Pierre Bourdieu, La miseria del mondo, Mimesis

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Pierre Bourdieu, La miseria del mondo, Mimesis
Kaiak. A Philosophical Journey, 1 (2014): Sottosuoli
P. Bourdieu et al., La miseria del mondo
ed. it. a cura di A. Petrillo e C. Tarantino, trad. it. di P. Di Vittorio, Mimesis, Milano 2015
pp. 854, Euro 38,00
ISBN: 978-88-5752-456-6
A oltre vent’anni dalla sua pubblicazione per i tipi di Seuil e con il titolo La misère du monde
(1993), appare finalmente anche in lingua italiana l’inchiesta condotta da Pierre Bourdieu e dalla
sua équipe tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, opera ricca e controversa
volta a una comprensione della difficoltà di esistere che, andando oltre un atteggiamento meramente compassionevole o contemplativo, ne mostri lo spessore politico.
L’edizione italiana, a cura di Antonello Petrillo e Ciro Tarantino, e con la traduzione di Pierangelo Di Vittorio, inaugura la collana Cartografie sociali, diretta da Lucio d’Alessandro e dallo
stesso Petrillo per i tipi di Mimesis, e si presenta come un invito e una sfida a un tempo a tutta
quell’area sociologica che si tiene a debita distanza dall’ordinario della miseria simbolica, ossia
dai sottosuoli sociali dei processi di soggettivazione, e che manca così di cogliere l’esperienza
vissuta del dolore e del disagio specificamente psicosociali. È difatti questa la materia del lavoro
di Bourdieu: tutta una serie di sofferenze legate alle posizioni rivestite dai soggetti nei loro rispettivi micro-campi sociali di appartenenza, e dunque proprio la miseria simbolica, prodotta
dall’esercizio continuato della classificazione e della violenza simboliche cui gli individui contribuiscono attivamente accordandogli un’adesione inconscia. È sufficiente scorrere alcuni dei titoli
delle interviste nell’indice del volume per comprenderne il tenore: Disordine nelle forze
dell’ordine, Lavoro di notte, La fine di un mondo, Sospesa a un filo, La caduta, Carriere spezzate, Una doppia vita, Il destino scolastico, La solitudine. Posizioni del sottosuolo in cui si annidano risentimenti e aneliti di riscatto, una miseria insomma che «può dirsi ‘piccola’ solo nel paragone con quella di pasti nudi quanto le vite che si consumano nel consumarli, e per il rispetto che
si deve alla gerarchia materiale del bisogno», ma che «non è piccola se misurata in sofferenze e
malesseri speciali, se calcolata in quanti di vita mancata» (p. 12). Una miseria «comparativa e relazionale» che «svela la matrice stessa di ogni miseria, che è, in essenza, miseria di possibile; impotenza dell’atto o, meglio, indisponibilità della potenza/possibilità di non agire» (p. 13).
La scelta di presentare al pubblico italiano il lavoro coordinato da Bourdieu equivale pertanto
a rivendicare la possibilità di una sociologia altra, all’altezza delle sofferenze del presente, aspirazione legittima nella misura in cui si tratta di un libro «la cui precisione scientifica poteva essere misurata fino in fondo soltanto alla luce di fatti che sarebbero avvenuti poi» (p. 24). Proprio in
virtù della crisi di possibile di cui esso è precorritore, non si può quindi che concordare con Petrillo e Tarantino allorché vi riconoscono un’opera scientificamente revenant (p. 21), in grado
cioè di far riemergere il rimosso delle nostre società e di far parlare l’oggi altrimenti. E allo stesso
modo ben si spiegano le ragioni del sottotitolo che accompagna la loro Presentazione a un testo
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Data di pubblicazione: 13.07.2015
Kaiak. A Philosophical Journey, 1 (2014): Sottosuoli
pure così intriso di reale, Manuale di sociologia fantastica, con un’eco borgesiana che rinvia alla
comprensività e alla potenziale illimitatezza dello sguardo sociologico in relazione alle dinamiche
dei processi sociali, nonché al carattere per definizione infinito del lavoro che per esso ne deriva
intorno alle figure della miseria, che l’esercizio del dominio inventa costantemente e che richiedono perciò un aggiornamento permanente. Infine, si comprende come questa edizione miri altresì a smontare ogni ideologia metodologica e ogni adozione ingenua dei metodi quantitativi e qualitativi che non sia in grado di mettere in questione la struttura sociale che ne determina silenziosamente la pratica (pp. 17-20), e ancora a mostrare come la scientificità del lavoro del sociologo
si situi al livello della «protezione ‘attiva’ della parola che gli è stata consegnata» (p. 18).
Non è affatto un caso, d’altronde, che Bourdieu si sia spesso paragonato laicamente a Socrate,
e che nulla più dell’analogia socratica gli sembrasse rendere meglio il senso del lavoro svolto in
La miseria del mondo, anche se, a differenza di Socrate, Bourdieu si poneva necessariamente rispetto all’interlocutore con un più di sapere originato dalla sua padronanza teorica dei condizionamenti psichici e sociali relativi alla posizione di questi nello spazio sociale, nonché ovviamente
dei propri stessi condizionamenti. È qui che si può distinguere il sapere che ha il coraggio di accettare il rimosso da quello che rimanendo mera doxa è incapace di innestare una rivoluzione
simbolica, una rivoluzione cioè degli strumenti di conoscenza e delle categorie di percezione.
Perché la sociologia deve mirare alla «ricerca di un principio d’indeterminazione permanente» (p.
15), o in altri termini essere in grado di liberare le pratiche dal velo del misconoscimento per consentire al soggetto di riconoscersi nel suo spessore storico.
Il volume, composto di interviste raccolte presso un cospicuo numero di figure sociali (immigrati, impiegati, operai, disoccupati, poliziotti, magistrati etc.), ha dunque un’ispirazione a un
tempo scientifica e politica e una finalità pressoché clinica, come emerge dalla lunga intervista
concessa da Bourdieu a Loïc Wacquant poco prima della sua pubblicazione. In quest’occasione,
in risposta a una domanda sul rapporto tra attitudine scientifica ed etica, Bourdieu sosteneva infatti che la sociologia, laddove «scende fin nei particolari della vita reale, è uno strumento che le
persone possono applicare a se stesse a fini quasi clinici»1, ovvero per comprendere quali forze si
agitino nel gioco in cui ci si trova implicati e per riuscire ad agirle anziché esserne agiti sopportando il peso della loro (presunta) necessità. «In quanto individuo – proseguiva – provo una sofferenza personale quando vedo qualcuno in balia della necessità»2. Non sarà azzardato, allora, ritenere che sia stata proprio la sua peculiare traiettoria sociale, che lo ha dotato di un occhio attento
e di un gusto particolare per le forme della comunicazione e delle pratiche ordinarie e del loro
corredo pregiudicante, ad aver condotto Bourdieu – che mai, a suo dire, si è sentito pienamente
giustificato a esistere in quanto intellettuale – a instaurare una sorta di alleanza comunicativa con
gli sfavoriti e a connotare la sua sociologia di una specifica tonalità polemica. Contro ogni pretesa
di neutralità scientifica è infatti la solidarietà sociale che, opportunamente trattata, neutralizza la
violenza simbolica e dà valore al lavoro scientifico, potendo arrivare a conferirgli una grandiosa
chiarezza epistemologica3. Infine, Bourdieu spiegava così la sua impresa: «ho proposto di condurre una ricerca esplorativa sulla sofferenza, sulla miseria, sul malessere o il risentimento sociale che sottendono le diverse forme non istituzionalizzate di protesta che si sono manifestate recentemente»: una ricerca avente il fine di «convertire il disagio sociale in sintomi leggibili, suscettibili di essere trattati politicamente», e di aiutare le persone «a sbarazzarsi della realtà esterna
che, come il mostro di Alien, è in loro e le ossessiona, e le governa da dentro, spossessandole
dell’iniziativa della loro esistenza»4.
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P. Bourdieu, L.J.D. Wacquant, Risposte. Per un’antropologia riflessiva, trad. it. di D. Orati, Bollati Boringhieri,
Torino 1992, p. 154.
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Ivi, p. 155.
3
È quanto Bourdieu afferma nella sua Prefazione in relazione al lavoro di A. Sayad, La doppia assenza.
Dall’illusione dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato (1999), a cura di S. Palidda, Cortina, Milano 2002, p. 5.
4
P. Bourdieu, L.J.D. Wacquant, op. cit., pp. 156-157.
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Ricorre qui, crediamo, uno dei significati più profondi dell’intera avventura epistemologica di
Bourdieu. Poiché la struttura simbolica della società, iscrivendosi nell’inconscio, fonda il rapporto che Bourdieu definisce di sottomissione doxica all’ordine stabilito (che ignora la sua storia e
vede ovunque natura), e poiché con la sua coerenza essa produce un’efficacia consistente nella
strutturazione soggettiva – nel senso che le soggettività si strutturano sempre in relazione alla situazione classificatoria in cui sono, al posto che occupano nella rete degli scambi simbolici –, è
necessario storicizzare, in un senso molto prossimo alla psicoanalisi, la funzione simbolica, ovvero appunto l’altro come soggetto dell’esperienza.
Quanto affermato nega dunque almeno in parte il giudizio riservato a La miseria del mondo da
Alain Ehrenberg, che vi riconosceva un’evoluzione importante nella sociologia di Bourdieu per il
fatto di prendere finalmente in considerazione gli individui e di estendere «la problematica sociologica alle condizioni soggettive dell’agente sociale»5. Perché se sono indiscutibili le novità apportate da questo lavoro collettivo nella sociologia di Bourdieu, non per questo esso costituisce
un elemento di discontinuità, quanto piuttosto un inveramento della sua personale disposizione
sociale e della sua metodologia. A dimostrarlo è il fatto che in La miseria del mondo Bourdieu
non smette di concepire la soggettività in rapporto alle sue condizioni sociali di possibilità e di
ricercare il collettivo all’interno del soggetto, mentre dà piena forma a quel progetto di una sociologia relativa alla miseria simbolica che aveva espressamente enunciato nella lezione inaugurale
al Collège de France del 1982, dove tendeva a riconoscere il senso del suo lavoro, tra l’altro,
nell’analisi delle lotte per la classificazione e nella realizzazione di una filosofia e di una sociologia della miseria. Se da un lato, infatti, Bourdieu mostrava qui di concepire la miseria simbolica
proprio come il disagio della classificazione e come la lotta da questo innescata, dall’altro si riconosceva nella volontà di andare incontro a chi non fosse neppure in grado di interrogarsi sul significato del proprio essere al mondo, e quindi di andare incontro alla dimensione specificamente
psicosociale della sofferenza. Da qui l’invocazione di una filosofia della miseria più vicina «alla
desolazione degli imbarboniti e ridicoli vecchietti di Beckett» che «all’ottimismo volontarista
tradizionalmente associato al pensiero progressista», e capace di «comprendere la miseria degli
uomini privi di qualità sociali, si tratti della rassegnazione tragica dei vecchietti abbandonati alla
morte sociale degli ospedali e degli ospizi, della sottomissione silenziosa dei disoccupati o della
violenza disperata di quegli adolescenti che cercano nell’azione ridotta all’infrazione un mezzo
per accedere a una forma riconosciuta di esistenza sociale»6. È evidente, certo, che in La miseria
del mondo il quadro e le figure sociali della miseria si sono ampliate, che il suo stesso metodo si è
affinato e trasformato in direzione della soggettività, ma l’ispirazione è la medesima: elaborare il
rapporto del soggetto con quell’altro che, sempre presente nel cuore stesso del soggetto, nei suoi
modi di percepire e giudicare, si fa carne nell’habitus.
È a quest’altezza, al livello dell’ordinario, che si gioca il senso dei disagi di cui rendere ragione. Ne fa fede un brano di sapore anti-heideggeriano e di straordinaria intensità contenuto nel paragrafo significativamente titolato Esercizi spirituali: «Quello che il ‘si’, filosoficamente stigmatizzato e letterariamente screditato, che tutti noi siamo, tenta di dire, con i suoi mezzi disperatamente ‘inautentici’, è senza dubbio, per gli ‘io’ che crediamo di essere, attraverso la più comune
rivendicazione di singolarità, quello che è più difficile da ascoltare» (p. 816). L’ascolto presuppone la capacità di operare una conversione dello sguardo, un oblio di sé che è il prodotto di una
disposizione prossima all’amore intellettuale (p. 819). E tuttavia a questo scopo per Bourdieu è
necessario anche un immenso sapere sull’oggetto, sulla sua posizione nello spazio conflittuale dei
punti di vista, nella struttura della distribuzione del capitale simbolico all’interno del campo sociale in cui appunto esso è, sapere che solo un occhio esperto può avere: ciò che dimostra come a
Bourdieu, che non può dirsi un nietzscheano ma neanche libero dall’influenza di Nietzsche, non
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6
A. Ehrenberg, La società del disagio. Il mentale e il sociale, trad. it. di V. Zini, Einaudi, Torino 2010, p. 294.
P. Bourdieu, Lezione sulla lezione, trad. it. di C.A. Bonadies, Marietti, Genova 1991, pp. 40-41.
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facesse affatto difetto quel senso storico che proprio per Nietzsche costituiva il senso
dell’interrogazione filosofica, mirante a scorgere il valore sintomatico dei giudizi sull’esistenza.
Avvicinandoci alla conclusione, vorremmo proporre un’interpretazione che crediamo possa
cogliere con buona approssimazione il senso degli ultimi anni del suo percorso intellettuale e contribuire a inaugurare una pista di notevole valore euristico. La miseria del mondo, al pari
d’altronde di gran parte della produzione di Bourdieu, ci sembra rappresentare infatti un sintomo
di due ‘tendenze’ neanche tanto latenti della sua sociologia, ossia di una tendenza critica e di una
tendenza clinica che ne fanno una sociologia di lotta e di cura a un tempo, in vista di una possibile trasformazione dell’energia sociale. Se la prima può essere accostata alla filosofia di Foucault,
la seconda procede in direzione di Freud: due autori agli antipodi rispetto ai quali Bourdieu ha
sempre assunto una posizione ambigua che non può essere ovviamente qui discussa, ma le cui riflessioni, crediamo, rivestono un valore decisivo in rapporto alla sua impresa, anche e soprattutto
perché foriere di sviluppi che Bourdieu aveva appena abbozzato.
Per limitarci a qualche considerazione, si ricordi dal primo punto di vista come contro la doxa
intellettuale Bourdieu cerchi di accordare ai racconti delle avventure e delle disavventure comuni
quello «sguardo prolungato e accogliente» che è di norma concesso solo ai grandi testi filosofici
o letterari, descrivendo la sua impostazione come «una sorta di democratizzazione della postura
ermeneutica» e definendo La miseria del mondo come un progetto finalizzato a offrire al discorso
di un operaio metallurgico lo stesso accoglimento che «alcune tradizioni di lettura riservano alle
forme più alte della poesia o della filosofia» (p. 828). Ebbene, al riguardo si può brevemente ricordare in che misura questa impostazione sia stata preparata da Foucault, al quale non a caso
Deleuze riconosceva di aver conferito una nuova luce al man heideggeriano. E tuttavia Bourdieu,
che criticava (invero ingiustamente) Foucault per non essere in grado di spiegare l’introiezione
degli schemi di percezione e valutazione, piega questa attitudine non tanto in direzione
dell’appoggio a una dinamica sociale dei governati in grado di sviluppare nuovi discorsi e pratiche e inaugurare così nuovi possibili, ma al contrario in una direzione ermeneutica, probabilmente per rivolgersi a chi non è neanche in grado di mettere in discorso il proprio disagio, o avendo
presente forse che l’habitus può operare ed essere efficace anche venute meno le sue condizioni
di possibilità (ragion per cui un nuovo fare può rivelarsi controproducente), o infine per compensare l’assenza di indicazioni relative al trattamento politico cui sottoporre i sintomi rinvenuti in
La miseria del mondo. Nuove pratiche possono essere instaurate solo da individui cognitivamente
(il che non esclude anche affettivamente) armati per fare i conti con il proprio habitus, e pertanto
l’apertura di nuovi possibili ha bisogno di una maggiore conoscenza dell’incorporazione delle
strutture sociali nella psiche soggettiva. Da qui il rinvio a Freud a partire soprattutto dagli anni
Novanta7, rinvio che, riteniamo, Bourdieu operava forse anche avvertendo come i rimproveri
mossi a Foucault potessero non senza ragione essere mossi nei suoi stessi confronti. Se
l’attenzione alla sofferenza soggettiva e alla difficoltà di espressione del disagio ha condotto
Bourdieu a invocare sempre più esplicitamente un’alleanza scientifica con la psicoanalisi – nei
confronti della quale egli pure aveva adottato nelle sue prime ricerche una postura critica lamentando in essa l’assenza di una teoria della socializzazione della libido – è sostanzialmente perché
il discorso sociologico relativo alla sofferenza vissuta manca di un armamentario teorico come
quello freudiano, dal quale Bourdieu negli anni ha mutuato numerosi concetti (negazione, censura, formazione di compromesso etc.). Quella di Bourdieu si propone perciò come una pratica ermeneutica tesa a far riemergere il rimosso operando, a fini di disidentificazione, la negazione di
una negazione primaria consistente nell’iscrizione del sociale nel soggetto. E in questo senso, la
possibilità di una soggettivazione altra può essere solo il prodotto di un lavoro sulle proprie disposizioni, di un confronto costante tra il soggetto e i suoi habitus, ossia di una lotta del soggetto
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Cfr. ad es. P. Bourdieu, Meditazioni pascaliane, trad. it. di A. Serra, Feltrinelli, Milano 1998, pp. 173-174.
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Data di pubblicazione: 13.07.2015
Kaiak. A Philosophical Journey, 1 (2014): Sottosuoli
contro le sue resistenze, freudianamente intese, che ha dunque bisogno di un maggiore sforzo in
direzione della comprensione dell’interiorizzazione delle strutture sociali.
Al di là della profonda mistica dell’amore che Bourdieu pure ha invocato come sola rivale potenzialmente vittoriosa nello scontro con la società/Dio, solo quella scienza unitaria che era nei
suoi auspici può avere una chance di spiegare senza fissare, di conoscere e comprendere senza
violentare l’oggetto (pp. 808-820), adattando l’occhio esperto allo spazio dei punti di vista, in un
prospettivismo che tenda a schivare l’indirizzo destinale che l’esercizio della parola dominante
ingiunge senza posa al soggetto.
Gianvito Brindisi
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Data di pubblicazione: 13.07.2015