare il nudo carcere, stava a significare che non esisteva una razza italica da tutelare dalla
contaminazione delle altre razze, semmai che anche il figlio più sfortunato delle razze migliori
possedeva tanto orgoglio da poter schernire coloro che ne mutilavano l'umanità.
La collina, i prati, la grande casa seminascosta dai cipressi che si profilavano al di là dell'ampia
finestra e che racchiudevano, cingendolo di soffusa bellezza, il volto tagliente dello sfortunato, rive
lavano che natura e umanità trepidavano per la sua sorte.
Dopo questa lettura mi fu facile rispondere alla domanda che mi ero posto: “Crepitus”
rappresentava una delle condanne più vigorose che mai artista, operante in Italia sotto il fascismo,
avesse osato fare, in nome di ideali umani e di dignità individuale, contro aberranti scelte politiche
operate congiuntamente dal partito e dallo stato autoritari.
Proseguii la visita della mostra, rivedendo quadri che avevo già visto in precedenti occasioni e altri
che non conoscevo. Sui primi posavo fugace lo sguardo quasi a risalutarli, mentre ai secondi
dedicavo un’attenzione maggiore.
Fra questi ultimi, mi soffermai su “L'adunata” del '33 e su "Il vecchio Eliseo" del '34.
“L'adunata” mi colpì per l'audacia con la quale Rosai presentava un momento ufficiale di vita
fascista.
II gerarca in primo piano, che occupava un terzo della superficie del quadro, colto in una delle tante
adunate-comizio che si tenevano a quel tempo nelle piazze d'Italia, con il braccio alzato nel
"saluto romano", nell’esasperazione dei tratti fisici e del gesto era un personaggio tronfio e
grottesco.
I convenuti, tutti aderenti al fascismo, disposti ad arco a metà piazza, rimpiccioliti e sfuocati,
con le mani in tasca e le gambe divaricate in posizione di riposo, contrastavano con la posizione di
parata e la definita figura del gerarca in primo piano.
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II movente ispiratore del quadro mi sembrava chiaro: l’alto gerarca di regime, pur esteriormente
compreso della “missione storica” che era chiamato a svolgere, intimamente non ne era convinto,
e pertanto non era in grado di convincere nemmeno gli iscritti al fascismo sulla bontà dei valori che
predicava, né di convogliare su di essi un minimo d’attenzione . Di qui la grottesca caricatura del
gerarca-duce, la sguaiata esaltazione del rituale che compiva, l’irriverente partecipazione al suo
declamare degli aderenti al partito, la loro esigua presenza numerica e l’isolamento che li
circondava per l’assenza di partecipazione popolare.
Mi ricordo di essere tornato più volte di fronte al quadro, quasi non convinto dell’ evidenza
esasperata del suo contenuto.
“Il vecchio Eliseo” mi attrasse perché sapevo che era stato esposto ad una importante mostra
ufficiale: "Quadriennale" di Roma 1935.
Eliseo stava davanti a me con le scarpe rigonfie, i pantaloni che gli scendevano come due grossi
cilindri, la giacca chiusa sul davanti che saliva, nascondendo il collo, fino al mento, il cappello
calcato sulla fronte.
L'abito dimesso, di colore blu uniforme, mi informava che Eliseo era un contadino-operaio,
sceso in città da qualche borgo per guadagnarsi il pane.
Rosai l'aveva colto alla fine della giornata quando era stanco, le spalle arcuate, più che dal peso
degli anni, da quello delle braccia e delle mani spossate dalla fatica e penzolanti pesanti e inermi
lungo i fianchi, gli occhi chiusi per l'esigenza di riposo.
Eliseo era un rappresentante di quella "razza" "povera" e "bistrattata" che in "Via Toscanella"
Rosai descriveva come ostinata a "vivere secondo… leggi che… vennero da epoche… lontane",
secondo "l'onestà francescana".
Sostando davanti al quadro capivo che il pittore, oltre a rappresentare un simbolo, aveva voluto
inviare un messaggio.
Quale significato attribuire, infatti, alle dimensioni con le quali era stato dipinto il soggetto,
insolite rispetto a quelle rimpicciolite, usualmente utilizzate dall'artista per rappresentare gli uomini
e le donne? Ancora: quale significato dare al contadino-operaio colto non già in un momento del
suo lavoro, ma durante la posa nello studio del pittore, quasi a dimostrare, provocatoriamente, che
anche un umile lavoratore era degno di un ritratto ufficiale?
Le risposte riuscii a darle mettendo in relazione il dipinto con la sua destinazione alla
"Quadriennale".
Rosai voleva che Eliseo dalle sale della "Quadriennale" rivelasse essenzialmente due cose:
1) l’esistenza di un mondo sociale impermeabile all'ideologia e alla prassi fasciste;
2) l'indisponibilità della sua arte ad essere veicolo dei valori di regime.
Ero contento di aver approfittato della visita alla mostra per arricchire la mia conoscenza
sull'opera di un pittore che già stimavo.
Quando sopraggiunse il momento della chiusura meridiana, prima di abbandonare le sale,
comprai il catalogo delle opere.
Varcai la soglia, scesi i pochi gradini che mi dividevano dalla strada e cominciai a sfogliare il
catalogo e a leggere, qua e là, la presentazione dal titolo: "Ricordo di Rosai" di Luigi Carluccio1.
Leggevo: “c’è sempre nelle immagini pittoriche di Rosai l’espressione di un profondo
risentimento, quasi di stizza o di corruccio perché essi (‘i suoi modelli, gli uomini) accettano le
condizioni imposte dalle circostanze della loro esistenza senza un accenno alla ribellione”, e poco
più sopra; “Il suo forte istinto popolaresco lo metteva sempre dalla parte del rischio. Sempre in
prima linea; con i pazzi di ‘Lacerba’…; con i futuristi; con gli arditi in guerra; con i fascisti in pace,
fin-tantoché… non dovette prendere atto che la guerra per la vita è, come lui stesso ha scritto: ‘...
guerra di insidie e di patimenti, lunghi più dell’eterno’”.
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Luigi Carluccio -1911-1981- Fin da giovanissimo si interessò di arte frequentando in via Po a Torino la galleria
Codebò dove incontrò e strinse amicizia con Luigi Spazzapan. Negli anni trenta fondò la rivista “Arte cattolica”. Negli
anni ’60-’70 per la Galleria D’Arte Mo- derna di Torino curò due importanti mostre: “Le Muse Inquietanti. Maestri del
Surreali- smo”; “Il Sacro e il Profano nell’Arte dei Simbolisti”. Nella seconda metà dello stesso decennio collaborò con
Marcello Levi nella gestione del “Deposito d’Arte presente”.
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Quasi incredulo di quanto leggevo, mi avviai verso una panchina del giardino pubblico
adiacente alla mostra e intanto mi chiedevo: come può un critico “importante” scrivere che gli
uomini di Rosai non accennano un atto di ribellione?; come può stemperare, fino ad annullarla, la
funzione antifascista che Rosai impresse all'arte della maturità?
Fui assalito da un dubbio: ero io nel torto?
Mi sedetti, cercai di ricordare le date e i periodi salienti che avevano caratterizzato la vita di
Rosai: nato nel 1895; nel 1913 aderisce al futurismo; nel ‘14 diventa interventista; dal 1915 al ‘18
partecipa alla guerra; dal ‘19 o dal ‘20 fino a dopo la “marcia su Roma” rimane fascista. Un
momento di pausa per cercare nelle letture “segrete” il proseguo della ricostruzione; poi mi vennero
in mente le parole scritte da Ernesto Rossi: “Ottone Rosai era stato squadrista ma dopo l’assassinio
Matteotti aveva avuto una crisi di coscienza ed era venuto con noi. Non faceva parte dell'Italia
Libera, ma funzionava come franco tiratore… aveva due enormi pugni che sembravano fatti per
abbattere i buoi”.
Pensando alla Firenze di quegli anni rivedevo vividamente i fatti che ne caratterizzarono la vita
politica.
Ricordavo che negli ultimi giorni del '24, in risposta all'attività dell'opposizione fiorentina, era
avvenuta una manifestazione fascista che, con il concorso dello squadrismo armato toscano, era
sfociata in gravi episodi di violenza: distruzioni di sedi di giornali, di studi di avvocati liberali e
socialisti e della sede di “Italia Libera". Ricordavo che nel corso del '25 le energie migliori di
“Italia
Libera” avevano dato vita al “Non Mollare” che si distinse per la riproduzione e divulgazione del
“memoriale Filippelli” che chiamava in causa Mussolini quale mandante dell’assassinio Matteotti e
che in risposta a tali attività, nell’ottobre dello stesso anno, si era scatenata da parte fascista la
caccia al “massone”, culminata con l’eccidio di eminenti personalità, tra le quali il deputato
socialista Gaetano Pilati, freddato nel letto accanto alla moglie.
Sulla traccia di questi episodi e con l’aiuto di quanto Pietro Santi aveva scritto nel suo libro “Ritratto di Rosai”- sull’abbandono dell’attività pittorica negli anni che vanno dal ’24 al ’27, per
dedicarsi alla ditta artigiana ereditata dal padre, arguii che il pittore si era allontanato dalla
partecipazione attiva alla lotta antifascista verso la fine del’24 o non oltre i primi mesi del ’25.
A differenza quindi di altri compagni di lotta, quali Gaetano Salvemini, Carlo Rosselli, Ernesto
Rossi, che nell’ora della vittoria del fascismo scelsero la strada della suprema coerenza, Rosai aveva
abbandonato l’opposizione per ritirarsi a vita privata, occupandosi di produzione e vendita di
mobili.
Ero sereno quando lasciai la panchina e il giardino e durante il breve tragitto alla macchina, che
mi doveva riportare a Torino, poiché già sapevo che, se l’itinerario successivo di Rosai non era stato
coerente come quello dei pochi illustri compagni di strada, esso non rappresentava un ritorno al
fascismo, ma un procedere verso l’opposizione artistica e la fronda culturale.
Sapevo che il ritorno all’attività artistica coincideva con la stesura del libro “Dentro la Guerra”,
la cui ostilità al regime mi era nota poiché la sua pubblicazione su il “Lavoro fascista” fu interrotta
dal “Ministro della Stampa e Propaganda” e dalle diffidenze che sollevò in molti amici nei quali la
fede fascista non era mai venuta meno e che dopo il successo ottenuto nel ’30 con l’esposizione
nella galleria “Il Milione” di Milano, Rosai -invece di approfittarne- si era “ritirato a maggior
solitudine”.
Sapevo che, negli anni che precedettero il secondo conflitto mondiale, Rosai frequentava
uomini che erano in sospetto di antifascismo e che durante la guerra aveva partecipato alla lotta di
Liberazione in modo quasi diretto, ospitando, nella sua casa-studio, dei gappisti.
Lungo la tortuosa strada del ritorno (per vedere i paesaggi di Pavese avevo scelto di passare per
Alba), mi interrogavo sul perché il critico avesse sminuito la figura e l’opera di Ottone Rosai.
Perché aveva sentito l’esigenza di porre “l’istinto popolaresco”, che pur Rosai possedeva in larga
misura, al servizio della destra?
Era innegabile che una componente popolaresca nelle istanze della destra fosse esistita.
Gramsci in una sua lettera a Trotskij, descriveva il futurismo degli anni anteguerra come
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“antiaristocratico” e capace di aggregare, nelle manifestazioni che teneva nelle varie città,
consistenti nuclei operai, attratti (aggiungevo) da quel tanto di dissacratorio dei valori perbenisti e
tradizionali che lasciavano spazio anche alle ipotesi sociali, antiborghesi e “rivoluzionarie”.
L'interventismo, a partire dalla guerra di Libia, aveva saputo attirare numerosi esponenti
intellettuali del “sindacalismo rivoluzionario” i quali avevano tentato, anche se in modo balordo, di
coniugare il “verbo” espansionista e imperialista con la prospettiva di miglioramento delle classi
popolari.
II fascismo della prima ora era pervaso da istanze popolari. II programma "sansepolcrista" del
'19 era addirittura più avanzato di quello socialista degli stessi anni e tale da conservare, a oltre
cinquanta anni di distanza, una sua validità per un qualsiasi appartenente alla sinistra.
Date tali premesse, era indubbio che il giovane pittore si fosse lasciato coinvolgere
nell’avventura futurista, interventista, fascista proprio in virtù del suo “istinto popolaresco” e
Carluccio aveva ragione a coglierne il nesso e a metterlo in evidenza. Ma Rosai non era stato solo
futurista, interventista, fascista, poiché si era dimostrato capace di partecipare alle rischiose attività
di “Italia Libera” e di rimettere in discussione tutta la precedente esperienza. Una rottura questa che,
per quanto sollecitata dal delitto Matteotti, non poteva essere il risultato di una folgorazione ma
piuttosto frutto di precedenti, sofferte, meditazioni. Meditazioni che era stato costretto a fare negli
anni che videro l’evoluzione del fascismo da movimento e crogiuolo di istanze disparate a partito
dell'alta borghesia, degli agrari, della casta militare e poi a governo d'ordine negatore degli interessi
popolari. Una evoluzione che bruciava dal momento che per l'autodidatta rappresentava la scuola
dove la sua intelligenza era stata chiamata a decifrare fatti e atteggiamenti contradditori che solo
con sofferenza e fatica gli aveva permesso di acquisire giudizi e comportamenti meno ingenui.
Alla luce di questi ragionamenti mi appariva chiaro che il torto di Carluccio non consisteva nel
porre “l'istinto popolaresco” di Rosai al servizio della destra, ma nel trascurare che quell’istinto si
era purificato nel corso dei primi anni di dittatura e che si era fatto coscienza capace non solo di
ripudiare le precedenti posizioni, ma anche di fornire i presupposti alla successiva azione pittorica,
contro il regime.
Quasi a cercare diretta conferma di quanto andavo pensando, andai a rivisitare la mostra. Vivo
era il ricordo dei quadri che avevo visti e per quanto girassi lo sguardo sulle pareti dei locali che li
ospitavano, sempre mi incontravo con uomini -raramente con donne- appartenenti al popolo.
Popolo: “Il gobbo alla finestra”, “Il vecchio Eliseo”; popolo: “Donne al lavoro”, “Giocatori di
toppa”; popolo, i bevitori protagonisti di “Interno con figure” e “Interno d’osteria”; figli di popolo:
“I soldati”, “I preti”, semplici e bonari.
Che Rosai rappresentasse questi popolani indifferenti, assenti, ostili al fascismo, anche contro
la verità storica -dal ’30 al ’39 la stragrande maggioranza degli italiani aveva aderito al fascismo,
costituiva segno tangibile che il pittore li aveva voluti animare della capacità di resistere alle
variegate pressioni ideologiche e fisiche a cui, in quegli anni, erano sottoposti. In una situazione in
cui la demagogia ufficiale dava i problemi economico-sociali come risolti dal corporativismo, la
volontà di Rosai di presentare figure di popolani sfruttati e degradati, anche culturalmente, stava ad
indicare che persisteva, ben al di là della ipocrisia ufficiale, una sorda oppressione di classe che
impediva al popolo di soddisfare fondamentali esigenze materiali e spirituali.
Questa oppressione faceva presagire che, per quanto latente, incombeva un acuto conflitto di
classe che si sarebbe manifestato appena si fossero create le condizioni che avessero consentito al
popolo di passare dalla resistenza passiva a quella attiva contro il regime.
Che queste implicazioni, rilevabili dalla semplice lettura dei quadri della mostra, fossero
sorrette dal vecchio “istinto popolaresco”, mi sembrava evidente, dal momento che Rosai,
attraverso la sua pittura, continuava da posizioni di minoranza a “menare botte” alle classi
dominanti, anche se in modo non più “fisico”, ma culturale e morale.
Rivisitando la mostra mi ero convinto che anche coloro che non avessero saputo che nel '24
Rosai si era allontanato dal fascismo non avrebbero potuto ravvisare nei suoi personaggi solo
passiva rassegnazione, né supporre che “l'istinto” che li aveva ispirati fosse di destra.
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Da quel momento nacque in me il dubbio che Carluccio avesse voluto relegare “l'istinto
popolaresco”, che aveva animato Rosai, in tale ambito per negare che gli uomini che aveva dipinti,
nascevano da un irriverente antifascismo e da una latente ispirazione democratica.
La strada, ormai si era fatta pianeggiante e dritta e la macchina correva verso Torino.
Arrivato a casa,cominciai a leggere la presentazione. Man mano che procedevo nella lettura, mi
rendevo conto che per spiegare vita e arte di Ottone Rosai, Carluccio aveva precostituito una
tesi che si articolava sui seguenti punti:
1) negli anni '30 la stampa cattolica costituiva un’informa-zione anticonformista;
2) i primi dubbi sul fascismo Rosai li manifestò nel 1934 a Carluccio dopo che l'anticonformismo
cattolico aveva avuto modo di manifestarsi e il critico aveva fondato una rivista d’arte -“Arte
Cattolica”- ed espresso giudizi positivi sui disegni del pittore;
3) Rosai, giunto alla fine della vita, ad Ivrea (in riva al lago di Viverone) aveva reso palese la sua
simpatia per l'assistenzialismo cattolico.
Contrariato dalla tesi di Carluccio, mi proposi di impegnarmi per dimostrare a me stesso la sua
dubbia credibilità.
Muovendomi per la stanza, pensavo: prima della “marcia su Roma” la Santa Sede, pur di
impedire una possibile alleanza dei cattolici con i socialisti riformisti in funzione antifascista, non
aveva esitato ad incoraggiare, occultamente, l’azione ostruzionistica dei conservatori che operavano
all'interno del partito Popolare di don Sturzo e a favorire la creazione di nuove associazioni
cattoliche al fine di indebolirlo; dopo la "marcia su Roma", pur di facilitare l’instaurazione della
dittatura, non si fece scrupolo di condannare pubblicamente il liberalismo, il socialismo, il
modernismo giungendo fino a farsi carico della decapitazione del partito Popolare. Ma se la Santa
Sede, pur di favorire l’instaurazione del fascismo, aveva tramato contro le istituzioni democratiche,
laiche e cattoliche, che operavano sul terreno sociale e politico, facilitando il manganello fascista a
compierne una sistematica distruzione, aveva parimenti proceduto, al fine di preservare la dittatura
da una eventuale opposizione cattolica, a relegare 1’attività dei cattolici nell'ambito puramente
religioso, ponendola alle dipendenze e sotto stretto controllo della gerarchia ecclesiastica.
E quando -nel’29- il fascismo, per ricompensare la Santa Sede dell'aiuto datogli, ne ebbe
pienamente soddisfatto gli interessi materiali, con laute concessioni di soldi e beni, Pio XI si
affrettò a definire il Duce “l'uomo della Provvidenza” e a impegnare il prestigio della Chiesa per
dare perfezione alla dittatura e convogliare verso questa il consenso pieno dei cattolici. E se
nell'ambito della diversa interpretazione che i due poteri davano agli accordi raggiunti con i “Patti
del Laterano”, pochi anni dopo -nel '31-, si crearono tensioni fra Santa Sede e governo fascista sui
diritti che spettavano all'autorità ecclesiastica sull’educazione della gioventù e ruolo dell’Azione
cattolica, tali tensioni non erano mancate di concludersi, con soddisfazione delle parti, con un
nuovo accordo parti-colare.
Alla luce della verità storica, la pretesa, formulata da Carluccio nel primo punto della tesi, di
attribuire alla stampa cattolica una informazione anticonformista, era semplicemente sbagliata, dal
momento che, sotto il pontificato di Pio XI, dopo la decapitazione del partito Popolare e
l’accentramento del controllo da parte della gerarchia sull'attività dei cattolici, avvenuti già nel '23,
alla stampa cattolica -centrale e periferica- non furono consentiti atteggiamenti che non fossero
conformi alle direttive della Santa Sede e quindi ispirati a gretta collaborazione fra cattolici e
fascisti.
Altrettanto sbagliato mi appariva il secondo punto poiché ero sicuro che nel pittore i dubbi sul
fascismo non potevano essergli affiorati dopo il 1924 essendo, necessariamente, stati causa della
sua partecipazione alle attività di “Italia Libera” e tanto meno li avrebbe potuti confidare, primo fra
tutti a Carluccio negli anni ’30, essendo stati conosciuti ben prima, quanto meno, da Ernesto Rossi.
Ma ancora più questo punto mi appariva inaccettabile poiché ritenevo impossibile che la rivsta
d’arte che il critico aveva fondata, in sintonia con la coeva stampa cattolica, potesse -per i motivi
ampiamente esposti- comprendere e valorizzare l’antifascismo autentico che informava le opere di
Rosai.
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Ormai pronto ad affrontare l’ultimo punto, pensavo: la formazione che l’adolescente e il
giovane Rosai aveva ricevuto non era stata quella dei suoi coetanei figli della piccola borghesia che
venivano avviati alla promozione sociale attraverso ginnasio e liceo, bensì quella che si impartiva
agli artigiani e agli operai specializzati nei luoghi di produzione. Questa formazione durata anni non
gli aveva fornito solo conoscenze tecnico-professionali dal momento che gli aveva fatto conoscere
anche le fondamentali aspirazioni di giustizia sociale che condividevano molti lavoratori con i quali,
dentro e fuori i luoghi di lavoro, era stato in contatto.
Quando il giovane pittore aveva incontrato il futurismo, assieme ad artisti che erano pronti,
addirittura, a perdere la vita per amore del manifesto futurista, altri ne aveva conosciuti che non
disdegnavano di ravvisare nella loro professione un mezzo di promozione sociale, ed è da questi che
egli si era sentito meno lontano. Se poi era diventato interventista e fascista era perché, per quanto
difficili e laceranti fossero queste esperienze, non immaginava che potessero chiedergli di
rinunciare a valori che riteneva intangibili.
E fu così che quando giunse ad un bivio che lo costringeva a scegliere se procedere a destra su
una via che l’avrebbe portato a soddisfare ambizioni artistiche e personali, purché avesse per
sempre rinnegato i valori in cui credeva, non esitò ad andare a sinistra incontro ad “Italia Libera”
che questi valori lo incentivava a coltivarli -forse per la prima volta- sul difficile terreno della
democrazia.
Che questo accoppiamento di giustizia e libertà, a cui era approdato nel '24 rimanesse punto di
riferimento anche per il futuro era dimostrato non solo dall'atteggiamento artistico e culturale,
costantemente messo in atto contro la dittatura, ma anche dalle scelte compiute durante l'ultima
guerra mondiale.
Quale poi fosse l'ideale di giustizia che Rosai associava alla libertà era possibile desumerlo dai
contenuti della formazione popolare che aveva ricevuto e dalle opere che aveva dipinto: i primi
portavano a configurare una società dove accanto alla partecipazione di tutti i cittadini a lavori
socialmente utili e all’abolizione della discriminazione tra lavoro manuale e intellettuale, viene
fornito il necessario per vivere agli anziani, ai disoccupati e assistenza a veri inabili e bisognosi; le
seconde a criticare e a opporsi all’operato di quelle classi dominanti che sì rifiutano di dare al
popolo quella dignità che solo una democrazia giusta e socialmente avanzata potrebbe assicurare.
Ed è pensando a questi ideali che il terzo punto della tesi mi appariva inaccettabile e sempre più
si rafforzava in me la convinzione che il critico l’avesse formulato ben sapendo che la classe
politica che aveva sostituito quella fascista, pur di garantirsi un solido e duraturo consenso, aveva
incessantemente esteso l’occupazione pubblica che oltre a comprimere quella socialmente utile e
mantenere lontani lavoro manuale e intellettuale aveva finito con lo snaturare il concetto stesso di
“assistenza” con l’elargizione di pensioni a numeri crescenti di sani e robusti, giovanissimi e
giovani, pensionati.
Giunto a queste conclusioni riuscivo ora a capire quello che né subito dopo la mostra, né
durante il tortuoso viaggio di ritorno e ancora dopo avevo capito: il perché il critico “l’istinto
popolaresco” di Rosai l’avesse relegato definitivamente nell’ambito della peggiore destra. Era stato
costretto a farlo per evitare di riconoscere che le sue opere erano sature di antifascismo; un
antifascismo che era rivolto contro il Pnf, ma anche contro la gerarchia cattolica di Pio XI e Pio XII
che l’avevano fiancheggiato e sostenuto per gran parte del percorso. E ancora: l’avrebbe costretto a
riconoscere che l’antifascismo presente in quelle opere continuava a mantenere la sua efficacia nei
confronti della nuova classe politica democratica e repubblicana ma anche contro la gerarchia
cattolica nella misura in cui erano colluse nel mantenere in vita leggi, strutture, comportamenti
ereditati dal passato regime. Carluccio che su questa strada non voleva avviarsi era costretto a
cancellare il contenuto che si sprigionava dalle opere di un uomo che, nonostante tutte le
contraddizioni, aveva saputo lasciare alle future generazioni un incoraggiamento all’impegno civile
e a forme di lotta che fossero utili alla causa della democrazia e della giustizia.
Ero giunto a conclusioni che si presentavano inquietanti per le implicazioni che sollevavano.
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Se un critico “arrivato”, nel curare e presentare una mostra antologica, poteva menomare le
opere e la personalità di un significativo artista storico, non era anche perché le forze politiche
l’avevano deputato a svolgere questo compito?
La connivenza tra critica e politica, ben al di là di questo singolo caso, non era una costante dei
critici-curatori di mostre, finanziate con denaro pubblico, di occultare e/o evirare messaggi
provenienti da opere di contenuto antimilitarista, antinucleare, antiproibizionista, o favorevoli alla
giustizia sociale, ai diritti civili, alla democrazia? Ancora: la strumentalizzazione critica delle arti
plastiche, non era, in regime democratico, ancora più penetrante e cinica di quella realizzata dai
Bottai sotto il regime fascista?
Quando ebbi finito di dare le risposte alle domande che mi ero poste, era giunta la sera. Me ne
accorsi dal crepuscolo che saliva dalla Mole fin quasi a lambire la sommità di Superga.
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