La paura e la depressione. ARMANDO VERDIGLIONE

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La paura e la depressione. ARMANDO VERDIGLIONE
IL SECONDO RINASCIMENTO
La paura e la depressione.
Come divenire psicanalista del secondo
rinascimento.
Quali studi? Quale ricerca? Quali prospettive?
Quanto tempo?
La paura. Chi ce l’ha? Come perderla?
ARMANDO VERDIGLIONE
“‘Gli uomini sono sempre nimici delle imprese dove si vegga qualche
difficultà’ (P). ‘E si obbligano tanto se fanno benefici quanto se li
ricevono’” (Niccolò Machiavelli, pp. 23-24). Gli uomini nemici delle
imprese, la difficoltà, la vedono. Hanno una visione della difficoltà, si
specializzano in questa visione. La loro visione è visione della difficoltà
e per questo sono nemici delle imprese. La difficoltà non è dell’impresa.
La difficoltà è della parola. L’impresa arreca la semplicità. Ma gli uomini
nella loro visione della difficoltà concepiscono la fine dell’impresa e
attribuiscono la difficoltà all’impresa. “‘Egli è assai meglio tentare la
fortuna dov’ella ti possa favorire, che, non la tentando, vedere la tua
certa rovina’ (AG)” (Ibid., p. 23). La tentazione è intellettuale, è crimen,
è virtù del principio della parola. La stessa disperazione viene dalla
tentazione intellettuale. Nulla di fisso, nulla d’immobile. Nulla che stia
sotto, tale da allineare ciò che sta sopra.
La fortuna. Tentare la fortuna. Il termine ha varie accezioni: ironia
della sorte, destino. L’ironia della sorte è il modo dell’inconciliabile. E il
destino è della parola che si rivolge alla cifra, alla qualità. Ma la fortuna
è anche la proprietà. Questa è l’accezione che ho riscontrato nel testo di
Machiavelli: la fortuna come proprietà della parola. E la virtù, il rivolgimento, la rivoluzione, la direzione della parola verso la sua cifra, verso
la sua qualità. “Egli è assai meglio tentare la fortuna dov’ella ti possa
favorire”. Nessun favore senza la tentazione, senza il principio della
parola. Favore è l’ironia della sorte e il destino. La sorte non determina
né fonda il destino. È sicuro — su questo Machiavelli non ha dubbi — che
senza la tentazione intellettuale, senza tentare la fortuna, prevale la
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visione della rovina. La visione della difficoltà, nel brano dell’Arte della
guerra che abbiamo letto, porta la visione della rovina. “Egli è assai
meglio tentare la fortuna dov’ella ti possa favorire, che, non la tentando,
vedere la tua certa rovina”.
La tentazione intellettuale è la virtù con cui la parola accorda il suo
favore. Togliere questa virtù significa la tentazione di Cristo, la tentazione sostanzialista, mentalista, insomma la convertibilità della tentazione
nella visione del mondo, quella che Satana prospetta a Cristo, la visione
del mondo e dei suoi tesori. Satana prospetta la via facile, il dominio
della terra, la padronanza sulla parola. Cristo non accetta questa padronanza, respinge la tentazione sostanzialista e la tentazione mentalista.
Satana offre a Cristo la morte. Il mondo con tutti i suoi tesori — così come
rientra nella visione propria di Satana, visione gnostica — è il mondo
della morte. Cristo non accetta la morte. Chi accetta lo psicofarmaco
deperisce, si lamenta e fa la vittima. Chi accetta l’albero della conoscenza
del bene e del male, del compromesso consociativo, politico, storico,
giudiziario, del compromesso di scrittura accetta la morte come tale. È
soggetto alla morte. È la morte. È la morte come farmaco, come legalità,
come ordinalità, come moralità.
Sono due brani essenziali. Nel Principe: “Gli uomini sono sempre
nimici delle imprese dove si vegga qualche difficultà”. Questo sono gli
uomini in una sentenza che evoca le sentenze della cancelleria fiorentina. È una parodia dell’intonazione cancelleresca. Ma il tono non è
l’intonazione. Nemici dell’impresa sono coloro che vedono la difficoltà.
I visionari della difficoltà mortificano l’impresa. I visionari, i previdenti,
i preveggenti, i religiosi della visione creano la fine dell’impresa. Forte
formulazione di Machiavelli: avere l’impresa come propria nemica. Qui,
per Machiavelli, si tratta dell’impresa nuova, altrimenti non è impresa.
Un’impresa ordinale e ordinaria, l’impresa che indossi l’abito della
morte non è l’impresa, l’impresa psicofarmaceutica non è l’impresa,
l’impresa come psicofarmaco non è l’impresa. “Gli uomini sono sempre
nimici delle imprese dove si vegga qualche difficultà”. Neanche una
grande difficoltà: “qualche difficultà”. Intuiscono, vedono, percepiscono e s’impossessano dell’impresa in questo modo. Non potendo padroneggiare l’impresa, la trattano come nemica, come già finita, come
moribonda.
Nell’Arte della guerra: “Egli è assai meglio tentare la fortuna dov’ella
ti possa favorire, che, non la tentando, vedere la tua certa rovina”. Anche
qui lo sfondo sembra quello cancelleresco, ma giunge alla sentenza non
cancelleresca, alla sentenza che mantiene l’enigma, quanto c’è d’irridu-
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cibilmente irrappresentabile nella differenza e nella varietà. “Egli è assai
meglio tentare la fortuna dov’ella ti possa favorire, che, non la tentando,
vedere la tua certa rovina”. Chi accetta la morte si trova sempre a vedere
la sua rovina. Ha dinanzi la sua certa rovina. Anzi, la certezza soggettiva
è la sua rovina, è la certezza della rovina. Chi accetta la morte è certo di
rovinare. Chi accetta la morte è la stessa cosa che chi ha paura della
morte. Il principio della paura è il principio della morte come soggetto.
Sempre nell’Arte della guerra, Machiavelli scrive: “Molte volte, per la
paura solamente, sanza altra esperienza di forze, le città si perdono” (La
lingua fiorentina!). Il principio della paura è il principio della visione
della difficoltà attribuita all’impresa, il principio della rovina e della
perdita delle città. Ciascuno può vivere in una metropoli ma è come se
vivesse nel deserto. Ha perso la città perché sta a vedere la sua rovina,
accentua, rappresenta, percepisce, rispecchia la difficoltà dell’impresa e
perde la città. La città diventa deserto, senza l’aria, senza la tentazione
intellettuale, senza l’infinito della parola. “Molte volte, per la paura
solamente, sanza altra esperienza di forze, le città si perdono”. Ecco la
pallida signora: la paura. Non è la paura della morte, la paura è la morte.
Accettare la paura è accettare la morte. E chi è colui che “sanza altra
esperienza di forze” perde la città, o le città, “per la paura solamente”?
Non c’è bisogno di un’ampia ricerca: la paura è per principio. Il principio
della paura. “La paura solamente”. E basta. Qualcuno può dire: “Sì, mi
uccido, mi lamento, ogni tanto prendo lo psicofarmaco”. E intanto si
presenta in tribunale avendo preso lo psicofarmaco. Costoro erano
nullità prima e nullità sono in carcere. Chi accetta la morte prende lo
psicofarmaco. Dorme con lo psicofarmaco, quando avrebbe motivo di
pensare. Almeno lì! Non pensa. Dorme.
“L’assemblea formata sul principio dell’amore è matricida” (Ibid., p.
23). È l’assemblea senza città, che si fonda sulla visione della difficoltà
dell’impresa, della rovina della città. “L’assemblea formata sul principio
dell’amore è matricida e la città si regge sulla morte: Paride sceglie la più
bella, sceglie l’amore, cioè la guerra, e la Sfinge, partner ideale, sa fare
l’amore”(Ibidem). L’unica donna che sappia fare l’amore è la Sfinge, la
madre non vergine. Il sapere fare si fonda sulla visione della fine del fare,
della fine dell’Altro, della fine della differenza. Soltanto rappresentando,
personificando l’Altro e la differenza c’è il sapere fare, la performance. Il
sapere, il potere, il volere, il dovere fare. Io “devo” fare: è l’amore ideale.
Chi dice: “Devo fare” ha già scelto l’amore, cioè la guerra, ha accettato la
morte. Altro è dire: “Bisogna fare”, fare secondo l’occorrenza.
“L’Uroboro prende la paura per la coda, ne fa il suo principio, se la
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divora; muore di paura e si rinnova, sempre circolando, sempre scodinzolando, sempre accodandosi. Mamma la paura. La paura locale. Il
luogo della paura, il luogo paura, mamma paura, il colpo, la giustificazione” (Ibid., p. 24). “Il regime padrone suppone i cittadini tutti nemici,
quindi criminali, pazzi e oppositori, ne garantisce la libertà istituendone
la schiavitù, dichiara proibito tutto ciò che non gradisce, proibita la
parola, proibito il piacere, convertiti in morte, in colpa, in pena e dosati,
somministrati, impartiti: e quando la vendetta è totale, invendicabile, il
cittadino è soggetto” (Ibid., p. 25). Se la vendetta del principe padrone
fosse una vendetta parziale, egli si esporrebbe al rischio che ci sia chi è
soggetto e chi non è soggetto. Opererebbe la divisione dei cittadini.
Dinanzi alla vendetta totale “tutti” i cittadini sono soggetti.
Come si manifesta la paura? Con il coraggio e con l’eroismo. Con
l’espressione e con la repressione. E con l’altra faccia di questa espressione-repressione: la depressione. Con l’alto e con il basso, con la mediazione fra l’alto e il basso, con la conciliazione dell’alto e del basso, con
l’accomodamento dell’alto e del basso. Leggete il primo capoverso del
capitolo Mamma la paura, a proposito dell’orrore, del terrore, dello
spavento e del panico. Il capitano che mostra la paura è la rovina
dell’esercito: “È cosa difficilissima, uno esercito già mosso a fuggire,
fermarlo e renderlo alla zuffa”. Hegel non ha capito: il capitano non
rischia la morte, il rischio è di vita. Nella Fenomenologia dello spirito Hegel
dice che il capitano, il padrone, è il soggetto, e che lo schiavo è certo della
morte del padrone — padrone e schiavo come l’interrogante e l’interrogato. La Fenomenologia dello spirito manifesta l’apoteosi del soggetto,
dell’Uroboro. È la fenomenologia gnostica, la fenomenologia è gnosi. Lo
spirito non è soggetto a fenomenologia. Lo spirito: il successore, l’idea
dell’Altro, l’operatore pragmatico. “È cosa difficilissima, uno esercito
già mosso a fuggire, fermarlo e renderlo alla zuffa”. I soldati della
repubblica di Venezia fuggono la battaglia, la giornata, la zuffa, perché
dovrebbero combattere per un’oligarchia che, nella battaglia stessa, non
è né in questione né nel rischio. L’esercito fugge quando nota o quando
crede che il capitano abbia paura. Può avvenire anche per un equivoco.
La mediazione e la conciliazione tra l’alto e il basso si fanno complete
soltanto con l’androgino. La donna diventa il supporto dell’ideale di
metamorfosi dell’uomo nell’androgino. L’uomo completo, l’uomo che
ha realizzato la metamorfosi nelLa donna, l’uomo androgino. La donna
è supporto di tale ideale: questa la genealogia della politica di cui parla
Aristotele, questa l’economia del sangue che fonda l’economia dell’assemblea.
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Come si costituisce l’invidia in questa completezza dell’alto e del
basso, in questa totalità o rispetto a questa totalità? L’invidia è strumento
della metamorfosi nelLa donna, è invidia delLa donna tutta, quindi è
creazione delLa donna tutta. Nella Congiura degli idioti c’è un capitolo,
L’invidia, il fuoco fatuo, Sciascia (racconto d’Iris), su questo: “Il sistema
penale poggia sull’invidia. Così Freud” (p. 41). Poi io articolo l’invidia
in un’altra accezione: “L’invidia come teorema dello sguardo, la cui
mimesi e il cui esilio divengono condizione dell’immagine altra, nel suo
inganno, nel paradosso del suo inganno” (Ibidem). Questo, però, non è il
principio dell’invidia, che si fonda sull’ideologia dell’androgino. Chi è
soggetto all’invidia si arrangia a diventare parte dell’Uroboro.
NATALE COLOMBO C’è una connessione fra paura, sangue, appartenenza all’albero genealogico e psicofarmaco.
A. V. Qui Mauro Mellini coglie nel segno: la giustizia per campagne ha
il suo partito, il partito dei magistrati. Il tribunale di Napoli è specializzato nella campagna contro la malasanità. La malasanità è trattata a
Napoli, la corruzione dei politici a Milano, la mafia a Palermo, a Firenze
il mostro. Ciascun tribunale è specializzato in una campagna. Tutto il
male settoriale viene trattato per campagne e ogni campagna deve
colpire quel male settoriale. Questo dice Mauro Mellini, che prova il
passaggio dai magistrati di partito al partito dei magistrati.
Ho insistito molto su questo brano di Machiavelli: “Un principe che
può fare ciò ch’ei vuole, è pazzo”, e l’ho messo anche come esergo di un
capitolo (p. 77). Vale per il principe, ma anche per il giudice, per il
politico, per il generale dell’esercito. Non c’è chi possa “fare ciò ch’ei
vuole”. Soltanto il pazzo. Ma è pazzo chi si crede principe. Il vero
principe non si crede principe, non si spaccia per principe. Può essere
creduto principe, perciò il popolo che può “fare ciò che vuole, non è
savio”. Ma non è pazzo. È differente. Non è pazzo perché intanto crede
nel principe, o crede di fare come il principe. Ma dura pochissimo,
perché il popolo che può fare ciò che vuole che cosa fa? Ben presto crea
un despota, un tiranno, un vampiro.
ALESSANDRO ATTI Ci sono differenze specifiche fra l’esercito e il
popolo? Infatti, sembra che non sia savio nemmeno l’esercito. E poi,
rispetto all’esercito, c’è la nozione di massa.
A. V. Allora i termini sono tre: massa, popolo e esercito. Sulla massa ho
fatto una lunga indagine, a suo tempo. Massa, o materia, come dimensione della parola, non rappresentabile nel popolo o nella folla. La folla
sarebbe il popolo disordinato o, se volete, il popolo è la folla ordinata. Il
popolo che può fare ciò che vuole è il massimo disordine, ma è un
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disordine festivo, dice Machiavelli. Crea il tiranno nella festa come
luogo dell’eccezione.
La nozione di democrazia è curiosa: governo del popolo. E c’è un
problema. Non va da sé che esista il governo del popolo né basta il voto
per dire che esiste. Il popolo sta al posto del pubblico, dell’infinito della
parola, sarebbe il pubblico definito, nel senso di finito. L’esercito è
tutt’altra cosa. Nell’accezione di Machiavelli (nel libro c’è un capitolo
sulla battaglia artificiale, sulla guerra intellettuale, che non è un’eccezione, ma è costante), l’esercito non è come lo intende Clausewitz. L’esercito
è il dispositivo. Non è come il principe e il popolo, il tiranno e il popolo,
il despota e il popolo, il vampiro e il popolo, tutte varianti dell’Uroboro.
Il popolo è un aspetto e il principe, rappresentato, personificato, è un
altro aspetto. Anche lo stato è rappresentato e personificato: il despota
al posto dello specchio, il tiranno al posto dello sguardo e il vampiro al
posto della voce, come modi di pensare l’Altro. Il dispositivo intellettuale non si sostituisce all’Altro. La sua base è nell’infinito della parola. C’è
il pubblico e c’è il dispositivo, non sono la stessa cosa.
A. A. C’è quindi da fare una distinzione fra l’androgino e l’Uroboro.
A. V. L’Uroboro riuscito è l’androgino, oppure l’androgino è l’ideale
dell’Uroboro. L’Uroboro, con Hegel, è un’idealità.
Ci si affeziona alla paura come abito. La paura come Uroboro è
animale fantastico che diventa domestico. Un’intera gamma di animali
fantastici è elaborata in questa direzione. Anche l’Unicorno è una
variante della fenice. L’Uroboro è privilegiato dalla gnosi. La religiosità
pagana si fonda sul principio della zoologia fantastica come zoologia
economica, politica, finanziaria, sociale.
Mauro Mellini nota l’enorme errore compiuto dal parlamento della
prima repubblica quando ha abolito l’immunità parlamentare, consegnando qualsiasi parlamento nelle mani dei giudici. Nei vari paesi
europei esiste l’immunità parlamentare. L’azione penale, infatti, è sempre obbligatoria dove il pubblico ministero la vede. Lui non vede tutto
ma, dove vede, vede tutto, allora sceglie di vedere ora qua ora là, ora in
una direzione ora in un’altra. Anche di stravedere.
L’Italia sembra in una situazione molto drammatica, molto tragica,
oppure nella farsa, nella commedia. Ma questo è l’aspetto folcloristico,
appariscente dell’Italia. In effetti, sta avvenendo una trasformazione
notevole. I giudici non sono i padroni della trasformazione, sono coinvolti e travolti dalla trasformazione e lo saranno sempre di più. I
comunisti, che credevano di essere padroni della trasformazione e
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quindi di cogliere l’occasione per prendere tutto il potere (loro che già lo
detengono perfettamente nella parte che li riguarda), verranno anch’essi
travolti dalla trasformazione. Trasformazione e variazione investono la
civiltà. È di questa che occorre occuparsi, e quindi della ricerca, della
scienza, della cultura e dell’arte. La cronaca importa se si scrive nella
lingua diplomatica, se entra nella comunicazione diplomatica. Altrimenti è soltanto revivalismo, appannaggio della cronologia. In Italia, in
questo periodo, non c’è modo di fondare la cronologia. Il tempo, l’altro
tempo, non lo consente.
C’è un brano molto interessante di Machiavelli a proposito dell’altro
tempo, nei Ghiribizzi a Giovan Battista Soderini: “Quello è felice che
riscontra il modo del procedere suo con il tempo, et quello, per opposito,
è infelice che si diversifica con le sue actioni dal tempo e dall’ordine delle
cose” (Ibid., pp. 31-32). Questa è la prosa, la scrittura della parola! Il
diverso, chi vuole essere diverso dal tempo dell’Altro, dall’altro tempo,
e quindi agisce secondo questa diversità, lontano dal tempo e dall’ordine delle cose (che è l’ordine della parola, secondo cui le cose procedono,
l’ordine attinente alla procedura), costui è sempre infelice, vede sempre
la difficoltà nell’impresa, vede la rovina. Non accetta il tempo, il tempo
dell’Altro, colloca la morte al posto del tempo, e quindi anche al posto
dell’Altro. E io aggiungo: “Assoluta magnificenza: chi reagisce al tempo,
all’altro tempo, al tempo dell’Altro, chi non rischia e non lotta, chi aggira
il diritto dell’Altro, chi si tiene lontano dalla scommessa e dalla prova e
dall’impresa del tempo subisce colpi e contraccolpi, tic e tocchi,
contrappassi e contropiedi, acciacchi e inghippi, si preclude la vittoria e
la riuscita, si diversifica, come scrive Machiavelli. La cura di sé e
dell’Altro si fa pena, di morte. Egli si fa soggetto. Si assoggetta alla calma.
Rovina” (Ibid., p. 32). La patologia interviene soltanto come una modalità del conformismo, un modo dell’accettazione. Farsi vittima, presentarsi come vittima, fare il diverso. La diversità presuppone l’unità. È un
brano essenziale a proposito della clinica. Niccolò Machiavelli è anche la
narrazione clinica dell’esperienza dell’associazione attraverso l’apologo
di Machiavelli. Il caso è questo. Il caso Machiavelli qui è dato come caso
Italia, così come l’Italia rientra nell’esperienza in questi anni.
CRISTINA FRUA DE ANGELI Come si manifesta la paura? La paura
incomincia con la protezione di sé dalla paura, con la preoccupazione di
sé, con la cura di sé, con l’accettazione e l’assistenza di sé. Incomincia
anzitutto pensando a sé e mettendosi nei panni dell’Altro.
A. V. Se qualcuno propone: “Facciamo?”, la risposta è: “No, io devo
pensare a me!”.
C. F. D. A. Per scongiurare il pericolo, incominciano tutti gli espedienti
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che dovrebbero difendere dalla paura e che invece sono gli espedienti
stessi della paura, espedienti erotici: il mimetismo, la modestia, l’abito,
l’abitudine, l’immobilità. Modi in cui viene pensata la città fondata
sull’amore.
Quello che tradizionalmente passa come narcisismo, la cura di sé, la
preoccupazione di sé, è la negazione del narcisismo. È lì che incomincia
la paura.
Il governo dei giudici, il golpe dei giudici, può riuscire solo con la
complicità da parte di ciascun cittadino che è pronto a farsi suddito.
Senza questa complicità, nessun golpe potrà mai riuscire, nessuna
istituzione della paranoia potrà ricoprire la città. Ma non bisogna
aspettare che la paura si manifesti sotto forma di “ho paura di”. La paura
fa già da padrona quando ciascuno è preoccupato di quanto potrebbe
accadergli.
A. V. Chi sta sotto paura sta sotto padrone.
C. F. D. A. Allora, il senso di colpa attivo, quello che spinge ciascuno a
fare, a non restare immobili, diventa una buona, accettabile coscienza di
colpa. Quella che passa sotto il nome di depressione è un contenimento,
un compromesso sul senso di colpa: a ognuno la sua brava coscienza di
colpa e la sua pena conforme. Nel Niccolò Machiavelli c’è un invito alla
lotta. Il messaggio dell’esperienza: non psichiatrizzare il disagio e
invitare all’impresa, alla lotta, al rischio.
A. V. E alla lingua diplomatica.
C. F. D. A. Anziché a riconoscersi nella propria identità.
A. V. La lingua diplomatica è tutt’altra cosa che essere diplomatici. Il
partito della coscienza di colpa è il partito della conoscenza del bene e del
male, della volontà di bene, il partito benefico, quindi il partito psicofarmaco. È questo partito che Gramsci voleva che fosse il principe.
Divenire principe è divenire dispositivo, divenire qualità. La paura
interviene così: attribuisce all’impresa la difficoltà e reagisce all’altro
tempo diversificandosi, anziché facendo secondo l’occorrenza, facendo
come bisogna fare.
RUGGERO CHINAGLIA Potere, volere, dovere, sapere fare rimangono modi di rappresentazione della vittima e del carnefice.
A. V. Sono modalità che si riassumono nella volontà di fare, nella
volontà di bene. Cosa avviene in nome del bene? Il massacro.
ANNA GLORIA MARIANO A proposito della paura e del male, è la
paura che procede dal male o è il male a portare alla paura?
A. V. Un conto è il male nell’anfibologia, il male-bene, in cui si tratta di
un modo dell’apertura, dell’inconciliabile. Un altro conto è la consacra-
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zione del male come tale, la conoscenza del male, quindi anche la
conoscenza della paura. La paura può risultare anche come l’animazione dell’Uroboro.
ANNA SPADAFORA Che cosa intende per compromesso di scrittura?
A. V. La scrittura come psicofarmaco, la scrittura del logo, del discorso
occidentale, la scrittura come mediazione del discorso. Il discorso è già
inteso come psicofarmaco, discorso occidentale, discorso della morte. Il
compromesso di scrittura è lo psicofarmaco riuscito, la scrittura soggetta
all’armonia politica, la scrittura conciliante, composita, armonica, sintetica.
A. S. Nel Machiavelli, scrive: “L’Uroboro prende la paura per la coda, ne
fa il suo principio […] sempre accodandosi”. È in tal modo che il
pensatore debole, nel tentativo di spazzare via il testo occidentale,
risulta “autore in linea”?
A. V. Il pensatore debole non si propone più di fondare il discorso, ma
solo di utilizzarne qualche briciola. Il pensatore debole in azione è
l’incarnazione del discorso occidentale diventato luogo comune.
Il popolo che può fare ciò che vuole non è savio, perché crede sempre
nel principe, e il tiranno è una sua creatura. Il vero figlio del popolo come
figlio di mamma è il tiranno. Ma anche il despota, anche il vampiro.
L’eccezione e l’eccellenza sono virtù del sembiante, come la solitudine, la parentesi, l’oggetto. La follia è il modo d’intervento del
contrappunto, e lo stile è il modo d’intervento del punto. Entrambi
costituiscono la giustizia, il modo d’intervento del sembiante. Che il
sembiante intervenga è la provvidenza. Non la provvidenza divina o
umana. È la provvidenza della parola e nella parola. La giustizia è la
condizione dell’itinerario. Il sembiante è la condizione dell’itinerario,
quindi anche il suo modo d’intervento. La follia, in particolare, è la
condizione dell’arte, ma non è la follia dell’arte. Lo stile è la condizione
della cultura, ma non è lo stile della cultura. Nessuna giustificazione
dell’itinerario: la giustizia non può attribuirsi all’itinerario. L’itinerario
è ingiustificabile. Chi si giustifica è rovinato e rovinante. È un serpentello
divino.
A. S. In che modo la paura è paura del fatto, dello stato come tale?
A. V. La paura non è paura del fatto ma è il fatto, è lo stato come tale.
VINCENZO SPAGNOLO Il luogo comune è l’altra faccia della paura?
A. V. L’altra faccia della paura è il coraggio. Il luogo comune è la paura
diventata sangue bianco. Mentre il rosso sangue è dato soltanto nella
festa, cioè nel luogo dell’ordinalità del discorso, nel luogo della
grammaticalità, della spazialità.
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V. S. La comunicazione, nell’ideologia della paura, può avvenire, anziché per scrittura pragmatica, per tic, per manifestazioni del soggetto
come maschera della sessualità?
A. V. Non c’è maschera della sessualità. Sarebbe l’abito, ma non c’è
l’abito sessuale. È un ossimoro dire: “abito sessuale”. Non c’è l’abito del
tempo. C’è il tempo dell’abito e si chiama anatomia, anatomia della
sembianza. La paura è la morte, è il sangue bianco. La paura diventa
sangue, pelle, carne, naso, orecchie, polmone, ictus, cancro. In Processo
alla parola c’è un capitolo che assegna al principio dell’orrore, della
paura, dello spavento e del panico queste rappresentazioni.
Che cos’è il fantasma della paura? La paura del fantasma o l’idea
dello specchio? È l’idea dello specchio che io ho? L’idea materna dello
specchio? L’idea del tu come forma dell’Altro? Il primo capoverso a
pagina 23 del Machiavelli è una risposta ampia al quesito. “L’orrore è
indice dell’insociale della relazione”. Non è un guaio che ci sia l’orrore,
perché è indice, per esempio, dell’ombra, dell’inconciliabile. “L’istituto
della selezione e della vendetta detiene il monopolio dell’orrore. Idealmente”. Qual è l’istituto della selezione? È la memoria selettiva. E quello
della vendetta? È il sistema morfologico dinamico, il sistema genealogico
dinamico, o zoologico dinamico. Ognuno, ogni-uno, si forma come
istituto della vendetta nei propri confronti, cioè come sistema morfologico
dinamico, come scatola nera che debba comprendere incidenti e catastrofi. Ma questo come idealità. Non è che riesca. L’orrore non è un
guaio. È l’istituto della selezione e della vendetta a essere un guaio.
“Il terrore è l’indice dell’impersonificazione e dell’impopolarità dello
stato come simulacro”. Lo stato è simulacro. Tale lo stato della parola, lo
stato delle cose, status rerum. Lo stato non si personifica né si popolarizza.
Non c’è stato sociale né stato popolare né stato personale. Lo stato è
simulacro della parola e il terrore indica proprio questo: che lo stato è
simulacro. Altra cosa è lo stato del terrore che fonda il terrore dello stato.
“L’istituto del ricatto e della colpa detiene il monopolio del terrore per
realizzare l’impossibile”. E allora è il terrorismo. L’istituto del ricatto e
della colpa è l’istituto del terrorismo, del terrorismo di stato. “Lo
spavento è l’indice dell’inconiugabile dell’odio”.
Lo spavento indica l’odio, con le sue virtù, con il suo teorema, con il
suo assioma. Il teorema dell’odio: il tempo non finisce, non c’è tempo del
tempo, non c’è violenza della violenza, limite del limite. Il concetto
comune di violenza e di limite è questo: la violenza della violenza e il
limite del limite, insomma la rappresentazione della violenza e del
limite. “L’istituto del riscatto detiene il monopolio dello spavento”.
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Questi sono i congegni politici nell’accezione di politica secondo il
sistema, secondo il discorso della morte.
“Il panico è l’indice dell’inespunzione dell’Altro”. Dove c’è panico
c’è l’Altro, e non dove c’è panico c’è il dio Pan. Il panico indica l’Altro in
quanto non può essere espunto. “L’istituto della pena detiene il monopolio del panico”. Un conto è il panico, un conto è il monopolio del
panico. È molto condensato, ma intorno a questo capoverso c’è una certa
elaborazione. Ci sono capoversi, inizi di capitolo che sono aforismi.
L’inizio di questo capitolo che s’intitola Mamma la paura è la scrittura di
alcuni anni di elaborazione. Anni luce. Anni di luce.
“La paura riporta anzitutto il fantasma materno”. È l’idea dello
specchio, che non agisce ma opera, se non si maternizza. La paura
estrema è imponderabile, inavvertibile, insensibile, inestetica. La paura
è l’impossibile realizzazione dell’idea, non è il segno dell’impossibile.
Il pubblico non è massa. Massa o materia è dimensione della parola.
Il pubblico non è massa, altrimenti va in massa.
Nel testo di Machiavelli e di Leonardo parlo dell’utilità e dell’utile.
C’è un capitolo del Machiavelli che s’intitola Lo stato, l’utile e il fine. C’è la
necessità e c’è l’utile, l’utilità sintattica, l’utilità frastica e l’utilità
pragmatica. Il futile e il frivolo costituiscono il superfluo. Il futile, come
teorema, è l’incommensurabile, quindi anche il passo in quanto
impassabile, l’incommensurabile della misura e della frontiera. Il frivolo
è ciò che non può essere mediato, l’immediazione del tempo e del limite.
Chi s’imbatte nel frivolo non può rappresentarsi nel limite. Chi s’imbatte
nel futile non si riconosce nei confini. L’ultimo capitolo del Machiavelli è
intorno alla lussuria: la lussuria è l’altro nome della guerra, la guerra è
l’altro nome della politica. La guerra, la politica, la lussuria. Lussuria del
tempo, lusso del tempo. Non del soggetto.
Le varie affermazioni di sentirsi diverso sono differenti dalla diversità come funzione e complemento dell’unità. Sono formulazioni
anoressiche che si tratta di analizzare, d’indagare. Tutto ciò che, in una
prima approssimazione, sembra una chiusura partecipa all’anfibologia.
Di solito, l’inferno non è abbastanza inferno. Soltanto come inferno è
ipotiposi del cielo, cioè è semplicemente il modo dell’apertura.
CLAUDIO BERTOCCHI La paura, la si avverte quando c’è la pressione
o quando non c’è?
A. V. La paura è la sentinella della pulsione. Nella legazione terza,
Machiavelli scrive: “Voi avete bevuto il mare e ora avete paura d’una
pozzanghera”. Vale un intero affresco. La pena cui vi siete sottoposti,
che avete subìto e accettato è enorme. Avete dinanzi una pozzanghera
La paura e la depressione
ARMANDO
IL SECONDO RINASCIMENTO
VERDIGLIONE
e avete paura di affogarvi. Chi accetta la morte, chi si fa soggetto alla
morte e la incarna, ha paura anche di prendere l’aereo, di salire sul treno.
“Voi avete bevuto il mare e ora avete paura d’una pozzanghera”.
Leggete questo brano delle Istorie fiorentine, che io definisco la carta
della diplomazia fiorentina. Si tratta di vari dispositivi. Gli storicisti
s’imbrogliano: Machiavelli è per o contro Lorenzo il Magnifico? Per o
contro Cosimo il Vecchio? Per o contro Rinaldo degli Albizzi? Essi hanno
bisogno di fondarsi sulla conoscenza del bene e del male. In questo
modo, l’anfibologia sparisce e lascia il posto al compromesso sociale,
politico, finanziario, all’accomodamento fra l’alto e il basso. Nelle Istorie
fiorentine, Machiavelli scrive: “E quello che tanti periculi e tante minacci
di nimici non avevono fatto piegare, gli insolenti modi degli amici
piegorono”. Ecco la prosa. Machiavelli non sa adoperare il pennello, ma
questa è la pittura come scrittura della parola, è la prosa. Non soltanto
amico-nemico non rappresentano l’Altro, ma costituiscono un’anfibologia. È il massimo contributo al dileguamento della paranoia.
Il futile è la dispersione. Senza nulla di negativo. La dispersione non
è lo spreco. Neppure il dispendio è lo spreco. C’è il risparmio come la via
più diretta per il dispendio e c’è il risparmio e il risparmiarsi come
spreco: pensarsi, curarsi, occuparsi di sé e dell’Altro, di sé nell’altro,
dell’altro in sé. Tutto questo è negare il narcisismo che è della parola. Lo
spreco. L’accettazione dello psicofarmaco è lo spreco.
CARLO MARCHETTI Si può dire che la paura è un tentativo di
rappresentarsi come desiderante?
A. V. Qui bisogna distinguere la paura presa per la punta dalla paura
presa per la coda. La paura presa. Chi prende la paura è preso, più che
prenderla. La coda della paura è la coda dell’Uroboro, che si corrompe
e viene divorata. La punta della paura sta dove punta la paura? Punta
alla scrittura della sintassi. Questo è il puntamento della paura.
C. M. Tra fobia e paura…
A. V. Fobia è termine greco. Non vorrà che io creda alla psichiatria e dica
che la fobia è un’entità nosografica? Comunque, se vogliamo, la fobia è
la paura domestica. Ma la paura è mai domestica? La chance della clinica
sta nel rispondere “no”. Come il fantasma non è mai materno. Altrimenti, sarebbe come dire che esiste la padronanza sulla parola. Il fantasma
materno è il fantasma di padronanza sulla parola.
Non c’è chi sia professionista nell’addomesticare la paura. Professione assolutamente impossibile, anzi assurda. Nessuno ci riesce davvero.
C’è chi continua a produrre prove, azioni, contrazioni, ma non riesce. Ci
sono varie riviste di psichiatria e di psicanalisi che hanno dedicato
59
La paura e la depressione
IL SECONDO RINASCIMENTO
ARMANDO
VERDIGLIONE
numeri speciali alla paura e alle fobie. Quale il catalogo delle fobie?
Quante e quali? Ce n’è sempre una, di fobia. Quando si ha l’impressione
di affezionarsi a una paura, subito se ne crea un’altra, cui non ci si è
ancora affezionati. E si dimentica la precedente.
Leggiamo questo esergo tratto dal Ritratto delle cose di Francia, a
proposito di Vincenzo Spagnolo che mi ha fatto la domanda sulla
prostituzione. La prostituzione è l’amore con la Sfinge, con la mamma
non vergine. Si tratta di attenersi religiosamente, scrupolosamente, al
segreto di mamma, evitando la sessualità. La prostituzione è una forma
di religiosità. Machiavelli scrive: “E [i francesi] tengono uno ordine
mirabile, in modo che allo arrivare ciascuno ha suo luogo, fino alla
meretrice”.
A. A. Machiavelli scrive che un esercito già mosso a fuggire è difficile
renderlo alla zuffa. Per questo “mosso a fuggire” s’intende che fugge al
luogo donde è venuto o…
A. V. È un fuggire verso il domestico.
A. A. È un regredire o è un puntare verso il baratro? Sembrano due modi
differenti. Anche se poi vengono fatti coincidere. E in aggiunta, volevo
sapere se la zuffa può giungere al sangue, oppure se la zuffa…
A. V. ... se la zuffa è intellettuale. Sono due domande molto belle, molto
serie. La prima dice che fuggire verso la via facile o verso il domestico o
verso il nemico (senza saperlo) o consegnarsi al nemico (questa sarebbe
la resa), cioè farsi proteggere, assistere dal nemico, sono modi che
l’istituto della vendetta (che è anche l’istituto dell’inquisizione) ha
esplorato in lungo e in largo. E ci sono molte varianti indicate, per
esempio, nel Martello delle streghe. La zuffa è la lotta per un verso e la
battaglia per l’altro, ma sempre zuffa intellettuale. Intellettuale non
significa che si fondi sull’economia del sangue, altrimenti sarebbe la
guerra bianca. La guerra che si fondi sulla totale economia del sangue è
la guerra bianca, dove ognuno non ha bisogno di combattere contro la
morte perché è la morte, è la morte bianca.
A. A. Vorrei chiedere un’altra cosa a proposito della formulazione: “dare
la morte”. L’oggetto, a quanto lei dice, non dovrebbe dare la morte,
perché la morte è nella logica delle funzioni.
A. V. La morte come indice. La formulazione “dare la morte” è “dare il
nome”. E se ne accorge Schreber.
A. A. È questione di una qualche rilevanza visto che, stando alle sue
definizioni, dovremmo dire che l’arma non può dare la morte. E nemmeno l’oggetto.
A. V. Certamente.
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La paura e la depressione
ARMANDO
IL SECONDO RINASCIMENTO
VERDIGLIONE
Il nome è anonimo e innominabile. Nome senza nome: il nome
anonimo. Nome che non si può nominare: il nome innominabile. Il padre
è indice dell’innominabile. La donna è indice dell’anonimato del nome.
Il fatto, la morte, è il nome del nome, e poi il soggetto. Il nome del nome
non funziona, non è funzione di nome, non è funzione di zero. Semmai
è funzione della morte.
Noi stiamo discutendo della paura. L’argomento epicureo, in epoca
di cannibalismo bianco, è inglobato: “Non ho paura della morte poiché,
quando ci sono io, non c’è la morte, quando c’è la morte, non ci sono io”.
La sua versione moderna offre la coscienza nella formula “io sono la
morte”.
C. B. Nel discorso comune c’è la paura di rischiare. Mentre lei dice che
il rischio è di vita. In genere, rischio e garanzia sono sempre contrapposti. Perché c’è sempre la paura del rischio?
A. V. La garanzia è una delle virtù del sembiante, è condizione del
rischio. La garanzia è propria del sembiante, quindi dell’oggetto, è
garanzia oggettuale, non è garanzia soggettiva. Altrimenti, l’unico
soggetto garantito è la morte. La garanzia è condizione del rischio, e il
rischio non è soggettivo né oggettivo. Non c’è rischio obbiettivo o
oggettivo, non c’è l’obbiettivo rischio. Il solo rischio che esiste è il rischio
d’intendere. E lo spavento indica anche il rischio. Rischio senza affanno,
e in questo senso assicurazione, sicurezza. Senza affanno, senza cura
dell’Altro e di sé, senza occuparsi di sé e dell’Altro, senza l’occupazione
dell’Altro, senza occupare l’Altro, quindi senza rappresentarlo, senza
farsi Altro.
C. B. Un’altra paura è la paura della fine dei soldi.
A. V. Ci sono tre formulazioni: paura dei soldi, poiché i soldi indicano,
come il pubblico, l’infinito attuale, e quindi paura dell’infinito attuale, di
ciò che non finisce. Questa paura si manifesta come il contrario, come
paura dell’infinito potenziale: che i soldi pertengano all’infinito potenziale, e cioè che finiscano. Ci sono varianti rispetto al pubblico: paura dei
soldi, paura del pubblico, cioè ancora una volta paura dell’infinito
attuale; oppure è paura del popolo, che disordinato può fare ciò che
vuole e quindi non è savio e può partorire il tiranno, il despota o il
vampiro. Oppure è lo spavento dinanzi al tempo, che indica il tempo e
l’Altro, e anche il rischio. Oppure è il panico, e indica la finanza. Accade
a chi a un certo punto si accorge che “i soldi sono finiti, tanto da…”; allora
c’è l’enunciazione dell’istanza di conclusione, l’enunciazione della finanza.
Come mai accade che persone, che sono giunte a un disastro econo-
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IL SECONDO RINASCIMENTO
La paura e la depressione
ARMANDO
VERDIGLIONE
mico e d’impresa, come mestiere poi si dedicano alla finanza e diventano
efficaci consulenti finanziari? Perché hanno compiuto per intero la
traversata dell’anoressia, sessuale, temporale, pragmatica. Hanno esplorato fino all’estremo l’impossibilità di padroneggiare il fare, quindi
l’Altro e la sua struttura. Alla base c’era un errore, che credevano di
logica, anziché di calcolo (l’errore di calcolo, di errore in errore, è il piede
del tempo; di dimenticanza in dimenticanza, è il passo del tempo).
Occuparsi dei soldi in un modo che risulti una pianificazione degli errori
e delle dimenticanze espone al contropiede e al contrappasso, fino
all’estremo contropiede e all’estremo contrappasso, fino a che ci si trova
dinanzi all’istanza della finanza, cioè all’istanza di conclusione, dinanzi
alla politica e alla scrittura della politica. È lì che si giunge a inventare il
dispositivo intellettuale, finanziario, amministrativo, di comunicazione.
Un tale oggi diceva: “Produrre è facile, vendere è difficile”. Sembra
che vada da sé, e invece non va affatto da sé. Noi diciamo che venditore
è il sembiante, ma in quale accezione? Come provocatore, profeta,
ciarliero, causante, questionante. Come condizione. La vendita come
condizione. Venalità del sembiante. Poi c’è altra vendita e altra venalità,
quella del tempo. Il tempo come venditore. Il tempo, il taglio, è la base
della piega. L’intervento del taglio, facendo, l’intervento del tempo è la
base dell’intervento della piega, perché ci sia piegatura delle cose,
quindi scrittura e riuscita, soddisfazione, profitto, guadagno intellettuale.
Facciamo l’esempio di due modi di reagire all’altro tempo, al tempo
dell’Altro, al tempo della parola. Un modo può essere quello della
continenza: un uomo e una donna compiono pochissimi affari perché si
contengono. L’altro modo è quello degli uomini che si accostano agli
affari con l’algebra: dividono, moltiplicano, sommano, sottraggono.
Entrambi questi modi hanno contropiedi e contrappassi, che gli stupidi
chiamano somatizzazioni. E invece si tratta proprio dell’impossibile
somatizzazione. Quella che viene chiamata somatizzazione è la negazione della somatizzazione. Ciò che viene dato come prova della
somatizzazione è la prova dell’inesistenza della somatizzazione. Che è
un contraccolpo fra il corpo e la scena, fra il piede e il passo — e quindi
contropiede o contrappasso. Se tutto ciò sta entro certi limiti, entro limiti
soggettivi accettabili per una certa durata, può sembrare che ci sia una
stabilità soggettiva, sociale, familiare. Ma essa è solo apparente, sia pure
fondata sul salario fatto di acciaio inossidabile. Giungere al modo in cui
risulti incontenibile, incontinente, inalgebrico il tempo è trovarsi nella
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La paura e la depressione
ARMANDO
IL SECONDO RINASCIMENTO
VERDIGLIONE
disposizione alla scrittura della politica, quindi al profitto. Il profitto è
finanziario, quindi diplomatico. La lingua del profitto è la lingua diplomatica, la lingua dell’intendimento, la lingua della Pentecoste.
SERGIO DALLA VAL Spesso, la necessità di dovere occuparsi di sé o
dell’Altro procede dalla paura dell’abbandono. La paura dell’abbandono comporta questo affanno.
A. V. L’abbandono è un eufemismo. La condizione dell’abbandono è il
distacco, è l’assoluto, la solitudine. Se la condizione dell’abbandono è la
solitudine, non c’è nessun pericolo né di essere abbandonati né di
abbandonare. Abbandono è l’altro nome del transfert. Ma la condizione
è la solitudine. Chi soffre per l’abbandono è colui che si trova nel deserto
e dice che potrebbe essere abbandonato.
C. F. D. A. Si può intendere “non c’è più abbandono” anche nel senso che
non c’è più modo di restare fuori dalla parola: qualcosa incomincia e non
finisce più.
A. V. Non ci si abbandona e non si è abbandonati. O, se volete, per chi
si sente abbandonato, bisogna dire che non è abbandonato abbastanza.
ROBERTO FRANCESCO DA CELANO Il ricordo festeggia la sua
commemorazione accendendo la paura. È difficile pensare alla paura se
non se ne ha un ricordo, un ricordo di paragone.
A. V. Il ricordo è l’eufemismo della menzogna. Si tratta dell’ammissione
del figlio, non del ricordo del figlio. Non della memoria elettiva, del
principio d’identità come principio di elezione del figlio, del figlio eletto.
Ma dell’ammissione come funzione di uno.
La festa (non come luogo dell’abolizione della parola e quindi della
padronanza sulla parola), la festa della parola — che la parola sia presa
fra la sua dissidenza e il suo itinerario — è essenziale. Festa indica
scambio, mercato, commercio, vendita. Se non c’è festa, non c’è scambio
e nemmeno mercato, vendita, commercio. Il termine fiera è il termine
latino per festa. Il mercato, il commercio, la vendita, lo scambio avvengono per la festa e nella festa. E questo lo dicevo anche a proposito di
alcuni atti arbitrari da compiere: il congresso di Tokio, quello di New
York, oggi il congresso di Ginevra. Si tratta di atti arbitrari, atti intellettuali, dove c’è la festa della parola. La riserva mentale cerca di contenere
la festa, d’isolarla, di rappresentarla, di localizzarla, di delimitarla, di
farla dipendere dal fantasma materno.
La festa, lo scambio, il mercato, la vendita dicono della fortuna
(proprietà della parola) e della virtù, quindi del criterio di qualità delle
cose. Scrive a Machiavelli Filippo Casavecchia il 17 gennaio 1509: “La
vostra filosofia non credo che abbi a esser mai capacie a’ pazzi; e’ savj non
La paura e la depressione
IL SECONDO RINASCIMENTO
ARMANDO
VERDIGLIONE
son tanti che bastino: voi m’intendete, benché non abbi sì bello porgere”.
A Firenze, le missive, le delegazioni di Machiavelli venivano lette tra
amici, tra amici di amici, venivano copiate. Per esempio, Biagio
Buonaccorsi le copia e le vende. Così è accaduto anche a alcuni manoscritti di Leonardo. “Ogni dì vi scopro el maggiore profeta che avessino
mai li Ebrei o altra generatione”. Filippo Casavecchia non è un genio,
però si accorge di Machiavelli.
“Produrre è facile, vendere è difficile” viene detto dalle industrie, ma
anche dal terziario, dal quaternario, dai cosiddetti produttori di servizi.
Questi prodotti talvolta sono studi, cerimoniali di produzione, non vera
e propria produzione, perché la produzione procede dalla vendita.
Della produzione ci sono varie accezioni. La poiesis è produzione
frastica, il suo prodotto è la lettera. La scrittura che avviene attraverso le
lettere è la scrittura frastica. Il compimento della scrittura frastica è
l’etica. Poi c’è un’altra produzione: la poesia, cultura del fare e arte del
fare. E il fare è la struttura dell’Altro. Il prodotto estremo è il capitale, la
cifra, la qualità.
L’istanza della vendita anzitutto sta nel sembiante, nella logica
stigmatica. In entrambi i casi, la condizione della produzione è il
sembiante. Poi c’è la vendita che sta alla punta del fare, della struttura
dell’Altro, della poesia, e che si dirige alla scrittura stessa del ritmo, della
poesia. Anche in questo caso il prodotto estremo, il capitale, è preceduto
da questa istanza temporale della vendita. La prima, la chiamiamo
istanza oggettuale della vendita, la seconda istanza temporale della
vendita. La difficoltà è della parola. Di sicuro, non c’è facilità né di
vendere né di produrre.
Il sembiante venditore è indotto dalla struttura, sia dalla sintassi sia
dalla frase sia dal pragma. Il tempo venditore si dirige alla piega, quindi
al semplice. Qual è la supposizione che sottende la superstizione,
abbastanza diffusa, secondo cui “produrre è facile, vendere è difficile”?
È la supposizione che la comunicazione sia non diplomatica, ma automatica. Costoro ritengono di potere superare il problema e si chiedono:
“Come rendere più facile la vendita?”. “Come rendere automatica la
comunicazione?”. Alla base di quella superstizione sta non affrontare la
questione essenziale: la comunicazione diplomatica.
MARIA ANTONIETTA VIERO Nel produrre sarebbe implicito il
magazzino, inteso come riserva del prodotto finito, da vendere.
A. V. Il vero magazzino è l’adiacenza. Non la soggiacenza, la giacenza
di magazzino, ma l’adiacenza.
C. F. D. A. Nella frase “produrre è facile, vendere è difficile” c’è l’idea
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La paura e la depressione
ARMANDO
IL SECONDO RINASCIMENTO
VERDIGLIONE
dell’imprenditore che rischia e del consulente che consiglia ma non
rischia.
A. V. Ci sono indicazioni straordinarie di Machiavelli intorno alla
consulenza. Il segretario fiorentino era anche consulente. Un conto è la
consulenza, un conto è la fine delle cose, un altro conto è il fine. Secondo
Machiavelli l’idea della fine delle cose è il problema che si frappone alla
vera e propria diplomazia fiorentina, dove il consiglio non ha nulla a che
vedere con la giustificazione né dei mezzi né dei fini. Il consiglio sta dove
il tempo non finisce, dove l’impresa non finisce, dove l’azione non viene
ammessa soltanto partendo dalla sua fine.
“Antonino Pio disse a uno delatore che invano si affaticavano li
imperatori, perché nessuno ammazzò mai il suo successore” (Ibid., p.
69). Chi è il successore? Non è lo zero, non è l’uno, non è il numero
successivo a un numero, che è un numero, come dice uno dei postulati
di Peano. Il successore è più di uno. È l’idea dell’Altro. Più di uno non
è plurale, ma il successore, lo spirito, l’operatore pragmatico. Nessuno
ammazzò mai lo spirito.
In effetti, noi diciamo parricidio e figlicidio, cioè uccisione, nel senso
proprio di funzione, dopo un’ampia ricerca anche intorno all’etimo di
uccisione, fino a giungere alla funzione di zero e funzione di uno. Ma
non abbiamo mai parlato, perché non esiste, di uccisione dello spirito.
C’è l’impossibile dell’uccisione: l’impossibile della rimozione e l’impossibile della resistenza. E c’è l’intervallo, quindi il contingente, dove non
c’è uccisione dello spirito né dell’Altro. Il principio del terzo escluso si
esercita proprio in questo senso: nell’abolizione, nella soppressione
dell’Altro.
Nelle religioni orientali, islamica, ortodossa ma anche cinese, c’era
sempre il successore, il delfino come animale fantastico, che veniva
ucciso. Se il figlio viene scambiato per successore, c’è ogni volta un
successore differente. Non è assassinio del successore, è infanticidio, per
esigenze di purezza, al posto dell’ammissione del figlio, della funzione
di uno, della resistenza. Ciò che anzitutto distingue il dispositivo
artificiale da un gruppo è se c’è chi si pone come figlio e successore,
votandosi al sacrificio, all’infanticidio, come vittima. La cosa si presenta
sotto la specie del figlio unico. Il tale si pone come figlio unico, cioè come
successore, e dice: “Tutti gli uomini e le donne sono fratelli e sorelle
impuri”, sicché gli uomini e le donne si aggregano per favorire la
produzione della vittima, del capro espiatorio, quindi dell’infanticidio.
Si distingue subito dove c’è gruppo, gruppo “pagano”, e dove c’è
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IL SECONDO RINASCIMENTO
La paura e la depressione
ARMANDO
VERDIGLIONE
dispositivo. Il figlio eletto è sempre il figlio eletto per il sacrificio, il figlio
unico, il successore votato al sacrificio.
Universitas, anzitutto, indica che la matematica, la letteratura, il
sapere s’instaurano proprio per la resistenza, per la struttura e la
scrittura della resistenza. Quando diciamo che il sapere è effetto di
seduzione dell’uno diviso da se stesso, differente da se stesso, quindi
menzognero, diciamo che non è sapere sociale, politico, finanziario.
Taluni si spacciano per esperti in sapere finanziario, politico, sociale, in
sapere sessuale, cioè si spacciano per figli unici o per allevatori di figli
unici.
La filiazione genealogica si produce attraverso l’infanticidio, attraverso la negazione dell’universitas, quindi della struttura della resistenza e della sua scrittura, della matematica, della letteratura, dell’etica. La
matematica presiede alla produzione del sapere effettuale. Il matema è
ciò che si produce come effetto frastico.
Chi si pone come successore si pone come figlio unico, è votato al
sacrificio, quindi è vittima provvisoria in quanto soggetto all’iniziazione.
Successivamente, dovrebbe assurgere, a sua volta, a padrone della
parola. L’università ordinale e ordinaria è questa. Ma non era e non è
questa l’universitas, che è universitas matematica quindi letterale più
che letteraria.
C. F. D. A. Chi si pone come figlio unico suppone un sapere sacralizzato
e ideale, crede che debba esserci un’iniziazione al sapere.
A. V. Il sapere diventa causa, causa finale. Dicendo il senso come
causa, il sapere come causa e la verità come causa, a quale causa ci
rapportiamo? A quella che Aristotele chiama la causa finale, che per lui
riassume le quattro cause, anche la causa materiale. Il sapere diventa
istituito, fine e ideale. Ma l’idealizzazione, la sacralità del sapere dipendono dalla morte del figlio. Le università ordinali e ordinarie sono
religioni e cerimoniali fondate sull’infanticidio.
Il comunismo ha come scopo quello di prendere lo stato, la città, le
istituzioni, di rifare la costituzione. L’università è considerata istituzione pedagogica fondamentale; da qui la presa dell’università, come la
presa di altre istituzioni — il tribunale, le amministrazioni locali — fino
alla presa della politica.
Il ribelle di Ernst Jünger, come l’oppositore di Hegel, consacra il
sistema.
“Antonino Pio disse a uno delatore che invano si affaticavano li
imperatori, perché nessuno ammazzò mai il suo successore”. E c’è chi si
sforza di praticare il seppuku, cioè lo spettacolo del negativo, della
IL SECONDO RINASCIMENTO
La paura e la depressione
ARMANDO
VERDIGLIONE
miseria, della povertà, per dire: “Io sono il figlio eletto, benché indegno”.
“Gli uomini possono secondare la fortuna e non opporsegli; possono
tessere gli orditi suoi, e non rompergli. Debbono, bene, non si abbandonare mai; perché, non sappiendo il fine suo, e andando quella per vie
traverse ed incognite, hanno sempre a sperare, e sperando non si
abbandonare, in qualunque fortuna ed in qualunque travaglio si
truovino” (Ibid., p. 109). Questa è prosa, cioè scrittura della parola,
scrittura dell’esperienza. “Gli uomini grandi sono sempre in ogni fortuna quelli medesimi; e se la varia, ora con esaltarli, ora con opprimerli,
quegli non variano, ma tengono sempre lo animo fermo, ed in tale modo
congiunto con il modo del vivere loro, che facilmente si conosce, per
ciascuno, la fortuna non avere potenza sopra di loro”. E questa sarebbe
la sfortuna. Fortuna-sfortuna è un’anfibologia. Non importa che sia
favorevole o sfavorevole, che sia fortuna o sfortuna, resta anfibologia,
resta modo dell’apertura. Per Machiavelli, fortuna ha anche l’accezione
d’infortunio, sfortuna, madre matrigna, è anfibologia.
La circostanza è il pretesto dell’anfibologia. Circostanza: il termine
greco è peristasi. La circostanza non è l’ambiente. L’ambiente è
pragmatico. La circostanza è positivo-negativo. Lei dice: “La circostanza
è positiva, e io sono baciato dalla fortuna”. Lei, in quel caso, è figlio
unico, è votato al sacrificio, perché si pone come successore, quindi nel
processo di filiazione genealogica. Oppure dice: “La circostanza è
negativa, io sono perseguitato dalla sfortuna” e allora è sempre votato
al sacrificio, figlio maledetto, privilegio negativo. C’è sempre l’idea del
figlio unico, del figlio come successore. Ma il figlio non è il successore.
E infatti io qui scrivo: “E la fortuna emerge ora come circostanza ora
come anfibologia benigna-maligna, vera-falsa, giusta-ingiusta.
L’anfibologia è ossimoro, modo dell’inconciliabile” (Ibidem). Fortuna
come rapsodia dell’uno è l’impasse, il contrappunto dello sguardo. Il
termine fortuna, nel testo di Machiavelli, è sia ironia della sorte sia
destino. Nel caso precedente è ironia della sorte, e cioè il positivonegativo partecipa all’ironia della sorte, al modo dell’inconciliabile,
dell’apertura. Dove c’è positivo-negativo c’è una chance enorme. Non è
conciliazione, accomodamento, non è l’altalena fra positivo e negativo.
Non si tratta di cullarsi o dondolarsi tra positivo e negativo, ma positivonegativo come modo dell’apertura, come anfibologia.
Bene-male è un ossimoro, è altra apertura, altro modo e altro itinerario, altra strada. In questo modo non può fissarsi, localizzarsi, paralizzarsi la parola. Bene-male è il modo dell’apertura. Bene ha un etimo
interessante: il due. È come duello. Ma la lotta non è attribuibile a bene-
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La paura e la depressione
IL SECONDO RINASCIMENTO
ARMANDO
VERDIGLIONE
male, non c’è la lotta fra il bene e il male, fra il negativo e il positivo.
Nessun manicheismo, eterna lotta fra il bene e il male. Nessun conflitto
fra il bene e il male: questa è la gnosi, che cerca una sintesi superiore.
Chi si pone come figlio unico, figlio eletto, non entra nel dispositivo,
si nega al dispositivo, non si trova a inventare dispositivi nuovi che siano
anche dispositivi di vendita, finanziari, di comunicazione. Io non dico
che commette peccato chi qualifica male l’assenza di vendita. Ma questo
male bisogna che introduca al modo dell’apertura. Io posso anche
qualificare negativo il non vendere e positivo il vendere, ma come
negativo-positivo, come apertura, modo dell’apertura, progetto e programma. Bisogna non essere calvinisti e non dire subito: “Ah, ecco il
segno: io sono baciato da Dio, ho successo sulla terra, sono tra i fortunati,
i predestinati”, perché subito si sprofonda nell’abisso, nel precipizio, nel
baratro. Bisogna non considerare un successo.
La paranoia ha due versanti: o tutto positivo o tutto negativo, o tutto
chiaro o tutto scuro. Mai l’ombra. Chiaro e scuro, dice Leonardo,
l’ombra, il modo dell’apertura, senza conciliazione. Non la penombra,
tutto chiaro, tutto scuro, con un po’ di coloritura: questo è il compromesso storico, sociale, politico, finanziario.
PAOLO VANDIN Lei ha parlato della scrittura, in questo caso, della
frase. Ha detto che le cose si scrivono anche senza la penna, nella vita di
ogni giorno. Che significa? La sintassi, la frase, il pragma possono non
scriversi?
A. V. La scrittura della parola può avvenire nella pittura, può avvenire
nella libreria-galleria, nella comunicazione anche imprenditoriale, nello
scambio e nella vendita di pubblicità. La scrittura della parola è in
ciascun atto di parola, è scrittura dell’esperienza, quindi scrittura della
sintassi e della frase, scrittura della storia e scrittura della politica o del
fare, quindi scrittura pragmatica.
C. B. Come eliminare i comportamenti stagni (volevo dire i compartimenti stagni) e fare sì che ciascun aspetto della vita rientri nell’esperienza?
A. V. Qualcuno dice: “Io sto facendo una cosa che non c’entra niente con
l’esperienza, una cosa che purtroppo devo fare”. Ma non ci sono cose che
io devo fare e cose che faccio con piacere. Occorre fare. Ciascuna attività,
ciascun lavoro, è essenziale all’esperienza. La telecomunicazione è
essenziale all’esperienza, l’informatica è essenziale all’esperienza. Non
c’è sollecitazione da scartare. Se una persona viene a chiedermi qualcosa, io non dico: “Questa cosa non m’interessa”. Se ci sono attività che
ciascuno di voi intraprende, è assurdo mettersi a dire: “Questo rientra
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La paura e la depressione
ARMANDO
IL SECONDO RINASCIMENTO
VERDIGLIONE
specificamente nell’esperienza, questo no”. Lo specifico dipende esclusivamente dalla procedura, dal fatto che le cose procedono dall’apertura, quindi per integrazione. Le cose che procedono dall’apertura procedono per integrazione. Si tratta d’integrare i vari aspetti come aspetti
dell’esperienza e nella scrittura dell’esperienza. Da qui la lezione. Questo vale per ciascuna cosa, non c’è nulla che sia marginale, secondario e
che costituisca un lavoro necessario, che io devo fare ma che non rientra
propriamente nell’esperienza. Ciascuna cosa rientra a pieno titolo nell’esperienza. Il titolo è il nome che funziona e che inaugura l’esperienza.
Anche cifrante e cifratore, il dispositivo, è in ciascun caso. Non c’è
cifrante che sia cifrante a ore, a gettoni, a benzina, a olio, a acqua o a
pedalate. O che duri un’ora oppure mezz’ora, non c’è cifrante che in
banca o a tavola non sia cifrante. Il dispositivo è da inventare ciascuna
volta. Le cose procedono dall’apertura, per integrazione.
Questa distinzione fra le cose che dobbiamo fare e quelle che ci piace
fare è la stessa distinzione fra arte liberale e arte meccanica. Non ha
nessuna incidenza rispetto alla bottega di Leonardo, alla brigata di
Machiavelli, insomma al dispositivo intellettuale. È un modo con cui
ciascuno porta la credenza, la superstizione per fare un compartimento,
un comportamento stagno: il compartimento stagno assicurazioni, il
compartimento stagno intermediazioni, il compartimento stagno comunicazione. Perché ci sia qualcosa che resti, ciascuna cosa procede integrandosi nell’esperienza e nella scrittura dell’esperienza.
C. F. D. A. Il piacere: non è da intendere che ci sono le cose che fa piacere
fare e quelle che non fa piacere fare.
A. V. Il principio del piacere è il principio della morte.
C. F. D. A. Di solito, le cose più interessanti sono quelle verso le quali…
A. V. … il dispiacere è estremo.
C. F. D. A. È nel loro compimento che c’è il piacere, non quando vengono
intraprese.
A. V. Il piacere non è dato all’inizio. Unlust dice Freud: impiacere, le cose
che non piacciono, dove la questione “mi piace, non mi piace” non si
pone. Bisogna fare. Il principio del piacere è principio della morte, un
principio materno, di padronanza. Io padroneggio la parola e dico:
“Questo è buono, questo è cattivo, questo mi piace, questo non mi
piace”. Diventa una vita gnostica, perché quello che non mi piace me lo
ritrovo addosso. Se credo di averlo evitato me lo ritrovo sulle spalle,
nello stomaco.
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