leader: “chi l`ha visto?”
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leader: “chi l`ha visto?”
Dossier LEADER: “CHI L’HA VISTO?” l tema della leadership è cruciale per il volontariato che, se vuole decidere dove andare, deve decidere che leadership darsi. I leader non sempre coincidono con coloro la cui carica ai vertici dell’organizzazione è formalizzata: ci possono essere presidenti assai poco leader. Leader è una parola inglese che significa “colui che conduce” (e chi lo riconosce come tale è il follower, “colui che segue”): sa motivare, e sa trascinare verso l’obiettivo. Naturalmente ci sono tanti modi di essere leader. C’è quello carismatico, che vede una persona —dotata di capacità, ma soprattutto di fascino— porsi in modo naturale alla testa del gruppo. E c’è quello democratico, che si basa piuttosto sulla capacità di raccogliere consensi attorno a programmi ed obiettivi. E ci sono, ovviamente, tanti modelli intermedi quanti sono i leader. Oggi in politica prevale decisamente il modello carismatico, basato sull’immagine, la verve, la simpatia. Bisogna ammettere che il modello carismatico in qualche situazione funziona, ma a lungo termine mostra dei limiti: non stimola partecipazione, non responsabilizza, non fa crescere gli altri membri del gruppo, non permette quell’alternanza nei ruoli di potere che porta innovazione. Il modello democratico, invece, permette tutto questo. A meno che non si burocratizzi e non si cristallizzi in una piramide di poteri che si sostengono l’un l’altro, o che viceversa non anneghi nelle sabbie mobili dell’assemblearismo. Il volontariato moderno è stato fondato, negli anni settanta-ottanta, da leader carismatici. Uno per uno, però sono usciti o stanno uscendo di scena. C’è qualcuno in grado di sostituirli? I dati sul volontariato ci dicono che le organizzazioni sono sempre più numerose, ma sempre più piccole. Significa forse che ogni persona un 51 Dossier po’ intraprendente costruisce attorno a sé un sodalizio che lo gratifica riconoscendolo come capo? Ma questi capi diventeranno leader? E i loro gruppi sopravvivranno alla loro uscita di scena? O forse il problema è che le organizzazioni sono ormai così irrigidite nelle dinamiche interne, da non essere più capaci di accogliere nuovi membri, per cui la voglia di partecipazione si esprime per forza di cose in nuove organizzazioni? Resta il problema che, per essere efficaci e contare, bisogna crescere. E che per crescere bisogna avere una buona leadership. Maschio, maturo, centrista ecco chi comanda nel volontariato Una ricerca ha studiato i leader del terzo settore, e le loro carriere di Claudia Farallo La letteratura sulla leadership si è finora concentrata sulle imprese e sulla pubblica amministrazione, lasciando sostanzialmente in ombra il mondo del Terzo settore. Proprio per colmare questa lacuna, nasce la ricerca “I leader del terzo settore. Percorsi biografici, culture e stili di leadership”, a cura di Ivo Colozzi e Riccardo Grandini (Franco Angeli 2008), che si incentra sui responsabili di organizzazioni di volontariato, cooperative e associazioni di promozione sociale. Identikit dei leader Maschio in età matura, religioso, istruito, lavoratore, di credo politico centrista, con più di due anni di esperienza nell’associazione. Queste le caratteristiche del leader emerse dalla ricerca sulle organizzazioni di volontariato. I leader presi in esame sono presidenti (64%), vicepresidenti (14%) e consiglieri (22%), di cui il 7% responsabile a livello nazionale, il 12% a livello regionale, il18% a livello provinciale ed il 63% a livello locale. Rispetto al sesso d’appartenenza, emerge con chiarezza che i leader delle 52 Dossier organizzazioni di volontariato sono per la maggior parte maschi (74%), soprattutto nella posizione presidenziale (78,1%). Da sottolineare che questa percentuale è molto superiore a quella rilevata complessivamente nel Terzo settore, in cui i leader uomini rappresentano il 66,5%. Anche l’età sembra un fattore di rilievo, in quanto i leader hanno una maggiore anzianità e quindi una maggiore esperienza rispetto agli altri volontari. La grande maggioranza, infatti, ha più di 51 anni (64%), mentre i dati Istat rilevati complessivamente sui volontari indicano che solo il 36,8% supera i 54 anni. I leader del volontariato hanno un’età media superiore anche rispetto a quelli dell’intero Terzo settore: circa 53 anni contro i circa 49 del non profit. In particolare, i leader nel Terzo settore tra i 51 e i 60 anni sono solo 25,2% (contro il 29% del volontariato) e gli over 60 solo il 23,5% (contro il 35% del volontariato). Va anche sottolineato che nel volontariato 8 leader su 10 con più di 60 anni sono uomini. Al crescere dell’età dei leader si riscontra, inoltre, una crescita parallela della loro religiosità. Per quanto riguarda quest’aspetto, il 68% dell’intero campione si dichiara molto o abbastanza religioso, seguito dal 22,7% di poco religiosi e dal 9,3% di non credenti in nessuna religione. Rispetto alla collocazione politica, inoltre, i leader del volontariato sono per lo più “centristi” (34,6%), superando in questo i dati sull’intera popolazione italiana votante. Percorsi I leader hanno uno status culturale superiore rispetto alla totalità dei volontari (dati Istat). Quasi la metà dei leader, infatti, ha conseguito il diploma di maturità (49,5%) e molti possiedono una laurea (24,2%). Solo il 16,2%, invece, ha la licenza media o di avviamento, l’8,1% il diploma universitario. Sono solo 2 su 100 quelli con licenza elementare o nessun titolo e neanche uno, invece, ha conseguito un titolo post laurea. I dati della ricerca, inoltre, smentiscono la leggenda secondo cui chi si impegna nel volontariato è pensionato, casalinga o disoccupato. Ben il 59,2% dei leader, infatti, ha un’occupazione lavorativa, soprattutto come dipendente nel settore privato (25,5%), mentre casalinghe, studenti, volontari in servizio civile e disoccupati raggiungono solo il 6,1%. Bisogna rilevare, però, che i leader pensionati e i ritirati dal lavoro rappresentano comunque una fetta consistente (32,7%). Molti leader si sono impegnati precedentemente in altre organizzazioni del terzo settore (36,1%) ed il 20% ha avuto esperienze di dirigenza nelle 53 Dossier imprese di mercato. Mentre da quando sono entrati nell’attuale organizzazione, la maggior parte (60%) ha dovuto attendere più di due anni prima di ricoprire la posizione di leader. Sembrerebbe, dunque, che la posizione di leader si raggiunga soprattutto attraverso una vera e propria “carriera” interna all’organizzazione. C’è però da sottolineare che questo è vero soprattutto per i maschi, mentre le donne hanno avuto, generalmente, un’esperienza di vita associativa più breve. Un leader tanti stili Meglio un leader che si impone, ma dà sicurezza ed efficienza, o un leader collaborativo, che sa motivare? Forse basta che non sia esaurito… di Claudia Farallo I primi studi sulla leadership sostenevano che leader si nasce e non si diventa. Le qualità più importanti sarebbero: intelligenza (intesa come capacità critica) decisionalità, conoscenza, facilità di parola; personalità (nel senso di adattabilità), attenzione, creatività, sicurezza e fiducia in se stessi, capacità di controllare le emozioni, indipendenza e socievolezza; abilità nell’ottenere la cooperazione, nel cooperare, popolarità e prestigio, tatto, diplomazia, abilità nel dirigere. La lista sembra poter essere infinita. Successivamente, il discorso sulla leadership si fa più complesso. La “griglia manageriale” elaborata da Blake e Mounton nel 1964 identifica cinque diversi stili di leadership: ► Esaurito: definito anche “povero” o “laissezfaire”, cerca soprattutto di evitare problemi, esercitando il minimo sforzo per fare eseguire il lavoro richiesto con lo scopo principale di mantenere lo spirito di appartenenza all’organizzazione. ► Circolo ricreativo: definito “gruppo di amici”, è orientato alla relazione e mira a creare un’atmosfera sicura, confortevole e familiare, con l’auspicio che in questo modo i dipendenti producano di più. ► Compito: orientato alla produzione, consiste nell’usare potere ed autorità per fare pressione sui dipendenti in modo da far raggiungere nel minor tempo possibile gli obiettivi. 54 Dossier Metà strada: tiene conto mediamente sia della produzione sia della relazione, quindi bilancia i bisogni dei dipendenti con la necessità dell’organizzazione. ► Squadra: ha un alto interesse sia per la relazione sia per la produzione, ottenendo i risultati grazie al coinvolgimento delle persone sul comune obiettivo. Gli studi più recenti considerano anche la variabile situazionale, giudicando una leadership in base alla capacità di saper individuare e di sapersi adattare alle dinamiche di una particolare situazione. Secondo Fiedler (1967), si può fare analizzare una situazione combinando tre fattori: ► la posizione di potere del leader: a seconda che sia più o meno forte, determina una differente quantità di energia da impiegare. ► la struttura del compito: ha insita una maggiore o minore controllabilità del lavoro, in base alla quale muterà l’intensità dello sforzo di motivare e guidare i collaboratori. ► i rapporti interpersonali tra leader e componenti del gruppo: un leader può essere accettato anche solo in base alla sua posizione, ma quando gode della piena fiducia dei collaboratori non ha bisogno dell’appoggio dell’organizzazione per esercitare la sua influenza. ► Le doti personali e il contesto Non si è leader sempre e comunque: il contesto in cui agisce è determinante di Claudia Farallo Il grande dilemma, “si nasce o si diventa?”, sembra avere una soluzione non tanto scontata: non si è leader, né lo si diventa una volta per tutte. La leadership, infatti, non sarebbe un qualcosa che ci si porta sempre dentro, ma sarebbe invece un ruolo possibile solo in uno specifico contesto, difficile da decidere a priori. A spiegarci meglio questo pensiero è Anna Grimaldi, Responsabile dell’Area politiche per l’orientamento dell’Isfol – Istituto per lo sviluppo della formazione professionale dei lavoratori. 55 Dossier Non esiste un prototipo di leader Fin dall’antichità, molti sono stati i pensatori che hanno tentato di individuare il segreto dell’essere leader. Tuttavia, «definire i tratti che caratterizzano un leader è una cosa abbastanza ardua: non possiamo avere delle persone che sono leader in un’organizzazione e non lo sono in un’altra». Questa ipotesi è particolarmente evidente nell’attuale mercato del lavoro, dove aumenta la flessibilità e la possibilità di avere più di un impiego. Studiando queste dinamiche, si è visto che la stessa persona, mentre svolge un ruolo di leadership in un’organizzazione, può non mantenerlo in un’altra. Questo dimostra, secondo Grimaldi, «che in realtà non esistono delle ricette o delle variabili che individuano quel leader perché più intelligente, preparato, perché si mette in discussione, perché ha capacità di delegare (tutte variabili correlate al ruolo di leadership) ma che invece esiste un’interazione tra alcune caratteristiche personali e alcune variabili situazionali, che poi determinano che quella figura diventi il leader dell’organizzazione». La leadership sembra manifestarsi in maniera spontanea grazie al riconoscimento degli altri membri dell’organizzazione, così che non sia possibile definire a priori o “dall’alto” chi in effetti ricopra quel ruolo. È curioso, a questo proposito, notare come il ruolo di leader sia l’unico a non essere indicato negli organigrammi. «È una caratteristica importantissima del leader», fa notare Grimaldi. «Se lei va a vedere l’organigramma di una qualsiasi organizzazione», spiega, «troverà tutte le diverse posizioni. Troverà i quadri, troverà ruoli operativi, ruoli manageriali, ruoli esecutivi, ma non troverà mai la figura del leader». Non c’è differenza tra leader non profit e leader for profit Pensando al mondo del volontariato, dove non è presente l’incentivo del denaro, potrebbe venire spontaneo ipotizzare una maggiore importanza delle doti carismatiche e di inclusione, rispetto ad un carattere più autoritario e severo del contesto lavorativo. Ma per la ricercatrice «potrebbe essere benissimo il contrario e funzionare ugualmente. Dipende sempre dall’intreccio dei fattori». A cambiare non sarebbe tanto lo stile di leadership, quanto piuttosto gli obiettivi dell’organizzazione: «il leader è comunque quello che riesce a farsi seguire, che riesce a raggiungere gli obiettivi, indipendentemente da quelli che sono». 56 Dossier Paradossalmente, potrebbe verificarsi il contrario, cioè che «bisogna motivare di più le organizzazioni dove invece le persone sono retribuite che non quelle di volontari, che generalmente hanno un livello di motivazione molto alto». Inoltre, «in organizzazioni giovani, che sono più tipiche del volontariato, c’è una forte volontà e si è più motivati», fa notare, mentre «ci sono dei casi in cui, in organizzazioni molto anziane e che hanno una cultura radicata, la motivazione è una delle prime cose di cui si deve occupare un leader». Come si conquista il gruppo Competenza, impegno, capacità di valorizzare le competenza. Così due leader raccontano la loro esperienza di Claudia Farallo Cosa significa essere leader di un’organizzazione di volontariato? Ne abbiamo parlato con il presidente (Giovanni) ed il componente del comitato esecutivo di un’associazione (Roberto) che si occupa di protezione civile. Il leader eletto «Nessuno di noi è imposto dall’alto», dichiara Roberto, «quindi deve conoscere il proprio lavoro, deve darsi da fare forse più degli altri e deve farsi rispettare. Inoltre si deve sempre mettere in discussione, perché tutte le discussioni che si fanno, pro o contro, portano a una crescita di tutto il nucleo e non sono fatte per difendere interessi privati». Un leader “eletto” deve avere, oltre che competenza e impegno, anche apertura verso gli altri volontari. Questo, infatti, permette di apparire saggi e ben disposti verso le competenze degli altri membri del gruppo, senza per questo essere delegittimati. Una scelta, questa, che sembra particolarmente legata alla volontarietà della partecipazione, come fa notare il presidente: «essendo un’associazione di volontariato, la gente non sta lì per svolgere un’attività lavorativa, quindi ci deve essere, da parte di chi gestisce, la capacità di dare spazio alle persone perché possano dire la loro e per spiegare certe scelte che vengono fatte». 57 Dossier Sapersi imporre Ma ovviamente ci sono alcuni momenti in cui è necessario che le persone facciano quello che il responsabile decide, senza avere necessariamente il tempo di discutere. «Di fronte ad un’emergenza o allo stress», sottolinea Giovanni, «il leader si deve imporre anche dal punto di vista gerarchico». Ma anche in questi casi, il leader deve godere prima di tutto della fiducia da parte del gruppo. In primo luogo, attraverso la sua competenza. Per Roberto «tu credi a una persona se credi nelle sue capacità e ti dà affidamento, perché, se mi rimangio quello che ho detto, inizio ad avere incertezze o non rispondo a qualsiasi domanda che mi si pone, io ho chiuso». In secondo luogo, attraverso la condivisione delle decisioni e delle azioni con gli altri volontari. «È importante dare la possibilità di esprimere la propria opinione, facendo sentire il volontario parte attiva nel processo decisionale», suggerisce il presidente, «ma è anche importante prendere parte attivamente alle operazioni. Non basta, infatti, assumere la giusta decisione, ma anche dimostrare che si è disposti in prima persona ad attuarla». Dare spazio a chi è più preparato In terzo luogo, si conquista fiducia attraverso la capacità di valorizzare e di dare credito ai volontari, mescolando efficacemente le diverse professionalità a seconda delle situazioni. «Cerco di affiancarmi», ammette Roberto. «Se sei una squadra motivata e ognuno ha le proprie competenze, il responsabile deve capire cosa fare, sapere chi lo sa fare e nel momento giusto metterci dentro le persone giuste», anche perché, continua, «il leader deve essere un punto di riferimento per gli altri. A livello di operatività, tante volte il leader sulla carta non coincide con il leader effettivo». Concorda Giovanni, che sottolinea come «questo non ti fa perdere leadership, anzi te la legittima perché fa capire che sei una persona che riconosce i propri limiti e che non abusa del ruolo che ha». L’ideale sarebbe, secondo Roberto, «che ci fossero tanti leader, ognuno per le proprie capacità. L’importante è che poi faccia tutto capo al responsabile». Questa suddivisione dei ruoli di leadership è anche funzionale alla sopravvivenza dell’organizzazione. «Non può essere tutto in capo a te stesso», suggerisce Giovanni, «ma devi delegare le funzioni e conservare il ruolo decisionale e di coordinamento», anche se, così facendo, si può talvolta incorrere nella perdita della fiducia da parte del gruppo: «la gente 58 Dossier è abituata al dittatore che prende le decisioni per tutti», suggerisce, «quindi la delega viene presa come mancanza di leadership, come se una persona che non è autoritaria su tutto fosse uno che non ha il nerbo». Troppo carisma fa male In particolare, il leader più dannoso ai fini della sopravvivenza dell’associazione sembra essere quello carismatico, come dichiara il presidente: «se c’è un leader carismatico, non uscirà mai fuori nessuno anche se ne ha le capacità, perché viene schiacciato». «Tutti si riconoscono in quello», prosegue, «e, salvo conflitti, non emerge nessun altro. Il modello del cedere le deleghe, invece, serve per fare emergere delle capacità all’interno dell’associazione. Ci deve essere la possibilità da parte dei volontari di assumere delle responsabilità, costruendo così i dirigenti del futuro». Quando il capo è difficile La storia di due volontarie in servizio civile, e del loro impatto con un “capo” autoriario di Claudia Farallo Due storie, un solo leader. Sembra la prova che chi è leader per uno, può non esserlo per l’altro. Due ex volontarie, in servizio civile presso la stessa organizzazione di volontariato, ci hanno raccontato la loro esperienza nel medesimo progetto, ma in due edizioni diverse. Anna, nonostante abbia inizialmente continuato il rapporto con l’associazione, ha poi chiuso definitivamente a causa del cattivo modello di leadership; Francesca, invece, è tuttora volontaria attiva nell’associazione, supportata da due differenti leader. Su una cosa le due ragazze sono d’accordo: il solo fatto di essere presidente dell’associazione non rende automaticamente leader. L’inizio dell’esperienza, infatti, è stato difficile per entrambe. «Noi eravamo un esperimento di servizio civile», confessa la prima volontaria, «quindi non c’era la cultura di nuove persone che potrebbero portare innovazione all’interno dell’associazione, forse avevano paura». Conferma la seconda: «per i primi sei mesi mi sono sentita sempre costantemente sotto prova e sotto esame». 59 Dossier Autorità e autoritarismo Per Anna la situazione non è mutata: ha finito il suo progetto con l’amaro in bocca. Il presidente dell’associazione le è sembrato troppo autoritario e gerarchico. «È stato un leader di tipo negativo, cioè colui che impone le proprie idee verso un obiettivo che magari non è nemmeno condiviso, mentre il leader, attraverso il proprio carisma e il proprio modo di essere, riesce ad avere la stima delle persone e le indirizza verso un obiettivo. Una è un’imposizione e l’altra una condivisione». Invece, col passare dei mesi, la situazione di Francesca si è gradualmente evoluta in positivo: «è stato molto difficoltoso», dichiara, «avrei voluto forse una maggiore apertura fin dall’inizio, un po’ più di fiducia: invece è stata proprio una conquista». A convincerla della bontà del presidente, è stato proprio quel suo esempio di fermezza e costanza, che all’inizio forse era stato mascherato con la chiusura. Il grande insegnamento che questa volontaria conserva dalla sua esperienza è proprio il riuscire a trovare coraggio e determinazione per raggiungere i propri obiettivi: «si lotta con le unghie e con i denti finché non li si raggiunge». Una piccola apertura si è verificata anche per Francesca, anche se —come si suol dire— la frittata ormai era fatta: «è ovvio che col passare del tempo, con la fiducia, ci sono state delle aperture: riconosceva le competenze», ammette. Ma non le è mai andato giù il suo atteggiamento di superiorità: «ci vedeva molto come “io sono grande, voi siete bambine”», ricorda. Oppure scadeva nel ricatto, rivelando così non solo poco rispetto, ma anche un’idea errata del servizio civile: «a noi diceva più o meno così: “voi venite pagate e quindi fate quello che dico io”» Di certo l’esperienza di Anna non è stata così negativa, ma per i primi mesi le è stato fondamentale il supporto di un’altra volontaria interna all’associazione: un vero e proprio leader, anche se meno esplicito. «Pur essendo una persona molto diplomatica e discreta», racconta, «in tanti momenti di cedimento e di stanchezza, parlare con lei ci ha fatto vedere come la cosa potesse avere un’altra faccia della medaglia e quindi ha contribuito ad incoraggiarci per andare avanti». Quello che distingueva le due persone era proprio il differente stile di leadership: l’uno più autoritario e pragmatico e l’altro più sensibile ed attento all’emotività. «Se era una questione prettamente professionale sapevi a chi rivolgerti, così da avere la tranquillità di svolgere quella cosa pratica in un certo modo; per una questione più emotiva sapevi di rivolgerti all’altro, perché eri sicura di trovare una risposta», confessa la volontaria, che sottolinea: «sono due persone con due ruoli completamente 60 Dossier distinti. Se fosse mancata una delle due, si sarebbe sentita la mancanza dell’altra». Fine progetto: è davvero la fine? Entrambe le ragazze hanno deciso di rimanere in associazione anche dopo la fine del progetto di servizio civile. Anna ha continuato a frequentare la sede, una o due volte a settimana, per dare una mano ai nuovi volontari in servizio civile trasmettendogli l’esperienza maturata in un anno. Successivamente, le è stato proposta la partecipazione ad un progetto vero e proprio. Tuttavia il tentativo si è rivelato fallimentare. A renderlo tale sono state proprio l’autorità e la durezza del presidente. È bastata la richiesta, da parte della volontaria, di un momento di riflessione intorno ad una questione prettamente burocratica, per ottenere una sentenza dura e senza possibile replica: «mi disse “allora niente, il tuo rapporto è finito qui”», ricorda, «e io dissi “va bene, è finito qui”. La vide proprio come una questione di fiducia, come se io non avessi fiducia in quello che stava facendo lei». Francesca, invece, tuttora si impegna come volontaria presso l’associazione ed anche adesso collabora con entrambi i leader. Come diventare leader in poche mosse Due formatori suggeriscono come formare nuovi “capi”, naturalmente a seconda del modello che si vuole adottare Il punto: cosa serve ai volontari? di Francesca Romana Busnelli* La leadership può essere definita come la scelta di avere a che fare con le persone… In ogni organizzazione dovrebbe esistere qualcuno che sia capace di far girare il motore stesso dell’organizzazione: “le persone”. In molti settori, ma forse anche nel mondo del volontariato, si potrebbe dire che un bravo leader è capace di mettersi accanto dei bravi manager che assolvano per lui agli aspetti più formali e tecnici della vita organizzativa. *Studio di consulenza e formazione Aliante 61 Dossier In realtà nel volontariato abbiamo soprattutto esempi di persone che definiamo “carismatiche”: coloro attorno ai quali i gruppi si formano e crescono, coloro che danno le spinte motivazionali, spesso sono anche coloro che lavorano di più, quasi “per dare il buon esempio”. Questo ci fa dire che nel volontariato viviamo di leader e che forse da poco siamo in presenza della necessità della parte più organizzativa e “manageriale”. Il management è più facile da acquisire, la leadership è maggiormente legata alle disposizioni personali per dirlo in modo semplice. Chi studia i “tratti” di personalità, direbbe che si nasce con alcune caratteristiche tipiche del leader (fiducia in se stesso, senso di responsabilità, spirito di iniziativa, tenacia, audacia, capacità di influenzare il comportamento degli altri, umorismo...), ma c’è anche chi sostiene che la leadership sia il frutto dell’interazione e dell’interdipendenza tra capacità personali, competenze acquisite, aspettative altrui e contesti nei quali ci si trova ad agire. In questa ottica si può imparare ad avere delle competenze da leader. Troviamo allora diverse strade e proposte: c’è chi dice che il leader impara soprattutto dall’esperienza e dal feedback del campo e che è aiutato dalla sua storia personale, dal carattere, dalla storia professionale e manageriale... C’è invece chi sostiene che la leadership possa essere condivisa e distribuita nelle organizzazioni: ognuno mette la propria parte, le proprie competenze in un’ottica di vera disponibilità reciproca e di capacità di delega e di piena fiducia… Il punto è: cosa serve ai volontari? Cercano dei leader o dei capi o dei manager che li facciano lavorare bene o hanno voglia di farsi carico della propria organizzazione, imparando l’attenzione all’altro (volontario e non solo esterno!), imparando le regole per comunicare in modo chiaro e preciso, oltre che rispettoso, imparando a gestirsi le conflittualità interne, a prendere decisioni condivise, a dare fiducia e a delegare realmente? Se è questo ciò che serve alle nostre organizzazioni forse possiamo impararlo. 62 Dossier Un confronto, quasi un test Leggendo queste definizioni in gruppo… dove siete e cosa vi manca? Leadership I leader sono persone che fanno la cosa giusta (Warren Bennis) Leadership significa affrontare il cambiamento (John Kotter) I leader si preoccupano di cosa significano le cose per le persone (Abraham Zaleznik) La leadership si focalizza sulla creazione di una visione comune (George Weathersby) a cura di Francesca Busnelli Management I manager sono persone che fanno le cose giuste nel modo giusto (Warren Bennis) Management significa affrontare la complessità (John Kotter) I manager si preoccupano di come le cose vengono fatte (Abraham Zaleznik) Il management è la pianificazione del lavoro… ha a che fare con il controllo (George Weathersby) A lezione dalle anatre di Marco Crescenzi* “Ad ogni battito di ali, ogni anatra crea una corrente ascensionale che aiuta gli uccelli che volano dietro di lei. Volare in una formazione a “V” aggiunge il 70% in più di potenza nel volo rispetto a quando un uccello vola da solo. Quando un’anatra esce dalla formazione, sente immediatamente la fatica e la resistenza del volare da sola e velocemente torna nella formazione per avvantaggiarsi della spinta dell’uccello davanti a lei. Quando l’anatra che sta a capo della formazione diventa stanca, si sposta all’indietro nella formazione e un’altra prende il suo posto alla guida del gruppo. Le anatre nel retro della “V” starnazzano per incoraggiare gli altri uccelli nella parte anteriore della formazione a mantenere la velocità. Se un’anatra viene colpita da un cacciatore o se si ammala, due altre anatre lasciano la formazione e la seguono per aiutarla e proteggerla. Rimangono con lei finché riesce a volare di nuovo oppure finché muore1”. Il non profit è composto da leader-fondatori di grande buona volontà e generosità, spesso anziani ed apparentemente inamovibili. I giovani dirigenti non raramente nascono già vecchi perché “cooptati” e cresciuti in *Presidente ASVI- Fondazione per lo Sviluppo del Non Profit; Fondatore e Coordinatore di Leader2Leader 63 Dossier un clima culturale scarsamente internazionale ed aperto al nuovo, più attenti all’appartenenza che allo scambio, più conservativi che curiosi, più attenti a rincorrere bandi che a creare servizi innovativi. Le vision che dovrebbero sviluppare e diffondere, sono spesso residuali:ci si considera dei “servitori”, tappabuchi di un welfare a buon mercato, più che soggetti di governance, di pari dignità. Siamo pieni di cose fatte e di piccoli comunicati stampa come flebili cinguettii nell’ora di punta di una grande metropoli. Abbiamo una rappresentanza tradizionalmente più intenta a tenere insieme se stessa che a proporre politiche. Come uscirne? ► Curare il talento: che si avanzi non solo per anzianità di servizio (come nell’esercito) ma anche per meriti. Riconosciamo e supportiamo quotidianamente le capacità, attraverso buona formazione, letture, networking. ► Visite di studio all’estero. Iniziamo ad andare e/o mandare i nostri operatori all’estero, in particolare nel Regno Unito, a fare percorsi di studio, anche brevi. Torneranno più motivati, innovativi, ricchi di spunti. ► Programmi di scambio internazionale. Favoriamo lo scambio con gli operatori europei, che vengano anche loro ospiti da noi, ad es. per stage, e viceversa. ► Prendiamo persone che vengono dal for profit. Spesso più motivati, sempre più concreti e più attenti ai risulti… ma spesso troppo tesi all’obiettivo e poco attenti ai processi. ► Valutiamo il personale. Come possiamo crescere se nessuno ci valuta e si confronta con noi sulla qualità e potenzialità del nostro lavoro? Se non ci conosce abbastanza per investire adeguatamente su di noi? ► Sviluppare la leadership. Selezioniamo i nostri operatori anche con attenzione al loro potenziale, non è detto che debbano abbandonarci per andare altrove… Tratto dai Master Internazionali ASVI- Lezioni sulla Leadership 1 64