334 La pittura di Ottone Rosai - Fondazione Internazionale Menarini
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334 La pittura di Ottone Rosai - Fondazione Internazionale Menarini
n° 334 - marzo 2008 © Tutti i diritti sono riservati Fondazione Internazionale Menarini - è vietata la riproduzione anche parziale dei testi e delle fotografie Direttore Responsabile Lucia Aleotti - Redazione, corrispondenza: «Minuti» Via Sette Santi n.1 - 50131 Firenze - www.fondazione-menarini.it La pittura di Ottone Rosai Un popolano isolato nell’arte italiana del Novecento Negli studi sulla composizione sociale di Firenze nella fase aurorale dello sviluppo economico medievale, è d’obbligo citare gli scritti dei mercanti, voci di un orgoglio municipale che rimandava un’epopea di cui si potevano già scorgere i segni nel vorticoso affermarsi di fortune e nella consapevolezza di una missione storica che nuovi soggetti erano chiamati ad incarnare. Gli scritti di Dino Compagni e di Giovanni Villani s’incontrano con la letteratura còlta, mostrando la vitalità di una città, la sua unicità, fonte di slancio e feconda di esempi morali. Ottone Rosai, di cui nel 2007 ricorreva il cinquantesimo anniversario della morte (avvenuta a Ivrea il 13 maggio 1957 alla vigilia di una grande mostra presso Olivetti, che nelle speranze dell’artista avrebbe dovuto sancire la sua definitiva affermazione in Italia), apparteneva alla tradizione dei grandi uomini del Medio Evo fiorentino: uomini d’azione, di grandi passioni e di grandi sdegni, di asprezze bilanciate da dolcezze imprevedibili, incapaci di seguire traiettorie assegnate loro dalla nascita. La ricorrenza biografica si celebra quest’anno, con un lieve slit- tamento cronologico che non inficia l’importanza dell’occasione, con una mostra di 50 opere a Palazzo Medici Riccardi di Firenze. Si tratta di una mostra resa possibile dalla riunificazione dei due rami del collezionismo rosaiano nell’ultimo trentennio: quello che fa capo a Piero Pananti a Firenze, e quello che si riconnette ai fratelli Farsetti, a Prato. Da loro, e dal critico che da tempo accompagna le vicende di Rosai sul mercato, Luigi Cavallo, è nata una rassegna che restituisce a Firenze uno dei suoi figli migliori. Ci sono dei pittori la cui vena creativa è inconcepibile al di fuori della nascita nella quale si sono formati e della quale sanno restituire un’immagine personale eppure condivisibile da quanti accettano di guardare con uno spirito nuovo la realtà nella quale le loro esistenze si svolgono. Di Firenze, Rosai è stato il poeta, il testimone, l’animatore di disordini notturni, il protagonista amaro e spesso scomodo di una vita sempre contro corrente. L’esistenza del pittore è stata funestata dal suicidio del padre, annegato in Arno per motivi di debiti non onorati. Rosai visse un dolore materiato di colpa, poiché si sentiva oscuramente responsabile di Ottone Rosai: La casa del vento - Collezione privata quella tragedia. Nei suoi scritti giovanili rivelava che avrebbe voluto vivere due vite, la sua e quella del padre, che voleva compendiata nei suoi gesti, nelle scelte e possibilmente nelle sue affermazioni. Poiché il demone della pittura si era già manifestato, Rosai pensò che il mezzo più immediato ed efficace per rimediare al dolore, fosse quello di infliggersene uno ancora più grande: impedirsi di dipingere. L’inibizione all’espressione pittorica pag. 2 durò solo per poco tempo. Purtroppo la mostra non presenta, a parte un paio di eccezioni più nominali che sostanziali, opere della breve ma quanto mai significativa stagione futurista di Rosai. Per un giovane della sua estrazione sociale e segnato dal solco del dolore e della disperazione, il Futurismo rappresentò una preziosa opportunità di riscatto, di protesta e di crescita. Nel movimento avviato da Marinetti, Rosai entrò per mezzo di Papini e soprattutto di Soffici, che lo presentarono alla pattuglia degli indemoniati spiriti ribelli e lo inquadrarono nella fase magmatica dell’avanguardia. Al Futurismo Rosai prestò una pittura lunare, notturna, saturnina negli esiti. Era da riconnettere a Rosai quella vena, condivisa anche da Primo Conti, che conduce all’osservazione degli umili, delle scene di vita popolare di una città che non era più solo nei salotti dannunziani e nelle ovattate atmosfere del “Marzocco”, ma si apriva ad altre stagioni, più vivaci e destabilizzanti. Per Rosai la fase futurista terminò con la Prima Guerra Mondiale, alla quale partecipò probabilmente cercando la bella morte sul campo di battaglia. Non la trovò. Incontrò, invece, l’effimera gloria militare, con due medaglie di bronzo e una targa che ne ricordava le gesta. Anche per lui, come per molti altri giovani, il rientro nella società fu difficile. Rosai trovò nel diciannovismo mussoliniano la spinta che cer- cava per osare, per opporsi, per rinnovare la sua mai sopita collera verso la borghesia che tanto detestava. Anticlericalismo e fervente spirito repubblicano erano i sentimenti che guidavano il suo animo. La sua arte, invece, per una sorta di dantesco contrappasso, si rannicchiava in una sospensione metafisica declinata con modi del tutto personali. Invano si cercherebbero, in Rosai, le suadenze intellettuali di un De Chirico, o i raffinati sospiri di un Casorati. I suoi personaggi, specialmente nel biennio fra il 1919 e il 1920, sono membri della sua famiglia, come la sorella, o vecchie tristemente sedute in attesa di un evento ineludibile. Il suo segno è forte e aspro, non si piega alle mollezze della cultura del tempo. Il ritorno all’ordine avviene all’insegna di una sintesi fra la tradizione fiorentina e Cèzanne, la cui presenza, nelle sorti artistiche a Firenze nei primi decenni del secolo, era sempre verificabile. Parlando di “tradizione fiorentina”, il discorso degli storici d’arte è sempre caduto su Masaccio, dolce e immensa ossessione di Rosai, che replicò la grazia diretta dei personaggi che riempiono gli spazi affrescati nella Chiesa del Carmine. Inoltre, anche il reticolo di strade, quel senso di oppressione che esso induce negli osservatori, è riconducibile al capolavoro masaccesco. Tuttavia, oltre a questo riferimento, occorre chiamare in causa altri snodi decisivi, altre fonti che Ottone Rosai: Uomo sulla panchina - Collezione privata il pittore ha assorbito con prontezza ed ha adattato alla propria cifra stilistica. È il caso dei manieristi, e con forza, Pontormo, dal quale ha ripreso la poesia non simmetrica del corpo umano, la cui bellezza è catturabile fra le pieghe, fra le curve di anatomie contorte, che non si offrono ad una contemplazione imbelle, ma urlano le ragioni di una bellezza sinonimo di disagio. I disegni di Rosai sono belli e a loro modo classici. Contengono la pregnanza di quella civiltà che si compendia con la definizione di “Primato del disegno”. I disegni più incisivi sono spesso quelli che raffigurano nudi maschili. L’arte di Rosai è importante anche perché è specchio dei tormenti dell’artista. Il pittore lavorava con una dedizione totale, come se ogni opera fosse il testamento di una vita. Non aveva galleristi, Rosai, e non aveva neppure un nucleo apprezzabile di collezionisti. Lavorava per la cerchia degli amici, come ad esempio Ottone Rosai: Autoritratto - Collezione privata pag. 3 Romano Bilenchi, che di lui ha a suo tempo tracciato un ritratto memorabile, e fra le sue poche fonti di guadagno c’era la collaborazione ad alcune testate dell’epoca fascista, come “II Bargello”, che gli pubblicava dei disegni. Questa collaborazione rischiò di naufragare dopo la stipula dei Patti Lateranensi. Rosai ebbe allora la certezza che lo spirito diciannovista era stato del tutto tradito. Reagì con durezza, pubblicando un violento pamphlet dal titolo “Per lo svaticanamento dell’Italia”, che provocò un grave disagio nella federazione fiorentina. Venne a galla in quella circostanza un’irregolarità relativa a Rosai sulla quale i gerarchi avevano fino ad allora mantenuto un prudente riserbo: l’omosessualità del pittore. Sulla scia dello scandalo che il suo scritto aveva suscitato, nacque una polemica che investì l’uomo, prima ancora che l’artista. Rosai fu praticamente costretto a prendere moglie, sposando un’amica d’infanzia che conosceva la sua natura e la tollerava. Negli anni ‘30 la vita di Rosai fu grama. Avvelenato dal proprio disagio, andò a vivere in luoghi solitari, nella speranza di erigere una barriera fra sé e il mondo. Era come un adolescente che stava invecchiando. Qualcosa, nel suo meccanismo interiore, si era inceppato. Era a disagio con il proprio corpo, che non riusciva ad accettare. I suoi autoritratti sono fra i più impietosi del ‘900: animosi, in lotta con un’effigie che solo raramente si ricompone e si mostra docile, mentre molto spesso è travolta dai fumi della collera, dall’anelito di una speranza sempre sospinta indietro. Le sue mani enormi, leggendarie nella Firenze di un tempo, erano come lo specchio di un qualcosa di abnorme che fuoriesce dagli schemi e procura dolore. Nell’era del nascente Astrattismo, dell’Aeropittura e di una figurazione sovente suadente di forme e carica di cultura letteraria, la pittura di Rosai è originale, personale, avulsa da contesti organizzati. È come i quadri nei quali dipinge concerti eseguiti da strumentisti improvvisati, con cappelli e abiti stirati per l’occasionale esibizione, nasi all’insù, aria stranita e quel sentore di autentico che la storia sta per violare. Un critico d’eccezione, passato sulla cultura italiana come un’accecante meteora, Edoardo Persico, scrisse che Rosai stava a Firenze, come Chagall stava a Vitebsk. Nelle sue parole c’era una preoccupazione: che il pittore finisse fagocitato dalla sua città, fosse oggetto di una sorta di culto cittadino e non varcasse le soglie della notorietà locale. Purtroppo, quella preoccupazione si è rivelata profetica, con un’aggravante: che Firenze non è stata tenera con il suo artista mentre egli era in vita, e non lo è stata poi. Rosai ospitò per qualche tempo il pittore Enzo Faraoni, ferito in un’azione partigiana, e Bruno Fanciullacci, ese- cutore di Giovanni Gentile. Eppure, fu fatto oggetto di una brutale aggressione da parte dei comunisti, ignari delle umiliazioni che aveva patito negli anni in cui il regime pareva inattaccabile. In seguito, di Rosai si è mantenuta un’immagine parziale, sostenuta soprattutto dalla conoscenza di alcuni dei suoi soggetti preferiti, come ad esempio i celebri “omini” a passeggio per Via San Leonardo o certi scorci cittadini, da Via Toscanella - omaggiata anche con un libro di buon valore letterario - a Santo Spirito. La mostra presenta alcuni quadri del periodo finale di Rosai, dal 1945 al 1957. Sono quadri belli, in alcuni casi, ma mostrano che il vagone della sua creatività si era sganciato dal treno che fino ad allora lo aveva trasportato. Qualcosa di più locale si era inserito nella sua pittura, ed aveva eroso la vena più alta dell’artista. Rimaneva, però, una storia mai lineare da raccontare, rimaneva un’autenticità che poteva fungere d’insegnamento e di monito a tanti giovani; era questo che la mostra d’Ivrea voleva ricostruire ed offrire alla cultura italiana ed europea. Rosai, finalmente, usciva dal suo alveo e si consegnava ad un giudizio che poteva essere formulato davanti ai suoi quadri migliori, raccolti in un percorso che racchiudeva una vita intera. Di quanto tutto ciò fosse importante Rosai fu talmente consapevole che il suo cuore non resse all’emozione. stefano de rosa Ottone Rosai: Via Santa Margherita a Montici Collezione privata Ottone Rosai: Incantabilità del tempo Collezione privata