Il giardino delle favorite

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Il giardino delle favorite
LIBRO
IN ASSAGGIO
IL GIARDINO DELLE
FAVORITE
KATIE HICKMAN
IL GIARDINO DELLE FAVORITE
COSTANTINOPOLI, 31 AGOSTO 1599
«Sono morti?»
«La ragazza sì.»
Una figura snella, due sottili catenine d'oro a malapena visibili sulle caviglie delicate,
giaceva bocconi tra i cuscini sul pavimento.
«E lui?»
«No, maestà.» La kira della Valide Sultan, l'ebrea Esperanza Malchi, awicinò ancor più la
lanterna al viso del secondo corpo, steso scompostamente sul divano, braccia e gambe
divaricate. Dalla tasca dell'abito estrasse uno specchietto tempestato di pietre preziose e lo
tenne accostato alle narici. Un velo quasi impercettibile ne appannò la superficie. «No,
maestà, non ancora.»
Dalla zona in ombra accanto alla soglia della piccola camera, Safiye, la Valide Sultan,
madre dell'Ombra di Dio sulla Terra, si awolse più strettamente il velo intorno alle spalle,
rabbrividendo a dispetto dell'afa notturna. Sul suo dito uno smeraldo grosso quanto un uovo
di piccione scintillò come un occhio felino, riflettendo fugacemente la luce della lanterna di
Esperanza. «Ma sicuramente non manca molto. Cosa ne pensi?»
«Non manca molto, maestà. Devo chiamare il medico?»
«No!» fu la brusca risposta. «Niente medico. Non ancora.»
Si girarono verso la figura morente stesa sul divano, un'imponente mole di morbida carne
nera. Sul pavimento c'era un vassoio capovolto, il suo contenuto sparso tutt'intorno. Sottili
chiazze di un imprecisato liquido scuro -cibo o vomito -sfavillavano come filamenti di
ragnatela tra i cuscini. Un'altra sottile macchia nera colava da un orecchio.
«Veleno?»
«Sì, maestà.» Esperanza le rivolse un breve cenno d'assenso. «Guardate...» Si chinò per
raccogliere qualcosa tra i frammenti di porcellana.
«Cos'è?»
«Non ne sono sicura. Un giocattolino, penso... una nave.»
«Non sembra un giocattolo.»
Esperanza osservò con maggiore attenzione l'oggetto che teneva tra le mani e, mentre lo
faceva, un pezzo le rimase tra le dita. «No, non è un giocattolo», dichiarò in tono
meditabondo. «Un dolcetto, fatto di zucchero.» Fece per dargli un morso.
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«Non assaggiarlo!» Per poco Safiye non glielo fece cadere di mano con un colpo. «Lo
prendo io, Esperanza. Dallo a me...»
Dietro il divano, una finestra aperta dava su un corridoio a piastrelle verdi e bianche dove
il gelsomino cresceva in vasi. All'improvviso nell'appartata dolcezza della notte risuonò un
rumore.
«Svelta, la lampada.» Esperanza spense la lanterna. Per alcuni istanti le donne rimasero
perfettamente immobili.
«Un gatto, maestà.» L'ancella di Safiye, velata come la sua padrona affinché Esperanza
non potesse vederla in volto, parlò sommessamente dall'ombra alle loro spalle.
«Che ore sono, Gulbahar?»
«Mancano solo poche ore all'alba, maestà.»
«Giungerà davvero così presto?»
Fuori della finestra, una scheggia di cielo notturno risultava ormai visibile nell'apertura
sopra le alte pareti del corridoio. Tra le nubi si aprì un varco e una profusione di luce lunare,
di gran lunga più brillante della lanterna di Esperanza, riempì all'improvviso la stanza. Sulle
pareti della piccola camera le maioliche parvero rabbrividire e tremolare, azzurre-argento e
verdi-argento, come l'acqua in un laghetto in cui si rifletta la luna. Immobile sotto di loro, il
corpo, nudo se si eccettuava il sottilissimo drappo di mussolina bianca intorno ai fianchi,
venne anch'esso illuminato. Adesso Safiye riuscì a distinguerne i contorni. Era un corpo
femmineo, morbido e quasi glabro: fianchi voluttuosamente nudi, seni penduli, capezzoli con
il colore della melassa. Una monumentale scultura di carne. La pelle, durante il giorno così
lucente e nera, sfoggiava ora un'opacità polverosa, come se il veleno ne avesse risucchiato
completamente la luce. E agli angoli delle labbra, che si aprivano orrendamente carnose e
rosse come fiori di ibisco, spiccavano goccioline di bava.
«Maestà...» Gli occhi dell'ebrea guizzarono nervosamente verso Safiye. «Diteci cosa
fare, maestà», la sollecitò.
Ma l'altra parve non sentirla. Fece un passo nella stanza. «PiccoloUsignolo,vecchioamico
mio...» Le parole non furono altro che un sussurro.
Le cosce massicce erano divaricate sui cuscini, dimentiche della pudicizia come una
donna durante il parto. Il gatto che aveva appena curiosato tra i resti sul pavimento balzò con
agilità sul divano. Il movimento spostò un lembo del sottile drappo di mussolina, mettendo in
mostra le pudenda sottostanti. Esperanza fece per coprirle di nuovo ma la sultanalafermò
conunrapidogestodellamano. «No...lasciami guardare. Voglio guardare.»
Avanzò di un altro passo. Dalla sua ancella Gulbahar giunse un breve suono smorzato,
un sospiro quasi impercettibile. Come il resto del corpo, l'inguine era completamente glabro.
Tra le rotondità delle cosce, laddove avrebbero dovuto trovarsi i genitali, non c'era nulla.
Alloro posto spiccava uno spazio vuoto: un'unica cicatrice rabbiosa, fibrosa e strinata come
da un'ustione laddove un tempo, in un momento lontano della sua lunghissima vita, un unico
fendente del coltello aveva reciso il pene e i testicoli di Hassan Aga, capo degli eunuchi neri
della Valide Sultano
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Fluttuando su una nube di sofferenza Hassan Aga, Piccolo Usignolo, registrò nella sua
coscienza sempre più debole di avere accanto la Valide Sultan. I sussurri delle donne
suonavano confusi, un semplice ronzio nelle sue orecchie, ma l'odore di lei la mirra e l'ambra
grigia con cui si profumava gli indumenti intimi, la pelle delle splendide cosce, il ventre e il
sesso proibito per lui risultò come sempre inconfondibilet persino in quel momento, persino
sul letto di morte.
La sua mente riprese a vagare. La sofferenza che gli aveva dilaniato viscere e budella
come un demone si era affievolita come se ormai il suo corpo fosse stato torturato a tal punte:
da farsi insensibile. Ora si sentiva andare alla deriva. Era sveglio oppure stava
semplicemente sognando? Dolore, aveva già conosciuto il dolore. L'immagine di un
ragazzino gli comparve davanti agli occhi. Un ragazzino giovane ma robusto, persino allora,
con una zazzera di capelli foltissimi simili a una berretta nera calcata insolitamente bassa
sulla fronte. In un punto imprecisato del sogno udì una voce femminile che urlava, poi una
voce maschile... suo padre? Ma com'era possibile? Hassan Aga, capo degli eunuchi neri, non
aveva genitori. O forse li aveva avuti un tempo, nell'altra vita, molti anni prima, quando era
ancora integro.
Mentre fluttuava, sempre ai margini della coscienza, altre immagini presero ad apparire e
scomparire, vorticando sulla marea che gli defluiva dalla mente. Gli si stagliò dinnanzi un
orizzonte, un ampio orizzonte azzurro. Il ragazzo con i capelli corti stava camminando, un
viaggio interminabile, continuava a camminare senza posa. Talvolta, per tenersi su di morale,
canticchiava tra sé e sé, ma per lo più era solo camminare e camminare ancora, attraverso
foreste e giungle, attraverso fiumi e aperte pianure. Una volta, di notte, un leone aveva
ruggito. Un'altra volta c'era stato uno stormo di uccelli, di un azzurro e di un rosso brillanti,
che schizzava fuori dai meandri della foresta come una raffica di fuochi d'artificio.
C'erano altri insieme a lui? Sì, molti altri, quasi tutti bambini come lui, uniti tra loro da
catene fissate alle caviglie e al collo. Spesso incespicavano, e alcuni venivano lasciati là dove
cadevano. Tentò di portarsi una mano alla gola, ma nelle sue membra non v'era più traccia di
sensibilità. Dove si trovavano le braccia e le gambe? Dov'era mai la sua gola? Una remota
curiosità lo assalì, poi un senso di dislocazione vasto e vertiginoso, come se le sue varie parti
corporee fossero disseminate ovunque, distanti tra loro come la luna e le stelle.
Ma non aveva paura. Aveva già provato quella sensazione, chissà dove. Sabbia.
C'entrava la sabbia. La marcia era terminata e adesso lui aveva davanti un nuovo orizzonte,
inesorabile e dorato. Guardarlo gli aveva fatto dolorare gli occhi.
Era notte quando erano venuti a prenderlo, e faceva fresco. C'era una capanna, e gli
uomini all'interno gli avevano dato da bere qualcosa che all'inizio aveva sputato, ma che poi
era stato costretto a trangugiare. Aveva cantato per loro? Rammentava il distante baluginare
dei loro occhi mentre restavano accosciati accanto al fuoco, e come gli girava la testa, e il
sapore sgradevole in bocca. Era stato felice quando l'avevano adagiato accanto al fuoco. Poi
un suono di metallo sulla pietra e una sensazione di intenso calore. Una mano maschile,
molto delicata, gli aveva sollevato la tunica fin sopra la vita, mettendo in mostra i genitali. Gli
avevano dato un pezzo di legno da mordere ma continuava a non capire cosa gli stesse
succedendo.
«Esistono tre modi.» A parlare era un uomo diverso dagli altri. Aveva la testa fasciata da
un turbante di tessuto arrotolato, com'era consuetudine degli uomini originari delle terre
sabbiose settentrionali. «Nei primi due i testicoli possono essere stritolati o completamente
asportati. Il pene rimane, ma in seguito il soggetto non può mai più essere fertile. Ne deriva
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un'intensa sofferenza e qualche rischio di infezione ma i più sopravvivono, soprattutto i
giovani. Il terzo modo implica la rimozione di tutti i genitali.» Il ragazzo si era accorto
vagamente che l'uomo lo stava guardando in faccia, dall'alto. «Il rischio è di gran lunga
maggiore, certo potreste perdere il vostro carico ma c'è un'enorme richiesta per articoli del
genere. Soprattutto se sono brutti e, Pfui!» aveva detto, ridendo sommessamente tra sé e sé,
«questo è brutto come un ippopotamo.»
«Quante sono le probabilità di successo?» aveva chiesto l'uomo che aveva sollevato la
tunica del ragazzo.
«Se il medico non fa attenzione, ben pochi sopravvivono a questo terzo metodo. Se non
impazziscono per il dolore, periscono per la febbre che sopraggiunge in seguito. E se non li
uccide la febbre c'è il rischio che le loro parti intime si richiudano completamente, quando la
ferita si rimargina. Il medico deve riuscire a tenere aperto un tubicino, quello da cui possa
passare l'urina del paziente. Perché se non ci si occupa adeguatamente di questo dettaglio
non ci sono speranze, e la morte segue immancabilmente. La più atroce e dolorosa delIe
morti. Nel mio caso, tuttavia, data la mia notevole abilità in quest'arte, ci sono buone
probabilità: circa metàdeimiei pazientisopravvive. E inquestocaso...» Ancora una volta il
ragazzo era consapevole di un viso sormontato da turbante che lo osservava. «Be', mi
sembra abbastanza forte. Lo manderemo nell'harem del Gran Signore in persona, ne sono
sicuro.»
Gli uomini intorno al fuoco avevano confabulato brevemente, poi quello che sembrava il
capo aveva parlato di nuovo.
«Il nostro carico è prezioso. Abbiamo già fatto troppa strada -tremila leghe o più dalle
foreste del grande fiume e durante il viaggio abbiamo già perso troppa parte del nostro carico
per voler correre un simile rischio. Ad Alessandria, la nostra meta, venderemo facilmente
come schiavi quelli rimasti, quindi il nostro profitto è assicurato. Ma è come dici tu: si può
guadagnare una vera e propria fortuna, vendendone uno di tal genere. Soprattutto,
oggigiorno, se si tratta di un ragazzo proveniente da queste terre. Uno soltanto, se valido, si
dice, spunterà quanto tutti gli altri messi insieme. Nei mercati, ad Alessandria e al Cairo, gira
voce che i signori ottomani li preferiscano, attualmente, agli eunuchi bianchi giunti dalle
montagne più orientali dell'impero del Gran Turco. Solo gli harem più ricchi possono
permettersi questi eunuchi neri. Sono beni di lusso, si potrebbe dire, come le piume di
struzzo, la polvere d'oro, lo zafferano e l'avorio trasportati da molte delle carovane che
attraversano queste distese di sabbia. Correremo il rischio solo con uno: che sia questo
ragazzo dato che, come dici tu, ha l'aria di essere forte e di avere parecchie probabilità di
sopravvivere. Metteremo alla prova la tua abilità, Copto, soltanto questa volta.»
«Il ragazzo canterino, dunque. Così sia.» L'uomo con il turbante aveva annuito per
esprimere la sua approvazione. «Sei un autentico mercante, Massouf Bhai. Avrò bisogno di
far bollire dell'olio per cauterizzare la ferita», aveva aggiunto in tono spiccio. «E quattro dei
tuoi uomini più forti per tenere giù il ragazzo. Il dolore dà loro la forza di dieci persone.»
Quasi quarant'anni dopo, nelI'aria fresca e profumata della notte sul Bosforo, il corpo
nudo di Hassan Aga si mosse leggermente, le dita che si allargavano e guizzavano
fiaccamente contro i cuscini del sofà, simili a orrende falene. Poi, nel delirio, la sua mente
ripiombò nel passato.
Era ancora notte. Quando tutto era finito, su richiesta del Copto avevano scavato una
buca nella sabbia subito dietro la capanna. Una buca stretta ma profonda, giusto abbastanza
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ampia per potervi seppellire il ragazzo in piedi, seppellirlo fino al colIo in modo che soltanto la
testa risultasse visibile. Poi se n'erano andati e l'avevano lasciato là. Lui non ne serbava
alcun ricordo, rammentava solo di avere ripreso conoscenza qualche tempo dopo con un
enorme e fresco fardello di sabbia tutt'intorno a sé e la sensazione di avere braccia e gambe
legate strettamente al corpo, come se fosse stato immobilizzato da un ragno gigantesco.
Per quanto tempo lo avevano lasciato sepolto vivo in quella buca? Cinque giorni... una
settimana? Durante i primissimi giorni, quando la febbre si era impadronita di lui, non si era
reso conto del trascorrere del tempo. A dispetto dell'intensa calura diurna, con un sole che
sembrava fargli ribollire il sangue nei timpani, i denti gli battevano con un distinto tintinnio
mentre sprofondava nel delirio. E tra le gambe la sofferenza era talmente lancinante che delIa
bile amarognola gli risaliva lungo la gola. Ma ancora peggio era la sete, una sete terribile,
divorante, che lo ossessionava e lo tormentava. Quando urlava chiedendo dell’acqua,
tuttavia, la sua voce, ormai non più stentorea di quella di un gattino, non raggiungeva le
orecchie di nessuno.
Una volta, svegliandosi, aveva scoperto l'uomo con il turbante, quello chiamato il Copto,
che lo fissava dall'alto. Aveva portato con sé il capo dei trafficanti di schiavi, un uomo nero
come la notte e con una lunga tunica azzurra.
«La febbre è cessata?»
Il Copto aveva annuito. «Avevo ragione, il ragazzo è forte.»
«Quindi posso riavere il mio carico? »
«Devi avere pazienza, Massouf BhaI, la febbre e cessata ma la ferita deve rimarginarsi, e
rimarginarsi bene. Se vuoi intatto il tuo carico, devi lasciare che la sabbia faccia il suo lavoro.
Non bisogna spostarlo, per ora.»
[…]
Aggiornata il martedì 5 agosto 2008
Edizione Mondolibri S.p.A., Milano
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