Sull`isola del Ciclope: il viaggio immobile di Paolo Rumiz

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Sull`isola del Ciclope: il viaggio immobile di Paolo Rumiz
Sull’isola del Ciclope
Il viaggio immobile di Paolo Rumiz. La recensione del libro
LECCO - In occasione dei due appuntamenti che anche quest’anno porteranno a Leggermente lo
scrittore e giornalista Paolo Rumiz (mercoledì 16 marzo alle 21, presso la sala cinematografica di
Pasturo per parlare de I SENTIERI DEL SANGUE PERDUTO Uomini e luoghi della Grande
Guerrae giovedì 17 alle 10.30 presso l’Auditorium del Campus del Politecnico di Lecco per parlare
de Il Ciclope), pubblichiamo la recensione del suo ultimo lavoro: Il Ciclope, edito da Feltrinelli. Qui,
invece, l’intervista allo scrittore fatta in occasione dell’uscita del libro Come cavalli che dormono in
piedi.
Sull’isola del Ciclope: il viaggio immobile di Paolo Rumiz
Il tempo pare dilatarsi, i pensieri si fanno più ermetici, la natura non è più da contemplare stupidamente,
bensì da ascoltare e capire, perché lei sì che sa cogliere l’imminente arrivo di un pericolo. Tre settimane
su uno scoglio disabitato, lontano da tutto eppure al centro di tutto,circondato quasi ovunque da
precipizi e su cui si erge, proprio sull’orlo della scarpata, un faro altissimo, uno dei più alti del
mondo. È un viaggio immobile quello che Paolo Rumiz ci racconta nel suo ultimo libro, Il Ciclope,
una riedizione di un reportage che molti di noi avevano già avuto occasione di leggere sulle pagine
de La Repubblica e che ora si fa libro da sfogliare, su cui appuntare impressioni, da cui trarre spunti.
Un volume che parla di viaggi, certo, ma di
quelli che portano alla scoperta soprattutto di se stessi: tre settimane su una piccola isola del
Mediterraneo e in compagnia solo dei faristi e della natura. Un’isola che attrae come una calamita, meta
sognata per anni interi e di cui l’autore, finalmente ospite su questo scoglio, non fornisce il nome (e
chiede al lettore di rispettare questo silenzio affinchéun luogo benedetto non venga invasodall’orda
degli infedeli), pur disseminando nel testo un numero talmente elevato di indizi da non lasciare dubbi.
Un viaggio immobile e introspettivo, perché quando ci si ritrova fermi in un luogo privo di
distrazioni comuni, lontano da Internet, dai media, dai templi del consumismo, allora si affinano i
sensi e la natura, così come i pensieri, si riempiono di significati diversi, nuovi. Si impara ad
ascoltare e a riconoscere il vento, o l’urlo dei gabbiani per la morte della luce, poco prima del tramonto;
si impara a vedere nel buio, a riconoscere le costellazioni; si intuisce cosa volesse dire navigare senza
satellitare, orientandosi grazie alle stelle, ai venti, alle lanterne insonni; si impara, ancora, a dare un
valore diverso alle piccole cose, perché qui sì che si sperimenta l’esauribilità delle risorse e ogni
boccone è un’eucarestia.
E un po’ proviamo a immaginarlo anche noi, scorrendo le pagine, questo percorso che ha qualcosa di
mistico: un viaggio che di certo non è facile intraprendere, a cui non tutti sono pronti, e che in
questo libro si fa occasione per dare spazio a ricordi sparsi. Altre isole del Mediterraneo, parole di
navigatori, descrizioni di fari visti altrove si inseriscono, qua e là, nel racconto, compongono un
mosaico di esperienze, accrescono quel senso di libertà che, contrariamente a quanto si possa
immaginare, è filo conduttore dell’intero libro. Libertà di spostarsi avanti e indietro nel tempo e nello
spazio seguendo i pensieri dell’autore; libertà non tanto di andare quanto, in questo caso, di sostare, di
prendersi del tempo, di sospendere le connessioni; libertà di dormire sotto le stelle, di apprezzare piccoli
gesti, come l’attesa spasmodica del momento giusto per mantecare un risotto.
Rumiz
incontra
l’altissima lanterna, il ciclope capace di tagliare il buio con sciabole regolari, e quell’occhio di
Polifemo gli insegna, potremmo dire, a guardare in modo nuovo. Perché il faro, in fondo, riesce a
stare immobile, ancorato, anche quando fuori è tempesta. È punto fermo in una rete capillare di luci
amiche dei naviganti che è figlia degli imperi, che supera il concetto di nazione e che nulla ha a che fare
con gelosie protezionistiche. Un simbolo, questi fari, di un Mediterraneo che ha sempre mischiato cibi,
usanze, lingue diverse e che oggi fatica drammaticamente a rinnovare questa sua straordinaria anima
inclusiva, che si vede diviso in rive opposte, diviene confine, immenso cimitero.
Un inno, il libro, al Mare Nostrum come casa di tutti, alla sete di mare e di scoperta, alla poesia che
si nasconde in ruderi abbandonati lungo le coste, al rispettoso, quasi religioso silenzio che, come ci
racconta lo scrittore triestino, accomuna tutti i navigatori quando passano sotto un faro.