Relazione di sintesi del seminario

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Relazione di sintesi del seminario
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l a ri cerca appli cata e l a formazi one
“Eppur si muove…Quartieri, servizi e comunità a Bologna”
Il trentennale di Iress Bologna: un’occasione per parlare di welfare
(a cura di Flavia Franzoni, Comitato scientifico Iress)
Indice del documento
1. Premessa
2. “Eppur si muove…Quartieri, servizi e comunità a Bologna”
2.1
Per un “welfare municipale e comunitario” (dalla relazione di Flavia Franzoni)
2.2. La parola ”comunità” (dalla relazione di Graziella Giovannini)
2.3. I partecipanti al seminario: esperienze e protagonisti
2.4. I ‘confini’ delle comunità
2.5. Dalla partecipazione alla comunità
2.6. I ‘luoghi’ della comunità
2.7. Adolescenti e giovani nella comunità
2.8. Par tot: visibilità e festa
2.9. Conoscenza, coordinamento e governance
9.10. Comunità virtuali
2.11 Costruire la comunità
2.12 Una risorsa per la politica?
2.13 Lo sviluppo del dibattito in un approccio interdisciplinare
3. L’Iress continua la riflessione……
1. Premessa
L’Iress ha aperto il programma di celebrazione del proprio trentennale con un convegno
titolato “Il welfare al futuro. Servizi sociali e territorio tra appropriatezza e sostenibilità”.
Due seminari di approfondimento successivi hanno ulteriormente sviluppato alcuni temi
individuati dal convegno come rilevanti per la “salvezza” stessa del welfare, perché
capaci di innovare senza distruggere la ricchezza del patrimonio di esperienze
accumulato: il fermento delle libere espressioni delle comunità e un nuovo
protagonismo di imprese profit responsabili. Facendo riferimento ai vari tentativi di
ampliare la platea dei soggetti erogatori di servizi e interventi, siano essi appartenenti al
variegato mondo non profit o a nuove forme di welfare aziendale delle imprese profit, si
parla forse troppo di “nuovo welfare” o “secondo welfare”. La preoccupazione è che la
parola “nuovo” legittimi una “linea di fuga” verso un welfare residuale
(“compassionevole”, come lo chiamava Ronald Reagan), la speranza è che richiami
invece una valorizzazione delle responsabilità diffuse nel territorio, siano esse le
relazioni di prossimità attivate anche dai soggetti del non profit (richiamate anche dalla
parola welfare”comunitario”), siano esse le responsabilità sociali dei soggetti economici.
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Negli ultimi tempi tuttavia si sente forse troppo spesso parlare di welfare comunitario
(che indica un welfare in cui le risorse pubbliche, cioè i servizi gestiti direttamente o
indirettamente dal pubblico si integrano con risorse comunitarie o di responsabilità
sociale di impresa) da chi cerca scorciatoie di fronte alla scarsità di risorse, per trovare
risorse alternative alle risorse pubbliche, per rammendare gli strappi che derivano dai
tagli della spesa sociale.
L’obiettivo dei seminari è stato invece quello di “ricomporre” in una visione complessiva
le diverse risorse su cui potrebbe contare un rinnovato sistema di welfare, senza tradire
gli obiettivi di equità e di inclusione sociale a cui sempre hanno mirato le politiche dei
nostri territori.
Una idea in qualche modo già fatta propria dalla programmazione zonale “Piani per la
salute e per il benessere” della Regione Emilia-Romagna, che vengono introdotti dai
cosiddetti “profili di comunità” con cui si tenta di censire proprio queste risorse
“altre”, proponendo cioè sinergie e collaborazioni a tutto campo, dalle aziende profit, a
quelle non profit, dall’associazionismo ai gruppi di auto aiuto, all’urbanistica, ai
trasporti, alla cultura, ecc.
La motivazione di fondo sta nell’idea che i problemi di povertà e di esclusione così come
le difficoltà che tutti i cittadini incontrano nell’organizzazione della vita quotidiana
devono poter contare sull’intero sistema socio-economico entro cui tali problemi si
generano.
I seminari non hanno perciò ragionato soltanto nella prospettiva del risparmio anche se
inevitabilmente traghettare il sistema di welfare, un buon sistema di welfare come il
nostro, attraverso la crisi richiederà compromessi.
In Emilia-Romagna il settore sociale è un “cantiere aperto”, in cui sono in corso una
molteplicità di “revisioni”: si cerca di rispondere i mutamenti quantitativi (pensiamo alle
crescenti domande di nido) e qualitativi della domanda (pensiamo alla necessità di
trasformare l’assistenza domiciliare agli anziani tenendo conto della presenza delle
badanti). Si sta tentando una “spending review” per contenere i costi e sperimentare una
nuova governance. È in corso una sorta di “travaglio istituzionale” che va a prefigurare,
attraverso la realizzazione di alcuni istituti e modelli organizzativi previsti dalla legge n.
328/2000, una nuova governance (asp, accreditamento, piani di zona, sportelli sociali,
etc). I nuovi protagonisti entrano perciò in questo quadro in evoluzione continua.
Il passaggio è perciò delicato se, pur realizzando i cambiamenti necessari, non si
vogliono tradire, i fondamenti del nostro sistema. Come “garanzia” dobbiamo definire
l’idea di sussidiarietà a cui far riferimento.
Una idea di sussidiarietà che, rifacendosi ad una osservazione contenuta già nelle
elaborazioni degli anni ’90 che portarono nel 1997 al Patto per la solidarietà tra Governo
e Terzo Settore) finisce per chiedere un ruolo anche più forte alla parte pubblica, un
grande ruolo di promozione di responsabilità diffuse, un ruolo che però non è facile
mantenere se gli Enti Locali non trattengono per sé anche un po’ di gestione la dove
questo porta integrazione sociale e rapporti positivi tra cittadini e istituzioni.
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2. “Eppur si muove…Quartieri, servizi e comunità a Bologna”
Nel primo seminario l’Iress ha voluto approfondire il ruolo che la comunità gioca nella
costruzione del benessere della città, divenendo risorsa per quel welfare “municipale e
comunitario” che è andato via via costruendosi nei nostri territori.
Il titolo “Eppur si muove… Quartieri, servizi e comunità a Bologna” ha voluto ribadire la
convinzione che nei quartieri di Bologna (la “città bloccata”, secondo la definizione di
molti osservatori delle istituzioni e della politica) vivano organizzazioni e gruppi
informali capaci di creare legami comunitari. Una realtà frammentata, ma che può
diventare risorsa importante per far fronte ai problemi sociali del nostro territorio.
Il seminario si è posto alcuni interrogativi:
Quali caratteristiche hanno le organizzazioni e i gruppi che intervengono nella
comunità ?
La comunità è qualche cosa di originario o può essere costruita?
La governance pubblica può riprendere le fila di questi “fermenti” o si deve lasciare allo
spontaneismo il loro sviluppo?
Che significati attribuire al ‘lavoro di comunità’ come strumento dell’intervento
sociale?
Che significato ha oggi la comunità per le giovani generazioni, in considerazione del
loro “nomadismo”?
Come tener conto delle modalità virtuali di comunicazione e di relazione nella
‘costruzione della comunità ’
Quali i soggetti e le professionalità che costruiscono la comunità?
Le esperienze di comunità cosa chiedono cosa si aspettano o cosa pensano di poter
portare al governo della città nel suo insieme e alla politica nel suo complesso?
Due brevi riflessioni introduttive hanno cercato di proporre un linguaggio comune tra i
partecipanti, approfondendo il significato di due espressioni. Flavia Franzoni ha
illustrato l’espressione “welfare municipale e comunitario” che indica la cornice entro
cui l’Iress si è da sempre occupata di lavoro di comunità come sostegno all’intera rete
dei servizi socio-sanitari ed educativi. Graziella Giovannini ha proposto un
approfondimento specifico sui significati mutanti della parola “comunità” non solo come
risorsa per il benessere dei cittadini, ma anche come elemento costitutivo della stessa
convivenza. I primi interventi hanno illustrato alcune esperienze, capaci di stimolare il
dibattito sulle tematiche indicate dalle domande. Sono intervenuti operatori del comune
di Bologna impegnati nei territori di diversi quartieri soprattutto nei programmi
destinati agli adolescenti e ai giovani, alcuni “animatori” delle iniziative promosse dal
complesso mondo dell’associazionismo, soprattutto da associazioni che si occupano di
partecipazione e di cultura. Infine è stata data voce anche alla politica, ad un
amministratore di quartiere. Alla voce degli invitati a parlare si sono aggiunti interventi
degli altri partecipanti, che hanno consentito di allargare l’osservazione ad altre
esperienze e di arricchire le interazioni disciplinari con cui si può leggere più in generale
la “vita” delle nostre comunità.
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Il confronto è stato guidato da Graziella Giovannini.
2.1 Per un “welfare municipale e comunitario”
(dalla relazione di Flavia Franzoni)
Le parole “welfare municipale e comunitario” sono spesso utilizzate per descrivere il
modello di welfare introdotto dalla legge n. 328/2000 “Legge quadro per la realizzazione
del sistema integrato di interventi e servizi sociali”. Tale legge, che recepiva tante
sperimentazioni portate avanti da diverse regioni, e’ certamente stata depotenziata
dalla riforma del titolo V della Costituzione (L.n.3/2001), che ha riconosciuto alle regioni
competenza esclusiva in materia, ma i suoi contenuti sono stati fatti propri da successive
leggi regionali, in particolare dalla legge 2/2003 della Regione Emilia Romagna. E
comunque rimane una sorta di manifesto culturale sulle politiche sociali per tutti gli
operatori sociali e gli studiosi che si occupano del tema.
L’Iress, attraverso le proprie attività di ricerca, ha seguito il “farsi” di questo modello di
welfare fin dalle prime anticipazioni sperimentate da alcune regioni (in primo luogo
l’Emilia Romagna) e conseguenti alla spinta innovativa derivata anche dalla legge n.
833/’78 “Istituzione del Servizio Sanitario Nazionale” che consenti’ il decentramento e
quindi la territorializzazione dei servizi sanitari gestiti dalle USL (oggi ASL).
La definizione di “welfare municipale e comunitario” compare nel Patto di solidarietà
che il Governo aveva siglato con il Forum del terzo settore nel 1997.
La parola “municipale” richiama il fatto che i servizi sociali sono erogati dalla parte
pubblica, in questo caso le amministrazioni locali (o per conto del pubblico dal terzo
settore); e che e’ il pubblico è il garante dei diritti di cittadinanza. E indica anche che
l’istituzione pubblica più vicina al cittadino (il comune) meglio interpreta i suoi bisogni e
individua le risposte corrette ad essi .
E’ il principio della sussidiarietà verticale.
La parola “comunitario” non richiama soltanto il fatto che la gestione dei servizi può
essere affidata al non profit (e allora basta parlare di welfare mix), ma che i servizi da
soli non riescono più a rispondere ai bisogni molteplici e complessi delle persone. I
servizi, per essere efficaci, devono poter contare anche su altri aiuti. Devono potersi
calare in un contesto di relazioni solidali, più o meno formalizzate, tra persone, dalle
relazioni di vicinato a quelle create da associazioni culturali o sportive, a quelle create
dalle parrocchie.
Un esempio: poco efficace sarebbe la scelta di mantenere nella propria casa una
persona che soffre di disturbi mentali, anche aiutandolo con servizi domiciliari o con una
borsa lavoro o con qualche ora di centro diurno, se intorno nalla famiglia che si prende
sulle spalle questo impegno non c’è il sostegno dei vicini di casa, se i negozianti che
conoscono il suo problema non sanno rapportarsi con lui, se la polisportiva di quartiere
non gli offre qualche occasione di fare un po’ di movimento, se la parrocchia non lo
accoglie in qualche iniziativa o non da con i suoi volontari qualche ora di sollievo alla
famiglia. E così per l’inserimento scolastico di un bimbo disabile, che resta irrisolto se le
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famiglie degli altri bimbi non sono coinvolte, non lo invitano a casa a giocare con i propri
figli.
Se non c’è intorno a queste persone in difficoltà una comunità comptente un termine
nato proprio nei servizi psichiatrici, ma ben adattabile a tutti i casi in cui le persone e i
gruppi devono ristabilire legami sociali.
Una comunità competente è quindi una risorsa per le politiche sociali che perciò
diventano sempre più complesse, perché devono comporre insieme una pluralità di
azioni, alcune che offrono servizi, altre che stimolano e fanno manutenzione di questi
legami comunitari.
Lo stesso Terzo settore, oltre a produrre servizi, è più di altri capace di creare questi
legami comunitari. Un esempio dei tanti raccolti dall’osservatorio dell’Iress: la
cooperativa Piccola carovana, una piccola iniziativa appunto che tuttavia non soltanto
produce come da statuto “inserimento lavorativo” di disabili mentali, ma anche legami
tra tutte le persone del paese che danno una mano. E produce anche una diversa
immagine pubblica della malattia mentale. E’ importante che una comunità abbia in se
le conoscenze , le risorse, il potenziale organizzativo, le leadership e gli obiettivi politici
per realizzare un cambiamento, anche nella percezione di un fenomeno come la
malattia mentale.
Analoghi esempi potrebbero essere fatti per il tema dell’immigrazione.
Tutto questo è più facile in un piccolo paese (la Piccola Carovana è a Crevalcore/Bo)
dove ci si incontra ogni giorno, spesso nella piazza; più difficile nelle città grandi e nelle
loro periferie.
I legami comunitari cioè non sono dati in natura soprattutto nella società
contemporanea.
È questo il tema che ha proposto all’attenzione dell’Iress Paola De Nicola nella giornata
del convegno del trentennale “Welfare al futuro”. Il centro del suo intervento sono stati i
tanto “mitizzati” legami di prossimità, e in specifico alcuni dati di una ricerca svolta a
Verona da cui emerge come più di un terzo della popolazione intervistata affermi che in
caso di bisogno (di sostegno emotivo, di aiuti per i figli, di prestiti di oggetti e soldi, etc..),
non può contare su nessuno (a parte i parenti) e che in realtà i vicini di casa
costituiscono un legame debole.
Allora alla politica sociale spetta promuovere e fare manutenzione dei legami comunitari
Aiuta a capire il testo del sociologo A. Bagnasco “Tracce di comunità” che individua la
comunità con tre parole: fiducia, reciprocità e identità (a cui alcuni preferiscono il
termine di appartenenza).
Fare lavoro di comunità vuol dire rafforzare questi tre elementi. Ecco perché il
seminario si e’ proposto di osservare come le iniziative presentate avvicinino le persone
creando tra loro rapporti di fiducia, promuovano collaborazioni e gruppi di auto-aiuto,
facciano sentire le persone parte di un territorio.
Inoltre il seminario si e’proposto di rintracciare valori, luoghi e tempi che rendono
possibile la creazione di legami comunitari.
Un breve accenno al tema dei valori.
In generale si può osservare che la costruzione di un welfare municipale e comunitario
richiede politiche complesse, capaci anche di amalgamare ispirazioni ideali diverse, ma
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alla fine complementari: la scelta, di ispirazione socialdemocratica, del “tutto pubblico” o
almeno del ruolo centrale del pubblico, che ha accelerato lo sviluppo del sistema dei
servizi di welfare nella nostra regione si e’ accompagnata con una collaborazione
crescente con il terzo settore (certamente facilitata dal ruolo che in questo territorio ha
avuto il movimento cooperativo) , fino ad assumere tutti la generale consapevolezza che
nessun sistema di servizi tiene se non interagisce con legami comunitari di reciprocità e
di dono. Cosi’ nasce l’intreccio con l’ispirazione culturale del pensiero cattolico
democratico o cristiano sociale che ha le sue radici lontane anche nel pensiero di
Emmanuel Mounier . Il suo libro “Rivoluzione personalistica e comunitaria “ e’
facilmente rintracciabile nelle vecchie biblioteche delle Scuole di Servizio Sociale
fondate negli anni cinquanta.
E veniamo al tema dei luoghi.
La comunità ha bisogno di luoghi in cui incontrarsi: piazze, ma anche semplicemente
cortili con panchine, strade illuminate che consentano agli anziani di sentirsi sicuri ad
uscire di casa, etc… Epoi luoghi piacevoli: Loris Malaguzzi, il pedagogista che ha
progettato le scuole dell’infanzia di Reggio Emilia diceva la scuola bella (intesa come
edificio) è un maestro in piu’. Anche la città bella, ben tenuta ,insegna qualche cosa della
vita collettiva.
Perciò ci vuole sinergia tra politica urbanistica e politica sociale.
Poi c’è il problema del tempo disponibile per la vita comunitaria.…Il soffocamento dei
tempi di vita, l’invasività del tempo del lavoro, la mancanza di azioni di conciliazione tra
tmpi di vita e di lavoro non limitano solo lavita famigliare, ma anche la vita comunitaria.
Se ripercorriamo la legislazione sociale della nostra regione possiamo individuare
strategie di sviluppo di comunità, a partire dalla legge 5/1994 “Tutela e valorizzazione
delle persone anziane - interventi a favore di anziani non autosufficienti”: la legge parlava
di inserimento sociale degli anziani ancora attivi, di centri sociali per il tempo libero, di
università della terza età, di cultura per tutti, di turismo sociale, etc…
Per arrivare a tempi più recenti si può analizzare la legge regionale n.14/2008 “Norme in
materia di politiche per le giovani generazioni” che si propone di sostenere diverse forme
di aggregazione giovanile, di promozione culturale, di partecipazione alla vita civile e
sociale. Viene in proposito da richiamare tutta l’esperienza della legge 285/1997”
Disposizioni per la promozione di diritti ed opportunità per l’infanzia e l’adolescenza”, che
ha consentito il moltiplicarsi di progetti per la socializzazione delle generazioni più
giovani.. Anche le leggi che regolano l’organizzazione e i modelli pedagogici dei nidi si
preoccupano di valorizzare i legami tra i genitori e le possibili conseguenti iniziative di
auto aiuto.
Il privato non profit è anch’esso un generatore di legami sociali.
La legge n.14 mette in rete e si impegna a sostenere anche gli oratori.
Un esempio interessante è quello di “Estate ragazzi” (anche se non riceve sostegni
economici), un progetto che coinvolge numerose parrocchie bolognesi che organizzano
attività per il tempo libero dei ragazzi soprattutto in età di scuola elementare. Tali
attività occupano molte ore al giorno (dalle 9 alle 14 o oltre) e offrono e si svolgono nel
periodo successivo all’inizio delle vacanze estive e prima che inizino le iniziative estive
organizzate dai Comuni. Per questo sono anche un po’ viste come una sorta di supplenza
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rispetto alle attività estive organizzate dall’ente pubblico. Anche queste attività, ed
e’questo l’spetto rilevante per i contenuti del seminario, attivano incontri non soltanto
tra ragazzi e tra i tanti volontari che vengono coinvolti, ma anche tra genitori, incontri
che possona anche trasformarsi in maggiori disponibilita’ ad aiutarsi e a collaborare per
iniziative comuni.
Questa “fertilizzazione” della comunità richiede ruoli attivi di volontari ed operatori,
innanzi tutto per essere conosciuta, valorizzata e messa in rete, ma anche per essere
stimolata. In questo senso si parla di lavoro di comunità
Il lavoro di comunità ha sempre fatto parte della metodologia del Servizio Sociale.
Oggi vede impegnati tanti educatori. E’un modo di lavorare che considera la comunità
come risorsa.
Per indagare ulteriormente il significato dell’espressione “welfare municipale” si deve
fare un piccolo approfondimento anche sulla esperienza dei ”quartieri”, come
disarticolazione delle municipalità, anche perché nelle città le competenze in materia di
servizi sociali sono delegate ai quartieri/circoscrizioni.
Quest’anno è stato ripubblicato il “Libro bianco su Bologna” (ed Diabasis) di Giuseppe
Dossetti. Nato come manifesto elettorale di una parte politica (che per altro perse le
elezioni), divenne guida per la convergenza di intenti di tutte le forze politiche
impegnate nel costruire una città nuova ed unita.
La proposta di “quartieri organici” per avvicinare l’ istituzione locale ai cittadini fu un
modo di rispondere alla crescita accelerata della città (l’inurbazione conseguente
all’industrializzazione andava creando in periferie-dormitori), le cui varie parti
rischiavano di essere molto disomogenee tra loro. Per questo la divisione in quartieri
aveva l’obiettivo soltanto apparentemente contraddittorio di tener unita la citta’,
rendendola omogenea perché si avvicinavano i servizi ai cittadini e si ricreavano
comunità coese, uno sviluppo comunitario locale. C’era l’idea che i cittadini potessero
partecipare alla costruzione della propria città intorno al proprio centro civico. In questo
progetto importante fu il ruolo degli urbanisti, che si occuparono della “geografia della
città”e della “regia” della trasformazione urbana. Un ulteriore campo in cui Bologna è
stata anticipatrice.
I quartieri hanno vissuto fasi diverse, sviluppando in primo luogo la razionalizzazione
amministrativa con il decentramento di alcuni uffici e l’organizzazione decentrata dei
servizi (nidi, scuole materne, servizi per gli anziani, etc.), ma anche processi di
partecipazione democratica.
Nel tempo sono poi cambiati i confini (i quartieri sono diventati meno e più grandi), le
competenze e quindi le capacità decisionali, così come le modalità di coinvolgimento
della popolazione.
In questi ultimi periodi è stata avviata una ulteriore trasformazione dell’ assetto delle
competenze e dei modelli organizzativi, che ha riguardato in particolare i servizi sociali:
l’istituzione delle Asp (Aziende per i servizi alla persona), la realizzazione di uno
Sportello sociale unico per ogni quartiere, un ulteriore decentramento delle competenze
riguardante in particolare i servizi per i minori e per il disagio adulto. Con tanti
problemi, alcuni dei quali son rilevanti anche per le tematiche affrontate nel seminario.
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L’ulteriore decentramento delle competenze relative ai servizi sembrava coerente con
la preoccupazione di portare i servizi più vicino al cittadino, per farli meglio interagire
con la comunità in cui le persone sono inserite. Questo modello era già tempo ben
consolidato per i servizi anziani, per i nidi, per il’educativa territoriale (e ben lo sanno gli
operatori presenti al seminario che lavorano nei quartieri da anni con i ragazzi). I servizi
di quartiere e soprattutto lo sportello sociale non sembrano invece adatti a cogliere la
sfuggente domanda del disagio adulto e in particolare quella dei senza dimora, o per le
emergenze di una infanzia troppo problematica che richiede servizi di secondo livello e
interventi immediati…
Insomma i problemi sono diversi da settore a settore …una ulteriore complessità anche
per i futuri municipi (come si dirà successivamente infatti e’ in programma un ulteriore
accorpamento di quartieri).
2.2. La parola ”comunità”
(dalla relazione di Graziella Giovannini)
La parola “comunità” circola tantissimo, è sempre pronunciata con grande enfasi. Non va
analizzata soltanto in relazione alla costruzione del welfare municipale e comunitario,
ma più in generale in relazione alla costruzione della nostra convivenza.
Per meglio capire il significato del termine, dobbiamo ricordare che è stato abbandonato
per lunghi anni e poi è tornato di moda. Avevamo relegato la parola comunità nel
terreno del pre-moderno, in luoghi piccoli in cui le relazioni erano di tipo vincolato e
obbligatorio, nello spazio identificato da persone che si conoscevano, che sviluppavano
rapporti sostanzialmente face-to-face. E’ stata sostituita nella modernità dalla grande
enfasi data ai rapporti societari, all’idea di società, in cui sono importanti innanzitutto le
autonomie e la libertà.
Oggi la riprendiamo come connessa alla trasformazione dei servizi sociali e all’esigenza
di trovare risorse per il benessere delle persone.
Ma la parola comunità va analizzata più generalmente come luogo della costruzione
dei legami sociali per la convivenza, ha a che fare con la cittadinanza, non è relegata al
terreno delle politiche sociali.
La riprendiamo perché la nostra società ha bisogno di ridare peso e significato alle
relazioni che rendono possibile la condivisione, l’ inclusione sociale e la realizzazione del
bene comune.
La parola comunità è passata però attraverso tre grandi bagni rispetto all’epoca in cui
essa definiva il modo del vivere quotidiano dei piccoli territori:
* l’affermazione della libertà come autonomia individuale. La comunità cioè non
può essere un vincolo deterministico, non può sovrastare e opprimere, non può
ostacolare l’autonomia delle persone.
* l’apertura della società che è diventata fortemente plurale. Nella contemporaneità il
pluralismo investe tanti aspetti culturali, religiosi, etc, legati all’immigrazione, alla
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globalizzazione delle comunicazioni, ai diversi livelli di appartenenza definiti
dall’organizzazione sociale (il comune, la nazione, l’Europa, il mondo intero) e diventati
significativi nella vita di tutti.
* la trasformazione delle strategie e dei linguaggi della comunicazione. L’idea di
comunità non può non affrontare il nodo delle relazioni virtuali, delle tecnologie
comunicative che rendono possibile le comunicazioni a distanza, che “si nutrono” della
distanza.
Parlare di comunità non deve implicare una nostalgia del tempo passato perché è
cambiata la società, è cambiata l’ antropologia personale, è cambiata la realtà. Parlare di
comunità però continua a rispondere all’esigenza di ritrovare radici, di costruire legami
e valori condivisi. Ma ciò non può essere una pura ricostruzione del passato.
Nel seminario sono presentate esperienze differenziate, che corrispondono tutte a un
bisogno di costruire legami. Non buone pratiche, ma esperienze diverse.
L’obiettivo è quello di rivisitare l’idea di comunità, di capire di quale comunità oggi si ha
bisogno, anche nel welfare municipale e comunitario.
Parlare di comunità implica di continuare a girare intorno al concetto di prossimità,
una prossimità che non è data, che può essere prodotta e nello stesso tempo basata su
una vicinanza che non è detto che sia fisica.
Si tratta di forme plurali, di relazioni quotidiane su un territorio che si costruiscono
intorno alle frequentazioni di un giardino, di una scuola. La comunità si nutre della
frequentazione quotidiana delle persone , di ripetizione di eventi.
Ma abbiamo anche una comunità che nasce per via amministrativa: il quartiere ad
esempio. Il decentramento mira a rendere le istituzioni prossime alle persone che
abitano quel territorio.
Oggi, inoltre, possiamo ritrovare lo spirito comunitario dentro il proliferare delle
associazioni che sono in sostanza esperienze di costruzione di legami sociali tra le
persone.
Comunità di persone unite tra di loro da pratiche e stili di vita, ma che non
necessariamente sono face-to-face. Si possono costruire su internet, ma anche attraverso
l’appartenenza allo stesso ambito di consumi o a un comune gradimento di un genere
musicale. Una forma nuova di face-to-face.
Questa separazione tra i diversi tipi di comunità è tuttavia solo analitica, le varie forme
si mescolano, le associazioni che nascono sul territorio si nutrono di tecnologie, di blog,
poi hanno bisogno di pratiche amministrative. Formale e informale si mescolano,
l’importante è come integrare i due aspetti.
Si mescolano il piacere di stare insieme e il ruolo delle istituzioni.
Al seminario partecipano persone che a Bologna sperimentano strategie di comunità:
operatori dei servizi, gruppi di volontariato e parrocchie, associazioni culturali, etc..
categorie utilizzate dal welfare. Sullo sfondo due questioni:
-La prima. La comunità tradizionale sussisteva in uno spazio fisico limitato. Nel nuovo
ambiente che peso ha ancora il territorio fisico? E la prossimità spaziale?
Nella crescita delle nuove generazioni ha un posto tutto questo? O dobbiamo seguire i
giovani nel loro nomadismo? Cassano, un sociologo che ha scritto un libro su La
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ragionevole follia dei beni comuni, sostiene che è difficile avere cura di qualche cosa di
comune senza una qualche forma di amor loci, se non si hanno riferimenti a quella
piazza, a quel campanile. E’ così che nasce il senso del rispetto dell’altro………….
-La seconda. Quale legame c’è tra la comunità e la polis nel suo complesso? Con quella
cittadinanza che non è soltanto cittadinanza locale legata al territorio?
Come si può passare dalla prossimità pur allargata e dal legame con un numero limitato
di persone ai legami di tipo universale? Ma anche a un impegno nel confronto della polis
nel suo complesso. Possono cioè queste relazioni comunitarie essere supporto alla
politica? Un fermento che diventa fondamento di una nuova politica? Questa vitalità
delle varie forme di comunità sono canali per una nuova politica?
2.3. I partecipanti al seminario: esperienze e protagonisti
Il seminario prevedeva la presentazione di alcune esperienze utili ad esemplificare
alcuni dei temi proposti dalle riflessioni introduttive. Gli interventi hanno perciò preso
le mosse dalle esperienze di ciascuno degli invitati. Luca Lambertini ha illustrato le
attività di Borgomondo (www.borgomondo..it), una associazione di promozione sociale
(APS) radicata soprattutto al Quartiere Borgo Panigale (come richiama il nome) che è
nata intorno a tematiche terzomondiali, ha promosso un GAS (Gruppo di Acquisto
Salidale) e promuove, in collaborazione anche con altre associazioni cittadine, una
molteplicità di attività di “lavoro di comunità” che rianimano i luoghi del territorio e
offrono occasione formative ai ragazzi e agli adulti. Anche l’Associazione di promozione
sociale Oltre (www.fesr-festival.net), come ha spiegato Lydia Buchner, ha come obiettivo
l’ “animazione urbana” e intende promuovere la “reatività, cioè la cultura e l’arte come
”scintilla” per multiformi occasioni di socialità e formazione”. Stefano Reyes ha descritto
l’avvio di una esperienza abbastanza nuova come quella dell’Associazione Centotrecento
(www.centotrecento.it), impegnata nella promozione di ”spazi pubblici condivisi”,
luoghi di “sosta pedonale” offerti per l’incontro tra vicini. Centotrecento è lo strano
nome della strada in cui è stato individuato un primo spazio (pedonalizzato a questo
fine) per avviare l’esperienza.
Ed infine è stata data voce alla comunità virtuale. Francesca Sanzo ha illustrato la storia
e lo sviluppo del sito Donne pensanti (www.donnepensanti.net), un blog abbastanza
frequentato sui problemi di genere.
Gli operatori del Comune hanno presentato esperienze di anni che hanno consentito loro
di attraversare il mutare dei problemi, soprattutto dei giovani, e le trasformazioni
continue dell’assetto organizzativo ed istituzionale dei quartieri di Bologna. Hanno
partecipato tre educatori professionali: Enzo Savini che lavora al quartiere san Donato,
Rossella Vecchi e Valentina Valenti che lavorano al quartiere Navile. Maria Orecchia ha
invece per anni lavorato nel settore della formazione professionale e ora svolge funzioni
di coordinamento rispetto a un progetto europeo.
La visione istituzionale offerta da Milena Naldi sulla base della sua recente esperienza di
Assessore Comunale per il decentramento e degli impegni futuri come presidente del
Quartiere San Vitale ha consentito di guardare consapevolmente al futuro, anche in vista
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delle ulteriori modifiche istituzionali che dovrebbero coinvolgere i quartieri (quali, ad
esempio, le “fusioni” in quartieri più grandi).
Gli interventi preordinati, ma anche l’arricchimento apportato dal dibattito con altri
presenti, hanno consentito di tratteggiare un quadro articolato dei problemi del
territorio bolognese, della ricchezza di iniziative in corso ma anche e delle “asprezze”
che gli operatori hanno dovuto affrontare soprattutto negli ultimi anni.
Ciò consente di enucleare informazioni ed idee per rispondere alle domande poste dal
seminario che di seguito riassumiamo. Riportando tuttavia alcuni brani degli interventi
proprio per non perdere le caratteristiche dei diversi approcci con cui sono stati
affrontati i problemi e l’emotività con cui sono state espresse alcune esigenze.
2.4. I ‘confini’ delle comunità
Svolgere un “lavoro di comunità” e nella comunità pone innanzitutto il problema della
definizione del confine territoriale in cui si intende operare. Per svolgere un lavoro
efficace, a parere di alcuni operatori, è infatti necessario che tutti (cittadini, utenti ed
operatori) sentano di appartenere a un territorio specifico individuato da un ‘confine’ .
Osserva Enzo Savini, da anni educatore professionale nei servizi scolastici ed educativi al
Pilastro e più in generale del quartiere San Donato: “…c’è ancora la differenza tra i due
territori, (Il Pilastro e il resto del quartiere) che in realtà sono un territorio unico; abitare
dopo il ponte della tangenziale è ancora un elemento che segna l’appartenenza e su cui ci
si confronta con i ragazzi e con le famiglie. È importante non ricadere in stereotipi, ma si
deve partire dal rispetto della provenienza delle persone che incontriamo. Il mio lavoro
parte dalla costruzione di legami. Il territorio è importante per questo, le identità vanno
tenute presenti“.
Fare lavoro di comunità significa dunque innanzitutto conoscere le appartenenze di
ciascuno e di ciascun gruppo che a volte dipendono dal fatto che nel tempo si è stati
segnati o si è condiviso una storia difficile: è il caso della zona Pilastro, che ha visto forti
insediamenti dal sud Italia negli anni ’60, uno sviluppo “soffocante” dell’edilizia popolare
(caratterizzata da un enorme condominio chiamato ”il biscione del Pilastro”), abitata
quindi da famiglie con reddito abbastanza basso; una zona che ha conosciuto problemi
di delinquenza, ma che ha anche goduto di tanti interventi pubblici e servizi sociali che
hanno tentato di affrontare i loro complessi problemi. Una situazione comunque che
connota gli abitanti e il quartiere, anche se non necessariamente in senso negativo.
Rossella Vecchi così descrive invece la situazione del quartiere Navile: “Ci sono tre reti
territoriali già molto attive (Bolognina, Lame e Corticella), ma separate tra di loro . In esse
ci sono interconnessioni tra istituzioni, associazioni e persone, ma ci sono luoghi simbolici
diversi, e i cittadini cercano di curare il loro proprio territorio. Diversità che vanno
rispettate anche se ci sono rischi di autoreferenzialità.”
Maria Orecchia descrive la sua collaborazione a un progetto del Ministero dell’Istruzione
che doveva istituire centri di aggregazione giovanile in venti città italiane con un
finanziamento ingente. A Bologna si è trovata di fronte alla contraddizione di dover
aprire un centro unico in una città che era organizzata in quartieri e in cui c’era già un
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certo movimento di iniziative all’interno di ciascun quartiere. Rompendo lo schema e le
consegne del progetto ha lavorato su sei territori avviando sei iniziative (rispettose delle
esigenze e delle storie dei singoli territori) che ha comunque cercato di collegare tra
loro.
2.5. Dalla partecipazione alla comunità
Il seminario ha evidenziato i limiti delle esperienze di partecipazione sia dei singoli
cittadini che delle organizzazioni della società civile. E questo in una città in cui negli
anni 70/80 i processi partecipativi alla vita del quartiere erano stati particolarmente
ricchi e avevano efficacemente interagito con lo sviluppo della partecipazione nelle
scuole, prevista dai cosi detti “decreti delegati”.
Oggi, più che una partecipazione alla programmazione e alla gestione dei servizi o della
vita del proprio quartiere, si attivano iniziative di controllo/protesta rispetto a
situazioni giudicate nocive per l’organizzazione della vita quotidiana relativamente a
tematiche come il traffico, la viabilità, la qualità delle mense delle scuole, ecc.
Si formano comitati spontanei per l’advocacy rispetto a specifiche tematiche.
Lavoro di comunità vuol dire conoscere e dialogare con queste iniziative, che creano
relazioni tra persone e tra persone e gruppi, anche quando il processo porta ad una
sorta di “comunità contro”.
Afferma Luca Lambertini: “Con sorpresa il discorso della comunità nel nostro quartiere è
stato portato avanti da una associazione di estrema destra che fa le nostre stesse cose: si
prende cura di un parco, organizza il torneo di calcetto nella zona degradata ma ha in
mente una comunità “contro” che vada a riaffermare la presenza italiana nel territorio,
ad esempio rifiutando la presenza di un campo rom o di un centro islamico.
Analoga osservazione può essere fatta per un Gruppo di anziani che a Borgo Panigale
fanno un giro di ronda (fregiandosi di distintivi e utilizzando i telefonini!), per poi
chiamare la polizia quando vedono qualche cosa che non va (ad esempio un anziano
ubriaco sdraiato su una panchina…), ma anche inevitabilmente creando tensioni
all’intorno”.
In generale è stata poi denunciata una scarsa partecipazione delle organizzazioni del
territorio ai tavoli dei Piani di zona (dopo l’entusiasmo della prima fase) che invece
erano stati salutati come una occasione importante per censire la ricca realtà associativa
del territorio cittadino e per poter programmare insieme.
2.6. I ‘luoghi’ della comunità
I luoghi della comunità, è stato già detto, sono le piazze, le strade soprattutto l’intorno
alle scuole, i giardini, le sedi delle associazioni, ecc. Ovunque le persone possono
incontrarsi. Le relazioni che si creano dipendono anche da come è fatta la città:
l’urbanistica è vista perciò come un aiuto al lavoro di comunità.
A volte però le comunità devono riappropriarsi dei loro spazi.
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Stefano Reyes ha presentato l’esperienza di Centotrecento: “Non proponiamo eventi, non
vogliamo essere fraintesi. Insieme a due colleghi ho deciso di mettere quattro o cinque
panche, quattro seggiole e qualche tavolino sulla strada; non proponiamo di animare il
vicinato, la proposta è quella di avere uno spazio per fare quello che ti pare. Si fermano
persone a cui è stato detto semplicemente: ‘Avete una strada in comune comunque sia
anche se non parlate con il vostro pianerottolaio […] lo spazio potete vederlo come un
problema o come una occasione; lo spazio nel web lo puoi spegnere questo no…’.
Riproponiamo a un vicinato che non si conosce una occasione: come erano le strade prima
delle auto. Se vi aiuta a vivere meglio la userete.”
E ancora: “Non c’è contrasto con la rete. Sono due strumenti diversi; nel rapporto face to
face attivo molte cose diverse: il gesticolare, il tono della voce, ecc… altri canali relazionali.
La mia generazione che vive sul web occupa sempre più tempo ad accordarsi per
l’appuntamento che il tempo che si spende nell’incontro. Le persone che hanno accolto la
nostra proposta hanno da trenta anni in su, gli universitari non sono coinvolti; è perché
preferiscono vagare per cose più lontane o c’è una incapacità di intraprendere relazioni
diverse perché non c’è allenamento?”
Un’altra riappropriazione di spazio a cui si e’ associata una nuova cura dello spazio
pubblico è l’esperienza dell’Associazione giardino del Guasto a cui ha partecipato come
privata cittadina anche Milena Naldi. Un gruppo di cittadini del quartiere San Donato che
abita
vicino
a
Piazza
Verdi
e
al
giardino
del
Guasto
(www.associazionegiardinodelguasto.blogspot.com) si è associato per restituire il
giardino (abbandonato, pieno di siringhe, ecc.) all’uso degli abitanti della zona,
organizzando al suo interno molte attività pomeridiane per bambini ed eventi culturali
serali.
2.7. Adolescenti e giovani nella comunità
Il programma del seminario aveva scelto come ambito emblematico di intervento sulla
comunità quello riguardante gli adolescenti e i giovani (gli operatori del Comune
chiamati ad intervenire lavoravano infatti soprattutto nei servizi educativi territoriali).
I servizi di educativa territoriale seguono tre direttrici: innanzitutto devono sostenere le
reti cittadine già attive nel settore, quindi le associazioni ma anche i gruppi informali; si
tratta di realizzare attraverso queste collaborazioni interventi di educativa di strada, la
gestione di spazi polivalenti, attività socio-educative scolastiche (nella lotta
all’abbandono). Spesso andando a cercare i ragazzi là dove essi sono. La seconda
direttrice è quella della collaborazione stretta con le scuole. La terza è l’affrontare, come
sempre, singole situazioni di disagio con progetti personalizzati.
Rispetto al più consolidato lavoro di comunità con gli anziani, il lavoro con gli
adolescenti presenta non poche difficoltà. Non ultima la diffidenza delle istituzioni che
sono impreparate a credere all’efficacia del maggior spontaneismo che questo target
richiede e che vedono come ostacolo insormontabile la prevalenza del “nomadismo”
giovanile che porta lontano dai propri territori.
Gli operatori presenti hanno descritto le difficoltà che quotidianamente incontrano.
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Rossella Vecchi afferma: : ”Veniamo da un passato di attività socio-educativa extra
scolastica e non è stato facile cambiare, lavoravamo solo con ragazzi usciti agli istituiti che
spesso erano stati anche allontanati dalle famiglie; abbiamo dovuto imparare ad utilizzare
i nostri spazi diversamente, a poter lavorare nel tempo: il che consente di fare molte
riunioni anche con le famiglie per corresponsabilizzarle. Per me l’essere sul territorio è
essenziale, si deve essere visibili per rendere consapevoli famiglie e cittadini in generale
anche rispetto a fatti gravi che possono accadere nel territorio. Vorremmo non solo offrire
servizi ma anche cultura. Luoghi dedicati ai ragazzi, ma anche a tutta la comunità che se li
deve sentire come propri”.
Osserva Enzo Savini: “Il Pilastro resta una grande palestra e offre possibilità di ricerca e
sperimentazione, ma dobbiamo sempre dimostrare che rispondiamo a bisogni ‘.dobbiamo
fare,. dobbiamo fare’. Adesso è ancora più difficile. Prima lavoravamo con un disagio
conclamato, con ragazzi che spesso uscivano dagli istituti, adesso, ed è anche una fortuna,
ci chiedono di considerare il territorio, di lavorare sul territorio, cioè su tutte le persone,
tutti i ragazzi. Ma non dobbiamo fare fughe in avanti, altrimenti rischiamo di sbagliare ci
dobbiamo ancora costruire una metodologia adeguata, condivisa, conosciuta altrimenti si
perdono di vista gli obiettivi”.
Gli operatori richiedono soprattutto che il valore del loro nuovo lavoro sia riconosciuto
dalle istituzioni.
“Per poter lavorare devo conoscere le comunità e chi le abita, promuovere contatti, ecc. Ma
dobbiamo dimostrare quello che stiamo facendo...... perché i risultati li vedi nel tempo
anche se per noi il risultato è già costruire una relazione.”
Molti sono stati gli intereventi che hanno citato il luogo particolare in cui si è tenuto il
seminario, la Cupola del Pilastro (Dom). Esso è collocato appunto nella zona Pilastro: un
teatro a forma di pallone posto vicino alle scuole del quartiere in cui i ragazzi delle
scuole hanno potuto svolgere tante attività e che è diventato anche sede di incontri e di
confronti tra cittadini, esperti e gruppi. Tra le tante attività è stato ricordato un progetto
che ha coinvolto un gruppo di ragazzi rom che hanno sperimentato il “lavoro del teatro”
non inteso come attività artistica (la recitazione o le esecuzioni musicali), ma come
l’insieme delle tecniche di supporto (scenografia e quindi falegnameria, sartoria,
acustica, luci, etc.) . Un progetto che perciò ha consentito ai ragazzi di sperimentare
alcune professionalità richieste per le rappresentazioni teatrali, ma anche dalle altre
attività produttive (si fa qui riferimento a professioni come l’elettricista, al falegname,
all’addetto ai suoni, ecc..) . Un piccolo esempio di intreccio di finalità e di attività. Tra le
finalità: socializzazione e inclusione dei ragazzi rom, addestramento professionale,
sollecitazione delle creatività, ecc..Tra le azioni: allestimento dello spettacolo, attività di
formazione professionale, coinvolgimento del territorio.
Per questo Enzo Savini può affermare: “Siamo all’interno di un teatro, una astronave che
nessuno si aspettava, (è stato bellissimo). Da quando c’è il Dom abbiamo avuto la
possibilità di parlare di certi argomenti, è un luogo da salvaguardare, bisogna far capire
quello che si fa, farlo capire a tutti, ai colleghi alle persone che abitano il territorio, che ci
identificano come un servizio che deve risolvere i loro problemi. Ad esempio se ci sono
ragazzi che danneggiano le vetrine o che sostano sempre sotto una casa con fare sospetto, i
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vicini ti chiedono come si fa a risolverlo. Siamo riusciti a rivoltare le domande: come “noi
tutti” facciamo a risolverlo. Siamo riusciti a formare alcuni tavoli di confronto, ma sarebbe
importante che ci fosse un tavolo riconosciuto dal quartiere. Il riconoscimento di un tavolo
da molte possibilità, perché bisogna contare nei confronti anche della politica, poter dire
che siamo tutti quanti dei professionisti con pari dignità. Tante volte siamo stati chiamati
a mettere il coperchio sulla pentola dei problemi, ma forse bisogna scoperchiarla. Il nostro
lavoro è anche quello di conoscere e abbiamo bisogno di vedere come evolvono determinati
fatti”.
Tutti i partecipanti al seminario comunque si trovano indotti a partire da una stessa
domanda “Che significato ha la comunità per gli adolescenti?”
Valentina Valentini ha descritto esemplificativamente due progetti che però si sono
interrotti, oltre che per alcune difficoltà interne, perché le istituzioni non ne hanno
capito fino in fondo il significato.
Lavorare con gli adolescenti e i giovani vuol dire in primo luogo raggiungerli dove già
sono, anche perché i luoghi spontanei di ritrovo dei gruppi possono diventare antenne
migliori per cogliere i loro bisogni.
Altro elemento condiviso: partire da loro segnalazioni
Esemplifica Valentina Valentini: “Ho accolto il suggerimento di alcuni ragazzi che non
avendo posti per suonare e incontrarsi chiedevano di far rivivere un luogo in cui negli anni
80 si faceva il festival rock (la piazzetta Gorki e il teatro). A questo punto non c’era bisogno
del coinvolgimento dei giovani ma piuttosto del coinvolgimento della comunità. Abbiamo
associato a questa iniziativa i corsi di apprendimento tecnico e i ragazzi sono diventati
tecnici del suono, esperti di organizzazione di eventi, uno è diventato presidente della
prima cooperativa giovanile del territorio.
Il secondo progetto Bolognina warriors nasce invece da una emergenza sociale come
spesso accade per le iniziative per i giovani promosse dalle istituzioni.
Alcuni adolescenti seminavano panico tra gli abitanti della zona. Siamo usciti
dall’approccio del contenimento del danno e delle punizioni e abbiamo messo a punto una
piccola ricerca sociale a partire dalla constatazione che i ragazzi stavano tutti nello stesso
condominio dell’Acer, una sorta di ghetto. Abbiamo avviato una ricerca-azione. Ma il
progetto si è fermato perché prima vanno create le alleanze, soprattutto quelle a livello
istituzionale”.
2.8. Par tot: visibilità e festa
Il seminario ha analizzato un evento particolare , ma significativo come la Parata par
Tot, che ogni due anni si svolge per le vie di Bologna in cui viene data visibilità a una
molteplicità di attività culturali e di animazione che si svolgono nel corso del periodo
precedente nei vari quartieri e nelle varie organizzazioni cittadine.
L’organizzatrice della Parata, Lydia Buchner dell’associazione Oltre ha ricostruito lo
svolgersi dell’iniziativa: “ La prima attività è stato il jazz festival all’inizio all’interno in un
centro interculturale di un quartiere”. Nasce dunque come associazione culturale che
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svolge attività capaci di creare incontri e legami comunitari. “Poi ci è stato offerta e
abbiamo felicemente avviato la collaborazione con il Centro sociale anziani Villa Torchi di
Corticella. La collaborazione con i centri anziani non è sempre facile perché essi hanno
modalità di organizzazione interna consolidate da anni e tendono ad essere chiusi nelle
loro abitudini (il barometro è se ti fanno accedere alla cucina!).”
Oltre oggi costituisce una sorta di sostegno delle reti cittadine delle associazioni e delle
attività di gruppi informali.
La Parata esiste dal 1998. I vari progetti valorizzano affinità elettive:“La parata da
visibilità ai progetti, noi non eroghiamo servizi ma”entusiasmo”. Le persone coinvolte sono
più legate ai progetti che alle associazioni che li promuovono. Non si può fare troppo leva
sulla singola associazione, è difficile individuare chi coordina, sono persone che hanno una
stessa passione, che sono contagiose, da una cosa nasce un’altra che a volte si
autonomizza. Così è stato per la Parata. Io sono andata a lavorare a un progetto specifico
poi ho assunto via via un ruolo di coordinamento....”
Per questo la parata coinvolge molti giovani: “I giovani girano per i vari luoghi. Anche se
per un breve periodo offriamo spazi di libertà.”
Osserva Graziella Giovannini “Sono emerse esperienze diversificate, l’esistenze di tante
comunità, anche nella parata ci sono tante comunità che scivolano dentro al territorio che
sono anche una espressione di libertà, una appartenenza che non si da per sempre, la
comunità è passata dal bagno della libertà. L’appartenenza deve rendere possibile la
convivenza. La parata è tra l’altro una delle poche iniziative intergenerazionali”.
Questa esperienza si rifà tuttavia ad analoghe esperienze straniere, legate ad una idea
della creatività che non sempre è rintracciabile nei nostri contesti culturali e che può
perciò non essere sempre ben compresa.
Tanti comunque i legami con altre iniziative anche molto lontane: “Abbiamo poi scambi,
una rete basata su persone concrete con cui ci confrontiamo e ci scambiamo visite. In una
gita a Scampia c’era chi veniva da Parigi, chi da Como, c’è il è piacere di incontrarsi tra
musicisti…un viaggio insieme lega. Il piacere del fare”
2.9. Conoscenza, coordinamento e governance
I dibattito ha evidenziato la necessità che le tante esperienze in corso debbano essere
conosciute e conoscersi tra loro. Ricorda Maria Orecchia: “Nel seminario “Esercizi di
ricomposizione” organizzato nel 2010 dal coordinamento adolescenti del Quartiere San
Vitale ci siamo resi conto che le associazioni non si conoscono (conosciamo la rete come
pianta toponomastica) ma il permettere alle persone di raccontare quello che fanno è
importante per poter fare cose insieme, condividere spazi di comunità. Non diamo per
scontato che tutti noi ci conosciamo in questo modo, cioè sappiamo quello che facciamo”.
Nel seminario è emerso come punto di debolezza la frammentazione delle iniziative, a
cui corrisponde anche una frammentazione delle competenze istituzionali in materia e
quindi, per i vari protagonisti della società civile, una molteplicità di interlocutori
istituzionali.
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Luca Lambertini ha segnalato innanzitutto come lavorare per costruire una comunità
richieda azioni trasversali che coinvolgono economia, urbanistica, servizi sociali, scuola,
ecc. I problemi derivano dal fatto che i quartieri in alcuni di questi ambiti hanno molte
competenze in altri nulle e questo scardina i progetti piu’ amiziosi e porta alla
parcellizzazione dell’intervento. Osserva poi come tutto sia molto parcellizzato anche
dentro al quartiere: “io mi occupo dei giovani ma non delle associazioni , un altro ancora si
occupa della manutenzione e anche questo porta alla parcellizzazione dell’intervento”.
Enzo Savini ribadisce l’importanza del coordinamento con la scuola: “Quando sono
arrivato al Pilastro ho avuto la fortuna di avere brave maestre che mi hanno
accompagnato a vedere le comunità che c’erano; è impossibile conoscere un territorio se
non si conosce la scuola.”
Gli operatori riconoscono che la recente modificazione delle deleghe ai quartieri (a cui è
arrivata la delega per i minori, prima ‘gestita’ da strutture intermedie dipendenti dal
centro) ha facilitato i rapporti di collaborazione con la scuola. Osserva Savini: “Con il
decentramento siamo riusciti ad entrare nelle scuole, si fa rete con le scuole, l’educatore va
fisicamente dentro la scuola, a sostegno dei progetti e attività che vanno a gruppetti di
ragazzi con problemi. C’è un referente dentro la scuola che fa da collegamento tra scuola e
territorio. Poi ci sono gli interventi su singole situazioni, il lavoro solito degli educatori”.
Rossella Vecchi osserva: ”Ho passato tutto l’iter dei ritiri delle deleghe e ora delle
restituzioni.. Ho cominciato a lavorare nell’azienda usl quando aveva la delega totale per i
minori..... l’ultimo passaggio ha richiesto grande fatica, ma per noi è una grande
opportunità.”
Anche Maria Orecchia: “Vengo dal mondo della formazione professionale ma sono passata
ad occuparmi di percorsi integrati tra scuola e territorio che sono importantissimi”
Una comunità è dunque fondata più sulle relazione personali che sulle regole .
“Il coordinamento è un contesto, è una occasione, a volte è una noia (e cade la
partecipazione perché è più rete che condivisione)”
Il problema della mancanza di coordinamento richiama il tema della governance del
sistema, cioè dell’autorità che riconosce, valorizza e coordina le azioni e le responsabilità
di tanti.
Il problema della governance non è solo quello di gestire bene le risorse e il rapporto con
il privato, ma di far in modo che si costruiscano connessioni. Tanti i problemi da
affrontare: la città deve o no esprimere anche una forma unitaria? Che ruolo hanno le
istituzioni e i quartieri? Il decentramento è una separazione o la premessa di una unità
più elevata cui contribuiscono le differenze?
Come si è detto, molti operatori riconoscono alcuni aspetti positivi delle recenti scelte
politiche riguardanti il decentramento ai quartieri di ulteriori funzioni, soprattutto di
quelle che riguardano l’educativa territoriale. Sappiamo invece i problemi incontrati dal
decentramento delle funzioni riguardanti il disagio adulto, soprattutto nel caso dei senza
dimora, e anche alcune problematiche gravi e/o complesse dell’infanzia (vittime di
violenza, adozioni ed affidi, ecc.). L’ulteriore passaggio del “travaglio istituzionale” che
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ha coinvolto i servizi sociali negli ultimi anni (che si è andato ad aggiungere alla
recentissima istituzione della ASP) ha portato comunque anche problemi.
Milena Naldi, Assessore nella Giunta comunale precedente e oggi Presidente di quartiere
riconosce alcune incongruenze nel modello che era stato proposto: “si era molto fiduciosi
nella delega totale ai quartieri senza dare strutture e personale, ma il sistema-comune si
stava anche strutturando in modo verticistico attraverso i dipartimenti che accentravano e
poi delegavano. Insomma si è venuta a creare non poca confusione […] La sfida sta nel
come si realizza la sussidiarietà dentro il sistema-comune che ha bisogno appunto di
‘esercizi di ricomposizione’ […] Se funziona una comunità non può che funzionare la sua
comunità politica e amministrativa”.
Non si può comunque prescindere dalla conoscenza vera del territorio. Tante volte si
sono prese decisioni senza conoscere. Ed oggi questo è maggiormente vero perché la
situazione è più complessa di una volta perché il territorio chiede risposte flessibili e
sempre meno standardizzate.
Milena Naldi illustra inoltre le ulteriori modificazioni che saranno apportate al contesto
istituzionale: si arriverà ad avere cinque quartieri che saranno municipalità con forte
cessione di governo e autonomia. Anche agli operatori sarà chiesto un nuovo sforzo di
adattamento.
Si osserva: “Di ingegneria sociale ne abbiamo fatta tanta, non facciamo tempo a masticare
una riforma che ne dobbiamo affrontare un’altra e si abbatte sugli operatori che devono
riadeguarsi e i cittadini che fanno fatica a orientarsi.”
Il problema centrale, a parere di Milena Naldi, rimane quello della partecipazione: “Ma
come fa ad esserci dentro la struttura amministrativa un modello condiviso decisionale?
Come praticare modelli partecipativi nuovi? quali le regole delle modalità di scelta? Non
può essere una commissione di quaranta persone….. immaginiamo qualche cosa di diverso,
deve riguardare anche una finestra sul web perché le informazioni devono arrivare a tutti
[…] ma dobbiamo raggiungere anche chi non è sul web perché si devono mettere insieme
tutte le idee di una comunità che aiuta se stessa […] è la cultura del “co”, sia che si parli di
cohousing, di spazio comune, di fare cooperativa […] o l’amministrazione ci crede o non si
scherza perché la gente dopo cinque minuti ti sgama”.
Osserva Graziella Giovannini: “I politici devono avere buoni tavoli, ma anche buone
scarpe, anche virtuali, ma si deve andare incontro agli altri”.
9.10. Comunità virtuali
Il seminario non poteva non approfondire la convivenza delle reti basate sui rapporti
face to face con il travolgente sviluppo delle reti informatiche. Per questo è stata invitata
Francesca Sanzo che è proprio stata conosciuta in rete da chi ce la ha segnalata, ma
individuata attraverso un rapporto vis a vis con una persona che conoscevamo. La
ricerca in rete degli organizzatori del seminario avevano individuato tante reti ma molte
di esse erano “spezzate” (blog sospesi). Anche questo è segno di qualche difficoltà nelle
relazioni tra i due mondi.
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Ha raccontato Francesca Sanzo, che conduce il blog (nato da più di due anni, ma che
recentemente si è costituito in associazione) “Donne pensanti”: “Io mi occupo di web
professionalmente, tante donne non partecipano alle comunità reali, la rete facilita il senso
di appartenenza e la cittadinanza. Il mio blog è nato sui problemi di genere, soprattutto
sulla strumentalizzazione del corpo delle donne in vari campi (pubblicità, mass media,
politica). C’è un problema nella comunicazione: le donne non sono rappresentate come tali;
o sono escort o casalinghe perfette, o lavoratrici non valorizzate. Io sono stata vittima di
mobbing, non mi sono mai occupata di politica […] ma mi scrivono da tutte le parti di
Italia, perché fare una denuncia per mobbing è una questione pesante”.
L’attività del blog si va dunque sviluppando sulla tematica della comunicazione e dei
media: in specifico si occupa dell’abuso del corpo delle donne sollecitando segnalazioni
di pubblicità non corrette, che vengono inoltrate agli organi competenti. Lavora anche
con le scuole chiamando i giovani ad analizzare gli stereotipi più sottili e pervasivi sulle
donne, fornisce una sorta di “cassetta degli arnesi” per la cittadinanza attiva .
L’Associazione Donne pensanti ha poi raccolto tante storie di donne raccontate nel blog
in un testo titolato “Svegliatevi bambine. Voci del pluriverso femminile”: l’impegno è
quello di “far parlare il femminile silente”.
Questo ruolo attribuito alla rete ha ovviamente aperto nel seminario un confronto
serrato sulla efficacia dei legami che sulla rete si creano.
Francesca Sanzo rivendica non solo la capacità del blog di creare relazioni e quindi di
fornire appoggi e orientamenti, ma anche quella di creare un movimento di idee che può
portare ad azioni collettive: “In rete ho relazioni con persone che non ho mai visto ma da
tre anni collaboro con un movimento allargato […] si creano delle onde che possono
sfociare in azioni collettive come è accaduto per la manifestazione di Se non ora quando?”.
La gente si rivolge al web perché sente uno… scollamento con quello che propongono le
istituzioni. Tante persone scrivono a ”Donne pensanti” per abbattere i paletti posti dalle le
istituzioni […] Si fa massa”.
È emersa dunque una identificazione forte con lo strumento (il blog), descritto con un
linguaggio che segna anch’esso questa appartenenza.
Più difficile conciliare questo approccio con quello degli educatori impegnati con i
ragazzi. Francesca Sanzo si dichiara tuttavia convinta che la rete possa ben integrarsi
con il lavoro con i giovani dei quartieri, soprattutto sopperendo alle conseguenze del
nomadismo giovanile. E sa bene che “anche nel web la relazione va curata”. A suo parere
le reti e le community possono servire a sostenere le appartenenze innanzitutto alla
comunità umana , ma anche ai progetti di cittadinanza attiva del tuo territorio.
2.11. Costruire la comunità
A Bologna c’è dunque qualche “traccia di comunità” (per richiamare ancora una volta il
titolo di un libro del sociologo Bagnasco: il seminario ha fotografato a livello di quartieri
e di città, un insieme, di pratiche molto concrete, costruite negli anni, che si fondano su
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alcune parole comuni; sperimentazioni di dimensioni limitate che hanno tuttavia
consentito di mettere a punto un piccolo armamentario di teorie e di prassi comuni.
A partire da questo il seminario ha tentato di indicare come si può costruire e far
manutenzione di una comunità. Afferma Luca Lambertini: ”Tutti hanno capito che se non
si parte dalle relazioni e dagli spazi pubblici dopo anni che si era delegato alle forze
dell’ordine dalla tutela del nostro vivere insieme, si arriva alla desertificazione sociale.”
C’è fiducia nei piccoli gruppi. Maria Orecchia osserva: “I piccoli gruppi non sono sufficienti
a creare una comunità, ma anche nelle piccole comunità acquisisci la competenza a stare
con gli altri che poi utilizzi in altri contesti”.
Costruire una comunità richiede anche la cura dei particolari. Si è simbolicamente
dissertato sul problema della chiusura delle fontanelle, per incuria, ma anche per evitare
che diventino una occasione di aggregazione per homeless. Si è tolto un piccolo servizio
per il cittadino e anche un piccolo punto di aggregazione!
Stefano Reyes: ”Penso alle fontanelle che vengono pian piano eliminate. A Bologna-centro
ne sono rimaste due. Le fontanelle non si mettono più perché è un costo molto forte. Ma
sono piccoli segnali che riguardano l’ospitalità che vien meno […] Piccoli segnali
importanti”.
Costruire una comunità richiede anche lavoro professionale, professioni a cui si affida un
compito definibile come “lavoro di comunità”. Osserva Lydia Buchner: “Creare legami
sociali è un lavoro che richiede tempo, le creatrici di legami sociali sono spesso donne che
hanno una storia millenaria, ma che non sono valorizzate, pagate poco e fanno un sacco di
volontariato […] siamo super sfruttate […] Io pensavo che il lavoro socio-culturale fosse
pagato, ma in Italia non è pagato […] Ma mi sono lasciata trascinare dalla passione […]
Però quando finiscono le risorse di un progetto il progetto va a farsi friggere […]
l’associazionismo non ti lascia crescere in una professione […] è una continua precarietà
[…] ma che lavoro fai? […] Invece la comunità, anche per autorganizzarsi, ha bisogno di
figure di rapporto con le amministrazioni. Abbiamo bisogno di rapporti con le
amministrazioni stabili che riconoscano il lavoro che si fa.”
Anche gli operatori/educatori del Comune richiedono concordemente una certa
stabilità: la cosa più importante è la conoscenza effettiva del territorio e il radicamento
nel territorio che dà riconoscibilità agli operatori, indispensabile per stabilire con i
cittadini rapporti di fiducia. La ripetitività delle relazioni costruisce la fiducia.
Il seminario ha dedicato meno attenzione ai valori fondanti della vita comunitaria,
probabilmente perché si è data per scontata una certa condivisione. Sarebbe tuttavia
interessante esaminare le diverse iniziative presentate dal punto di vista degli interessi
culturali e delle ispirazioni ideali da cui sono partite.
Luca Lambertini ha ad esempio segnalato come Borgomondo abbia preso le mosse da un
gruppo di acquisto solidale, cioè da una sensibilità ambientale e di attenzione ai nuovi
modelli di consumo più ispirati alla sobrietà. Sarebbe interessante ricostruire il
panorama delle diverse ispirazioni culturali e valoriali, con attenzione particolare al loro
evolversi nel tempo e alle “tendenze” delle varie età e delle varie appartenenze socioculturali.
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Citando Angela Zucconi, un’assistente sociale “storica” che lavorò nell’immediato dopo
guerra in varie parti di Italia, tra le più depresse del Paese (che aveva scoperto perché
era stata al confino), Luca Lambertini propone di riaffermare che “La comunità non è
mai un punto di partenza ma un punto di arrivo”. Il lavoro di comunità era infatti un
metodo di lavoro arrivato in Italia nel dopo guerra dagli USA, perché sperimentato nelle
periferie anonime delle grandi città americane e che era diventato uno dei capisaldi della
metodologia del Servizio Sociale.
2.12. Una risorsa per la politica?
Ci si è posti una ulteriore domanda: cosa può fare la comunità per le istituzioni e la
politica cittadina?
Milena Naldi ha ricordato i tanti percorsi di persone che sono passate
dall’associazionismo alla politica. Nell’associazionismo sei educato al senso del
collettivo, impari a lavorare con gli altri, a rappresentare la tua associazione a tanti
tavoli tecnici e politici, ecc. Se l’associazionismo lavora nella comunità, insegna ai suoi
aderenti a conoscere la comunità.
Chi ha avuto questo tipo di esperienza può aiutare la politica ad individuare le priorità di
un territorio. Anche su problemi semplici come la scelta tra fare un parcheggio o
destinare uno spazio a i ragazzi.
Tutto questo però, come osserva Luca Lambertini, può diventare un problema per
entrambi, perché può determinare condizionamenti e un accumulo di potere perché il
legame tra rappresentanza sociale e politica volenti o nolenti decide molte cose.
Occorre perciò una grande trasparenza.
2.13. Lo sviluppo del dibattito in un approccio interdisciplinare
Ulteriori osservazioni interessanti sono venute dal dibattito aperto con gli altri presenti
in sala.
Bruna Zani, docente di Psicologia sociale, ha contribuito a mettere a fuoco ulteriori
aspetti dei legami comunitari, così come vengono analizzati dalla psicologia di comunità
(disciplina che insegna a psicologi, a volte recalcitranti, perché aspirano a fare solo i
clinici e i psicoterapeuti!).
Dopo aver ricordato che la psicologia di comunità è nata da cinquanta anni in diverse
parti del mondo e con diversi approcci, si è soffermata su un concetto molto importante
messo a punto dalla psicologia, quello di “senso di comunità”: un concetto
multidimensionale che significa “sentirsi parte”, che chiama in causa sia aspetti di tipo
cognitivo, che emotivo (lo si è sentito negli interventi dei partecipanti al seminario).
In materia ci sono numerose le ricerche, anche in Italia, che hanno evidenziato quegli
elementi che determinano l’appartenenza alla comunità. Si può ricordare che si sta nella
comunità se essa offre qualche cosa per i propri bisogni; e, soprattutto il giovane, sta
nella comunità perché sa di poter far qualche cosa per modificare il suo contesto.
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Alle parole del sociologo Bagnasco (fiducia, reciprocità, identità) si può aggiungere poi
quella di identificazione, che non è la stessa cosa di identità, tema oggetto di molte
riflessioni e ricerche. Molti ricercatori lavorano invece sulla fiducia senza la quale
neppure i rapporti più intimi tengono, fino alla fiducia nelle istituzioni che sembra
calare. La psicologia sociale studia anche il rapporto rete e comunità.
Augusta Nicoli, psicologa, funzionario dell’Agenzia socio-sanitaria regionale, ha
segnalato l’interesse dell’Agenzia per le tematiche del seminario, proprio perché “esso ha
prodotto la possibilità di fare connessioni non solo per dirsi cosa si fa ma connessioni che
permettono di uscire individuando linee di direzione comuni. Per fare questo si deve uscire
dalla pratica per enucleare le idee su cui le pratiche sono costruite e di cui sono portatrici.
Ciò ci permette di fare verifiche puntuali anche sulle cose che non stanno funzionando:
alcune assenze e cecità delle amministrazioni”
Augusta Nicoli ha poi sottolineato come “Non si da comunità se non c’è una visione di
quali elementi organizzativi consentono la connessione tra diverse comunità. C’è bisogno
di una metodologia che consenta il rafforzamento delle connessioni“.
Interessante la sua segnalazione del testo di Remo Bassetti “Contro il target” (Bollati
Boringhieri 2008) Il testo sollecita ad osservare come il lavorare per target, anche per
quanto riguarda il lavoro di comunità, possa portare alla “cristallizzazione” sociale. Se ci
si propone di individuare rigidamente a priori le persone che possono diventare fruitori
del bene o del servizio offrendo loro proposte collegate strettamente a quello che essi
già sono e non qualche cosa di nuovo che desiderano o potrebbero desiderare, non si
consente né alle persone, ne alla comunità di cambiare e di svilupparsi.
È intervenuta anche una consigliera di quartiere, Aryana Vacchetti, che ha richiesto
maggior attenzione alle problematiche degli stranieri e alle barriere che possono
rimanere o essere poste alla loro partecipazione alla vita comunitaria: “La cosa che
manca e l’etnopsicologia per i nuovi cittadini. Ci conosciamo? Ci conoscono? I nuovi
arrivati conoscono i comportamenti non detti (non la cucina o la storia di Italia).I codici
non detti. Ci vuole qualche cosa che accoglie e spiega. Io sono albanese. Poi c’è il problema
della lingua italiana che andrebbe insegnata capillarmente…”.
3. L’Iress continua la riflessione……
Il seminario ha segnato l’inizio di un percorso di approfondimento di tipo
interdisciplinare e interprofessionale sul contributo che le diverse articolazioni delle
nostre comunità possono dare, come si è detto all’inizio, alla convivenza quotidiana e in
particolare alla costruzione di un welfare municipale e comuntario
La interdisciplinarietà del seminario è stata simbolicamente rappresentata, come ha
ricordato Bruna Zani, dal ritrovarsi allo stesso tavolo di confronto di tre “vecchie”
compagne di Università, (della stessa facoltà, Scienze politiche, e dello stesso anno) che
hanno poi scelto indirizzi diversi: la sociologia (Graziella Giovannini), l’economia sociale
(Flavia Franzoni) e la psicologia sociale (Bruna Zani). Parlare di comunità richiede
questo intreccio di riflessioni. Questo è l’orientamento che l’Iress manterrà in futuro.
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Al seminario hanno anche partecipato operatori di professione diversa. Luca Lambertini
ha ricordato come il lavoro di comunità sia stato un elemento qualificante della
metodologia del servizio sociale. Oggi un po’ dimenticato, anche se l’Iress proprio
quest’anno ha proposto e realizzato un corso per assistenti sociali sul lavoro di comunità
(promosso dall’Agenzia socio-sanitaria regionale, realizzato sperimentalmente con le
assistenti sociali della Provincia di Bologna). Specifico obiettivo è dunque capire come
nel lavoro di comunità giochino la loro professionalità, integrando i loro saperi
professionali, assistenti sociali ed educatori, psicologi, ecc..
Particolare attenzione sarà poi data all’integrazione delle politiche: la politica sociale, la
politica sanitaria, la politica urbanistica, la politica ambientale, la politica culturale, ecc. E
tutto questo tenendo vigili antenne sul territorio.
Si deve saper cogliere in tempo i segnali di frantumazione delle nostre comunità: se le
famiglie con meno problemi portano i figli in una scuola fuori quartiere, se le case
vengono affittate e vendute (è il caso di certi quartieri a prevalenza cinesi) con un ritmo
anomalo, se la gente (più o meno giustificatamente) non attraversa più certe zone della
città… chi ha a cuore il benessere di una comunità deve interrogarsi su quanto sta
accadendo.
Anche questa necessario conoscenza è la base per l’impostazione di un lavoro di
comunità, metodologicamente sostenibile.
Bologna, giugno 2012
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