Antonio Di Stefano Una micro-teoria del potere Pierre Bourdieu tra
Transcript
Antonio Di Stefano Una micro-teoria del potere Pierre Bourdieu tra
13E0194_Di_Stefano_copertina 1-3 Antonio Di Stefano Una micro-teoria del potere Pierre Bourdieu tra etnografia, cultura e relazionalità RubbettinoUniversità RubbettinoUniversità e 12,00 Antonio Di Stefano è assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale della Sapienza Università di Roma. I suoi interessi scientifici si rivolgono in particolare allo studio dei consumi culturali e delle pratiche di gusto, ai media studies e alla storia dell’industria culturale. Antonio Di Stefano Una micro-teoria del potere Questo libro focalizza la sua riflessione su una fase determinante nella produzione di Bourdieu, tra la “discesa etnografica” nell’inferno sociale dell’Algeria colonizzata – ancora in attesa di liberazione – e l’immersione nel verticismo istituzionalizzato della società francese. In questo periodo (1955-1975) emergono tre posture intellettuali e di metodo (etnografico, culturale, relazionale), che consentono a Bourdieu di sviluppare in modo innovativo una micro-teoria del potere sociale. Lo studioso francese disvela i meccanismi di naturalizzazione del potere, pensando il mondo piuttosto che essere pensato da esso, smontando e comprendendo i suoi meccanismi, e riappropriandosene intellettualmente e materialmente. 02/04/13 11.49 3. Il gusto, il capitale e la violenza: il Bourdieu culturale 3.1 Il sociologo in campo, contro Lazarsfeld (?) e con Bachelard L’analisi proposta da Bourdieu dalla metà degli anni ’60 sul sistema scolastico e universitario, e di riflesso quindi sulla violenza simbolica delle istituzioni preposte alla trasmissione della cultura, è strettamente connessa al lavoro empirico che lo studioso conduce sul gusto culturale e sull’appropriazione dell’opera d’arte. Infatti dopo la svolta antropologica ed etnografica del periodo algerino e della ricerca in Béarn, in cui Bourdieu inizia a sperimentare metodi di analisi integrata, è in questa fase che vengono a delinearsi le condizioni materiali per la piena maturazione sociologica del suo pensiero. Il legame (anche conflittuale) che Bourdieu stringe con Aron, che nel 1960 lo accoglie al Centre de Sociologie Européenne, dove nel 1962 svolge la funzione di segretario generale, gli consente di avviare una sezione di Sociologie de l’Éducation et de la Culture, evento non secondario che piuttosto rivela come proprio il tema della riproduzione culturale costituisca il nucleo centrale della sua indagine nel corso degli anni sessanta. Lo spirito di lavoro che caratterizza il vissuto scientifico del laboratorio da lui diretto è ben espresso dal connubio indagine empirica/ricerca teorica, in una prospettiva tesa a stabilire forme di relazione estremamente feconde anche con finanziatori privati. Infatti, oltre all’indagine sulla fotografia finanziata dalla Kodak, in questo periodo viene condotta la ricerca, mai pubblicata, sul rapporto che il personale di una banca (Compagnie Bancaire di Lille) intrattiene con i clienti nella fase della richiesta di credito [Bourdieu, Boltanski, Chamboredon 1963].1 Sempre in questo periodo Bourdieu avvia un confronto originale con la vasta e dominante sociologia nordamericana, contribuendo ancor di più alla sua diffusione nel campo culturale francese a partire dal 1964, con le pubblicazioni della collana “Le sens commun” da lui diretta. In particolare, oltre alla figura di Goffman, cui abbiamo fatto un breve cenno e che rappresenta il capostipite dell’interazionismo simbolico radicato nella Scuola di Chicago,2 è Lazarsfeld ad attrarre 1 Sulle implicazioni culturali e morali che investono di senso l’atteggiamento soggettivo verso l’economia e la dimensione finanziaria, analizzati in questa indagine, si rimanda a Swedberg [2011, pp. 71-73]. 2 Un’altra figura di rilievo è quella di Anselm Strauss, tra l’altro invitato dallo stesso Bourdieu in uno dei suoi seminari all’École pratique des hautes études. metodologicamente, seppur in forme problematiche e critiche, il lavoro bourdieusiano. In realtà la parola attrazione restituisce solo in parte il senso della posizione assunta da Bourdieu nei confronti del principale esponente della sociologia quantitativa americana [Bourdieu 2004, pp. 72-74; Bourdieu, Passeron 1967]. Infatti ex post possiamo osservare come lo studioso francese rifiuti il linguaggio e la dinamica delle variabili di Lazarsfeld [Ciofalo 2006, pp. 24-25] a favore di una metodologia orientata a definire la logica relazionale delle posizioni. Ma un orientamento così definitivo non può configurarsi immediatamente, se è vero che i riflessi della traiettoria “centripeta e centrifuga” di Bourdieu rispetto al potere simbolico del metodologo americano, sono rintracciabili in momenti successivi agli anni ‘60. Le critiche alla presentazione, ritenuta poi convenzionale, dei risultati dell’indagine contenuta ne L’amore dell’arte [Bourdieu, Darbel, Schnapper 1966], si rivelano in questo senso esemplari [Bourdieu 1993, p. 265; Bourdieu 2004, pp. 73-74].3 Questa disputa metodologica è ben chiarita dalle parole che aprono l’appendice contenuta ne La distinzione [Bourdieu 1979a, p. 517]: anche se l’ordine di esposizione che parte dal punto di arrivo della ricerca è meno favorevole ad una esibizione compiacente dei dati e dei protocolli di procedimento (che viene in genere considerata la migliore garanzia di scientificità) ed anche se il maggior rigore che esso comporta ha come contropartita tutta una serie di ellissi e di salti logici, destinati a rafforzare le prevenzioni di tutti coloro che rimangono legati ad un’immagine ingenuamente empirista del lavoro scientifico, esso ha finito per imporsi come l’unico in grado di ricollocare ogni singolo fatto nel sistema dei rapporti da cui trae il suo valore di verità. Questo discorso si inscrive all’interno della più generale riflessione di Bourdieu sulle condizioni che rendono possibile la fondazione della sociologia in termini di scienza. Egli respinge tanto i francofortesi, puri teorici che non fondano le loro riflessioni anti-positiviste su una radicata indagine empirica, quanto appunto la prospettiva lazarsfeldiana che indugia invece in una logica positivista. È in questa fase [Bourdieu, Chamboredon, Passeron 1968] che la “vigilanza epistemologica” di Bachelard – la distinzione tra il senso comune (doxa) e la concezione scientifica del sociale (episteme) – si riflette in modo sistematico nell’opera di Bourdieu, il quale, attraverso il “razionalismo applicato” bachelardiano, emancipa la sociologia dalle dicotomie di idealismo ed empirismo, soggettivismo ed oggettivismo, invitandola a percorrere sentieri più consapevoli sul piano conoscitivo, in direzione di un 3 Per questo specifico topic si rimanda a Bourdieu [1980b]. 2 controllo riflessivo delle condizioni sociali e cognitive che favoriscono la concretizzazione del lavoro scientifico [Swartz 1997, pp. 31-38; Vandenberghe 1999, pp. 37-42; Boschetti 2002, p. 503]. Tale complessa influenza sull’impresa dello studioso francese è spiegata dal suo «rifiuto di dissociare il teorico dall’empirico, l’analisi del caso particolare considerato come ‘un caso particolare del possibile’, per dirla alla Bachelard, dalla ricerca dell’invariante» [Bourdieu 1993, p. 265]. Quindi l’osservazione etnografica è affiancata dall’impiego di tecniche di misurazione statistica ed entrambe permettono a Bourdieu, e di riflesso ai suoi collaboratori, di distinguere le pratiche degli agenti dalla loro apparente auto-evidenza, al fine di disvelarne il principio del potere simbolico che orienta, oggettivandole, le relazioni sociali (infra, 2.3). In questo modo sono superati i limiti propri dell’intuizionismo soggettivista, che ricerca l’immediatezza dell’esperienza vissuta, e dell’oggettivismo senza soggetto, che pone l’invarianza delle relazioni al di sopra di ogni pratica. 3.2 A proprio (dis)agio: la coltivazione dell’insuccesso Inizialmente la ricerca intrapresa da Bourdieu in collaborazione con Passeron [1964b]4 sul sistema scolastico e pedagogico in Francia, si presenta “aroniana” a tutti gli effetti [Robbins 2011, p. 311]. Infatti uno degli obiettivi principali è verificare il grado di correlazione tra i principi e le logiche della classe dominante e i valori disseminati dal sistema educativo. È tuttavia in questo periodo, quando le proteste studentesche si acuiscono, che le posizioni di Bourdieu e Aron iniziano a divergere in modo sostanziale. Già nel ’59 il secondo valuta criticamente il sovraffollamento nell’università francese [Aron 1983]. Nel ’68 si pronuncia a favore della «limitazione della partecipazione studentesca alla vita universitaria», in aperto contrasto proprio con la posizione del primo e del suo gruppo di lavoro [Swartz 2010, p. 59; Vitale 2006, p. 96].5 4 Va ricordato che la pubblicazione in Francia de I delfini è stata preceduta di poco dall’uscita del rapporto di ricerca Les étudiants et leurs etudes [Bourdieu, Passeron 1964a]. In quest’opera, che presenta i risultati delle indagini condotte principalmente presso l’Università di Lille, negli anni accademici 1961-1962 e 1962-1963, gli autori introducono alcuni topoi, in particolare la dialettica tra due diverse Culture, quella sociale e quella accumulata, che costituiranno i nuclei fondativi della riflessione sul gusto [Bourdieu 1979a]. Sul tema vedi Robbins [2005, p. 23]. 5 La posizione espressa da Aron nei confronti del ’68 costituisce un momento di frattura sostanziale nel rapporto con Sartre, il quale non tarda a contestarne le idee proprio per le implicazioni connesse al ruolo pubblico che incarna: «prima era un professore con le idee del quale potevo non essere d’accordo, ma che esponeva 3 Anche se le idee politiche di Bourdieu sono tendenzialmente distanti (antigauchiste) da quelle espresse dai manifestanti, e il suo intervento è sempre orientato da una tensione sociologica [DiMaggio 1979, pp. 1470n-1471n], è la sua opera e più in generale la sua produzione scientifica a riecheggiare, al di là dell’uomo pur carismatico [Heinich 2007], tra i giovani in protesta, riverberandosi in modi anche imprevedibili nella società francese dell’epoca. Il movimento studentesco ritrova nei risultati cui giungono principalmente Bourdieu e Passeron [1964b], vale a dire le dinamiche di generazione delle disuguaglianze sociali e culturali riprodotte dal sistema universitario e da quello educativo, una sostanziale giustificazione – politica – all’azione di protesta.6 In questo testo gli autori osservano come l’istituzione scolastica, che dovrebbe rappresentare un organismo democratico di alfabetizzazione e acculturazione in grado di valutare il merito e il talento individuale, operi in realtà processi di selezione esclusivi: è valorizzato in misura maggiore il background culturale acquisito dal soggetto attraverso il lavoro di accumulazione familiare che riflette la posizione nella frazione di classe. Quindi l’influenza dell’origine sociale è estesa a «tutti gli aspetti e a tutti i livelli dell’esperienza dello studente»: queste idee alla Sorbona di fronte a degli studenti che potevano discuterle. Tutto questo io prima del 1968 l’accettavo perfettamente. Ma quando mi sono reso conto di quel che pensava degli studenti che aveva avuto e che contestavano il sistema universitario nella sua interezza, ho pensato che non aveva mai capito niente dei suoi allievi. Era il professore che attaccavo, il professore ostile ai propri studenti» [Sartre 1975, p. 66]. 6 Per comprendere appieno il significato di tale relazione, e il fondamento “sociologico” perseguito da alcuni dei protagonisti delle proteste giovanili del periodo, citiamo alcuni brevissimi estratti dei documenti della rivolta studentesca in Francia [Centro di informazioni universitarie 1968, a cura di] che ci sembrano rivelare, al di là della comune matrice marxiana, un’affinità elettiva con l’opera e il tono bourdieusiano: «l’esame è soprattutto una sanzione, repressione di chi sa e promozione di chi funziona» [p. 38]; «molti sociologi hanno dimostrato che lo studente che proviene dalla classe operaia è sprovvisto del bagaglio culturale implicito che possiede il figlio di un industriale o di un professore: un certo vocabolario, un modo di parlare, un modo di fare» [p. 43]; «l’esistenza dei diplomi avverte lo studente che i posti nella società sono cari e che i primi posti sono riservati. Riservati a chi? A coloro che hanno superato i vari sbarramenti imposti, fin dalla scuola elementare, dalle classi dirigenti per filtrare le sue élites» [p. 44]; «gli esami e i concorsi attuali rientrano nel quadro di un mascherato sistema di élites. Ne posseggono quasi tutti i difetti senza averne le qualità. Infatti, gli esami e i concorsi hanno tutta l’apparenza di un tipo di reclutamento democratico; ma gli studi sociologici mostrano che in realtà sono i figli delle classi più favorite che vi riescono» [p. 45]. 4 la consapevolezza che gli studi (e soprattutto alcuni) costano molto e che ci sono professioni che non possono essere intraprese senza un capitale di base, i dislivelli di informazione sui corsi di studi e sugli sbocchi professionali, i modelli culturali che associano certe professioni e certe opzioni scolastiche (il latino per esempio) ad un determinato ambiente sociale, la predisposizione infine, socialmente condizionata, ad adattarsi ai modelli, alle regole e ai valori che reggono la scuola, tutto quest’insieme di fattori che fa sì che una persona si senta a suo agio oppure disadattata nella scuola e che vi venga considerata come tale, determina, a parità di attitudini, un tasso di successo scolastico diseguale a seconda delle classi sociali [Ivi, pp. 45-46]. In questo modo, per uno studente delle classi meno agiate, privo di capitale culturale, deficitario sul piano linguistico [Bourdieu, Passeron, de Saint Martin 1965] e poco socializzato a una “certa” cultura propria della classe dominante, la riuscita scolastica appare fortemente ostacolata. Qui gli autori non raggiungono ancora il livello di sofisticatezza teorica de La riproduzione [Bourdieu, Passeron 1970] e, paradossalmente, il suo grado di criticità epistemologica, laddove l’utilizzo del concetto di violenza simbolica sintetizza, tra gli altri, la dissimulazione retorica che “santifica” il talento individuale, tradendo tuttavia una tensione esplicativa che deriva dall’urgenza di stimolare l’attenzione del lettore nel tentativo di spingerlo a guardare oltre l’architettura discorsiva dominante. È in questa fase però che vengono poste le basi per una definizione originale della teoria del potere sociale, “oggetto” tradizionale della sociologia critica ma riarticolato da Bourdieu in modo innovativo. L’originalità della proposta dello studioso francese non è da ricercarsi nella spiegazione del processo di interiorizzazione e di identificazione del soggetto con le istituzioni o le strutture dominanti, di cui Gramsci, attraverso il concetto di egemonia, ha offerto una adeguata spiegazione, né nella rilevazione degli effetti ideologici del potere dominante già illustrati, in modi ben più significativi, dagli studiosi della Scuola di Francoforte. Piuttosto essa va ritrovata nello sviluppo di quella che si potrebbe definire una microteoria del potere sociale [formula coniata in origine da Terry Eagleton N.d.A.]. Laddove Gramsci ci offre una teoria generale della coercitività dell’egemonia, Bourdieu mostra esattamente come si possano analizzare i giudizi degli insegnanti alle prove degli studenti, le regole seguite per la valutazione e le preferenze per alcune materie da parte degli allievi, al fine di rintracciare la costruzione e l’implementazione, specifica e pratica, di un’ideologia egemonica [Moi 1991, p. 1019]. L’importanza “politica” di tale messaggio è evidente e si contrappone apertamente ad una visione unificante o unificata della 5 condizione studentesca, che presuppone nella sua ideologia l’assoluta riduzione delle differenze in ingresso e nella successiva performance scolastica del singolo individuo.7 A tal punto che, nella prospettiva bourdieusiana, neppure la parificazione delle risorse economiche sarebbe in grado di produrre effetti significativi nella risoluzione dei processi di disuguaglianza perpetrati dalla scuola e dall’università [Bourdieu, Passeron 1964b, p. 62]. Questa riflessione rappresenta, dunque, l’inaugurazione di un percorso analitico che non tarda, in realtà, a presentarsi in modi ben più avanzati sul piano della sistematizzazione teorica e dell’articolazione del discorso sociologico. Infatti quello che tradizionalmente è considerato il testo fondativo dell’analisi bourdieusiana sul sistema educativo [Bourdieu, Passeron 1970], è il risultato di un duplice processo di affinamento e di innovazione che si concretizza nel momento in cui Bourdieu si confronta con la cultura. Tale categoria è difficilmente formalizzabile nell’universo epistemologico dello studioso francese, il quale, valutando le possibilità di un’applicazione «al sistema delle regolarità oggettive oltre che alla competenza dell’agente come un sistema di modelli interiorizzati», rileva come il termine presupponga un grado di complessità tale da rendere complicata la definizione delle «condizioni della sua validità» [Bourdieu 1968b, p. 706].8 In questa fase il concetto si sovrappone a quello di habitus, categoria non ancora pienamente sviluppata, anticipandone i meccanismi di funzionamento più di tipo strutturalista e la logica totalizzante: la cultura è non soltanto un codice o un repertorio comune di risposte a problemi ricorrenti; è un insieme comune di schemi fondamentali, precedentemente assimilati, a partire dai quali si articola, secondo un’«arte dell’invenzione» analoga a quella dello spartito musicale, un’infinità di schemi particolari, applicati direttamente a situazioni particolari [Bourdieu 1967b, p. 371]. 7 Come nota Dubois [2011, pp. 492-493], nonostante abbia ottenuto un importante riscontro tra gli addetti ai lavori, riuscendo ad imporsi anche su un piano terminologico nel vocabolario pubblico, la teoria della riproduzione e del capitale culturale di Bourdieu non si è mai tradotta in un effettivo intervento di politica culturale. 8 In questo senso non sorprende che alcuni successivi recuperi della prospettiva bourdieusiana in tale ambito [Zeuner 2003; Swartz 1997; Grenfell 2004; Alexander 2003] appaiano anch’essi eterogenei e, in alcuni casi, indotti quasi ad implementare, forzandola, la proposta originaria di Bourdieu. Si tratterebbe di verificare, anche, se tale dinamica non sia il risultato di distorture prodotte da una differente matrice simbolica e semantica, cui attingerebbero gli studiosi appartenenti al contesto culturale/accademico francese e a quello anglo-americano nel momento in cui si riferiscono al concetto di cultura [Heinich 2010]. Vedi anche Santoro [2011]. 6 Possiamo dunque sostenere che il presupposto nodale della riflessione condotta dallo studioso francese sulla scuola e sul gusto dalla metà degli anni ‘60 sia il “meccanismo di coltivazione culturale”, nei confronti del quale egli avvia un’analisi al tempo stesso differenziata ed integrata: a) sulle logiche dell’accumulazione individuale e familiare (capitale culturale); b) sul processo di interiorizzazione e generazione di schemi e pratiche (habitus); c) sulle forme di dominio, trasfigurate dalla loro legittimazione sociale, e perpetrate in particolare dal sistema educativo (violenza simbolica). Più nello specifico, come possiamo rilevare (Grafici 1-2), la fase “culturale” e quella “relazionale” – distinte al fine di semplificare, sul piano operativo, il nostro discorso, pur nella consapevolezza che nel modello sociologico di Bourdieu la relazionalità indica un particolare modus operandi della cultura – presentano nella metà degli anni ’60 un ridotto grado di strutturazione sul piano concettuale. Il campo è la categoria che più di altre si mostra significativa in questo particolare momento. Attraverso la sua definizione, lo studioso francese ripensa strutturalmente l’originaria proposta weberiana (infra, 4.1). Tuttavia tale nozione appare ancora soggetta ad un processo di sistematizzazione tanto che, come possiamo osservare, la sua presenza si rivela determinante all’interno delle riviste, mentre appare ridotta nei volumi. Questa “differenziazione nella produzione intellettuale”, per cui alle prime si destinano lavori di avanguardia, più innovativi a livello di ricerca, più specifici sul piano ontologico e al tempo stesso più sperimentali nella ridefinizione dei paradigmi teorici di riferimento, mentre ai secondi si riservano riflessioni “conclusive” che sintetizzano in modo coerente periodi più o meno lunghi di indagini,9 mostra le tappe seguite da Bourdieu nella maturazione del suo percorso 9 Resta da stabilire quanto questa “divisione del lavoro intellettuale”, già proposta dal lavoro seminale di Fleck [1935], sia davvero applicabile allo stile di pensiero bourdieusiano. In linea generale le riviste e i manuali assolvono nella pratica scientifica funzioni diverse, in una dialettica costante tra iconoclastia e tradizione [Kuhn 1959] e tra specializzazione e divulgazione, quanto mai evidente soprattutto nel contesto anglosassone. Nell’opera dello studioso francese, che riflette – pur con notevoli distinguo [Bourdieu 1972c] – una “storia culturale” segnata (infra, 1.2) da un marcato paradigma intellettualistico, le due tipologie di “testo” presentano confini opacizzati e forme di sovrapposizione soprattutto se si osserva il grado di ricercatezza linguistica che tende a concretizzarsi in modi sempre più significativi nella produzione degli anni ’70. 7 intellettuale che giungerà ad una conclusione (parziale) con la pubblicazione de La distinzione [Bourdieu 1979a]. Grafico 1 – Numero medio di citazioni di habitus, campo e capitale negli articoli su rivista¹ pubblicati da Bourdieu² ¹ Gli articoli sono stati analizzati nell’edizione originale di pubblicazione. ² Gli articoli considerati per l’analisi sono: Bourdieu, Bourdieu [1965]; Bourdieu [1966a]; Bourdieu [1966b]; Bourdieu [1966c]; Reynaud, Bourdieu [1966]; Bourdieu, Passeron [1967]; Bourdieu [1967b]; Bourdieu [1968a]; Bourdieu [1968b]; Bourdieu, de Saint Martin [1970]; Bourdieu [1971a]; Bourdieu [1971b]; Bourdieu [1971c]; Bourdieu [1971d]; Bourdieu [1971e]; Bourdieu [1971f]; Bourdieu, Boltanski, Maldidier [1971]; Bourdieu [1972b]; Bourdieu [1972c]; Bourdieu [1972d]; Bourdieu, Boltanski, de Saint Martin [1973]; Bourdieu [1974a]; Bourdieu [1974b]. L’habitus e il capitale sono concetti ancora secondari nell’universo bourdieusiano. La loro rilevanza (tabb. 5-6) assume contorni più definiti nella prima metà degli anni ’70, anche se soprattutto la nozione di habitus, al contrario del concetto di campo, è adottata da Bourdieu in modi peculiarmente sistematizzati nei volumi dedicati alla riproduzione educativa e alle pratiche [Bourdieu, Passeron 1970; Bourdieu 1972a]. Come vedremo più avanti (infra, 3.4, 4.2), questa divaricazione semantica rivela con precisione le continuità e le discontinuità delle traiettorie seguite dallo studioso nell’intervallo di tempo considerato, le mappe concettuali del suo universo culturale e, nello specifico, la transizione verso un paradigma sempre più definito in termini strutturalisti. 8 Grafico 2 – Numero medio di citazioni di habitus, campo e capitale nei volumi¹ pubblicati da Bourdieu² ¹ Ad eccezione di Bourdieu, Passeron, de Saint Martin [1965], i libri sono stati analizzati nella prima edizione italiana disponibile. ² I libri sottoposti ad analisi sono: Bourdieu, Passeron [1964b]; Bourdieu [1965, a cura di]; Bourdieu, Passeron, de Saint-Martin [1965]; Bourdieu, Darbel, Schnapper [1966]; Bourdieu, Passeron [1970]; Bourdieu [1972a]. Infatti nella prospettiva bourdieusiana è in gioco una tensione discorsiva tra sostanzialismo e relazionalità, che si radicalizza soprattutto laddove aumenta il grado di discrasia tra la rappresentazione offerta in modo riflessivo dallo studioso francese – orientata ad enfatizzare il carattere relazionale delle sue categorie – e la concreta applicazione delle stesse. Tabella 5 – Confronto in termini percentuali tra le categorie chiave considerate, negli articoli pubblicati su rivista da Bourdieu 1965-1966 1967-1968 1969-1971 1972-1974 Habitus 2% 21,9% 6% 8,8% Campo 81,2% 70,3% 65,9% 28,4% Capitale 16,8% 7,8% 28,1% 62,8% Tabella 6 – Confronto in termini percentuali tra le categorie chiave considerate, nei volumi pubblicati da Bourdieu 1964-1965 1966-1969 1970-1972 Habitus 24% 9,1% 46,4% Campo 60% 15,2% 9,9% Capitale 16% 75,7% 43,7% 9 3.3 La rivoluzione copernicana del gusto Con l’indagine sui musei e con l’analisi degli usi e delle funzioni della fotografia, Bourdieu concretizza a tutti gli effetti quella che, con la successiva pubblicazione de La distinzione [1979a], assumerà i contorni di una vera e propria “rivoluzione copernicana del gusto” [Wacquant 1993b, pp. 662-664]. Al pari, infatti, dei lavori sulla riproduzione culturale e sugli studenti, nei quali lo studioso francese e il suo gruppo rivelano, attraverso l’individuazione del “carattere arbitrario”, e non certo neutrale, delle istituzioni educative, la completa infondatezza dell’ipotesi – considerata valida negli anni ’60 – che correla le capacità innate dell’individuo alle sue future performance scolastiche, tali indagini affrancano le preferenze soggettive dalla loro apparente naturalezza, inscrivendole entro un processo di codificazione e di normatività che riflette, e riproduce, meccanismi di disuguaglianza sociale. Ne L’amore dell’arte [Bourdieu, Darbel, Schnapper 1966], in particolare, Bourdieu si interroga sui meccanismi culturali che intervengono a naturalizzare i percorsi di fruizione dei frequentatori dei musei appartenenti alla classe dominante. Attraverso una prospettiva analitica che rappresenta i fruitori d’arte come pubblici, e che dunque ne sottolinea l’intrinseca stratificazione, «rinunciando così al punto di vista globalizzante sul pubblico dell’arte» [Heinich 2001, p. 68], lo studioso francese focalizza il suo sguardo sociologico sulle differenti traiettorie di consumo intraprese dai profani e dagli iniziati, e soprattutto sulle reiterate strategie di differenziazione operate dagli stessi musei. Questi, infatti, si trasformano agli occhi di Bourdieu in micro-ambienti privilegiati in cui la postura, i movimenti del corpo, i tempi di attesa davanti a un quadro rivelano, inconsapevolmente per i soggetti che ne sono portatori, la presenza o meno di una familiarità con quel mondo. Non è un caso che inizi a divenire pressante l’influenza di Panofsky, il quale, con la metodologia iconografica per la decodifica del significato delle opere d’arte, rappresenta uno snodo significativo nell’analisi bourdieusiana delle modalità attraverso cui la conoscenza dei codici artistici può funzionare come una forma di capitale culturale. Infatti, l’obiettivo di fondo che guida l’elaborazione di tale testo è, per Bourdieu, la possibilità di avviare in modo coerente una vera e propria “sociologia della percezione artistica” [Bourdieu 1993, p. 265], in grado di rilevare il carattere relazionale e posizionale dello ‘sguardo puro’ del conoscitore d’arte [Bennett, Savage, Silva, Warde, Gayo-Cal, Wright 2009, pp. 31-33], tentando di ricostruire 10 socialmente il processo percettivo su cui si basa la fruizione di un oggetto culturale. Lo studioso francese mostra come anche l’apparente semplicità di un gesto che conferisce un valore naturale, di nascita, ad una determinata pratica, tenda a nascondere invece le funzioni di riproduzione proprie della particolare istituzione destinata alla legittimazione di quella pratica e alla trasmissione del suo significato culturale. Così, il gusto culturale che si concretizza in una specifica preferenza per uno stile pittorico può rivelare un differente livello percettivo, risultato di un diverso grado di familiarità con l’arte. In questo senso, la riproduzione del sistema educativo dota l’individuo di un insieme di competenze simboliche funzionali alla decodifica dei segni e dei simboli della realtà quotidiana nelle sue differenti forme ed espressioni. La questione chiave è la decodificazione, elemento certamente cruciale nella semiotica degli anni ’60 e ’70,10 che Bourdieu affronta per spiegare il rapporto diseguale che può generarsi tra l’opera d’arte e il fruitore sprovvisto della competenza funzionale alla sua comprensione. Infatti, se è vero che l’opera d’arte non esiste in quanto tale che nella misura in cui è percepita, vale a dire decifrata, si deduce logicamente che le soddisfazioni legate a questa percezione […] sono accessibili soltanto a coloro che sono preparati ad appropriarsene poiché accordano loro valore, essendo inteso che possono accordare loro valore soltanto se dispongono dei mezzi per appropriarsene [Bourdieu, Darbel, Schnapper 1966, p. 159]. La fruizione di un’opera d’arte non produce a livello percettivo le stesse soddisfazioni a individui differenti. Quel che varia è il valore simbolico ad essa attribuito, prodotto di un bisogno culturale che tanto più è soddisfatto quanto più tende a crescere, generando un processo dinamico nel quale la continua ricerca di nuovi prodotti consolida «la 10 Alla prospettiva bourdieusiana, la percezione artistica interessa nei termini di una «implementazione pratica degli schemi semi-corporei che operano sotto il livello del concetto», quindi in un’ottica di rilevamento dei meccanismi di dissimulazione simbolica che regolano, non percepiti dagli stessi attori, anche il semplice processo di fruizione [Bourdieu 1993, p. 266]. Ad una significativa revisione (critica) dei lavori sulla cultura realizzati negli anni ’60, Bourdieu giunge attraverso l’elaborazione della teoria della pratica e l’importante lettura dell’opera di Baxandall [1972]. In particolare, quest’ultima – in cui il dipinto è concepito come la «testimonianza di un rapporto sociale» tra il creatore dell’opera e coloro che la commissionano, inseriti all’interno di istituzioni e convenzioni che mediano il processo di relazione, e dove sono delineate le disposizioni visive che sottostanno alla fruizione dell’opera da parte degli individui – rappresenta per lo studioso francese «una realizzazione esemplare di quel che deve essere una sociologia della percezione artistica» [Bourdieu 1992a, p. 400]. 11 padronanza degli strumenti di appropriazione e, in tal modo, le soddisfazioni legate ad una nuova appropriazione» [Ibid.]. Al tempo stesso, quando tale bisogno è meno percepito e sentito come impellente, tende a decrescere il suo grado di soddisfacimento. Infatti, ad un debole bisogno culturale corrisponde una ridotta pratica di fruizione, la quale, a sua volta, determina una riduzione costante della percezione del bisogno stesso. Al principio di questo circolo, inevitabilmente vizioso, si colloca il particolare background dell’individuo e il suo “profilo” scolastico, elementi che gli consentono di dotarsi degli strumenti necessari all’appropriazione – un codice più complesso, elaborato – e che rendono tale pratica soddisfacente sotto diversi punti di vista. Chi, dunque, non ha ricevuto la competenza necessaria a sviluppare una precisa e completa familiarità con l’arte, tende secondo Bourdieu a “giudicarla” attraverso le particolari categorie dell’esperienza quotidiana [Ivi, p. 74]. Vale a dire, il processo di fruizione si limita a decodificare i significati primari, non riuscendo di conseguenza a rilevare gli elementi connotativi e significativamente più profondi dell’opera stessa. D’altro canto, gli individui dotati di un’istruzione più elevata non si limitano ad una decodificazione scolastica pura, anzi sviluppano un gusto più personale, che, proprio in quanto ricolmo in ogni sua parte di tale cultura, è in grado di interiorizzare un «atteggiamento spregiudicato, insegnato da una scuola così profondamente penetrata dei valori delle classi dominanti da fare sua la svalorizzazione mondana delle pratiche scolastiche» [Ivi, p. 90]. Solo il pieno e consapevole possesso di tale cultura rende possibile la transizione «dalla cultura di Scuola verso quella cultura libera, vale a dire liberata dalle sue origini scolastiche» [Ibid.]. Il gusto diviene, quindi, espressione non solo di un’acquisizione simbolica sempre più complessa, ma strumento di potere in grado di esplicitare la posizione distintiva occupata da un individuo. Più in concreto, sulla scorta della riflessione kantiana con la quale si confronterà definitivamente ne La distinzione [1979a], Bourdieu rileva due tipologie di gusto fondamentali: popolare vs. estetico. L’etichetta kantiana di «gusto barbaro», proposta nella Critica del giudizio, designa l’elevata difficoltà da parte delle classi popolari nell’operare una reale distinzione tra «ciò che piace» e «ciò che fa piacere» e, più generalmente, tra il «disinteresse» e «l’interesse dei sensi» [Bourdieu, Darbel, Schnapper 1966, p. 68].11 Ovvero, il significante di un’opera 11 Va precisato, tuttavia, che l’estetica cosiddetta popolare tende ad apparire quasi il rovescio di quella kantiana. Infatti, la prima non si concretizza in termini di interesse dei sensi, bensì nel rispetto di regole direttamente legate alla morale o al gradimento. Comunque, sui nodi critici della ri-lettura kantiana intrapresa da Bourdieu – nello specifico sul disinteresse, cui si riferisce il filosofo tedesco, come 12 deve necessariamente esprimere un significato, e quindi deve svolgere una chiara funzione narrativa. Il gusto estetico, invece, è in grado di percepire l’opera d’arte «proprio ed esclusivamente in quanto significante che non significa nient’altro che se stesso» [Ivi, p. 67]. Nella terza Critica [1790], che si configura, soprattutto nel confronto con la Critica della ragion pura, come una proposta di naturalizzazione debole [Ferraris 2004, p. 131], Kant delinea il rapporto tra il soggetto e l’oggetto in termini di categorie finalizzate12 a spiegare il mondo in base a fini (traslati dall’intrinsicità degli oggetti agli interessi dell’umanità), secondo una possibile concordanza tra le nostre facoltà conoscitive e l’oggetto (nella sua bellezza) [D’Angelo 1997]. In questo modo, il giudizio di gusto, quando connesso al bello, non è guidato da un interesse dei sensi, ma è un piacere libero e disinteressato [Kant 1790, § 5, pp. 83-85]. Qui la bellezza è concepita come fonte di un piacere universale, basato su qualcosa che può essere inferito in ogni altro soggetto giudicante. È un’universalità soggettiva che si oppone al piacevole, che invece è soltanto soggettivo [D’Angelo 1997]. Ogni interesse corrompe il giudizio di gusto e gli toglie la sua imparzialità, in specie quando […] esso non pone la finalità avanti al sentimento di piacere, ma fonda quella su questo […] i giudizi così modificati non possono avere alcuna pretesa alla validità universale del piacere. […] Il gusto resta sempre barbarico, quando abbia bisogno di unire al piacere le attrattive e le emozioni, o di queste faccia anche il criterio del suo consenso [Ivi, § 13, p. 113]. Kant distingue i giudizi estetici in empirici e puri: i primi rinviano alla dimensione della piacevolezza o spiacevolezza e quindi si presentano come giudizi dei sensi; i secondi, contemplativi [Ivi, § 5, p. 83], «senza alcun interesse per l’oggetto» [Ivi, § 12, p. 111] e privi di ogni praticità, «affermano la bellezza d’un oggetto o della sua rappresentazione» [Ivi, § 14, p. 115], assumendo in modo esclusivo l’apparenza formale di veri giudizi di gusto. L’universo estetico strutturato da Kant assume, tra le mani di un sociologo “non temperato” come Bourdieu, di derivazione durkheimiana («per cui ogni fenomeno espressivo è in primo luogo sociale») e marxiana («l’estetica come ulteriore manifestazione della lotta di classe») [Dal Lago 1985, p. 82], i contorni di una proposta categoria che non presuppone una concezione estetica dell’arte – si rimanda a Fowler [1997, p. 65] e a Crowther [1994]. 12 Cassirer [1921] invita a leggere la finalità kantiana, nella relazione tra il soggetto giudicante e l’oggetto nella sua bellezza, non tanto secondo un meccanismo, più evidente ma impreciso, di funzionalità, quanto in termini di concordanza, di armonia o di accordo. 13 socialmente e culturalmente inaccettabile. Infatti, lo studioso francese articola la sua critica alla Critica del giudizio focalizzandosi sulle disuguaglianze sociali che generano divari e vuoti incolmabili, come nel caso di chi, «sprovvisto della disposizione e della competenza estetica» [Bourdieu 1994, p. 206], si senta indifferente o provi incomprensione di fronte ai prodotti consacrati come belli. Il nodo della questione è il meccanismo di naturalizzazione delle differenze che nell’opera kantiana si assolutizza, laddove erige «un’esperienza particolare dell’opera d’arte […] a norma universale di ogni esperienza “estetica” possibile, e dunque (legittimando) tacitamente una forma particolare di esperienza e, con essa, quanti hanno il privilegio di accedervi» [Ivi, p. 207]. In questa direzione possiamo intendere l’attacco di Bourdieu alla nozione di disinteresse13 – quanto mai centrale nel suo universo riflessivo14 – che nel modello generale dell’analisi sul gusto rinvia indirettamente ad una accezione negativa della cultura, in quanto questa «contribuisce all’oppressione, allo sfruttamento e alla riproduzione delle disuguaglianze» [Warde, Savage 2009, p. 32]. Infatti, nel momento in cui lo studioso francese riconosce l’esistenza di un ordine simbolico, gerarchicamente strutturato intorno ad un principio di legittimità, egli rileva il meccanismo di dissimulazione e di disconoscimento in esso presupposto. Non esiste alcuna validità universale alle radici dell’estetica legittima della classe borghese [Lane 2000, p. 148]. Il disinteresse estetico, che richiama appunto la proposta kantiana del piacere estetico puro, naturale, è quanto mai intrecciato ad interessi materiali e sociali che sostanziano lo stesso gioco dialettico tra dominanti e dominati. La concezione del gusto puro come un giudizio disinteressato è essa stessa interessata. Ammettendo solo forme di piacere altamente formali, sublimate e fondamentalmente vuote, il gusto nega tutto il piacere fisico e dei sensi. Negando gli istinti e la natura biologica e fisica, il gusto sostiene l’immagine dell’uomo come un essere etico. Infatti, il borghese come uomo ed essere etico costituisce se stesso affermando precisamente questa differenza dalla natura. Bourdieu spiega questo ascetismo etico come una funzione della 13 Kant, tra l’altro, distinguendo un interesse empirico e uno intellettuale [1790, § 41-42, pp. 269-283], non esclude del tutto la possibilità dell’esistenza di un interesse anche nel caso del gusto per il bello. Il punto però è che, per non cadere in contraddizione, definisce indiretto il legame con il giudizio estetico, e dunque depaupera i possibili benefici di un tale risvolto epistemologico (impensabile, in realtà, nel suo modello del mondo). 14 Rahkonen [2011, p. 131] rileva come, in modo paradossale, Bourdieu dismetta il principio dell’estetica pura attraverso l’articolazione di una critica sociologica, e contemporaneamente, in opere successive [Bourdieu 1992b], sviluppi la sua sociologia riflessiva proprio in termini di disinteresse. 14 pretesa borghese di una posizione sociale dominante [Suck 1987, pp. 11111112]. In questo senso, il gusto diviene la traccia e il sintomo di una società diseguale che arriva a riflettere le differenze perpetrate dalle sue strutture anche nell’apparente naturalità di una postura o di preferenze estetiche. Vi è nell’osservazione e nella rilevazione di tali pratiche e giudizi il riconoscimento di un processo sociale fortemente strutturato. Infatti, «il mito di un gusto innato, che non dovrebbe niente alle costrizioni dell’apprendimento o al gioco delle influenze poiché sarebbe dato tutto intero fin dalla nascita, non è che una delle espressioni dell’illusione ricorrente di una natura colta che preesisterebbe all’educazione» [Bourdieu, Darbel, Schnapper 1966, p. 164]. La scolarizzazione e la continua appropriazione culturale consentono all’individuo il raggiungimento di una competenza simbolica che gli permette di mettere in relazione una singola opera con l’“insieme” artistico di cui essa fa parte. Quindi, il soddisfacimento della fruizione non è legato ad una particolare utilità sociale, ma alla possibilità di individuare significati ben più complessi e traiettorie di relazione avanzate. Qui si fa evidente la distinzione tra norma sociale e norma estetica poiché le categorie percettive della vita quotidiana vengono rimpiazzate da quelle dell’alfabetizzazione. Il sistema scolastico non si limita alla strutturazione di un principio di legittimità simbolica ed estetica, ma perpetrando le ineguaglianze con un diverso ordine e grado di accesso riflette e riverbera nel tempo tali gap. Infatti, tanto più è completo e avanzato il processo di formazione scolastica di un individuo, quanto più si accrescono i suoi bisogni culturali e si ampliano, al tempo stesso, i mezzi di cui dispone per il loro soddisfacimento. All’inverso, un attore sociale che non disponga delle risorse necessarie per “investire” su tale alfabetizzazione, non sentirebbe il bisogno né possederebbe gli strumenti simbolici funzionali alla fruizione di determinati prodotti culturali. Quindi il senso estetico assume nell’analisi condotta da Bourdieu un forte valore sociale e simbolico, tanto da connotarsi in termini di ethos di classe, vale a dire «l’insieme dei valori che tendono ad organizzare la condotta di vita di una classe sociale» [Ivi, p. 78], e come mezzo per la legittimazione del privilegio [Grenfell 2004, p. 90]. Ne consegue, per il sociologo, la possibilità di condurre un’indagine sui gruppi sociali, sulla loro estetica che traspare dalla “produzione” di un insieme di opere, dalle “funzioni” loro assegnate e dai “significati” loro attribuiti. 15 L’esperienza vissuta, immediata, colta attraverso espressioni che adombrano il senso oggettivo nel momento stesso che lo rivelano, rimanda all’analisi dei significati oggettivi e delle condizioni sociali di possibilità di tali significati, analisi che a sua volta richiede la costruzione del rapporto tra soggetti attivi e il significato oggettivo delle loro condotte [Bourdieu 1965, a cura di, p. 36]. In questo modo, nella proposta bourdieusiana l’“amore dell’arte” è il risultato di pratiche incorporate, e non di disposizioni innate, che riproducono, inconsapevolmente, disuguaglianze sociali e culturali. Gli stessi musei nel caso qui considerato – al pari dell’università – quali istituzioni produttrici di simboli codificati, rischiano di ostacolare l’accesso alla cultura da parte di coloro che ne sono esclusi, o comunque distanziati, per appartenenza ed origine, riproducendo in questo modo le disuguaglianze in ingresso (dal momento che, nella struttura complessiva del pubblico frequentatore di musei francesi, l’1% è un agricoltore, il 4% è un operaio, il 5% un artigiano e un commerciante [Bourdieu, Darbel, Schnapper 1966, p. 28]), piuttosto che dare avvio ad una pratica reale di democratizzazione [Prior 2005, pp. 127-128], inserendo, ad esempio, spiegazioni dettagliate delle opere quanto mai utili per i profani [Heinich 2001, pp. 68-69].15 Ne La fotografia [Bourdieu 1965, a cura di], altra opera fondamentale di analisi culturale, basata sull’osservazione, l’intervista libera e la ricerca statistica,16 l’interesse di Bourdieu non è tanto rappresentato dal tentativo di confrontarsi con l’estetica kantiana, quanto dalla possibilità di sviluppare un’analisi, sociologicamente fondata, dell’esteticismo e del formalismo [Fowler 1997, p. 65]. La stessa nozione di arte media connota «uno stadio intermedio tra il bello e il brutto in termini di estetica; ma significa anche: a metà strada tra l’arte nobile e la cultura popolare; infine gioca sulla parola “medio” 15 Il presupposto che sussume l’analisi bourdieusiana della frequentazione dei musei, e più in generale del gusto culturale, è la presenza di un ordine simbolico entro il quale è inscritto un principio di legittimità dominante. Bourdieu considera legittima la cultura alta della classe dominante, e dunque descrive come “deprivazione” il mancato accesso ad essa da parte della classe popolare. Contro questa prospettiva – risultato di una specifica appartenenza intellettuale e di una tradizione fortemente radicata nella cultura francese – che svaluta la “cultura popolare”, si rimanda a Grignon, Passeron [1989]. 16 La ricerca è condotta, tra gli altri, in ambiente rurale (Béarn), nelle officine Renault, in diversi foto-club a Lille; in aggiunta, trae numerose informazioni, oltre che da studi realizzati da organismi privati, anche da un’inchiesta realizzata su 692 soggetti a Parigi, Lille e in una piccola città di provincia dal Centre de Sociologie Européenne. Proprio quest’ultima indagine costituirà una parte integrante, non unica, del lavoro empirico de La distinzione [Bourdieu 1979a]. 16 per evocare le accezioni sociologiche di “classe media” e di “media statistica”» [Krauss 1990, p. 218]. Anticipando i termini della riflessione sviluppati ne L’amore dell’arte [Bourdieu, Darbel, Schnapper 1966], il rapporto tra il gusto popolare e quello delle classi colte costituisce il punto cruciale di questa analisi. In particolare, «il “gusto barbaro” che fa dell’interesse sensibile, informativo o morale, il principio dell’apprezzamento, rifiuta con estremo vigore l’immagine dell’insignificante e […] l’insignificanza dell’immagine» [Bourdieu 1965, a cura di, p. 147]. Secondo questa logica, ogni prodotto culturale deve svolgere una funzione e laddove ne fosse privo verrebbe a mancare la sua utilità sociale. É a tutti gli effetti un senso pratico che non è in grado di distinguere una norma estetica da una di tipo sociale o, all’inverso, che le fa aderire completamente. Infatti, le categorie del quotidiano si fondano sulla convenienza e sull’opportunità, tanto che, come rileva lo stesso Bourdieu in ambiente rurale, i contadini ritengono utile fare fotografie solo a determinati oggetti e solo in determinate circostanze. Questa è la conseguenza culturale di una privazione [Bourdieu, Bourdieu 1965]. Nel discorso avanzato dallo studioso francese, le due estetiche non tendono semplicemente a perseguire differenti strade percettive e normative, anzi la comune appartenenza ad un medesimo ordine simbolico le rende strettamente intrecciate. Infatti, se è vero che l’estetica popolare tende a configurarsi in opposizione a quella colta, tuttavia, secondo Bourdieu, proprio perché dominata (è la scuola che trasmette i saperi legittimi) questa non riesce ad affermarsi completamente. I suoi membri, dunque, vivono una profonda contraddizione, che tentano di risolvere instaurando quello che viene definito «un doppio registro di giudizio, non potendo né ignorare l’esistenza di un’estetica colta che rifiuta la loro estetica né rinunciare alle loro inclinazioni socialmente condizionate, e ancor meno proclamarle e legittimarle» [Bourdieu 1965, a cura di, p. 141]. L’ostacolo che tali soggetti si trovano a fronteggiare è la separazione tra la pratica e il giudizio su tale pratica, in quanto la normatività che regolamenta la prima è prodotta in un contesto simbolico differente da quello che determina il giudizio. Ciò sintomaticamente si riflette nella distinzione operata dall’attore sociale «tra ciò che gli piace e ciò che gli dovrebbe piacere di fare» [Ibid.]. “Legittimità” è, quindi, il termine fondativo intorno al quale la realtà simbolica viene organizzata, gerarchizzata e strutturata, trascendendo qualsiasi forma di soggettivazione e assumendo un valore prettamente sociale, implicitamente e esplicitamente condiviso [Etis, Pedler 1999]. In un sistema di produzione culturale ogni comportamento è soggetto a regole e, di conseguenza, a sanzioni che ne normativizzano l’azione 17 all’interno di una cornice di valore che si esplicita mediante approvazioni e/o critiche. Tali regole di natura estetica sono proposte dalla classe dominante e assunte come tali dalle classi subalterne. Tuttavia, come osserva giustamente Bourdieu, legittimità non significa legalità: se gli individui delle classi subalterne in materia culturale riconoscono quasi sempre la legittimità delle regole estetiche proposte dalla cultura dominante, ciò non esclude che essi possano passare tutta la loro vita fuori del campo di applicazione di tali regole, senza peraltro che queste ultime perdano la loro legittimità, cioè la loro pretesa a essere universalmente riconosciute [Bourdieu 1965, a cura di, p. 161n].17 Ciò non implica alcuna forma di libertà nella produzione estetica, dal momento che la partecipazione di un dato individuo alla vita culturale pubblica deve necessariamente transitare attraverso il “rispetto” di tali principi. Da questo punto di vista, l’autonomia dei “dominati” è solo apparente e comunque è strettamente connessa alle strategie di differenziazione dei “dominanti”. É una dialettica estetica senza soluzione, dal momento che: i primi desiderano essere accettati sul piano sociale e culturale, proprio in quanto esclusi dal gioco della determinazione del potere, privati come sono di capitali legittimi; i secondi perseguono strategie differenziali proprio in quanto perfettamente dotati di quelle risorse che consentono loro di perpetrare il proprio potere simbolico. Tuttavia, la presenza di regole strutturanti la legittimità non è sufficiente al loro rispetto e alla loro concreta applicazione. Alla base di tale processo vi deve essere una “pubblicità” e un generale fenomeno di riconoscimento (decodifica). Così, tanto più è sofisticata ed elaborata la cultura di cui si è preso possesso, quanto più è ampio ed articolato il processo di riconoscimento di opere pittoriche ed artistiche inserite entro un frame generale di prodotti legittimi. Ne consegue che «l’esistenza di opere consacrate e di tutto il sistema delle regole che definiscono l’approccio sacramentale, presuppone un’istituzione la cui 17 In questa fase, la teoria della legittimità avanzata da Bourdieu presenta delle forti assonanze con la proposta weberiana [Sennett 1980, pp. 19-21], di cui costituisce un prolungamento laddove rileva il meccanismo di «interiorizzazione del rapporto di forza» e di «soggettivazione di un ordine sociale oggettivo» [Paolucci 2011, p. 67]. È nei testi successivi sulla riproduzione e sulla violenza simbolica che lo studioso francese definisce il carattere di mutamento che sostanzia l’istituzione del dominio attraverso il lavoro di legittimazione. 18 funzione non sia solo di trasmissione e di diffusione ma anche di legittimazione» [Ivi, p. 154].18 Dunque operando una sintesi tra posizioni comunque peculiarmente differenti, possiamo sostenere che in questi lavori dedicati alla dimensione culturale, Bourdieu: maturi l’intenzione di confrontarsi con alcune questioni di natura filosofica, nello specifico l’estetica kantiana,19 attraverso un’operazione strettamente metodologica;20 e tenti di fondare una vera e propria “sociologia della percezione artistica”, integrando i materiali empirici ottenuti attraverso metodi d’indagine sociologici e le risultanze derivanti da un lavoro più prettamente storico. Il primo punto ha un evidente risvolto sociologico e di conseguenza empirico: distanziarsi dalla filosofia, infatti, significa per Bourdieu confrontarsi con questa sul suo medesimo campo di battaglia (simbolica), quindi recuperare un oggetto tradizionalmente destinato alla speculazione filosofica, trasporlo entro i confini dell’analisi sociale e indagarlo con tecniche “quantitative”, come ad esempio l’utilizzo del questionario per analizzare le preferenze culturali. In particolare, come accennato in precedenza, è in Bourdieu, Darbel, Schnapper [1966], in misura maggiore rispetto ad altri lavori bourdieusiani, che la ricerca statistica si presenta connotata di un elevato livello di complessità e sofisticatezza al fine di prevedere, attraverso modelli matematici direttamente desunti dall’economia, la probabilità che differenti gruppi di pubblici, dotati di capitale culturale, si trasformino in frequentatori abituali di musei [Jenkins 2002, pp. 60, 64]. 18 Rispetto ai termini del nostro discorso, l’analisi sulla fotografia si rivela interessante anche perché tale medium, nella prima metà degli anni ’60, non era ancora una pratica definitivamente legittima, ponendo quindi in evidenza «la questione della propria legittimità: la posizione della fotografia nella gerarchia delle legittimità è a metà strada fra le pratiche «volgari» apparentemente abbandonate all’anarchia dei gusti e dei colori e le pratiche culturali nobili, sottoposte a regole rigide» [Bourdieu 1965, a cura di, p. 156]. 19 Tra l’altro già nella fase più matura del pensiero di Durkheim riecheggia un kantismo sociologico che si traduce, nello studioso francese, nel tentativo di dimostrare che le categorie del pensiero kantiane hanno un’origine sociale. Cfr. Giddens [1978, p. 72]. 20 Soffermandosi solo in parte su questo punto, Robbins [2006, pp. 11-12] osserva come, alla fine degli anni ’60, Bourdieu: tentasse di realizzare una sociologia della «genesi sociale della creatività intellettuale/artistica»; si proponesse di fornire «un’identità istituzionale e ideologica» alla pratica delle scienze sociali attraverso il portato dell’eredità durkheimiana; iniziasse a riflettere sul suo rapporto epistemologico con la scienza e l’arte in modi similari «alla tradizione neo-kantiana come era interpretata da Cassirer». Su quest’ultimo aspetto rimandiamo alla riflessione presente nel prossimo capitolo. 19 Il sociologo non si propone di confutare la formula di Kant per il quale «il bello è ciò che piace senza concetto» ma piuttosto di definire le condizioni sociali che rendono possibile questa esperienza e coloro per i quali essa è possibile, amatori d’arte o «uomini di gusto», e di determinare con ciò in quali limiti può, in quanto tale, esistere [Bourdieu 1965, a cura di, p. 164]. Il secondo punto, invece, restituisce in modo sintomatico la proprietà sostantivamente strutturalista dell’approccio bourdieusiano [Bourdieu 1968a]. La teoria della cultura di Lévi-Strauss viene adattata al campo dell’esperienza estetica [Swartz 1997, p. 83]:21 infatti, negando la tesi che la percezione artistica sia ‘spontanea’ nello stesso modo in cui Lévi-Strauss ha negato la ‘spontaneità’ del mito, [Bourdieu] non fa soltanto uso della ‘nozione’ lévi-straussiana di cultura ma anche del modello lévistraussiano del ‘funzionamento’ della cultura nel generare la percezione e l’azione [Lizardo 2011, pp. 35-36]. Bourdieu propone una lettura del consumo artistico in cui fruitori e produttori sembrano, nel confronto con la centralità simbolica, sociale e culturale assunta dal codice, soggetti ipostatizzati che si stagliano sullo sfondo della relazione tra percezione e produzione: la leggibilità modale di un’opera d’arte (per una data società di una data epoca) è funzione dello scarto tra il codice richiesto oggettivamente dall’opera considerata e il codice come istituzione storicamente costituita; la leggibilità di un’opera d'arte per un individuo particolare è funzione dello scarto tra il codice, più o meno complesso e sofisticato, richiesto dall’opera, e la competenza individuale, definita dal grado in cui il soggetto si impossessa del codice sociale, esso stesso più o meno complesso e sofisticato [Bourdieu 1968a, p. 649]. È evidente quanto questa lettura sia regolata da una matrice binaria di tipo strutturalista, in cui il dialogo tra l’autore e lo spettatore si realizza solo nel momento in cui al primo si sostituisce l’opera e al secondo la società alla quale questi appartiene. È altrettanto significativo, poi, che gli accenni agli scarti tra codici, determinanti per i semiotici e i linguisti del periodo per definire le strategie di autonomizzazione ermeneutica seguiti dal fruitore nell’atto della decodifica [Eco, Fabbri 1978], assumano rilevanza per Bourdieu solo in 21 Il riferimento a Lévi-Strauss traspare, in particolare in quest’opera [Bourdieu 1968a], anche attraverso un utilizzo metaforico e suggestivo delle pratiche etnografiche (è significativa la figura dell’etnologo immerso in una società straniera) funzionali a restituire il significato profondo della dissonanza culturale che può intervenire tra i fruitori e le opere d’arte [Ivi, p. 642]. 20 quanto contribuiscono ad illustrare il posizionamento degli agenti rispetto ad un ordine simbolico (di senso) gerarchizzato. 3.4 Tra Marx e Weber: il “capitale declinato” Tra le categorie più significative del modello di analisi proposto da Bourdieu, la nozione di capitale è quella che, più di altre, rivela in modo apparentemente sintomatico il legame dello studioso francese con l’elaborazione marxiana, anche se in realtà tale rapporto si dimostra intricato nella sua effettiva concretizzazione e lo stesso Bourdieu sembra più propenso ad indicare, quasi in un senso filologico, la matrice del Marx giovanile [1844] sulla sua “teoria delle pratiche” [Bourdieu 1972a, p. 92; 1980a, p. 83; 1997, p. 144].22 Ad un livello generale vi sono almeno tre punti in cui la prospettiva di Bourdieu coincide con quella di Marx: a) nel rifiuto della teoria pura, quindi nell’inseparabilità tra l’attività teorica e il lavoro scientifico pratico; b) nella concezione relazionale del sociale, dunque nel fondamento di relazioni tra idee, persone, concetti, che sussumono ogni fatto o evento analizzato; c) nella visione agonistica del mondo sociale, che si traduce in un sistema di lotte e di classificazioni che concorrono, differentemente, alla definizione delle configurazioni sociali [Wacquant 2001, pp. 105106]. Nello specifico, però, il capitale è sviluppato e adottato dallo studioso francese soprattutto «nel quadro di una ripresa della teoria weberiana della stratificazione», di cui «è una evidente spia la tripartizione delle forme di capitale» [Santoro 2009, p. 10n]. Dunque le differenze prospettiche tra i due autori sembrano sostanziali [Marsiglia 2002]. In primo luogo Marx inscrive il capitale e il lavoro necessario per accumularlo entro una più ampia lettura della società capitalista, alla cui costituzione e ai relativi processi di dominio contribuisce in modo significativo proprio il capitale.23 In Bourdieu manca del tutto 22 Su questo punto si rimanda a Paolucci [2011, pp. 7-9]. Lin, a sua volta, nel delineare i principali recuperi della teoria del capitale a partire dall’elaborazione marxiana, individua nell’imperfetta corrispondenza tra l’accumulazione del capitale economico e del capitale culturale nella teoria di Bourdieu un elemento di differenziazione dalla proposta di Marx [1999, pp. 29-30]. 23 In questa direzione si può valutare, ad esempio, il recente recupero dell’opera marxiana che, assieme ai dispositivi foucaultiani, trova uno spazio di applicazione nelle analisi sull’economia biopolitica [Hardt, Negri 2000; Negri 2012], sul capitalismo cognitivo [Formenti 2011; Antonelli, Vecchi 2012, a cura di] e sulle pratiche di lavoro digitale [Terranova 2000]. In tutti questi testi, e in molti altri 21 qualsiasi ancoraggio ad una prospettiva macro-storica [Calhoun 1993, pp. 67-70] e la stessa elaborazione del concetto di classe appare solo terminologicamente prossima a quella marxiana, richiamando nella sostanza «la categoria durkheimiana dei gruppi che condividono esperienze e rappresentazioni collettive, e la nozione weberiana dell’insieme di attori che tenta di monopolizzare i mercati rispetto a differenti beni e servizi» [DiMaggio 1979, p. 1470]. In secondo luogo, fermo restando che la matrice economica dell’azione sociale è esplicitamente soggetta ad una revisione e a un superamento nell’“economia delle pratiche” bourdieusiana [Lebaron 2004; Swedberg 2011; Boyer 2003],24 lo studioso francese [Bourdieu 1979a; 1986] individua tipi e sottotipi di capitale – economico, sociale, culturale, simbolico – che contribuiscono a diversificare la proposta unitaria avanzata da Marx [1867].25 D’altro canto tale divaricazione del capitale si riflette nella sua convertibilità, quindi nella possibilità di derivare dal capitale economico gli altri tipi, seppur all’interno di un meccanismo di disconoscimento di questa comune radice [Bourdieu 1986, p. 252]. L’importanza dell’intuizione bourdieusiana è evidente in quanto relazionalizza il processo di accumulazione, assumendo come dinamico il senso delle pratiche dell’agente entro i confini della propria rete (oggettiva) di relazioni. È in questa fase [Bourdieu 1971a; 1971e] che il nostro studioso definisce i termini della congiunzione di una duplice opposizione [Rancière 1983]: tra i dominanti e i dominati, quindi, tra coloro che possiedono il capitale e coloro che ne sono privi, da un lato, e tra le frazioni dominanti (più dotate di capitale economico) e le frazioni dominate della classe dominante (in misura preponderante in possesso del capitale culturale), dall’altro.26 La contrapposizione tra il “polo economico e quello intellettuale” [Benson 1999, p. 464; Daloz 2007, p. soprattutto di taglio internazionale che per ragioni di opportunità non citiamo, i riferimenti all’opera bourdieusiana sono quasi del tutto assenti: ciò è comprensibile laddove lo studioso francese, come stiamo sostenendo, ha sempre mantenuto una distanza sociologica dalla lotta di classe e dal paradigma capitalistico; è però sorprendente che tali riflessioni, che hanno il merito di definire la pervasività quotidiana del potere capitalistico nella vita delle persone, non considerino la portata della prospettiva di Bourdieu laddove invita a considerare i processi di dissimulazione simbolica in atto nelle relazioni sociali e la riproducibilità naturale del dominio negli spazi vitali della società. 24 Vedi capitolo successivo. 25 Si vedano Santoro [2010, pp. 146-148], Wacquant [1993a], Swartz [1997, p. 75]. 26 Bennett [2011, p. 535], tra gli altri, invita a valutare con attenzione la variabilità delle forme assunte dai dominati e i ruoli da essi incarnati come portatori dell’“estetica popolare” o della “scelta del necessario”. 22 67] costituisce probabilmente l’aspetto più innovativo introdotto dall’opera bourdieusiana rispetto alle classiche prospettive sulla stratificazione [Lane 2000, p. 148], e rappresenta il nucleo costitutivo intorno al quale si articolerà molta della produzione degli anni ’70, che culminerà con la pubblicazione de La distinzione [Bourdieu 1979a]. L’originalità della sua proposta non è solo il riconoscimento di un rapporto simmetrico e inverso tra la struttura della distribuzione del capitale economico e la struttura della distribuzione del capitale culturale [Bourdieu 1971e, p. 63], che tra l’altro assumerà presto la forma di una “relazione chiasmatica” [Bourdieu 1974b, p. 15]. Lo studioso francese, nel collocare gli intellettuali – fautori dell’arte sociale – nel lato dominato della classe dominante, a causa della loro condizione economica e della loro marginalità sociale, individua in questo aspetto il fondamento di quella posizione solidaristica da loro assunta nei confronti delle classi dominate [Bourdieu 1971a, p. 69]. Il conflitto tra il “polo economico e quello intellettuale” deriva da una prospettiva più generale, vale a dire da quel doppio movimento intrapreso da Bourdieu che, descrivendo il funzionamento dell’“economia culturale” [Hinde, Dixon 2007, p. 412], «strumentalizza la cultura nello stesso tempo in cui ne difende l’autonomia» [Warde, Savage 2009, p. 32]. Infatti, secondo Bourdieu, è impensabile lasciare esclusivamente alla cultura i termini della sua valutazione, ed è per questo che egli avvia una critica sociale della produzione della distinzione culturale. Al tempo stesso, però, per lo studioso francese sono altrettanto pericolose tutte quelle spiegazioni che inquadrano la cultura entro una cornice economicista. «Tale doppio movimento è […] uno dei più importanti lasciti dell’opera di Bourdieu, cui non è stata dedicata la giusta attenzione» [Ibid.]. Tra quelli analizzati, quindi, il capitale culturale rappresenta una fondamentale innovazione, in grado tra l’altro di reintrodurre «il valore d’uso […] nei discorsi sia di natura estetica che economica» [BeasleyMurray 2000, p. 106]. Al tempo stesso è l’oggetto di una sperimentazione teorica/empirica sviluppata in fasi diverse del percorso di analisi bourdieusiana, nel quadro di una riflessione più estesa sui meccanismi di esclusione.27 Inserita naturalmente nell’ampia teoria 27 Lamont e Lareau [1988, p. 158], sulla scorta dell’opera bourdieusiana, evidenziano in questo senso quattro forme principali di esclusione, che considerano centrali nell’analisi del capitale culturale: 1) l’autoeliminazione, in cui gli individui adattano le loro aspirazioni alle loro chance – percepite – di successo, autoescludendosi laddove un determinato contesto sociale richieda norme culturali a loro non familiari; 2) la iperselezione (“overselection”), in cui i soggetti dotati di minori (anche sul piano qualitativo) risorse culturali sono sottoposti al medesimo tipo di selezione di coloro che possiedono, al contrario, una dote importante. Tale 23 sulla riproduzione del sistema educativo, tale categoria analitica, letteralmente introdotta nel campo sociologico, si rivela uno strumento efficace in grado di: a) rappresentare la «cultura come una risorsa contesa»; b) misurare efficacemente «la padronanza individuale di particolari prodotti culturali» (associati all’alta cultura); c) correlare la riuscita culturale dell’agente al sistema d’insegnamento delle strutture scolastiche, contestando una certa lettura individualista, avanzata in precedenza soprattutto nel contesto anglosassone da alcuni lavori sul tema [DiMaggio 2007, p. 2]. In Bourdieu e Passeron [1964b], anche se in una forma indiretta, il concetto indica le qualità scolastiche informali e le proprietà della classe dominante, che si riflettono, per lo studente, nel possesso di una generalizzata conoscenza della scuola e dei suoi meccanismi, nella brillantezza espositiva e nella distinzione/naturalezza delle pratiche [Lamont, Lareau 1988, p. 155]. In un lavoro di poco successivo [Bourdieu 1966c] tale categoria viene esplicitata, ma è ancora priva di un’adeguata sistematizzazione. Infatti il capitale culturale è inscritto nella relazione tra l’eredità culturale della famiglia e la riuscita scolastica dello studente, e designa la conoscenza delle dinamiche del sistema d’insegnamento e la cultura extra-scolastica. Tuttavia, in un passaggio che in qualche modo pone le basi per la successiva elaborazione contenuta in Bourdieu, Passeron [1970, p. 129], Bourdieu osserva come il capitale culturale e l’ethos (di classe) «concorrono a definire le condotte scolastiche e gli atteggiamenti nei confronti della scuola che costituiscono il principio dell’eliminazione differenziale dei giovani di differenti classi sociali» [Bourdieu 1966c, p. 333]. Inoltre, nel testo dedicato allo studio del pubblico dei musei, il concetto aiuta a designare – oltre alla competenza individuale e alla trasmissione istituzionale – il sistema culturale complessivo di una nazione, divenendo appunto capitale culturale nazionale [Bourdieu, Darbel, Schnapper 1966, pp. 58-59], connesso al grado di sviluppo del sistema d’insegnamento e al capitale artistico. Ne La riproduzione [Bourdieu, Passeron 1970] il capitale culturale viene esplicitato e ricondotto a caratteristiche quali la competenza linguistica, il capitale incorporato precedentemente, il sapere formale e situazione si traduce, per i primi, in un impegno performativo ben più sostenuto rispetto ai secondi; 3) il relegare (“relegation”), in cui gli agenti con proprietà culturali di valore inferiore finiscono in posizioni meno desiderabili e ottengono risultati al di sotto del relativo investimento scolastico; 4) l’esclusione diretta, nella quale le cosiddette “affinità elettive”, che derivano dalle similarità di gusto, naturalizzano la chiusura dei gruppi privilegiati e sanciscono una ridotta mobilità sociale. 24 la cultura istituzionalizzata. In realtà se è in questo testo che Bourdieu e Passeron illustrano, seppur in modo provvisorio, il processo di conversione del capitale («questi fattori si convertono e si monetizzano, in ciascuna fase della carriera scolastica, in una costellazione particolare di fattori di ricambio» [Ivi, p. 129]), qui l’utilizzo del concetto appare strumentale [Bourdieu 1971e], inscritto nella più ampia analisi dell’azione pedagogica, dell’arbitrario culturale e della violenza simbolica che costituiscono i topoi centrali del testo (infra, 3.5): se non si analizzano i meccanismi propriamente pedagogici mediante i quali la Scuola contribuisce a riprodurre la struttura dei rapporti di classe riproducendo l’ineguale ripartizione tra le classi del capitale culturale, il sociologo «culturalista» rischia sempre di abbandonarsi a suo piacere ad omologie non spiegate, a concordanze inesplicabili e a parallelismi che sono in sé la propria spiegazione [Bourdieu, Passeron 1970, p. 243]. Grafico 3 – Numero medio di citazioni delle varie forme di capitale negli articoli su rivista pubblicati da Bourdieu È sulla base della successiva tripartizione del capitale culturale28 che è possibile osservare una significativa congruenza tra la cultura e la 28 È solo alla fine degli anni ’70 [Bourdieu 1979a; 1979b], e poi in un articolo successivo pubblicato nel 1986, che Bourdieu arriva a categorizzare il capitale culturale in tre differenti stati o forme: incorporato, oggettivato e istituzionalizzato. La prima dimensione (incorporato) implica che la sua accumulazione, prodotto di un lavoro di coltivazione, richiede un tempo significativamente elevato, ben maggiore ad esempio rispetto quello che sarebbe necessario per il capitale economico. In questo caso, il tempo dell’acquisizione è correlato alla quantità di capitale culturale 25 sottocultura in cui lo studente viene socializzato dalla sua famiglia, e i successivi riconoscimenti scolastici ed universitari. Grafico 4 – Numero medio di citazioni delle varie forme di capitale nei volumi pubblicati da Bourdieu posseduto dalla famiglia, che può consentire all’individuo, affrancandolo dalla necessità economica, di prolungare tale processo di accumulazione [Bourdieu 1986, p. 246]. Comunque, è il soggetto a rivestire un ruolo fondamentale, attraverso l’interiorizzazione di conoscenze, informazioni, qualità trasformate poi in competenze e pratiche. La seconda dimensione (oggettivato) indica, invece, i prodotti (libri, film, opere d’arte etc.) attraverso i quali il capitale culturale può essere incorporato. Qui il processo di appropriazione può avvenire materialmente, attraverso il capitale economico, e simbolicamente, mediante quello culturale. Ma perché il possesso si trasformi in utilizzo di un bene, che richiede evidentemente un grado di complessificazione maggiore, è necessario aver acquisito il capitale incorporato [Ivi, p. 247]. Infine la terza dimensione (istituzionalizzato) presuppone il riconoscimento istituzionale del capitale culturale, attraverso concorsi pubblici e titoli (diploma, laurea etc.). In questo modo, il capitale risulta oggettivato, quindi svincolato dal suo particolare possessore, differenziando il capitale culturale proprio di un autodidatta da quello di colui che ha ricevuto una certificazione accademica [Bourdieu, Passeron 1968]. Ciò naturalmente conferisce un differente valore simbolico ed economico al capitale posseduto (possibilità di conversione), in funzione del grado di riconoscimento ottenuto [Bourdieu 1986, p. 248]. Al proposito osserva giustamente DiMaggio [2009b, p. 23]: «come la moneta di scambio non ha valore senza uno stato e un sistema bancario che la garantiscono, così il capitale culturale non può definire o mantenere il proprio valore senza un significativo sforzo istituzionale. Solo dopo aver chiarito questo aspetto si può considerare il contenuto del capitale culturale come dinamico e studiare i processi sociali che contribuiscono alla sua riproduzione o sostituzione». 26 Tale analisi, soprattutto nel momento in cui enfatizza il differente rapporto con il linguaggio, che in Bourdieu e Passeron [1970, p. 165] è definito nei termini di una opposizione tra la lingua borghese («l’astrazione e il formalismo, l’intellettualismo e la moderazione eufemistica») e la lingua popolare («l’espressionismo […] che si manifesta nella tendenza ad andare direttamente dal caso particolare al caso particolare», con il sarcasmo e la volgarità), evidenzia non poche affinità con l’elaborazione di Bernstein [1961; 1971]:29 quest’ultimo infatti categorizza le competenze simboliche degli individui in differenti livelli di codice (ristretto vs. elaborato),30 che riflettono disuguaglianze nel background d’origine e nell’accesso del soggetto al mondo culturale tout court. Secondo Bourdieu il capitale linguistico è una risorsa di cui possono disporre gli individui e al tempo stesso un indicatore che riflette una particolare appartenenza sociale e un determinato curriculum scolastico. Tanto più elevato è il suo possesso, quanto più ampia e diffusa è la capacità di gestire categorie simboliche sempre più complesse. Quindi il lavoro di Bernstein può essere considerato vicino a quello bourdieusiano nell’importanza che attribuisce alla posizione sociale, nello scetticismo che dimostra nei confronti delle teorie interazioniste e nel suo tentativo di contestualizzare da un punto di vista sociologico la pratica linguistica [Collins 2000]. Tuttavia è necessario precisare che se è vero che Bourdieu e Passeron si richiamano in qualche modo a Bernstein, è altrettanto innegabile che la posizione espressa dagli studiosi francesi appaia quanto mai critica nei confronti di un certo determinismo linguistico che individua nella lingua il principio causale degli atteggiamenti: il realismo della struttura che è inerente a una tale sociologia del linguaggio tende a escludere dal campo della ricerca la questione delle condizioni sociali di produzione del sistema degli atteggiamenti che presiede, tra l’altro, alla strutturazione della lingua [Bourdieu, Passeron 1970, p. 184]. Al pari del capitale economico e di quello culturale, che compongono gli elementi dominanti dello spazio sociale, Bourdieu si riferisce anche al capitale sociale. Come nota Putnam [2000, pp. 1429 Non a caso, l’iniziale diffusione di Bourdieu nel mondo anglosassone è dovuta proprio ai suoi testi sul sistema scolastico e alla sua più generale visione riguardante il lavoro pedagogico attivo nella nostra società [Archer 1993]. Per un’analisi della relazione tra Bernstein e Bourdieu si rimanda a Gorder [1980], Atkinson [1985], Collins [2000]. 30 Bourdieu e Passeron arrichiscono l’originaria proposta di Bernstein differenziando nella loro analisi il capitale linguistico (la padronanza) dall’habitus linguistico (la predisposizione) [Collins 1993, pp. 117-118]. 27 16], la storia del concetto di capitale sociale è lunga e ondivaga. Il primo ad averlo adottato è Hanifan [1916], per indicare quei beni tangibili come l’amicizia, la solidarietà, la buona volontà che consentono di ovviare all’isolamento sociale dell’individuo e di accrescere le condizioni di vita della stessa comunità nel quale egli vive. È poi Bourdieu che rilancia tale categoria, anche se, va precisato, è con Coleman [1988; 1990] che essa riesce ad imporsi nella sociologia internazionale. La spiegazione ce la fornisce Portes [1998, p. 3] laddove osserva come l’elaborazione fornita dal nostro autore [Bourdieu 1980c] compaia in francese su Actes de la Recherche en Sciences Sociales – lo stesso Putnam, ad esempio, non cita tale riferimento – e poi all’interno di un testo sulla sociologia dell’educazione [Bourdieu 1986]. Insomma la mancanza di visibilità [Santoro 2010, p. 165] non permette una sua rapida diffusione, a tal punto che Coleman nel suo lavoro non considera mai l’opera bourdieusiana. In realtà la fase germinale del capitale sociale nell’architettura complessiva della produzione dello studioso francese possiamo collocarla diversi anni prima, e più precisamente tra il 1970 e il 1974 [Bourdieu, de Saint Martin 1970; Bourdieu 1971e; Bourdieu, Boltanski, de Saint Martin 1973; Bourdieu 1974a]. Esso indica quel principio di potere che deriva dall’acquisizione di risorse connesse alle relazioni sociali, da intendere in termini di “ampiezza e qualità dei contatti”.31 Il possesso di tale capitale per il soggetto è il risultato del tempo di permanenza nella classe [Bourdieu, de Saint Martin 1970, p. 173], da cui può derivare notorietà, oltre che il prodotto dello svolgimento di pratiche legittime, come ad esempio quelle sportive, che possono favorire l’attivazione di un vero e proprio “senso delle relazioni” [Bourdieu 1971e, p. 70]. Anche in questo caso, dunque, è necessario un processo di accumulazione, che si trasforma nell’agente in disposizioni più performative. Come rilevato da Lin [1999, pp. 33-34],32 il capitale sociale concettualizzato da Bourdieu richiede che il network si fondi, in primo luogo, su una densità elevata, implicata dai legami forti e reciproci tra i 31 In merito a questo passaggio, è opportuno distinguere – sulla scorta di quanto sostenuto da Portes [1998, p. 5] – le risorse acquisite attraverso il capitale sociale, che si presentano dunque come un dono, «dall’abilità di ottenerle in virtù dell’appartenenza a differenti strutture sociali». Altrimenti il rischio, presente tra l’altro nell’elaborazione colemaniana e non nell’opera di Bourdieu, sarebbe quello di cadere in una vera e propria analisi tautologica. 32 Sebbene la riflessione di Lin si riferisca esclusivamente a Bourdieu [1986], dove il capitale sociale riceve una completa, anche se breve, sistematizzazione, riteniamo che essa sia applicabile, almeno per i passaggi da noi citati, anche ai testi del periodo qui considerato. 28 suoi membri, tanto che non esiste un capitale sociale al di fuori di una logica di classe: «il volume del capitale sociale posseduto da un agente individuale […] dipende dal volume del capitale detenuto da ciascuno dei suoi membri moltiplicato per il grado di integrazione del gruppo» [Bourdieu, Boltanski, de Saint Martin 1973, p. 87]. Inoltre la rete di relazioni deve presupporre un significativo grado di chiusura, basata su linee di demarcazione molto nette [Ivi, p. 70], come i titoli nobiliari o l’eredità familiare, che escludono tutti coloro che ne sono privi. Osserva poi Portes [1998, p. 3] come l’utilizzo del capitale sociale in Bourdieu tenda a configurarsi in termini strumentali. Questa finalizzazione può assumere significati differenti. In generale, soprattutto nella prima metà degli anni ’70, tale capitale si rivela determinante in tutte quelle circostanze in cui dalla partecipazione a gruppi privilegiati e dalla costruzione di una sociability distintiva si ricavano benefici di tipo economico, culturale e simbolico. Lo studioso francese si riferisce, tra le altre, alle «strategie compensatorie a livello individuale», in cui l’impiego del capitale sociale permette di supplire alle insufficienze del capitale scolastico [Bourdieu, Boltanski, de Saint Martin 1973, p. 84]. Tabella 7 – Confronto in termini percentuali tra le varie forme di capitale considerate, negli articoli pubblicati su rivista da Bourdieu 1969-1971 (I) 1972-1974 (II) Var. % (I-II) Culturale 44,8% 42,6% -2,2 Economico 16,6% 21,4% +4,8 Sociale 10,3% 7,6% -2,7 Simbolico 0,7% 3,3% +2,6 Altro 27,6% 25,1% -2,5 Tabella 8 – Confronto in termini percentuali tra le varie forme di capitale considerate, nei volumi pubblicati da Bourdieu 1964-1969 (I) 1970-1972 (II) Var. % (I-II) Culturale 46,5% 19,7% -26,8 Economico 7,9% +7,9 0 Sociale 4,7% +4,7 0 Simbolico 33,1% +33,1 0 Altro 53,5% 34,6% -18,9 Il suo carattere strumentale, che si accentuerà nelle opere successive, è testimoniato dalla presenza, nel suo universo di riferimento, dei beni materiali/economici acquisibili attraverso le reti relazionali: «questa innegabile ambiguità nella definizione di Bourdieu è probabilmente conseguente allo sforzo dell’autore di inserire anche il concetto di 29 capitale sociale nella sua teoria della dominazione» [Barbieri 2005, p. 347]. Vale a dire la posizione teorica dello studioso francese valuta il capitale sociale come un mezzo ulteriore per mantenere e riprodurre il sistema della classe dominante [Lin 1999, p. 34]. La natura differenziata del capitale nell’opera bourdieusiana restituisce il livello di raffinatezza della sua proposta, soprattutto rispetto al modello marxiano della riproduzione delle classi. Tuttavia in questo confronto a distanza tra lo studioso di Béarn e il filosofo di Treviri, c’è chi come Krais [2006] ha sostenuto il carattere sostanzialista del capitale nella prospettiva del primo, in antitesi rispetto alla dimensione sociale evocata dal secondo. Questo è un punto di non facile soluzione e probabilmente tale tesi è condivisibile, anche se solo in parte. Infatti se, fino all’inizio degli anni ‘70, il capitale nelle sue diverse forme oscilla, nell’opera bourdieusiana, tra possesso e mancanza, in seguito – come confermano gli interventi ex post dello stesso studioso («il capitale è un rapporto sociale, cioè un’energia sociale che esiste e produce i suoi effetti solo nel campo in cui si genera e rigenera» [Bourdieu 1979a, p. 117]) – la sistematizzazione della categoria di campo (infra, 4.1) e del modello strategico della riconversione (infra, 4.2, 4.3) ridefiniscono in termini relazionali il suo modello, che si presenta come una chiara alternativa rispetto al sostanzialismo di tipo strutturalista. 3.5 Una cultura arbitraria, tra habitus e violenza simbolica Con la pubblicazione de La riproduzione nel 1970, Bourdieu e Passeron portano ad una conclusione, almeno parziale, la loro riflessione teorica ed empirica sul sistema pedagogico/educativo. In questo testo gli autori non si limitano a tirare le somme di un progetto di analisi avviato con successo qualche anno prima, ma offrono al lettore un quadro prospettico della perpetuazione del potere delle classi dominanti attraverso forme di disconoscimento simbolico nei confronti delle classi dominate: in sintesi, i tratti caratteristici di quella che viene definita violenza simbolica,33 riprodotta nelle forme di incorporamento culturale di tipo istituzionale determinate dalla scuola. 33 Tale nozione costituisce una categoria centrale nel più ampio paradigma antropologico cabilo, in stretta opposizione all’idea di coercizione fisica che sussume, nell’ottica bourdieusiana, una relazione intersoggettiva privata del suo carattere di misconoscimento simbolico. Al proposito Addi [2001, p. 955] avanza l’ipotesi che sia stata la pratica del khammessato ad aver suggerito a Bourdieu questo concetto. Per una valutazione critica di questa prospettiva si rimanda a Paolucci [2010, p. 182n], mentre per una lettura generale si veda Dubois, Durand, Winking [2005, a cura di]. 30 Già in questa fase della maturazione del pensiero bourdieusiano, dunque antecedente alla sistematizzazione dei lavori etnografici compiuta negli anni ’70, in cui appariranno chiare le ragioni del distacco dello studioso da quella parte di strutturalismo votata al realismo della struttura, legato a Lévi-Strauss così come a de Saussure, si possono intravedere i prodromi più significativi della sua teoria delle pratiche incorporate. Infatti è il sistema delle disposizioni, quindi l’habitus inteso nei termini dell’interiorizzazione delle condizioni oggettive, a rendere concrete le possibilità di una realizzazione delle cosiddette relazioni oggettive. Vale a dire l’habitus, «prodotto dai condizionamenti, è a sua volta condizione della produzione di pensieri, percezioni e azioni che non sono essi stessi il prodotto diretto dei condizionamenti» [Bourdieu 1965, a cura di, p. 39].34 Ne La riproduzione [Bourdieu, Passeron 1970], però, l’habitus è valutato in termini di interiorizzazione dell’arbitrario culturale, che in un’ottica bourdieusiana rinvia: a) al carattere ideologico presupposto da ogni cultura e, nello specifico, dal sistema educativo, nel momento in cui quest’ultimo è relativamente autonomo dai rapporti di potere e dal sistema di stratificazione sociale; b) al carattere autoreferenziale del sistema educativo e a disposizioni che danno origine all’inconscio scolastico, vale a dire alla naturalizzazione, attraverso l’inculcamento, di una sorta di senso comune scolastico [Bonichi 2010, pp. 235-237]. Infatti la riproduzione, nel senso più ampio del termine, agisce producendo un habitus che deve essere, al tempo stesso, durevole, trasferibile ed esaustivo. Queste tre proprietà, se soddisfatte, rendono il lavoro pedagogico estremamente produttivo ed efficace, a tal punto che quest’ultimo consente di perpetrare socialmente un certo ordine simbolico, permettendo il suo riconoscimento e quindi la sua legittimità: a) la durevolezza implica, in sostanza, che le norme e i principi estetico/culturali oltre che sociali, acquisiti dall’individuo nel periodo iniziale della sua vita, continuino a generare effetti anche dopo tale fase di “inculcamento”. Ciò significa, quindi, rendere le pratiche soggettive continuamente conformi alle regole dell’arbitrario culturale [Bourdieu, Passeron 1970, pp. 68-69]; b) la trasferibilità si riferisce a sua volta alla possibilità di generare tali pratiche, aderenti all’arbitrario culturale, in un ampio numero di 34 Qui l’habitus è rimpiazzato dall’ethos di classe, in un senso che, come già osservato nel periodo algerino e béarnese, rivela il profondo legame stretto da Bourdieu con la teoria weberiana, da cui si distanza negli anni ’70 rivisitando in una chiave oggettivamente relazionale la nozione di campo (infra, 4.1). 31 campi differenti. Vale a dire «l’ascendente di un potere religioso può essere misurato in campi più distanti da quelli che regola espressamente la dottrina, come ad esempio le condotte economiche o le scelte politiche» [Ivi, p. 70]; c) l’esaustività, infine, indica la stretta omologia tra le pratiche e i principi dell’arbitrario culturale di un gruppo o di una classe [Ibid.]. A ben vedere il lavoro pedagogico riproduce e se possibile consolida la struttura dei rapporti di forza tra i gruppi o le classi, in quanto tende ad imporre ai membri dei gruppi o delle classi dominate il riconoscimento della legittimità propria dei gruppi o delle classi dominanti. Inoltre consente di costruire un vero e proprio “senso comune”, prodotto di un insieme di esperienze ed evidenze condivise, che assicura un consenso quasi inconfutabile sul senso del mondo. Sono a tutti gli effetti schemi classificatori (strutture strutturanti), prodotti dall’incorporazione delle strutture delle distribuzioni fondamentali che organizzano l’ordine sociale (strutture strutturate). Per mezzo di tali schemi, gli individui possono riferirsi alle stesse categorie oppositive, come ad esempio alto/basso, raro/comune, ricco/povero, «per pensare il mondo e la loro posizione in questo mondo» [Bourdieu 1997, p. 104]. Quindi l’istituzione scolastica, insieme a quella familiare, consente di attribuire un significato al mondo, risultato di condizioni strutturali a cui i dominati non possono sfuggire, se non attraverso sforzi immensi.35 Per questo gli autori sentono il bisogno di adottare un termine forte come quello di violenza simbolica36 che indica «ogni potere che riesce ad imporre dei significati e a imporli come legittimi dissimulando i rapporti di forza su cui si basa la sua forza» [Bourdieu, Passeron 1970, p. 39]. Il dominio della classe dominante non è semplicemente imposto 35 Come detto, il concetto di violenza simbolica si origina all’interno dell’analisi sulla società cabila per poi essere concettualizzato, attraverso la riflessione sul processo di istituzionalizzazione, nell’indagine su società di tipo capitalistico. In quest’ottica, nella prima il potere simbolico (infra, 4.3) viene esercitato intersoggettivamente, mentre nelle seconde il dominio è mediato dalla presenza delle istituzioni e dei campi. Nella prima tende a prevalere un’unica doxa, nelle seconde entrano in conflitto i principi di “eterodossia” e “ortodossia”, vale a dire l’universo dei discorsi non aderisce più ad un sistema di regole indiscutibile, ma partecipa ad una continua lotta tra dovere e volere, all’inseguimento della legittimazione del proprio potere. 36 Tale categoria sarà diffusamente ripresa e sviluppata anche in Bourdieu [1989b]. Per una ricostruzione orientata a individuare una discontinuità nella prospettiva bourdieusiana sul tema, intercorsa tra il periodo algerino e la fase di analisi successiva, si rimanda a Mauger [2006], anche se appare preferibile l’impostazione di chi come Paolucci [2011, pp. 75-76] tende ad enfatizzare la logica di continuità, seppur entro un processo di differente posizionamento, che caratterizza nel tempo l’impostazione dello studioso francese rispetto a tale oggetto di indagine. 32 alle classi dominate né è offerto in modo trasparente nelle forme della sua attualizzazione. Esso è tanto più forte quanto più è disconosciuto, reso neutro, perpetrato dai dominati, a tal punto che chi partecipa al gioco sociale non è in grado di percepirne il potere. Il suo carattere di forza è naturalizzato dalle istituzioni scolastiche, le quali, dotate di un riconoscimento certificato (titoli di nobiltà, titoli scolastici e così oltre), lo trasformano in una narrazione legittima e incontestabile della realtà. Il grado di raffinatezza della riflessione bourdieusiana sta proprio in questo riconoscimento [Mounier 2001], in cui si appalesa l’autonomia dell’azione educativa nei meccanismi di classificazione e di giudizio rispetto all’ordine simbolico dominante. Vale a dire, tanto più la scuola istituisce un sistema valoriale a sé stante, elargendo selettivamente titoli e riconoscimenti, quanto più «contribuisce efficacemente alla riproduzione del dominio e delle divisioni sociali» [Paolucci 2010, p. 186].37 La riproduzione [Bourdieu, Passeron 1970; Bourdieu 1971e] è, per certi versi, un testo di chiusura se confrontato con I delfini [Bourdieu, Passeron 1964b], rispetto al quale costituisce un prolungamento e una sistematizzazione anche sul piano teorico (come ben evidenziano le primissime pagine del libro – che delineano una sorta di triangolazione del potere – dedicate a Marx, Durkheim e Weber). Ma è soprattutto un’opera di transizione nella quale un “Bourdieu profondamente culturale”, laddove la cultura è al tempo stesso il prodotto e la produttrice di un lavoro di coltivazione e arbitrarietà, inizia a compiere passi decisivi sul piano epistemologico verso il fondamentale Per una teoria della pratica [Bourdieu 1972a].38 Infatti è in questo momento 37 Per un’analisi fortemente critica di tale proposta bourdieusiana, orientata all’individuazione del carattere determinista e della relativa astrazione e reificazione della struttura sociale, si rinvia a Bourricaud [1975] e Donati [2003, p. 84]. In particolare, Jenkins [2002, pp. 113-115] si sofferma sull’utilizzo, nell’universo semantico di Bourdieu, di concetti come soggettività e oggettività, declinati rispetto all’incorporazione di modelli di conoscenza e di senso comune che riproducono forme e pratiche di disuguaglianza sociale. Invece per una critica del carattere ideologico dell’opera bourdieusiana, e in particolare del meccanismo di riproduzione dell’habitus, vedi Boudon [1986, pp. 247-248], il quale tra l’altro contesta a Bourdieu l’omologia tra le scelte individuali in ambito scolastico e le aspettative della classe di appartenenza che prefigurerebbe l’assoluta negazione di una qualsiasi forma di mutamento sociale [Boudon 1973]. Un ulteriore approfondimento di critiche simili è presente nel capitolo successivo, in particolare nell’analisi delle strategie e della più ampia “economia delle pratiche” che ci consentono di rilevare, in determinati casi, come alcune delle valutazioni prodotte in merito all’opera bourdieusiana siano imprecise e non del tutto assumibili. 38 «Per quanto autonoma, questa teoria dell’azione pedagogica si fonda su una teoria delle relazioni tra l’arbitrario culturale, l’habitus e la pratica che riceverà 33 che lo studioso sente l’esigenza di ritornare indietro, al periodo etnografico. Tale percorso a ritroso è una sorta di “duplice traiettoria meta-analitica”: come l’individuazione dell’habitus permette a Bourdieu di definire il meccanismo generativo che sussume l’azione sociale, dove si incontrano l’oggettivo e il soggettivo, così il ritorno alla Cabilia è l’occasione per definire le pratiche alla luce dei processi di dissimulazione del potere, misconosciuto e attrattivo. Per poi ri-volgere lo sguardo alla società francese, con più energia e capacità di rivelazione. … Il “Bourdieu culturale” avviato da I delfini [Bourdieu, Passeron 1964b] è un periodo in cui il paradigma dello studioso francese si presenta strutturalista nell’adozione di un definito modello euristico, filosofico nelle istanze-guida della riflessione teorica e sociologico nelle tecniche di analisi empirica. In questo “decennio lungo” che si protrae appunto ben oltre la “fase storica” da noi analizzata, il concetto di cultura è inizialmente predominante per essere poi assorbito dalla sistematizzazione delle categorie di habitus e capitale, compiuta da Bourdieu, come abbiamo già sottolineato, soprattutto a partire dagli anni ’70. In questo senso Lizardo [2011, pp. 27, 30] sottolinea come tale nozione non sia riconducibile, nei testi dello studioso francese, alle prospettive di indagine della “sociologia culturale” à la Alexander, ma che piuttosto appartenga ad una teoria di tipo “post-culturale”, laddove essa viene pensata – attraverso il sistema di incorporamento delle pratiche – nei termini di un sistema relazionale di azione e percezione. Infatti a differenza della spiegazione antropologica classica del meccanismo di acquisizione culturale, Lizardo osserva come quella offerta da Bourdieu si presenti “costruttivista” e “genetica” nei termini già illustrati da Piaget (infra, 4.3). Tale lettura del lavoro bourdieusiano contempla il forte mutamento prospettico introdotto dalla “teoria delle pratiche” negli anni ’70, che tenta di porre un rimedio ad alcuni limiti epistemologici propri dello strutturalismo antropologico e linguistico (dall’ipostatizzazione della struttura all’agente come mero esecutore di codici). Si pensi, solo a titolo di esempio, a Bourdieu, Darbel, Schnapper [1966, p. 107], opera in cui la cultura è ancora pensata in un senso de saussuriano (langue e parole), nella sua veste duplice di «condizione dell’intellegibilità» dei concreti processi di significazione completo sviluppo in un’opera in preparazione di Pierre Bourdieu» [Bourdieu, Passeron 1970, p. 105n]. 34 e di competenza, di interiorizzazione trasformatasi in disposizione [Schinkel, Tacq 2004]. In definitiva il grado di avanzamento dell’epistemologia bourdieusiana è confermato dalla sensibilità che condivide, tra gli altri, con Richard Hoggart e Stuart Hall in Inghilterra [Santoro 2011, p. 9], che collocano la cultura nell’agenda degli interessi paradigmatici della sociologia europea. Inoltre lo studioso francese favorisce l’avvio di pionieristici lavori nel più ampio contesto dei cultural studies [Pitzalis 2006, p. 406] e in ambito statunitense, influenzandoli attraverso la revisione analitica dell’origine genetica della matrice cultura. 35