l`oscurità che mi circonda - Edizioni Dehoniane Bologna
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REGATT 10-2009.qxd 13/05/2009 17.19 Pagina STAT I U N I T I 292 Pena di morte l’ oscurità che mi circonda Il sogno americano e le voci blues dal carcere C hissà perché fulminano (electrocute) le persone all’una di notte / la corrente è molto più forte, la gente spegne tutte le luci», canta Blind Lemon Jefferson. Il terrore nudo che ispira la messa a morte trova in un altro brano del bluesman (Hangman’s blues) una delle rappresentazioni più crude: «Quel vecchio crudele boia mi sta aspettando per stringere il nodo / ho così paura, Signore, che tremo nelle scarpe». Un tema taglia l’intera storia della canzone americana, un genere che ha saputo guardare in faccia la violenza: è la pena di morte, l’orrore che essa suscita. Un tema che attraversa tanto il blues (nero) quanto la tradizione folk (bianca) e la canzone d’autore rock, un tema in qualche modo apparentato a un’altra «figura» oscura, brutale, carica di interdetti e di simbolismi: il linciaggio. La canzone americana ha descritto l’orrore nella sua fisica elementare e per questo più brutale: la reclusione tra le sbarre, la solitudine che precede l’esecuzione, le cinghie che si stringono, il cappio che si tende, l’interruttore che decreta la morte, l’ago che penetra le vene. Se la letteratura a stelle e strisce si è spesso arrestata fuori dalla camera della morte, dal luogo dove si compie il supplizio, la canzone USA vi è invece entrata. A essa si deve una delle testimonianze più alte contro quella penalità che culmina nella morte di stato. «Avete visto le grazie della signora di ferro? / gambe d’acciaio cuoio sulle braccia / che porta un uomo a morire / occhio per occhio vita per vita / la morte è la signora di ferro sulla sedia» (The iron Lady, Phil Ochs). 292 IL REGNO - AT T UA L I T À 10/2009 Il fantasma del linciaggio Uno dei nuclei tematici più densi attorno al quale si è coagulato il blues – la grande «voce» nera all’interno della cultura americana assieme alla tradizione religiosa degli spiritual – è il motivo del carcere e, correlato a esso, quello dei lavori forzati ai quali i prigionieri erano costretti. «Il blues non solo utilizza l’esperienza carceraria come momento tematico fondamentale, ma è col canto di carcere – che è essenzialmente canto di lavoro – in un rapporto costante di simbiosi e ricchissimo interscambio». Nella storia del blues si è attivata così una «continua circolazione di elementi testuali e musicali tra il carcere e l’ambiente circostante», un travaso «fitto e continuo».1 Ma Rainey: «Troppi giorni di dolore, troppi giorni di tristezza / una palla al piede e una catena ovunque io vada». Lightnin’ Hopkins: «Hey, signor carceriere non vorrà essere così gentile da darmi le chiavi / voglio solo aprire la porta / questo davvero non è un posto per me». Julius Daniels: «Sono stato arrestato domenica / lunedì sono finito sotto processo / la giuria mi ha condannato / con la testa tra le mani ho pianto». Big Mama Thornton: «Devo scontare 99 anni e un giorno / ma ho chiesto al guardiano di liberare Big Mama / starsene al fresco/ non è che una perdita di tempo». Blind Lemon Jefferson: «Sono sempre più stanco di dormire in questa cella solitaria». Cosa spiega una produzione così insistita attorno a questo tema? Perché tanta attenzione al carcere e alla durezza della vita dietro le sbarre? Cosa vibra nell’animo del nero americano quando ascolta questi blues? Il carcere è la manifestazione – nella sua immediatezza fisica – dello stato di oppressione nel quale l’afroamericano è immerso. Ne è come il prolungamento. Le sbarre certificano, nella loro brutale evidenza, l’impossibilità di movimento al quale lo schiavo prima, il nero sottoposto alla segregazione poi, sono costretti. La fine della schiavitù non certificò l’immediata «liberazione» dei neri. L’uguaglianza rimase a lungo un fantasma irraggiungibile. Non c’è dunque una netta opposizione tra l’oppressione che il nero vive e subisce lontano dalle sbarre e il carcere stesso. Quest’ultimo è la forma più brutale, istituzionalizzata della prima. Era dunque inevitabile che attorno al dramma del carcere si condensasse la produzione poetica del blues. La pena di morte si pone al limite estremo di questo «sistema»: ne è la forma parossistica, lo scatenamento – istituzionalizzato – di forze che attraversano il corpo sociale. La violenza che circola liberamente nella società si abbatte ora sul corpo del condannato. Una parentela oscura – e ancora più temibile perché trattenuta nel regno dell’indicibile – lega la pena di morte al linciaggio. Quest’ultimo ne è in qualche modo la forma «liberata», pre-legale, che solo dopo una lunga «convivenza» venne interamente riassorbita nella pena di morte. La violenza «ritualizzata» che infestava il Sud degli Stati Uniti venne progressivamente confiscata dalla stato: divenne, con la pena di morte, morte di stato. Una violenza che esplodeva con terribile regolarità: «Tra il REGATT 10-2009.qxd 13/05/2009 17.19 Pagina 1882 e il 1968 furono 3.417 gli afroamericani vittime della violenza di massa bianca».2 «Il linciaggio – ha scritto Alessandro Portelli –, come ogni rito, è un messaggio. Non è una sanzione contro il singolo, ma uno strumento disciplinare, comunicazione giudiziaria preventiva contro tutti. Poco conta che la vittima sia colpevole o meno: il terrore è più profondo quando si colpiscono a caso gli innocenti».3 Secondo Adam Gussow il linciaggio (e i contraccolpi psicologici del terrore che esso seminava) è il grande rimosso che percorre il blues. Mai portato a livello di linguaggio (l’unico brano che esplicitamente affronta il tema – come vedremo – è la bellissima Strange fruit), «il linciaggio è inscritto nella tradizione blues in modi svariati: ora come terrore dell’accerchiamento, della tortura e dello smembramento, ora come materializzazione di un fantasma che bussa alle porte del cantante blues, che lo insegue, gli infligge ogni sorta di male».4 Gli hard times o la bad luck, i tempi duri e la cattiva sorte, gli jinx e il mojo (la scalogna e il malocchio) e ogni forma di trouble – di guai –, e ancora i cani furiosi sbucati fuori dall’inferno (hellhound) o i cani assetati di sangue (bloodhound) lanciati all’inseguimento di un evaso, le diverse personificazioni del male che ricorrono del blues – i diavoli (devils) che piovono dal cielo o bussano alle porte o, addirittura, il blues in persona «che cammina come un uomo» – non sarebbero altro, nell’interpretazione di Gussow, che trascrizioni inconsce della figura del linciaggio. Il blues è allora la risposta – rielaborata poeticamente – alla violenza fisica e psicologica che, attraverso la minaccia della violenza ritualizzata, veniva esercitata sui neri. Questa personificazione del male è praticamente onnipresente nel blues. Il blues accerchia, preme, tende a rompere le difese, a sfaldare la stessa identità del soggetto aggredito, a penetrare, a deformare, a spezzare. «Blues perché non concedi al povero Bill una pausa? / Blues perché non concedi al povero Bill una pausa? / Perché non cerchi di darmi una mano anziché cercare di spezzarmi il collo (break my neck)?» (Conversation with the blues, Big Bill Broonzy). Come sottolinea ancora Gussow, l’e- 293 spressione «break my neck» «è un’immagine estratta dalla grammatica del linciaggio». Il prezzo dell’invasione del blues o delle figure che lo incarnano è spesso la follia, la fuga o una violenza altrettanto insensata, la disgregazione dei legami affettivi e familiari. Il senso della minaccia, della precarietà, di qualcosa che è fuori controllo, di qualcosa che assedia, che opprime, che aggredisce, che rende blue: ecco il blues, ecco il fantasma del linciaggio. Lirismo tragico «Qualcosa di freddo sta strisciando / uno spettro triste si è impossessato di me / e sento che sto sprofondando» (Lonnie Johnson). «Mi sono alzato questa mattina / la iella era tutta attorno al mio letto» (Son House). «Guai guai alle costole ogni santo giorno / sembra proprio che i guai debbano seguirmi fino alla tomba» (Bessie Smith). «Signore mi sono alzato stamattina / il blues era tutto attorno al mio letto» (Tommy Johnson). «Non ho mai visto un tempo così duro / il lupo continua ad aggirasi fuori dalla mia porta» (Ida Cox). «I blues mi furono addosso, Dio mio, e mi rincorsero di albero in albero / avresti dovuto sentirmi implorare, signor Blues, non mi ammazzare» (Little Brother Montgomery). «Mi sono alzato stamattina, i blues camminavano come un uomo / bene, blues, dammi la tua mano destra» (Robert Johnson). Lo spettro del linciaggio non comprende né spiega l’intero mondo poetico del blues. Non riassume insomma un genere musicale capace di abbracciare – poeticamente – l’intero universo afroamericano. In un certo senso il linciaggio non inchioda, al suo rituale di morte, la vitalità del blues. Come ha scritto il teologo James Hal Cone, «quando il blues cattura l’assurdità della vita del nero nell’America bianca e la esprime in musica e parole, consente alla gente nera di interporre una distanza dai problemi che la attanagliano nell’attimo presente, permettendo loro di rimasticarli sotto forma artistica, offrendo così una catarsi liberatrice».5 E tuttavia, quello messo in luce da Gussow, resta un nodo che non si può ignorare: «I blues sono un modo di simbolizzare ciò che a livello inconscio opprime il soggetto nero: la periodica eruzione della violenza di massa ritualizzata dei bianchi». Siamo entrati nel DNA della cultura afroamericana. Ha affemato lo scrittore Ralph Ellison:6 «Il blues è un impulso a tenere in vita nella propria coscienza sofferente i dettagli dolorosi e gli episodi di un’esperienza brutale, a testarne la ruvida grana, e a trascenderla, non attraverso la consolazione della filosofia bensì spremendo da essa un lirismo vicino al tragico e vicino al comico. Come forma, il blues è la cronaca autobiografica di una catastrofe personale espressa liricamente». Nel blues preme dunque un’urgenza che possiamo definire euristica. Non è un caso allora che la formula usata da molti cantanti sia: «blues is the truth», «il blues è la verità». E la verità del blues coincide con il senso di precarietà – economica, affettiva, ontologica – al quale è inchiodata l’esistenza dell’afroamericano. «Sono andato al crocevia, sono caduto in ginocchio / ho chiesto al Signore lassù: “Abbi pietà, risparmia il povero Bob”», canta Robert Johnson. Luciano Federighi ha notato come l’intera composizione del bluesman – Cross road blues – sia una «metafora di fragilità e d’impotenza, di cui testimonia anche il succedersi continuo di preghiere strazianti e invocazioni d’aiuto». «Il sole sta calando, il buio mi sorprenderà qui / senza una dolce donna che comprenda la mia angoscia / potete correre e dire al mio amico, il povero Willie Brown / che me ne sto al crocevia, Signore sto sprofondando». Il fantasma del linciaggio traspare anche nel «tema dell’invisibilità del nero – uno dei topoi più originali dell’arte afroamericana del secolo scorso» e che «anticipa di molto il capolavoro Uomo invisibile di Ralph Ellison (1952)».7 L’invisibilità può rovesciarsi nel suo terribile contrario: la caccia all’uomo. Solo, abbandonato a se stesso, senza aiuti, circondato dall’oscurità, il nero può facilmente tramutarsi in una vittima. C’è infine un brano che ha violato l’interdetto che ha coperto – nella coscienza della società americana – il linciaggio. Questo brano è la celeberrima, Strange fruit, immortalata dalla voce di Billie Holliday: «Gli alberi del Sud danno uno strano frutto / sangue sulle foglie sangue sulle radici / corpi neri oscillano nella brezza del Sud / uno strano frutto è appeso agli alberi / ecco il frutto che i corvi beccano / la pioggia IL REGNO - AT T UA L I T À 10/2009 293 REGATT 10-2009.qxd 13/05/2009 17.19 Pagina bagna / il vento succhia / il sole fa marcire / gli alberi fanno cadere». La pena di morte in qualche modo riassorbe l’orrore del linciaggio. Con una differenza: se quest’ultimo fu a lungo coperto da una vera interdizione, infiltrandosi in forme mascherate nella poetica del blues, la seconda viene denunciata apertamente. Il brano di Blind Lemon Jefferson, Hangman’s blues, cattura in tutte le sue componenti e in tutte le sue figure l’orrore dell’esecuzione: il boia, il giudice, la folla che si stringe attorno al penitenziario, il terrore che invade: «La corda del boia è così dura e forte / lasciate che vi dica che la forca è terribile a vedersi / mi impiccano al mattino / e tagliano la corda quando è notte / gente tutt’intorno alla corte e il tempo corre veloce / presto un killer buono a nulla esalerà il suo ultimo respiro». Il blues ha espresso la totale esposizione, la terribile solitudine che inchioda – spiritualmente e fisicamente – il condannato a morte. «Sto andando verso la sedia elettrica con il pastore al mio fianco / non avrei paura di morire ma sto per morire in un modo terribile / Signore, Signore, Signore, Signore, / Signore tutto quello che posso fare è sedermi e piangere / la mia povera madre è a casa, non sa neanche che sto per morire» (James Platt). Con un procedimento tipico del blues – il rovesciamento ironico – Bessie Smith si «immunizza» da questo terrore. La punizione non può essere elusa, ma – con il canto – il potere letale incarnato dalla sedia elettrica viene come spodestato: «Giudice, giudice gentile, ottimo giudice / mandami sulla sedia elettrica / giudice, giudice ascolta la mia supplica / lasciami volare via di qui / puoi friggermi davvero non mi importa / l’ho colpito con il mio Barlow / l’ho accoltellato in un fianco / sono rimasta ferma a guardare / mentre tremava e moriva / giudice per favore spediscimi sulla sedia elettrica / non voglio spendere 99 anni in prigione». Le ballate di Sacco e Vanzetti «Vado alla morte con una canzone sulle labbra e con una speranza nel cuore che nulla riuscirà a cancellare».8 Chi scrive è Nicola Sacco, poche ore prima di entrare nella camera della morte. A condividere il suo drammatico destino di morte è Bartolomeo Vanzetti, l’ami- 294 IL REGNO - AT T UA L I T À 10/2009 294 co di sempre. Carcere di Charlestown, agosto 1927: dopo sette anni di prigionia, i due anarchici italiani – accusati di avere ucciso due uomini durante una rapina – vengono «giustiziati». Il processo che li ha condotti all’esecuzione è pieno di ambiguità, contraddizioni, lacune. La macchina della morte non si ferma, nonostante l’impianto accusatorio mostri molte falle, vere e proprie «sofisticazioni». La doppia esecuzione susciterà un’eco mondiale, e finirà per ispirare alcune delle voci più importanti della canzone americana. Nel 1971 Ennio Morricone compone la colonna sonora del film diretto da Giuliano Montaldo «Sacco e Vanzetti», Joan Baez scrive parole di chiara risonanza evangelica. «Benedetti siano i perseguitati / e benedetti siano i puri di cuore / benedetti siano i misericordiosi / e benedetti siano i portatori di lutto». (The ballad of Sacco e Vanzetti – Part one) Nessun abbraccio attende chi sbarca negli Stati Uniti. La terra promessa, la terra di pace e libertà, la terra del sogno mostra il suo volto «affilato», fatto di rigetto ed esclusione. «La bellezza dello spirito umano è la volontà / il desiderio di provare i propri sogni / ma quando c’è una terra promessa / i coraggiosi andranno e gli altri seguiranno / e così le masse si affollano attraverso l’oceano in una terra di pace e speranza / ma nessuno udì la voce o vide la luce / e furono sbattuti contro la riva / e nessuno fu accolto dall’eco della frase “alzo la mia lampada dietro la porta d’oro”» (The ballad of Sacco e Vanzetti – Part two). Il carcere e l’onta delle accuse infamanti non spezzano la delicata trama di affetti che legano i due italiani alle rispettive famiglie. Joan Baez presta a Bartolomeo Vanzetti parole di ferma e commossa dignità. «Sì, padre, sono dietro le sbarre / non aver paura di parlare del mio reato / il crimine di amare i dimenticati / solo il silenzio è vergogna / e quando guardo le stelle lo sento / siamo figli della vita / la morte è poca cosa». (The ballad of Sacco e Vanzetti – Part two) Nicola Sacco lascia al figlio Dante un testamento di dignità e amore: «Perdonami figlio per questa morte ingiusta / che ti porta via tuo padre / perdona tutti coloro che sono miei amici / io sono con te quindi non piangere / i più deboli che piangono per un aiuto / il perseguitato e la vittima / sono tuoi amici / e compagni nella lotta» (The ballad of Sacco e Vanzetti – Part three). Anche Pete Seeger, altra voce storica della tradizione folk USA, ha cantato le lettere di Sacco destinate al figlio Dante. «Se niente accade ci porteranno alla sedia elettrica dopo mezzanotte / e quindi sono qui accanto a te con amore aprendo il mio cuore / come lo ero ieri. / Non piangere Dante, troppe lacrime sono andate sprecate / perché le lacrime di tua madre sono già andate sprecate per sette anni / e non hanno portato a nulla di buono. / E così figlio mio invece di piangere sii forte e coraggioso / così da poter confortare tua madre» (Sacco’s letter to his son). Un altro cantore americano ha riscritto la vicenda dei due anarchici italiani, dedicando loro diversi brani: è Woody Guthrie. La parabola di Sacco e Vanzetti, diventa nella riscrittura dell’autore di This land is your land, figura delle ingiustizie che attraversano l’America, ma anche un richiamo alla lotta, all’impegno. Anche in Guthrie risuona un linguaggio fortemente espressivo, che mostra assonanze bibliche, ben rivelato da Maurizio Bettelli.9 «Tutti i dollari del mondo se ne vanno rotolando / fin dentro alle casseforti dello zio Sam / qualcuno diventa sempre più ricco, sempre di più / ma la povera gente diventa sempre più povera / la saetta del fulmine / il rombo del tuono / e il lamento delle nuvole che passano sibilando / il diluvio e la tempesta per Sacco e Vanzetti / hanno costretto i ricchi a strapparsi i capelli e piangere» (The flood and the storm). Figura chiave del processo fu il giudice Thayer. A lui Guthrie indirizza parole di fuoco: «Sperai che la gente riuscisse a tirare giù il giudice Thayer / dal suo scranno del tribunale e lo rincorresse per tutta la città / sperai che lo inseguisse intorno al balcone del giudice / e lo infilzasse con il forcone del diavolo a ogni piè sospinto» (Red wine). Quest’opera di rimemorizzazione, di sottrazione all’oblio, trova in Two good men il suo punto più alto: «Mi ricorderò per sempre di questi due uomini per bene / che sono morti per insegnarmi a vivere». E in You souls of Boston, Sacco e Vanzetti, nei versi di Guthrie, diventano «i nostri figli più nobili. / La vecchia Boston diventò una buia città vecchia / REGATT 10-2009.qxd 13/05/2009 17.19 Pagina quando abbassarono l’interruttore in quella notte d’estate d’agosto / la gente per strada piangeva marciava e cantava / in tutte le lingue del mondo». Come ha scritto Alessandro Portelli: «Woody Guthrie riconosce in Sacco e Vanzetti la nuova tradizione democratica dell’America, i nuovi padri pellegrini».10 La mor te statalizzata Nel 1995, il regista Tim Robbins realizza il film Dead man walking, ispirato dal libro omonimo – e dalla battaglia contro la pena di morte – di suor Helen Prejean. Lo sguardo della cinepresa si avvolge attorno alla vicenda di Patrick Sonnier e al rapporto che il condannato a morte – il dead man walking, l’uomo morto che cammina, così come viene annunciato il passaggio del condannato verso la stanza dell’esecuzione – intesse con sorella Helen. Il film non cerca scorciatoie. Il condannato è colpevole di duplice omicidio, «è arrogante, odioso e brutale». Non suscita simpatie, non è accattivante. Il cuore del film «è contenuto nei quindici minuti del prefinale: un’agghiacciante registrazione delle nude e semplici procedure dell’esecuzione, che in Louisiana avviene per iniezione».11 Il fuoco dell’opera insomma converge sui «rituali meticolosi, burocratici, medici» che scandiscono la somministrazione della morte. Con la pena di morte la violenza ritualizzata – che eruttava in occasione dei linciaggi – diventa statale. Non c’è più spazio per la brutalità generalizzata, di massa, per i corpi smembrati e carbonizzati, per i corpi appesi a un albero. Al loro posto subentra una sorta di igienizzazione della morte. La burocrazia entra nella camera di morte. Si assiste a un tragico paradosso: si somministra la morte in modo – apparentemente – indolore. «È tutto molto clinico, medicalizzato, senza spargimento di sangue. Una morte asettica».12 Ma va registrato anche un altro paradosso: all’esecuzione possono assistere i familiari della vittima, nonché gli organi di stampa. La morte in America è offerta istituzionalmente allo sguardo. La pena di morte salda la tecnologia della punizione a quella della visibilità. L’attimo di parossistica violenza che si abbatte sul condannato deve coincidere con lo spettacolo della sua morte. Il segreto della prigione, nel momento in cui 295 paradossalmente cessa il suo potere e la sua presa sull’individuo, si rovescia nella sua esposizione spettacolare. Per la colonna sonora di Dead man walking, il regista Tim Robbins chiama alcune delle voci più significative della canzone d’autore americana, da Tom Waits a Steve Earle, da Susanne Vega a Johnny Cash. Tra questi c’è anche Bruce Springsteen che aveva già cantato la pena di morte in due brani, Nebraska e Johnny 99. Nell’opera di Springsteen il tema della legge e della sua violazione torna ossessivamente. I suoi brani sono pieni di uomini che tentano di resistere alla vertigine dell’illegalità (Atlantic city), che lottano per non varcare quel confine e si trattengono sull’orlo (Straight time), che lo infrangono inconsapevolmente (Johnny 99) o consapevolmente (Nebraska), che difendono la legge senza assolutizzarla (Highway Patrolman, The line), che la fuggono (State trooper), o che le oppongono una norma diversa (The new timer). Scomparsa come limite geografico, come esplorazione dell’ignoto, come appello alla conquista, la frontiera si è come conficcata nelle esistenze individuali, come una vocazione – o una condanna – al movimento. È ancora una violazione, un’urgenza, ma che mette fuori gioco non più il confine che corre tra il noto e l’ignoto ma un nuovo limite: la legalità. Chi infrange la legge è letteralmente un fuori-legge, qualcuno che ha violato lo spazio della norma, che sta dall’altra parte, che è catapultato in un’altra dimensione, e che finisce per assomigliare a quella wilderness, a quell’alterità che la frontiera accerchia. Una volta che essa ha cessato di essere, il nuovo confine corre tra la legge e la sua violazione. È come se la valenza mitica della frontiera – e la violenza assorbita miticamente dalla frontiera – cercasse nuovi luoghi, nuovi corpi su cui scaricarsi. Il condannato a morte di Dead man walking cantato da Springsteen è bandito – letteralmente – dalla legge, dalla comunità, sospinto in un luogo di indistinzione tra la vita e la morte: è ancora in vita, ma è come se fosse già morto; non è ancora morto, ma la sua vita è stata spogliata di ogni determinazione. È un morto in attesa. Intrappolato in questa soglia tra la vita e la morte, in un confine lungo il quale l’una e l’altra si scambiano perché diventate equivalenti, l’uomo non invoca il perdono o l’oblio: chiede di non essere cancellato, di lasciare una traccia, di essere egli stesso una traccia.13 «Sorella, non chiedo il perdono. / I miei peccati sono tutto ciò che ho». Se è il punto di vista del condannato quello scelto da Springsteen, Steve Earle ha dato voce a una figura oscura, che rimane solitamente ai margini della narrazione. Non è la vittima, non è il carnefice, è solo un ingranaggio della macchina della morte: è la guardia carceraria. Ma la sua è una posizione «privilegiata», in grado di raccontare ciò che avviene nel segreto del carcere: «Li ho visti combattere come leoni / arrendersi come agnelli / li ho aiutati a sostenersi quando non si reggevano in piedi / e ho sentito i pianti delle loro madri quando quella porta pesante sbatteva / e ho visto le famiglie delle vittime tenersi per mano». Tom Waits ha catturato il vuoto che si insedia nelle case, nelle vite di chi resta. «Perché cucinare la cena? / Perché rifare il letto? / Perché tornare a casa? Fuori dalla porta attraverso i boschi / c’è un mondo dove niente cresce. / È difficile pronunciare il ringraziamento / e sedersi a tavola al posto di qualcuno che manca». Luca Miele 1 A. ROFFENI, Blues, ballate e canti di lavoro afroamericani, Newton Compton, Roma 1976. 2 J. GOLDSBY, A Spectacular Secret. Lynching in American Life and Literature, University of Chicago Press, Chicago 2006. 3 A. PORTELLI, Bianchi e neri nella letteratura americana: la dialettica dell’identità, De Donato, Bari 1977. 4 A. GUSSOW, Seems Like Murder Here. Southern Violence and the Blues Tradition, University of Chicago Press, Chicago 2002. 5 J.H. CONE, The Spirituals and the Blues: an interpretation, The Seabury Press, New York 1972. 6 Citato da L. FEDERIGHI, Blues on my mind, L’Epos, Palermo 2001. 7 L. MONGE, Robert Johnson. I Got the Blues, Arcana Edizioni, Milano 2008. 8 T. LORENZO, Sotto un cielo stellato. Vita e morte di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, Claudiana, Torino 2009. 9 M. BETTELLI (a cura di), Le canzoni di Woody Guthrie, Feltrinelli, Milano 2008. 10 A. PORTELLI, «La libertà incisa nella roccia», Il manifesto 22.8.2002. 11 I. BIGNARDI, Il declino dell’impero americano. 50 registi e 101 film, Feltrinelli, Milano 1996. 12 H. PREJEAN, La morte degli innocenti. Una testimonianza diretta sulla macchina della pena di morte in America, San Paolo, Milano 2009. 13 L. MIELE, Oltre il confine. Miti e visioni d’America nelle canzoni di Bruce Springsteen, Pardes, Bologna 2006. IL REGNO - AT T UA L I T À 10/2009 295