La Maestra Tattini

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La Maestra Tattini
La Maestra Tattini
Paolo Bassi
Aveva insegnato fino all’anno precedente ai bambini subnormali, quindi, per tutti i nostri genitori era
una maestra con una marcia in più.
Ed in effetti, vista oggi a distanza di cinquant’anni, una marcia in più l’aveva proprio. Intendiamoci,
entrando in quella classe di ventisette micro persone con grembiule nero e colletto bianco inamidato, si
aveva più l’impressione di essere ad un museo delle cere che non in una prima elementare, però, molti
di noi usciti indenni da quell’esperienza sono riusciti a far tesoro di una certa, per quanto esagerata,
disciplina, adattandola, negli anni a seguire, al proprio carattere e al cambiamento dei tempi.
Ho parlato dei bambini subnormali: oggi un termine simile suonerebbe come una terribile blasfemia,
ma, all’epoca, erano proprio loro, quelli che sarebbero diventati i diversamente abili del terzo millennio,
a costituire una specie di casta all’interno della quale venivano sistemati una sindrome di Down,
l’autistico, il paraplegico, quello agitato con difficoltà di apprendimento e magari il figlio di genitori
violenti che, per paura di rappresaglie in casa, non spiaccicava parola e, per sicurezza, neanche fuori.
Nella mia scuola, quella casta, era individuata come “sezione O”, la classe differenziale.
Bene, la maestra Tattini aveva, fino all’anno prima, insegnato proprio lì.
Mi sono sempre chiesto, senza però mai darmi una risposta, se, per lei, quel passaggio dalla “sezione
O”, alla nostra classe dei “normali” fosse stato un vantaggio oppure un dispiacere. Nel secondo caso,
comunque, lo nascose molto bene.
Ricordo come fosse oggi il suo ingresso in classe il primo giorno di scuola: era il primo Ottobre, giorno
canonico nel quale in tutto l’Universo iniziava l’anno scolastico e io vidi entrare una signorina, perché
era impossibile che fosse una signora, sposata cioè, vestita elegante anche se un po’ appariscente, i
capelli cotonati, rossetto e unghie rosso catarifrangente e scarpe con la suola di gomma.
Mia mamma, donna perfettamente normale, impiegata F.S., lavoro d’ufficio, vestiva, nei limiti delle
nostre possibilità economiche, seguendo abbastanza lo stile dell’epoca, non si parlava ancora di moda
agli inizi dei sessanta, però, ne sono sicuro, in quel periodo non l’avevo mai vista con un paio di scarpe
con la suola di gomma. Quei modelli venivano usati da chi viveva e lavorava in campagna, quando
erano sufficienti venti minuti di pioggia per trasformare in un pantano anche solo quei centro metri che
portavano dalla porta di casa alla fermata della corriera sulla statale. Di tacchi non se ne parlava
neanche, ma la maestra Tattini, di certo non viveva in campagna.
Rimasi e, di certo, rimanemmo quasi tutti noi, per molti giorni, con questa domanda in sospeso:
“Perché mai la maestra porta le scarpe con la suola di gomma?”
Fortunatamente questo problema venne messo in ombra da uno ben più grande che ci assillò senza
speranza di una soluzione logica durante quei primi mesi di elementari, quando ancora la maestra
Tattini era, per noi, un fitto mistero: la disposizione ordinata e funzionale dei banchi e delle seggiole.
Occorre ricordare, per chi all’epoca ancora non c’era, che banchi e seggiole nelle scuole di ogni ordine e
grado erano rigorosamente di legno, banchi singoli, quelli doppi erano solo appannaggio delle scuole
più evolute, con il buco in alto a destra dove si inseriva il calamaio che il bidello riempiva
periodicamente d’inchiostro con la sua boccetta dal collo ricurvo e che, come logica conseguenza, erano
sottoposti a più o meno vistosi spostamenti a seconda dello stato di agitazione dell’alunno. Quindi,
trascorsi non più di venti minuti dal suono della prima campanella, le file ordinate lungo precise linee
rette iniziavano a scombinarsi in un disordine che, alla maestra attenta, non poteva sfuggire e che,
rapidamente, la ponevano in uno stato di frustrazione tale da farle rimpiangere i bambini subnormali
che, a quanto potevamo supporre, era riuscita ad educare al suo ordine pratico e mentale.
Si presentò quindi una mattina, non molto tempo dopo l’inizio dell’anno scolastico armata di due
pennellini a punta piatta e di due barattoli di vernice a smalto, uno verde e uno rosso.
“Evviva, oggi disegniamo!” disse Cresci, un bambino sempre lustro, piccoli occhi azzurrissimi, biondo,
diafano, ma inesorabilmente basso e che, quindi, come potete immaginare, più che un cognome, aveva
un’esortazione.
Con la felicità negli occhi, aspettando un segno d’assenso da parte della maestra, fu massacrato da uno
sguardo severo ed esplicativo che, senza una sola parola d’accompagnamento demolì la sua e le nostre
speranze e ci fece precipitare in un altro dei tanti interrogativi che la maestra Tattini, ogni giorno, ci
proponeva.
Per noi era pura cattiveria.
“Sistemate i banchi e le seggiole come li avete trovati questa mattina al vostro ingresso”
A quel punto era ovvio che lei ci aveva preceduto e aveva sistemato l’aula in previsione di quell’attività
formativa.
Nessuno di noi fiatò.
Il primo a spostare banco e seggiola fu Cresci, ancora rosso dalla vergogna dopo più di un quarto d’ora
e tutti noi lo seguimmo senza fare il minimo rumore, il che significa che gli spostamenti avvennero
sollevando e non strisciando i banchi, cosa che, ognuno di noi non avrebbe mai fatto a casa propria, ma
che, da quel giorno in poi, divenne un’abitudine di vita in tutte le occasioni simili a quella.
Un punto a favore della maestra Tattini.
Quando l’aula fu sistemata ed ognuno al proprio posto, la maestra aprì i barattoli e cominciò a tracciare
sul pavimento i suoi segni totemici: due segnetti verdi dove avrebbero dovuto essere allineate le gambe
anteriori del banco (e lo sarebbero sempre state) e due rossi, leggermente più piccoli riferiti alle anteriori
della seggiola (e anche da quelli non ci si sarebbe più mossi). In quel modo tutti i banchi sarebbero
rimasti allineati lungo le linee rette, le seggiole pure e noi non avremmo più avuto la possibilità di stare
seduti in posizioni “sconvenienti”. Credo che nacque in quel momento il concetto di ergonomia per
l’arredamento.
Ci abituammo anche a quello.
Nessuno era indisciplinato, non ce lo potevamo permettere, ma alcuni di noi questa storia dei segnetti
verdi e rossi non la digerivano proprio e, certamente senza cattiveria, non riuscivano a mantenere banco
e seggiola in perfetta geometria con il resto della classe, anche perché era necessario un controllo
periodico, diciamo ogni dieci minuti, quarto d’ora, per controllare la situazione. Gli occhi vigili della
maestra notavano subito anche il più piccolo accenno di asimmetria, quindi, con noncuranza, si alzava
dalla cattedra, scendeva dalla predella e, continuando a leggere magari qualche pagina di Pinocchio, da
lei considerato una specie di Vangelo, si avventurava tra le file ordinate dei banchi fino a giungere,
furtiva, proprio dietro all’alunno che si trovava fuori misura di un paio di centimetri. Continuando a
leggere picchiettava con il righello di legno il banco o la seggiola incriminata, a volte entrambi,
spaventando il bimbo concentratissimo sul Gatto e la Volpe e ignaro di ciò che stava succedendo ed
esordendo con quella frase lapidaria che ci risolse una volta per tutte il dilemma dei primi giorni di
scuola: “Avete visto, con le suole di gomma non mi sentite arrivare, quindi non farete mai in tempo a
sistemarvi prima che io me ne possa accorgere”.
Diabolica.
Altri due riti facevano parte delle fondamenta delle nostre giornate: la preghiera mattutina e la merenda
delle dieci e venti.
Per la preghiera bisogna dire che il sistema rientrava nella logica ferrea dell’ordine della maestra Tattini:
non una richiesta di protezione o di aiuto a crescere bravi e buoni, non un inno all’Amore del Signore e
alla sua comprensione per noi miseri mortali, semplicemente sei preghiere riconosciute dalla Chiesa che
democraticamente recitavamo tutti insieme omaggiando così Gesù, chiedendo un occhio di riguardo da
parte dell’Angelo Custode, mostrandoci dispiaciuti per i nostri peccati e il tutto, comunque, presentato
con lo stesso peso da parte di ognuno di noi, senza particolari accenni di creatività per ottenere vantaggi
in più o per migliorare la nostra posizione nel mondo.
Lunedì Padre Nostro, martedì Ave Maria, mercoledì Gloria al Padre, giovedì Atto di Dolore, venerdì
Angelo Custode e sabato Salve o Regina. Li ricordo tutti benissimo e in questa successione, anche
perché ho continuato per anni a recitarli in silenzio tutte le mattine.
Se non sul piano divino, le disparità tra noi bambini si rivelavano nella recitazione e nell’interpretazione,
in quanto le preghiere, in pratica, erano come poesie da imparare a memoria e, appunto, da recitare
interpretandone in modo giusto il significato. Per me che avevo una nonna praticante, osservante,
convinta e frequentante quotidianamente più messe in più parrocchie, le preghiere della maestra Tattini
erano all’ordine del giorno, ma per coloro, i meno fortunati, che non disponevano di parentele
professioniste nel campo, la questione si faceva più complicata. Molti pregavano in play-back
muovendo solo le labbra e infilandoci qualche parola che riuscivano a ricordare, altri mescolavano brani
di diverse preghiere e altri ancora inventavano. Di sicuro la maestra Tattini, così come nostro Signore,
apprezzava la buona volontà e i buoni sentimenti di noi tutti, anche solo per il fatto che nessuno veniva
ripreso e, col tempo, a parte qualche difficoltà con l’Atto di Dolore e il Salve o Regina, diventammo
tutti molto bravi e precisi.
Alle dieci e venti, come dicevo, si consumava il secondo rito della giornata: la merenda.
Non so di preciso il motivo di quelle dieci e venti, però suppongo che, suonando la prima campanella
alle otto e venti e l’ultima alle dodici e venti, quell’orario fosse sistemato lì proprio per scandire la metà
esatta della mattinata. Altro motivo di precisione: però in quel caso la maestra non c’entrava niente.
“E’ ora, bambini, preparatevi!”
Da tutte le “cartelle”, allora non si usavano zainetti o borse con le scritte, uscivano dei sacchetti di
stoffa, la maggior parte a quadretti bianchi e azzurri (classe rigorosamente maschile), opportunamente
cuciti dalle mamme che contenevano nell’ordine: una tovaglietta anch’essa di cotone, un bicchiere di
plastica, un tovagliolo e, ovviamente, la merenda. Apparecchiato il banco, la maestra Tattini passava tra
le file a versare l’acqua nei bicchieri e, una volta finita l’operazione, dava il via al “pasto”. Le merende
degli anni sessanta erano effettivamente solo delle merende: io avevo il Buondì Motta con la granella di
zucchero sopra, alcuni portavano i Pavesini, altri i biscotti fatti in casa, poi c’era Minghetti, unico ed
invidiatissimo, che aveva i cracker. Quando apriva il pacchetto, io dal secondo banco, ne sentivo
arrivare l’aroma pur essendo Minghetti in fondo all’aula, ma a nulla valevano le mie richieste alla
mamma per poter godere anch’io di questo nettare degli dei.
“Macchè, macchè, chissà che cosa ci mettono dentro, poi, una volta mangiati, nello stomaco si gonfiano
e ti fanno venire una pancia così!” Nei successivi cinquant’anni non ho mai saputo di morti dovute ad
una sindrome da cracker, ma tant’è. Minghetti ha continuato a mangiarli alla faccia nostra, rimanendo
magro come un chiodo, io ho continuato con il Buondì e, oggi, i miei trigliceridi vanno per i fatti loro.
Non c’è bisogno di dire che mangiavamo nel più completo silenzio e la maestra Tattini, dopo la
distribuzione dell’acqua, si dirigeva con passo felpato, (suole di gomma, ricordate?), verso un banco
vuoto in fondo alla classe che si era riservata per la sua personale merenda. Anche lei apparecchiava,
poi estraeva dal suo sacchetto una mela lucidissima ed un coltello, che solo lei si poteva permettere, e
iniziava un’operazione chirurgica di “spicchiettatura” e di “sbucciamento”. Mangiata la mela ci faceva
notare che avrebbe mangiato anche le bucce in quanto, se ben lavate, proprio lì si annidavano le
proprietà migliori del frutto, visto che la buccia era sempre e comunque il primo contatto con la
benevolenza del sole.
Ecologia allo stato puro.
Terminato il rito si sparecchiava e, uno alla volta, fila per fila, si andava al cestino di fianco alla cattedra
a “sbattere” la tovaglia e, attenzione, tutte queste procedure terminavano alle dieci e trenta. Che dire:
Fast Food!